Lezionario "I Padri vivi" 48

VIII Domenica

48 Letture:
    
Is 49,14-15
     1Co 4,1-5
     Mt 6,24-34

1. Possesso e uso delle ricchezze

       Disprezza le ricchezze, se vuoi possedere le ricchezze; sii povero, se vuoi essere ricco. Tali sono infatti gli inattesi beni di Dio, egli vuole che non per tuo studio, bensì per sua grazia, tu diventi ricco. Lascia a me - egli dice - codeste cose: tu cura le cose dello spirito, per apprendere la mia potenza: fuggi dal giogo e dalla schiavitù delle ricchezze. Fintanto che le tratterrai in tal modo, sarai povero: allorché invece le disprezzerai, sarai doppiamente ricco; e perché ti perverranno da ogni dove, e perché nulla ti mancherà di quanto invece sono carenti i più. Non è infatti il possedere a dismisura che fa ricco, bensì il non mancare di troppe cose. Perciò, quando c’è l’indigenza, il re in nulla differisce dal povero: la povertà infatti è questo aver bisogno degli altri: proprio per questa ragione il re sia povero, poiché necessita del servizio dei sudditi. Non così per chi è stato crocifisso: di nessuno ha bisogno; al vinto sono sufficienti le proprie mani: "Alle mie necessità, infatti" - egli dice -, "ed a quelle di coloro che sono con me, hanno provveduto queste mie mani" (Ac 20,34). Queste cose dice chi, altrove, afferma: "Quasi come chi non ha nulla, e tutto possiede" (2Co 6,10); proprio lui che a Listra ritenevano che fosse un dio. Se vuoi conseguire le cose del mondo, cerca il cielo se vuoi fruire delle cose presenti, disprezzale: senza equivoci, infatti, dice [Gesù]: "Cercate prima di tutto il regno di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta" (Mt 6,33). Perché ti soffermi sulle piccole cose? Perché resti a bocca aperta davanti a cose di nessun valore? Fino a quando sarai povero e mendico? Guarda il cielo pensa alle ricchezze di lassù: fatti beffe dell’oro, apprendi quale sia il suo vero uso. Nella vita presente - che scorre come rena -, fruiamo soltanto di esso, perciò quasi goccia in paragone all’immensità dell’abisso, di tanto si differenziano le cose presenti in raffronto alle future. Qui non si tratta di possesso, ma di uso, e non neppure possesso in senso proprio: Come mai, infatti, al momento del tuo estremo respiro, che tu lo voglia o no, altri ricevono tutto, e questi a loro volta danno ad altri, che poi daranno ad altri ancora? Tutti in effetti siamo di passaggio, e il padrone di casa è necessariamente più privilegiato del servo: spesso peraltro, morto quegli, il servo rimane, e si gode la casa molto più a lungo di lui. Ma se questi con mercede, anche quello in precedenza con mercede: costruì infatti, mettendo pietra su pietra con grande fatica e impegno. Solo al Verbo appartengono i domini: infatti nella verità della cosa tutti siamo padroni degli altri. Sono nostre solo quelle cose che abbiamo mandato lassù innanzi a noi: quelle che sono quaggiù, non sono nostre bensì dei viventi; anzi ci lasciano quando siamo ancora vivi. Sono nostre soltanto quelle cose che sono opere d’un’anima nobile quale l’elemosina, la benignità.

       Queste cose son dette esterne anche tra gli stranieri: infatti sono fuori di noi. Dunque facciamo in modo che stiano dentro. Non possiamo infatti partire da qui portandoci dietro le ricchezze, però possiamo emigrare portando con noi l’elemosina: anzi, a dire il vero, la mandiamo innanzi, per prepararci un abitacolo nella dimora eterna.

       Crisostomo Giovanni, In Epist. I ad Timoth. 3


2. La fede nella Provvidenza

       Come la retta educazione dell’individuo così anche quella del genere umano, per quanto riguarda il popolo di Dio, progredì attraverso traguardi di tempi, in analogia allo sviluppo delle età, affinché si formasse dalle cose divenienti all’apprendimento delle cose eterne e dalle visibili a quello delle invisibili. Quindi anche in quel tempo in cui da Dio si promettevano ricompense visibili, si inculcava che si deve adorare un solo Dio. Così l’intelligenza umana, anche per quanto riguarda gli stessi beni terreni della vita che fugge, si doveva sottomettere soltanto al vero Creatore e Signore dell’anima. È irragionevole infatti chi nega che tutte le cose, che gli angeli e gli uomini possano concedere agli uomini, sono in potere di un solo Onnipotente. Il platonico Plotino ammette senza esitazione la provvidenza e dimostra dalla bellezza dei fiori e delle piante che essa dal sommo Dio, che ha bellezza ineffabilmente intelligibile, giunge fino alle cose più basse della terra. Dichiara che tutte queste cose spregevoli ed estremamente precarie possono avere i gradi convenienti delle proprie forme soltanto se le ricevono dall’essere in cui permane la forma intelligibile e non diveniente che ha in atto la totalità dell’essere. Gesù lo dichiara con le parole: "Osservate i gigli del campo, non lavorano e non tessono. Ma io vi dico che neanche Salomone in tutta la sua gloria vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così un’erba del campo che oggi è e domani si getta nel braciere, quanto più voi, uomini di poca fede?" (Mt 6,28-29). Giustamente quindi l’anima ancora legata ai terreni desideri si abitua ad attendere soltanto dall’unico Dio i beni infiniti della terra che desidera nel tempo, perch‚ indispensabili alla vita che fugge, ma spregevoli al confronto con i beni della vita eterna. Così, pur nel desiderio dei beni terreni, non si allontana dal culto a lui che deve raggiungere disprezzandoli e volgendosi in senso contrario ad essi.

       Agostino, De civit. Dei, 10, 14


3. Considerate i gigli dei campi...

       Ma quale spettacolo è quello di un campo in pieno rigoglio, quale profumo, quale attrattiva, quale soddisfazione per i contadini! Come potremmo spiegarlo degnamente con le nostre parole? Ma abbiamo la testimonianza della Scrittura dalla quale vediamo paragonata la bellezza della campagna alla benedizione e alla grazia dei santi, quando Isacco dice: "L’odore di mio figlio è l’odore d’un campo rigoglioso" (Gn 27,27). Perché descrivere le viole dal cupo colore purpureo, i candidi gigli, le rose vermiglie, le campagne tinte ora di fiori color d’oro ora variopinti ora color giallo zafferano, nelle quali non sapresti se rechi maggior diletto il colore dei fiori o il loro profumo penetrante? Gli occhi si pascono di questa gradevole visione e intorno ampiamente si sparge il profumo che ci riempie del suo piacevole effluvio. Perciò giustamente il Signore dice: "E la bellezza del campo è con me (Ps 49,11). È con lui, perché ne è l’autore: quale altro artefice infatti avrebbe potuto esprimere una così grande bellezza nelle singole creature? "Considerate i gigli del campo" (Mt 6,28), quale sia il candore dei loro petali, come questi, l’uno stretto all’altro, si rizzino dal basso verso l’alto in modo da riprodurre la forma d’un calice, come nell’interno di questo risplenda quasi un bagliore d’oro che, difeso tutt’intorno dalla protezione dei petali, non è esposto ad alcuna offesa. Se si cogliesse questo fiore e si sfogliassero i suoi petali, quale mano di artista sarebbe così abile da ridargli la forma del giglio? Nessuno saprebbe imitare la natura con tanta perfezione da presumere di ricostituire questo fiore, cui il Signore diede un riconoscimento così eccezionale da dire: "Nemmeno Salomone in tutta la sua gloria vestiva come uno di questi" (Mt 6,29). Un sovrano ricchissimo e sapientissimo è giudicato da meno della bellezza di questo fiore.

       Ambrogio, Hexamer. 3, 36


4. Fidarsi della sapienza di Dio

       Gesù Cristo non ci ha invitato a considerare il volo degli uccelli, nè ci ha proposto di imitarli nel volo, il che non è possibile agli uomini; ma ci ha mostrato come essi si nutrono senza alcuna preoccupazione, cosa che anche noi possiamo fare se lo vogliamo. L’esempio dei santi, che hanno confermato questo precetto con le opere, ne è una prova. Ebbene, è ammirevole la saggezza del legislatore divino che, pur potendo proporre l’esempio di tanti eccellenti uomini, come Mosè, Elia, Giovanni Battista e tanti altri, che non si sono per niente affannati per procurarsi il cibo, preferisce ricordare l’esempio degli uccelli, allo scopo di toccare i suoi ascoltatori in modo più forte ed efficace. Se avesse parlato di quei giusti, essi avrebbero ben potuto rispondere di non avere ancora raggiunto la loro virtù. Ma tacendo di questi e proponendo invece l’esempio degli uccelli, essi non possono addurre nessuna scusa. Anche in questo punto, egli segue la traccia della legge antica. Il Vecchio Testamento, infatti, suggerisce agli uomini l’esempio dell’ape, della formica, della tortora e della rondine (Si 11,31). E non è del resto un mediocre motivo di gloria per l’uomo poter acquisire con la libera scelta della volontà ciò che questi animali compiono, spinti dall’istinto naturale. Se Dio, dunque, si prende tanta cura per questi animali che egli ha creato per noi, quanto più se ne prenderà per noi stessi? Se veglia sui servi, quanto più veglierà sul padrone?

       Ecco perché, dopo averci invitati a osservare gli uccelli dell’aria, non aggiunge che essi non si occupano di traffici e di altri commerci che sono riprovati; dice che essi "non seminano nè mietono" (Mt 6,26). Ma come? - voi mi direte - non si dovrà dunque più seminare? Cristo non proibisce di seminare, ma dice -ripeto - che non dobbiamo affannarci anche per quanto ci è necessario. Non ci vieta di lavorare, ma non vuole che siamo senza fiducia e che ci maceriamo nell’inquietudine e nelle preoccupazioni. Ci comanda infatti di nutrirci: ma non vuole che tale pensiero ci tormenti e crei difficoltà allo spirito. Già molto tempo prima, David aveva sottolineato questa verità, anche se un po’ enigmaticamente, affermando: "Tu apri la mano e colmi di favore ogni vivente" (Ps 144,16); e altrove: "Colui che dà il loro cibo alle bestie, e ai piccoli corvi ciò che domandano (Ps 146,9). Ma quale uomo è mai esistito - voi mi direte - che sia stato esente da queste preoccupazioni? Ebbene, vi rispondo, non vi ricordate di tutti quei giusti che vi ho nominato poco fa? Non vi ricordate, insieme a loro, che anche Giacobbe, il patriarca, uscì nudo dal suo paese e disse: "Se il Signore mi dà pane per mangiare e abiti per coprirmi..." (Gn 28,20)? E con queste parole egli mostrava chiaramente di non essere preoccupato, ma che chiedeva e si aspettava tutto da Dio. Nello stesso modo si comportarono con fortezza gli apostoli, che abbandonarono ogni loro bene e non si diedero pensiero di niente. Abbiamo visto poi quelle cinquemila persone e poi le altre tremila, che ottennero il cibo da Dio, senza darsi alcun affanno (Ac 2,41).

       Se dopo tutti questi argomenti e tutti questi esempi, non siete ancora capaci di sciogliere le dure catene che vi legano, liberatevi dall’affanno almeno riconoscendone l’inutilità. "Chi di voi", infatti, "con l’affannarsi può aggiungere alla sua età una spanna"? (Mt 6,27) - aggiunge Cristo. Vedete come egli si serve ora di un paragone chiaro e comprensibile, per far capire una verità oscura e nascosta. Pur dandovi da fare - egli dice - voi non potete far crescere neppure un poco il vostro corpo; ebbene, allo stesso modo non potete neppure con tutte le preoccupazioni e gli affanni assicurarvi il cibo. Con queste parole Gesù ci fa vedere con estrema chiarezza che non è affatto la nostra cura, ma soltanto la provvidenza di Dio che compie tutto, anche in quelle cose in cui sembra che noi abbiamo parte attiva. Se Dio infatti ci abbandonasse, nessuna cosa più sussisterebbe e periremmo tutti inevitabilmente con i nostri affanni, le nostre inquietudini e le nostre fatiche.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 21, 3




IX Domenica

49 Letture:
    
Dt 11,18 Dt 11,26-28
     Rm 3,21-25 Rm 3,28
     Mt 7,21-27

1. La necessità delle opere

       "Non chiunque mi dice: «Signore, Signore! «, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Mt 7,21). Prima ha detto che coloro i quali manifestano esteriormente una vita onesta non debbono essere accolti se le loro dottrine sono malvagie; ora, al contrario, afferma che non si deve dar credito a coloro i quali, mentre possono vantare l’integrità della loro fede, vivono disonestamente, distruggendo con le loro malvagie opere la purezza della dottrina. L’una e l’altra virtù è infatti necessaria ai servi di Dio, in modo che le opere siano confermate dalle parole, e le parole dalle opere. A quest’affermazione potrebbe sembrar contraria l’altra che dice: "Nessuno può dire: «Signore Gesù», se non nello Spirito Santo" (1Co 12,3). Ma è consuetudine delle Scritture riconoscere alle parole lo stesso valore dei fatti, affinché risultino palesi nelle loro conseguenze, e respingere coloro che, senza addurre opere, si vantano di possedere la conoscenza del Signore, e perciò si sentono dire dal Salvatore: "Andate via da me, operatori di iniquità! Io non vi conosco" (Lc 13,27). Nello stesso senso si esprime l’Apostolo: "Confessano di conoscere Dio, ma coi fatti lo negano" (Tt 1,16).

       "Molti in quel giorno mi diranno: - Signore, Signore, non abbiamo noi profetato in tuo nome? Non abbiamo cacciato i demoni in nome tuo? E non abbiamo nel tuo nome fatto molti prodigi?" (Mt 7,22). Il profetare, il compiere miracoli e lo scacciare demoni talvolta non rivelano i meriti di chi tali cose compie: è l’invocazione del nome di Cristo che rende possibili tali fatti che vengono concessi a condanna di coloro che invocano Cristo e a vantaggio di quanti ne sono testimoni. Coloro che compiono i miracoli, anche se disprezzano gli uomini, tuttavia sempre onorano Dio, nel cui nome i prodigi si compiono. Infatti anche Saul, e Balaam, e Caifa, profetarono, senza sapere ciò che dicevano, e il Faraone e Nabucodonosor conobbero in sogno il futuro. Negli Atti degli Apostoli, anche i figli di Sceva sembrano scacciare i demoni (Ac 19,14). E anche Giuda, l’apostolo con l’animo del traditore, compì, si narra, molti miracoli insieme con gli altri apostoli.

       "Ma allora confesserò a essi chiaramente: - Io non vi ho mai conosciuto" (Mt 7,23). Opportunamente dice «confesserò «perché è da molto tempo che si tratteneva dal dire: «Io non vi ho mai conosciuto». Il Signore infatti non conosce coloro che si perdono. E osserva che egli aggiunge: «Io non vi ho mai conosciuto», perché come si afferma, l’uomo, in quanto tale, fa parte delle creature razionali.

       "Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità. Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà paragonato a un uomo prudente, che edificò la sua casa sulla roccia" (Mt 7,23-24). Non ha detto: «voi che avete operato l’iniquità», ma: «voi che operate l’iniquità», cioè voi che fino a questo momento, cioè fino al momento del giudizio avete ancora desiderio di peccare, anche se non ne avete più la facoltà.

       Girolamo, In Matth. I, 7, 21-23


2. Ascoltare e vivere la parola

       "Gli ascoltatori della parola edificano gli uni sulla roccia, gli altri sulla sabbia."

       Non vogliate perciò, fratelli miei, tradire voi stessi, dal momento che siete accorsi con diligenza ad ascoltare la parola, se non praticate ciò che ascoltate, venendo meno. Pensate che se è bello ascoltare, lo è ancor di più praticare. Se non ascolti, trascuri l’ascolto e nulla edifichi. Se ascolti e non fai, edifichi la tua rovina. Su questo argomento è stata proposta una parabola congruentissima da Cristo Signore: "Chi ascolta", egli dice, "queste mie parole, e le mette in pratica, lo paragonerò ad un uomo prudente che costruisce la sua casa sulla roccia. Venne la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e imperversarono su quella casa, ma essa non cadde". Perché non cadde? "Era infatti fondata sulla roccia" (Mt 7,24-27). Quindi, ascoltare e mettere in pratica significa edificare sulla roccia. L’ascolto stesso in effetti è un edificare. "Chi però", egli continua, "ascolta queste mie parole, e non le mette in pratica, lo paragonerò ad un uomo stolto che edifica". Anche lui edifica. Cosa edifica? Ecco, "edifica la sua casa": ma poiché non pratica ciò che ascolta, pur ascoltando "edifica sulla sabbia" (). Quindi è sulla sabbia che costruisce chi ascolta e non mette in pratica; sulla roccia, chi ascolta e mette in pratica; né sulla sabbia, né sulla roccia, chi neppure ascolta. Sta’ attento, però, a ciò che segue: "Venne la pioggia, strariparono i fiumi soffiarono i venti e imperversarono su quella casa, ed essa cedde: e grande fu la sua rovina" (). Spettacolo miserevole!

       "Non ascoltare, quasi non edificare, è male". Qualcuno può dire: Visto che non costruirò, a che mi serve ascoltare? Ascoltando infatti e non praticando - argomenta costui -, edificherò la mia rovina. Non è più sicuro non ascoltare affatto? Senza dubbio, il Signore non volle toccare questa parte nella parabola proposta, ma la lasciò al;’intelligenza dei singoli. In questo mondo, infatti, pioggia venti e fiumi non riposano. Non vuoi costruire sulla roccia, perché così, venendo, non ti distruggano? Non vuoi costruire sulla sabbia, perché venendo non trovino da distruggere la casa? Quindi, senza alcun tetto, poiché non ascolti, rimarrai tale e quale. Viene la pioggia, straripano i fiumi: pensi forse di sentirti sicuro, perché sei trovato nudo? Considera perciò quale parte sceglierai per te. Non sarai, come pensi, sicuro non ascoltando: sarà giocoforza per te, nudo e senza alcun tetto, esser coperto, trascinato via e sommerso. Se quindi è un male costruire sulla sabbia, è un male altresì non costruire nulla. È male perciò non ascoltare; male è ascoltare e non mettere in pratica: non rimane che ascoltare e mettere in pratica. "Siate praticanti della parola e non soltanto ascoltatori, ingannando voi stessi" (Jc 1,22).

       "L’ascoltatore non considera i difetti del predicatore per non addurli come scuse". Dopo questa esortazione, ho paura non di non erigere con la parola, bensì di abbattere con la disperazione. Può darsi, infatti, che qualcuno - magari uno, o due, o addirittura molti, in questa vostra presenza tanto frequente -, mi giudica e dice: Vorrei sapere se costui che mi parla, mette poi in pratica lui stesso tutto ciò che ascolta, o dice solo agli altri di fare. A costui rispondo: "A me però nulla importa essere giudicato da voi, o da un consesso umano (1Co 4,3). In effetti, già da me e per altro verso, ciò che ora sono posso saperlo; cosa sarò in avvenire, lo ignoro. Ma a te da me, chiunque tu sia che ti agiti tanto, il Signore ha dato certezza. Se infatti faccio ciò che dico, o ascolta, "siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo" (1Co 4,16). Se, al contrario, dico e non faccio, ascoltate il Signore: "Ciò che vi dicono, fate; non fate però quello che fanno" (Mt 23,3). Così, se di me senti dir bene, lodami; se senti dir male, accusami, ma non scusarti. In che modo, infatti, ti scuserai se contro un cattivo predicatore della verità che ti dice la parola di Dio, pur facendo le sue cattive opere, tu ritorci l’accusa; quando il tuo Signore, il tuo Redentore, colui che ha pagato il prezzo, aggregandoti alle sue schiere e facendoti da suo servo fratello suo, non ti lasci trascinar via e ti dica: "Ciò che vi dicono, fate, non fate però ciò che fanno?" "Dicono infatti", egli aggiunge, "e non fanno" (Mt 23,3). Dicono bene e fanno male: tu ascolta il bene e non fare il male.

       Agostino, Sermo 179, 8-10


3. I cristiani che amano il mondo e quelli che lo disprezzano

       Potrei dimostrare quale differenza ci sia fra i cristiani che amano questo mondo e coloro che lo disprezzano, anche se gli uni e gli altri si chiamano fedeli. Gli uni e gli altri sono stati purificati dal medesimo lavacro del sacro fonte, iniziati e consacrati con gli stessi sacri misteri; gli uni e gli altri sono non solo uditori, ma anche predicatori del medesimo Vangelo; eppure non sono ugualmente partecipi del regno e della luce di Dio, né eredi della vita eterna, che sola è beata. In verità Gesù, nostro Signore, stabilì non una sottile linea divisoria, ma una gran differenza non già tra gli uditori delle sue parole e coloro che non l’ascoltano, ma proprio tra coloro che l’ascoltano. "Chi ascolta" - dice - "le mie parole e le mette in pratica, lo paragonerò ad un saggio, che edificò la sua casa sulla roccia: cadde la pioggia, vennero addosso i fiumi, soffiarono i venti, si abbatterono contro quella casa, ma essa non rovinò, poiché era fondata sulla roccia. Chi invece ascolta le mie parole ma non le mette in pratica, lo paragonerò a uno stolto, che edificò la sua casa sull’arena: cadde la pioggia, vennero addosso i fiumi, soffiarono venti, si abbatterono contro quella casa e cadde, e avvenne una grande rovina" (Mt 7,24-27). Ascoltare quelle parole significa dunque edificare. In questo sono alla pari gli uni e gli altri, ma nel mettere o non mettere in pratica ciò che ascoltano sono tanto diversi, quanto un edificio basato sulla solidità della roccia è diverso da quello che, privo di fondamenta, è travolto dalla facile mobilità dell’arena. Ecco perché chi non ascolta non si procaccia un bene più sicuro, poiché, non edificando nulla, resta senza alcun riparo e si espone molto più facilmente ad essere travolto, trascinato e sbattuto via dalle piogge, dai fiumi e dai venti.

       Agostino, Epist. II, 127, 7


4. È necessario essere umili

       Egli, infatti, apprezza ed ama la bocca degli uomini umili e miti più di quella dei profeti. "Molti mi diranno: Non abbiamo profetato nel tuo nome? Ed io risponderò: Non vi conosco" (Mt 7,22). Ma la bocca di Mosè, che era assai umile e mansueto - Mosè, dice infatti la Scrittura, "era l’uomo più mite fra tutti gli uomini che vivevano sulla terra" (Nb 12,3) - Dio l’apprezzava e l’amava talmente da dire che con lui parlava faccia a faccia, bocca a bocca, come un amico al suo amico (Nb 12,8). Ora, tu non comandi ai demoni, ma se la tua bocca sarà simile a quella di Cristo, allora tu potrai comandare al fuoco dell’inferno.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 78, 3-4


5. Costruire sulla roccia (Mt 7,24-27)

A me, venuto accanto a Te con la fede,

E ascoltatore della parola di Vita,

Accorda la grazia di costruire, come si conviene,

Su di Te, Roccia incrollabile,

Affinché, quando i venti soffieranno del Maligno

E sopravverranno i torrenti della prova

Non siano scossi i fondamenti della mia casa

Come quelli dell’insensato, (poggiati) sulla sabbia.

       Nerses Snorhali, Jesus, 435-436




X Domenica

50 Letture:
    
Os 6,3-6
     Rm 4,18-25
     Mt 9,9-13

1. Gesù chiama i peccatori

       Gesù, compiuto il miracolo, non rimane là per non accendere ancora di più, con la sua presenza, l’invidia dei farisei, ma cede di fronte ad essi e si ritira smorzando così la loro passione. Anche noi imitiamo il suo esempio, non trattenendoci con i nostri avversari; cerchiamo di lenire la loro ferita, cedendo e allentando la tensione.

       Ma perché - voi mi chiederete - Cristo non chiamò Matteo insieme con Pietro, Giovanni e gli altri? Il Signore si era presentato a quegli apostoli quando sapeva che essi avrebbero risposto alla sua chiamata. Così chiama Matteo, quando è ben sicuro che lo seguirà. Per lo stesso motivo pescherà Paolo dopo la sua risurrezione. Colui che conosce i cuori e i segreti pensieri di ognuno, ben sapeva il momento in cui ciascuno di questi avrebbe ascoltato la sua chiamata. Perciò Gesù non chiamò Matteo all’inizio, quando ancora non era ben disposto, ma lo chiama ora dopo tanti miracoli, quando ormai la sua fama s’è diffusa e sa che il pubblicano è meglio preparato a rispondere al suo invito .

       Ma è anche giusto ammirare la filosofia dell’apostolo che non nasconde la sua vita passata, e precisa anzi il suo nome mentre gli altri evangelisti lo sostituiscono con un altro nome (Mc 2,14 Lc 5,27).

       Perché Matteo riferisce che era seduto al banco dei gabellieri? Lo fa per porre in risalto la potenza di colui che lo chiama prima ancora ch’egli abbia rinunziato e abbandonato la sua disonorante professione e lo trascina fuori dalle indegne attività in cui era immerso. In modo analogo il Signore convertirà anche il beato Paolo, mentre pieno di furore e di rabbia getta fuoco contro i cristiani... Del resto, il Signore chiamò anche i pescatori mentre erano occupati nel loro lavoro. Il loro mestiere, però, non aveva niente di disonorevole, ma era l’occupazione di uomini rustici, schietti e del tutto semplici. L’attività del pubblicano era invece assai vergognosa e veniva esercitata con arroganza; si trattava di un impudente traffico che procacciava un illecito guadagno, di un vero e proprio furto, praticato sotto la protezione della legge. Malgrado questo, Cristo non si vergogna di chiamare Matteo. E perché stupirci che Cristo non abbia avuto vergogna di chiamare un pubblicano, quando non solo non si vergognò di chiamare una donna peccatrice, ma le permise anche di baciare i suoi piedi e di bagnarli con le sue lacrime? (Lc 7,36-50). Proprio per questo Gesù era venuto: non solo per curare i corpi dalle loro infermità, ma per guarire anche le anime dalle loro iniquità .

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 30, 1


2. Riconoscersi peccatori davanti a Dio

       "Mentre sedeva a mensa in casa, dice l’evangelista, sopraggiunsero pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, però, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e a peccatori?"» (Mt 9,10-11). Si giudica Dio; [ci si chiede] perché inclina verso l’uomo, perché si volge al peccatore, perché è avido del penitente, perché ha sete del ritorno dei peccatori, perché accetta i carri processionali della misericordia, perché beve la coppa della pietà. Fratelli, Cristo venne per il pranzo, venne al convito la vita, per far convivere seco i destinati alla morte; giacque la risurrezione, perché risorgessero dai sepolcri coloro che giacevano morti; si pose a mensa l’indulgenza, per sollevare i peccatori al perdono. La divinità venne all’umiltà, perché l’umanità arrivasse alla divinità, venne il giudice al pasto dei rei, perché il reo pervenisse ad una sentenza di umanità; venne il medico tra i languenti, per ristabilire, mangiando insieme con loro, gli sfiniti. Chinò le sue spalle il buon pastore, per riportare ai salutari ovili la pecora smarrita. Ma il fariseo detesta tutto ciò; egli sottilizza; ritiene che il pranzo del Signore non sia di virtù, ma del ventre; non dello spirito, ma della carne; non della bontà divina, ma della volontà umana; di lusso terreno, non di celeste grazia. Così, così si vede, chi non vede Dio. Chi può asserire che il medico si rivolge ai morti, se non il nemico dell’umana salvezza? Chi rimprovera il pastore che porta la pecora stanca, se non chi non conosce l’amore del redditizio gregge? Chi accusa di pietà il giudice, se non chi è ormai disperato? Chi, se non il sacrilego, disprezza la comunione di Dio? Chi ha orrore dell’indulgenza, se non il crudele?

       "Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori"? (Mt 9,11). E chi è peccatore, se non chi nega di essere peccatore? Anzi, è maggiormente peccatore, o per meglio dire e lo stesso peccato, chi non si conosce come peccatore. E chi è ingiusto, se non chi si ritiene giusto? Tu hai letto, o fariseo: "Nessun vivente è giusto al tuo cospetto" (Ps 142,2). Finché rimaniamo "nel nostro corpo mortale" (Rm 6,12), e prevale in noi la fragilità, anche se vinciamo i peccati di azione, non siamo però in grado di vincere i peccati di pensiero e di fuggire le ingiustizie. E anche supponendo di evitare la soggezione del corpo, nonché di pervenire al dominio della cattiva coscienza, come possiamo abolire le colpe di negligenza e i peccati di ignoranza? O fariseo, confessa il peccato, perché tu possa accedere alla mensa di Cristo; perché Cristo ti sia pane, e quel pane si spezzi in perdono dei peccati; perché sia bevanda Cristo, che viene effusa in remissione dei tuoi delitti. O fariseo, siedi a pranzo con i peccatori, perché tu possa desinare con Cristo. Riconosciti peccatore, affinché Cristo pranzi con te. Entra con i peccatori al convito del tuo Signore, perché tu possa non esser più peccatore. Entra nella casa della misericordia con il perdono di Cristo, perché tu non venga con la tua giustizia punito e buttato fuori dalla casa della misericordia. Conosci Cristo, ascolta Cristo, ascolta il tuo Signore, ascolta il Medico celeste che confuta perentoriamente le tue calunnie: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, bensì i malati" (Mt 9,12). Se vuoi la cura, riconosci il malanno. "Non son venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mt 9,13). Se aneli alla misericordia, confessa il peccato.

       "Andate", egli soggiunge, "imparate cosa significa: Voglio la misericordia e non il sacrificio" (Mt 9,13 Os 6,6). Cristo vuole la misericordia, non il sacrificio. O meglio, quale sacrificio cerca chi, per cercarti, si fece sacrificio per eccellenza? "Non venni a chiamare i giusti, ma i peccatori ()". Così dicendo, egli non respinge i giusti, ma è perché trova tutti peccatori. Ascolta il salmista: "Il Signore dal cielo si china sugli uomini per vedere se esiste un saggio; se c’è uno che cerca Dio. Tutti hanno traviato, son divenuti tutti corrotti: più nessuno compie il bene, neppure uno" (Ps 13,2-3). Fratelli, cerchiamo di essere peccatori per nostra confessione, per non esser più peccatori per il perdono di Cristo.

       Pietro Crisologo, Sermo 30, 3-5


3. La conversione del cuore

       Perciò, convertitevi a me con tutto il vostro cuore e palesate la penitenza del cuore nel digiuno, nel gemito e nelle lacrime, affinché, digiunando ora, possiate essere saziati dopo; gemendo ora, ridere dopo; piangendo ora, siate consolati dopo...

       Per questo, vi esorto perché in nessun modo vi stracciate le vesti, ma i cuori che sono pieni di peccati e che, ad immagine degli otri, se non sono separati si rompono spontaneamente. Quando farete ciò, ritornate al Signore vostro Dio, che a voi resero estraneo i peccati passati; e non disperate del perdono per la grandezza delle malvagità, poiché una grande misericordia cancella grandi peccati. È infatti benigno e misericordioso, vuole la penitenza dei peccatori - piuttosto che la loro morte -, paziente e grande nella misericordia, non imita l’umana impazienza ma aspetta per lungo tempo la nostra penitenza; ed è sì nobile, o meglio, dispiaciuto delle malizie, che se noi avremo fatto penitenza dei peccati, anche lui si dispiacerà delle sue sanzioni, e non ci infliggerà i mali che aveva minacciato; mutando noi la nostra decisione, anch’egli cambierà la sua. Peraltro, dobbiamo distinguere che qui la malizia non è contraria alla virtù, ma che è un’afflizione, secondo quanto si legge in altro passo: "Ad ogni giorno basta il suo affanno" (Mt 6,34); e: "Non vi è sventura nella città che il Signore non abbia provocata" (Am 3,6). Similmente, poiché sopra abbiamo detto: benigno e misericordioso, paziente e grande nella misericordia, e nobile, o meglio dispiaciuto delle malizie, forse perché la grandezza della clemenza non ci renda negligenti, per mezzo del profeta aggiunge e dice: "Chi sa che non cambi e si plachi, e lasci dietro a sé una benedizione?" Io, egli dice, esorto, per quanto sta a me, alla penitenza ed ho conosciuto ineffabilmente che Dio è clemente, quando ha detto per bocca di David: "Abbi pietà di me, o Dio, secondo la tua grande misericordia; nella tua grande bontà cancello il mio peccato" (Ps 50,3). Ma poiché non possiamo conoscere la profondità delle ricchezze, della sapienza e della scienza di Dio, mitigo la sentenza, e opto, più che presumo, dicendo: "Chi sa che non cambi e si plachi?" Ciò dice chi ritiene impossibile o difficile, da ascoltare: "Offerta e libagioni per il Signore vostro Dio" (Jc 2,14); affinché dopo averci benedetto ed averci rimesso i peccati, siamo messi in condizione di offrire sacrifici a Dio.

       Girolamo, In Joelem, 2, 12-14


4. Il Medico delle nostre passioni

       Questo nuovo antidoto l’ha procurato un nuovo Maestro. Non è germogliato dal terreno; infatti, nessuna creatura aveva potuto prevedere come sarebbe stato preparato. Venite, voi tutti che siete incorsi nelle contrastanti passioni dei peccati, adoperate questo antidoto venuto da lontano, col quale si espelle il veleno del serpente, e che non solo fece sparire la piaga delle passioni, ma estirpò anche la causa della terribile ferita... Ascoltatemi, uomini fatti di terra, che nutrite ebbri pensieri con i vostri peccati. Anch’io, come Levi, ero piagato dalle vostre stesse passioni. Ho trovato un Medico, il quale abita in Cielo e diffonde sulla terra la sua medicina. Lui solo può risanare le mie ferite, perché non ne ha di proprie. Lui solo può cancellare il dolore del cuore, il pallore dell’anima, perché conosce i mali nascosti.

       Ambrogio, In Luc. 5, 19.27






Lezionario "I Padri vivi" 48