Lezionario "I Padri vivi" 54

XIV Domenica

54 Letture:
    
Za 9,9-10
     Rm 8,9 Rm 8,11-13
     Mt 11,25-30

1. Apprendere la mitezza di Cristo

       "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e aggravati, e io vi darò sollievo" (Mt 11,28). Non chiama questo o quello in particolare, ma si rivolge a tutti quanti sono tormentati dalle preoccupazioni, dalla tristezza, o si trovano in peccato. «Venite», non perché io voglia chiedervi conto delle vostre colpe, ma per perdonarle. «Venite», non perché io abbia bisogno delle vostre lodi, ma perché ho una ardente sete della vostra salvezza. «Io» - infatti, egli dice - «vi darò sollievo». Non dice semplicemente: io vi salverò, ma ciò che è molto di più: vi porrò in assoluta sicurezza, perché questo è il senso delle parole «vi darò sollievo».

       "Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e così troverete conforto alle anime vostre; poiché il mio giogo è soave, e il mio peso è leggero" (Mt 11,29-30). Non vi spaventate dunque, quando sentite parlare di «giogo», perché esso è «soave»; non abbiate timore quando udite parlare di «peso», perché esso è leggero. Ma perché, allora, -voi direte, - ha parlato precedentemente della porta stretta e della via angusta? Pare così quando noi siamo pigri e spiritualmente abbattuti. Ma se tu metti in pratica e adempi le parole di Cristo, il peso sarà leggero. È in questo senso che così lo definisce. Ma come si può adempire ciò che Gesù dice? Puoi far questo se tu diventi umile, mite e modesto. Questa virtù è infatti la madre di tutta la filosofia cristiana. Per questo motivo quando egli incomincia a insegnare quelle sue divine leggi, inizia dall’umiltà (Mt 7,14). Egli conferma qui quanto disse allora, e promette che questa virtù sarà grandemente ricompensata. Essa non sarà - dice in sostanza - utile solo agli altri, in quanto voi prima di tutti ne riceverete i frutti, poiché «troverete conforto alle anime vostre». Ancor prima della vita eterna il Signore ti dà già la ricompensa e ti offre la corona del combattimento: in questo modo e col fatto che propone se stesso come esempio, rende accettabili le sue parole.

       Che cosa temi? - sembra dire il Signore. Temi di apparire degno di disprezzo, se sei umile? Guarda a me: considera tutti gli esempi che ti ho dati e allora riconoscerai chiaramente quale grande bene è l’umiltà. Osserva come esorta e conduce con tutti i mezzi i discepoli all’umiltà; dapprima con il suo esempio: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore»; poi con le ricompense che essi otterranno: «troverete conforto alle anime vostre»; con la grazia che egli stesso concederà loro: «io vi darò sollievo»; rendendo dolce e leggero il suo giogo: «poiché il mio giogo è soave, e il mio peso leggero»...

       Se voi, dopo aver sentito parlare di giogo e di peso, ancora tremate e avete paura, ciò non deriva dalla natura stessa delle cose, ma esclusivamente dalla vostra pigrizia; perché se aveste lo spirito pronto e fervoroso tutto vi apparirebbe facile e leggero.

       Ecco perché Cristo, volendo mostrare che anche noi dobbiamo compiere da parte nostra ogni sforzo, evita da un lato di dire soltanto cose gradevoli e facili, e dall’altro di parlare solamente di rinunzie difficili e severe, ma tempera le une cose con le altre. Parla di un «giogo», ma lo definisce «soave»; nomina un «peso», ma aggiunge che è «leggero», affinché non lo si sfugga in quanto eccessivamente pesante, né lo si disprezzi perché troppo leggero.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 38, 2 s.


2. L’esempio di Gesù

       Che cosa dà valore alla nostra vita? Forse il far miracoli, oppure il mantenere un ottimo e perfetto comportamento? Certamente l’avere una condotta perfetta, da cui traggono occasione anche i miracoli che in essa hanno il loro fine. La santità della vita attira su di noi il dono divino di compiere azioni miracolose: e chi lo riceve ne è arricchito soltanto per convertire gli altri. Anche Cristo ha compiuto i miracoli per attirare a sé gli uomini, mediante la stima e l’ammirazione ch’essi gli procuravano, e per introdurre la virtù nella vita umana. È questo lo scopo che Gesù con gran zelo si è proposto. Ma non gli bastavano i prodigi: difatti accompagnò i miracoli con la minaccia dell’inferno e con la promessa del regno; diede leggi nuove, meravigliose e sublimi e tutto operò allo scopo di renderci uguali agli angeli.

       Ma che dico? Se qualcuno vi desse il potere di risuscitare i morti nel nome di Gesù, oppure di morire per lui, quale di questi due favori scegliereste? Senza dubbio, il secondo. L’uno è miracolo, mentre l’altro è opera. Se, del pari, vi si offrisse la facoltà di cambiare in oro tutta l’erba di questo mondo, oppure la grazia di disprezzare tutto l’oro del mondo come fosse erba, non preferireste forse quest’ultima cosa? E la scelta sarebbe certamente giusta, poiché il disprezzo delle ricchezze può, sopra ogni altra cosa, conquistare e attirare gli uomini. Difatti se essi vedessero l’erba tramutata in oro, desidererebbero avere anche loro quella facoltà, come accadde a Simon Mago, e la loro brama di ricchezza aumenterebbe ancor più. Se invece ci vedessero calpestare e disprezzare il denaro come erba, già da tempo sarebbero guariti da questa malattia ch’è l’avarizia. Vedete, dunque, che niente giova di più agli uomini quanto la vita. E intendo non digiunare o stendere per terra il sacco e spargervi sopra la cenere, ma disprezzare realmente e concretamente le ricchezze, amare tutti gli uomini, dare il pane al povero dominare l’ira, eliminare la vanità e l’ambizione, soffocare ogni sentimento di invidia.

       Questi sono gli insegnamenti che Gesù stesso ha dato, dicendo: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Non invita a imparare da lui a digiunare, anche se potrebbe ricordare i quaranta giorni di digiuno da lui fatti, ma anziché esigere questo, egli vuole che imitiamo la sua mansuetudine e la sua umiltà. Quando invia i suoi apostoli a predicare, non dice loro di digiunare, ma di mangiare tutto quanto verrà loro offerto (Lc 10,8). Per quanto concerne però il denaro, vieta loro espressamente di portarne con sé, ordinando di non possedere né oro, né argento, né alcun’altra moneta nelle loro borse (Mt 10,9 Lc 10,4). Io vi dico questo, non perché biasimi il digiuno: Dio mi guardi da simile pensiero; anzi l’apprezzo moltissimo. Ma mi addoloro nel vedere che voi trascurare le altre virtù, pensando che basti digiunare per essere salvi, mentre il digiuno, fra tutte le virtù, occupa l’ultimo posto. Le virtù più eccelse sono la carità, l’umiltà, la misericordia, che precedono e superano anche la verginità.

       Sta di fatto che, se voi volete divenire uguali agli apostoli, niente ve lo impedisce. Basta soltanto praticare queste virtù e non essere in nulla inferiori a loro.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 46, 4


3. L’umiltà del cuore

       Dice il Salvatore: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre" (Mt 11,29). E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyfìa, oppure metriòtes. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condanna del diavolo» - il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: "Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo" (1Tm 3,6).

       Origene, In Luc. 8, 5


4. Lo Spirito di Dio inclina alla pietà

       I Novaziani sostengono che non possono essere reintegrati nella comunione dei fedeli coloro che sono caduti in apostasia. Se facessero eccezione per il solo peccato di sacrilegio come non passibile di condono, mostrerebbero durezza, ma sarebbero, almeno, coerenti con la loro dottrina e in contrasto soltanto con gli insegnamenti divini. Il Signore, infatti, ha condonato tutti i peccati senza alcuna eccezione. I Novaziani, invece, alla maniera degli Stoici, pensano che tutte le colpe si debbano valutare parimenti e che debba per sempre rinunciare ai celesti misteri sia chi abbia sgozzato un gallo, come si dice, del pollaio, sia chi abbia strangolato il proprio padre. Come, dunque, possono escludere dai sacramenti la sola categoria dei rei di apostasia, quando, per giunta, proprio i Novaziani affermano che è cosa assai deplorevole estendere a molte persone il castigo che conviene a poche?

       Essi dicono che onorano il Signore, giacché riconoscono il diritto di condonare i peccati a lui solo. Coloro, invece, che violano coscientemente la legge del Signore e sovvertono il magistero che egli ha loro affidato offendono assai gravemente Dio. Cristo medesimo ha detto nel Vangelo: "Ricevete lo Spirito Santo e a chi rimetterete i peccati saranno a lui rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (Jn 20,22 Jn 23). Dunque, rende onore maggiore chi ubbidisce ai comandi o chi disubbidisce?

       La Chiesa ottempera all’uno e all’altro comando: a quello di non rimettere la colpa e a quello dell’assolverla. L’eresia, invece, è spietata nell’esecuzione del primo dei due imperativi, disubbidiente nell’altro. Pretende legare ciò che non intende sciogliere, non vuole sciogliere ciò che ha legato. Si condanna manifestamente da se medesima. Il Signore, infatti, ha voluto che il diritto di assolvere e quello di non assolvere siano del tutto identici. Ha garantito entrambi e a pari condizioni. È ovvio che chi non possiede l’uno, non può possedere l’altro diritto. Infatti, in conformità agli insegnamenti di Dio, chi ha il potere di condannare ha anche quello di perdonare. Logicamente, l’affermazione dei Novaziani cade. Col negare a sé la potestà del condonare sono costretti a rinunciare a quella del non assolvere. Come potrebbe essere lecita l’una e non l’altra potestà? A chi è stato fatto dono di entrambe o è chiaro che sono possibili l’una e l’altra o nessuna delle due. Alla Chiesa sono, dunque, lecite entrambe, all’eresia né l’una né l’altra. A ben considerare, tale facoltà è stata data, infatti, ai soli sacerdoti. A ragione, pertanto, la Chiesa che ha ministri legittimi, si arroga l’uno e l’altro diritto, l’eresia non può, al contrario, farlo, poiché non ha i sacerdoti di Dio. Col non rivendicare le due potestà, l’eresia sentenzia nei propri riguardi che, non avendo ministri legittimi, non può attribuirsi un loro diritto. Nella sfacciata tracotanza è dato intravedere un’ammissione, sia pure timida.

       Tieni anche presente: chi riceve lo Spirito Santo, riceve la potestà di assolvere e di non assolvere i peccati. Sta scritto: "Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi". Dunque, chi non può assolvere non possiede lo Spirito Santo, dal momento che è lo Spirito Santo, appunto, a far dono del ministero sacerdotale e la sua autorità è nel condonare e nel non rimettere le colpe. Come, perciò, i Novaziani potrebbero rivendicare un dono di chi mettono in dubbio l’autorità, la potestà?

       Che dire della loro enorme sfacciataggine? Lo Spirito di Dio è incline alla pietà, non già alla durezza. Essi, al contrario, non vogliono ciò che egli dice di volere e fanno ciò che egli afferma di non gradire. Eppure il castigare si addice al giudice, il perdonare, invece, all’indulgente. Tu che appartieni alla setta dei Novaziani saresti, pertanto, più tollerabile coll’assolvere che col non condonare. Col non essere indulgente peccheresti di disubbidienza verso Dio, coll’usare misericordia, elargiresti il perdono, dimostrando di provare, almeno, pietà di chi vive nell’afflizione.

       Ambrogio, De Paenit. 1, 2


5. Ammonimento di papa Leone Magno al suo vicario a Tessalonica

       La tua fraternità rilegga le nostre pagine, riveda tutti gli scritti inviati dai presuli di questa sede apostolica ai tuoi predecessori e provi a trovare se mai da me o dai miei predecessori fu mai ordinato ciò che, come ci consta, tu hai avuto la presunzione di fare!

       È venuto infatti da noi, insieme con i vescovi della sua provincia, il nostro fratello Attico, metropolita del Vecchio Epiro, e in lacrime si è lagnato dell’assolutamente indegna offesa che ha dovuto sostenere... che cioè tu ti sei recato alla Prefettura dell’Illirico, e hai eccitato la più alta tra le alte autorità terrene per ottenere l’espulsione di un vescovo innocente. Così fu ordinata una terribile esecuzione, alla effettuazione della quale furono obbligate tutte le pubbliche autorità: che fosse strappato dai sacri recessi della chiesa, senza colpa o per colpa falsamente insinuata, un sacerdote, esclusa ogni dilazione, né per ragioni di salute, né per l’inclemenza dell’inverno; e fu costretto ad intraprendere un viaggio aspro e pieno di pericoli tra le nevi intransitabili; viaggio che fu tanto disagiato e tanto rovinoso che, mi si riferisce, alcuni di coloro che accompagnavano il vescovo ne morirono.

       Me ne stupisco molto, fratello carissimo, ma soprattutto mi dolgo che tu abbia potuto muoverti con tanta atrocità e tanta violenza contro uno di cui prima non mi avevi riferito altro se non che aveva differito di presentarsi alla tua chiamata, adducendo motivi di salute. Soprattutto perché, se avesse meritato qualcosa di simile, avresti dovuto aspettare che io rispondessi alla tua consultazione. Ma, come vedo, conosci bene il mio carattere e hai preveduto giustissimamente con quanta urbanità io avrei risposto per conservare la concordia tra i vescovi: perciò ti sei affrettato a mandare ad effetto i tuoi impulsi, senza neppure dissimularli, perché se avessi ricevuto qualche nostro scritto con altre disposizioni non avresti avuto licenza di fare ciò che hai fatto. O forse eri venuto a conoscenza di qualche altra colpa, o ti faceva pressione il peso di qualche altro delitto del vescovo metropolitano? Ma che ciò non fosse, tu stesso lo confermi, non obiettandogli nulla.

       Ma, anche se avesse commesso qualche colpa grave e intollerabile, avresti dovuto aspettare la nostra decisione, e non avresti dovuto stabilire nulla prima di conoscere il nostro placito. Abbiamo affidato infatti alla tua carità di fungere le nostre veci in modo però da esser chiamato a sostenere una parte delle nostre cure, non alla pienezza della potestà. Perciò, come molto ci allieta quello che hai portato ad effetto con religiosa cura, troppo ci rattrista quello che hai malamente compiuto. È necessario, dopo l’esperienza di molti casi, guardare con più cura e premunirsi con più diligenza che, in spirito di amore e di pace, venga tolta dalle Chiese del Signore che abbiamo a te affidato ogni materia di scandalo, mantenendo in tutto il suo onore la tua funzione episcopale in quelle province, ma eliminando ogni eccesso ed usurpazione.

       Perciò, secondo i canoni dei santi padri stabiliti dallo Spirito di Dio e consacrati dall’osservanza in tutto il mondo, decretiamo che i vescovi metropoliti delle singole province, affidate per delegazione nostra alle cure della tua fraternità, abbiano integro il diritto della dignità loro da tempo affidata...

       A questo fine, infatti, dirigiamo tutto il nostro affetto e la nostra cura: che da nessun dissenso sia violato e da nessuna trascuranza sia negletto ciò che giova all’unità della concordia e all’osservanza della disciplina. E te dunque, fratello carissimo e i fratelli nostri offesi dai tuoi eccessi - per quanto non tutti abbiano uguali argomenti di querela - esorto ed ammonisco che non venga turbato in nessun modo ciò che è stato religiosamente ordinato e salutarmente disposto. Nessuno curi ciò che è proprio, ma ciò che è altrui, come dice l’Apostolo: "Ciascuno di voi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo" (Rm 15,2). Infatti, non potrà restar salda la compagine della nostra unità se il vincolo dell’amore non ci avrà stretto con forza inseparabile, perché "come in un corpo abbiamo molte membra, e tutte le membra non compiono le stesse azioni, così in molti siamo un corpo solo in Cristo e siamo ciascuno membra per l’altro" (1Co 12,12). L’intima unione di tutto il corpo è fonte di una sola salute, di una sola bellezza; e se questa intima unione di tutto il corpo richiede da tutti l’unanimità, esige soprattutto la concordia tra i vescovi. Se fra di essi, poi, la dignità è comune, non è tuttavia identica l’autorità: del resto fra gli stessi beatissimi apostoli, pur in simile onore, vi fu una certa distinzione di potestà: pur essendo pari l’elezione di loro tutti, a uno solo fu dato di avere sugli altri il primato. Su questo modello sorse anche la distinzione tra i vescovi, ed è stato provvisto, con un importante precetto, che tutti non rivendicassero a sé tutti i diritti, ma che nelle singole province vi fosse quello che tra i fratelli avesse la prima parola; e inoltre, che alcuni vescovi costituiti nelle città più grandi fossero rivestiti di una cura più ampia; e, infine, che per il loro tramite confluisse la cura della Chiesa universale nella sola sede di Pietro, dal cui capo nessuno può dissentire.

       Chi dunque sa di essere preposto ad altri, non sopporti a malincuore che qualcuno gli sia superiore, ma l’obbedienza, che esige (dagli altri), egli per primo la attui: e come non vuole sopportare un peso grave, così non osi imporre agli altri un carico insopportabile (Mt 13,4). Siamo infatti discepoli di un maestro umile e mite, che ci dice: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete pace per le vostre anime. Il mio giogo infatti è soave, e il mio peso leggero" (Mt 11,29s). E come esperimenteremo ciò, se non attueremo quello che dice lo stesso Signore: "Chi fra voi è il maggiore, sarà vostro servo" (Mt 23,11s)?

       Leone Magno, Epist. 14, 1-2.11




XV Domenica

55 Letture:
    
Is 55,10-11
     Rm 8,18-23
     Mt 13,1-23

1. La diversità dei terreni immagine delle anime

       Il seminatore è unico ed ha sparso la sua semente in modo equo, senza fare eccezione di persone; ma ogni terreno, da se stesso, ha mostrato il suo amore con i propri frutti. Il Signore manifesta così con la sua parola che il Vangelo non giustifica per forza, senza il consenso della libertà; le orecchie sterili che egli non ha privato della semente delle sue sante parole ne sono la prova.

       "La semente cadde sul bordo della strada" (Mt 13,19), ecco una cosa che è l’immagine stessa dell’anima ingrata, di colui che non ha fatto fruttificare il proprio talento ed ha disprezzato il proprio benefattore (Mt 25,24-30). La terra che aveva tardato ad accogliere il suo seme, è divenuta luogo di passaggio per tutti i malintenzionati; così non vi fu più posto in essa per il padrone, perché vi potesse entrare da lavoratore, ne potesse rompere la durezza e spargervi il suo seme. Nostro Signore ha descritto il maligno sotto i tratti degli uccelli, poiché il maligno ha portato via il seme (Mt 13,19). Egli ha voluto indicare così che il maligno non prende per forza la dottrina che è stata distribuita nel cuore. Nell’immagine che egli ha proposto, ecco che in effetti la voce del Vangelo si pone alla porta dell’orecchio, come il grano alla superficie di una terra che non ha nascosto nel suo seno ciò che è caduto su di essa; infatti non è stato permesso agli uccelli di penetrare nella terra alla ricerca di quel seme che la terra aveva nascosto sotto le sue ali.

       "E quella parte che era caduta sui sassi" (Mt 13,20); Dio che è buono manifesta così la sua misericordia; quantunque la durezza della terra non fosse stata rotta dal lavoro, nondimeno egli non l’ha privata del suo seme. Questa terra rappresenta coloro che si estraniano dalla dottrina di Nostro Signore, come quei tali che hanno detto: "Quella parola è dura; chi può intenderla?" (Jn 6,60). E come Giuda; infatti egli ha ascoltato la parola del Maestro ed ha messo i fiori per l’azione dei suoi miracoli, ma al momento della tentazione, è divenuto sterile.

       Il terreno spinoso (Mt 13,22), nonostante il grano ricevuto, ha ceduto la propria forza ai rovi e agli spini. Buttando audacemente il suo seme su una terra ribelle al lavoro altrui, il padrone ha manifestato la sua carità. Nonostante il predominio dei rovi, egli ha sparso a profusione il suo seme sulla terra, perché essa non potesse avere scusanti...

       La terra buona e ubertosa (Lc 8,8) è immagine delle anime che agiscono secondo verità, alla maniera di coloro che sono stati chiamati ed hanno abbandonato tutto per seguire Cristo. . .

       Nonostante una volontà unanimemente buona che ha ricevuto con gioia il seme dei beni, la terra buona e ubertosa produce in modi diversi, dove «il trenta», dove «il sessanta», dove «il cento»; tutte le parti della terra fanno crescere secondo il proprio potere e nella gioia, alla stregua di coloro che avevano ricevuto "cinque talenti" e ne hanno guadagnati "dieci, ciascuno secondo la sua capacità" (Mt 25,14-30). Colui che rende «il cento» sembra possedere la perfezione dell’elezione; egli ha ricevuto il sigillo di una morte offerta in testimonianza per Dio. Quelli che rendono «il sessanta», sono coloro che sono stati chiamati e che hanno abbandonato il proprio corpo a dolorosi tormenti per il loro Dio, ma non sono arrivati al punto di morire per il loro Signore; tuttavia restano buoni fino alla fine. «Il trenta», è la misura quotidiana della buona terra; sono coloro che sono stati eletti alla vocazione di discepoli e sui quali non si sono levati i tempi della persecuzione; sono tuttavia coronati dalle loro opere buone, proprio come una terra è coronata dal suo frutto, ma non sono stati chiamati al martirio e alla testimonianza della loro fede.

       Efrem, Diatessaron, 11, 12-15.17 s.


2. Perché tanto seme si perde?

       Per qual motivo, ditemi, la maggior parte della semente si perde? Non è certo per colpa del seminatore, ma della terra che accoglie i semi, dell’anima cioè che non ascolta. Perché Gesù non dice esplicitamente che i pigri hanno accolto i chicchi seminati, ma li hanno lasciati beccare dagli uccelli, i ricchi li hanno soffocati e coloro che vivono nel lusso e nelle vanità li hanno lasciati seccare? Cristo non vuole colpirli con troppa veemenza, per non gettarli nella disperazione, ma lascia la dimostrazione e l’applicazione alla coscienza dei suoi ascoltatori. E del resto, ciò accade non solo al seme, di cui una parte si perde, ma accadrà poi anche alla rete. La rete infatti prende molti pesci inutili. Gesù senza dubbio narra questa parabola per incoraggiare i suoi discepoli ed insegnar loro che, quand’anche la maggior parte di coloro che riceveranno la parola divina si perdesse, non devono per questo avvilirsi. La stessa cosa accadde anche al Signore; ma egli, pur prevedendo chiaramente ciò che sarebbe successo, non per questo rinunziò a seminare.

       Ma come è concepibile - mi direte voi - che si semini sugli spini, sul terreno roccioso e lungo la via? Vi rispondo che la cosa sarebbe assurda, se si trattasse della seminagione terrena che si fa in questo mondo: è invece assai lodevole il fatto, dato che si tratta delle anime e della dottrina divina. Verrebbe certamente ripreso il contadino che disperdesse in questo modo la semente. Il terreno roccioso non può infatti divenire terra buona, né la via può cambiare, e gli spini restano sempre tali. Ma non è così nell’ordine spirituale. Le pietre possono mutarsi e diventare terra fertile, la via più battuta può non esser più calpestata e aperta a tutti i passanti, ma divenire campo produttivo, e anche le spine possono sparire per lasciar crescere e fruttificare in tutta libertà il grano seminato. Se questi cambiamenti fossero stati impossibili, il Signore non avrebbe seminato. E se in tutti non è avvenuta tale trasformazione, la colpa non è del seminatore, ma di coloro che non hanno voluto cambiar vita. Il seminatore ha compiuto quanto dipendeva da lui; ma se gli uomini non hanno corrisposto alla sua opera, non è responsabile il seminatore che ha testimoniato un così grande amore per gli uomini.

       Notate ora, vi prego, che la via della perdizione non è una sola, ma varie e ben differenti e lontane l’una dall’altra. È chiaro che le anime paragonate alla «via» sono i negligenti, i tiepidi, i trascurati. Coloro invece che sono raffigurati nel «terreno roccioso» sono semplicemente i deboli. Dichiara infatti Cristo: "Il seme caduto in suolo roccioso raffigura colui che, udita la parola, subito la riceve con gioia; non avendo però radice in se stesso ed essendo incostante, venuta una qualsiasi tribolazione o persecuzione a cagione della parola, subito ne prende scandalo (Mt 13,20-21). E ancor prima dice: Quando uno ode la parola della verità ma non la intende, viene il maligno e rapisce dal suo cuore ciò che è stato seminato. Costui è simboleggiato nel seme caduto lungo la via" (Mt 13,19). Non è però la stessa cosa trascurare e lasciar perdere l’insegnamento divino, quando nessuno ci molesta o ci perseguita e quando invece ci sovrastano prove e tentazioni; e ancor meno degni di perdono di questi sono coloro che vengono raffigurati nelle «spine».

       Se vogliamo dunque evitare che qualcosa di simile ci capiti, ricopriamo le parole di Dio con il fervore della nostra anima e con il ricordo incessante della nostra memoria. Se il diavolo si sforza di rapircelo, dipende da noi rendere vani i suoi sforzi. Se il seme si secca, ciò non accade per eccesso di calore - Gesù non dice che è il caldo a produrre questo effetto, ma il fatto di non aver radice. Se poi la parola divina viene soffocata, non è per colpa delle spine, ma piuttosto di coloro che le hanno lasciate crescere. È possibile infatti, solo che tu voglia, impedire la crescita di questi cattivi germogli e usare, come è giusto e utile, delle ricchezze. Ecco perché il Signore non parla semplicemente del «mondo», ma delle «preoccupazioni di questo mondo» e non accusa genericamente la ricchezza, ma denunzia «la seduzione delle ricchezze». Non accusiamo dunque le cose in sé stesse, ma la nostra corrotta intenzione, la nostra cattiva volontà.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 44, 3 s .


3. La tensione verso la salvezza definitiva

       "La mia anima anela e si strugge verso gli atri del Signore" (Ps 83,3). E così nel nostro salmo. Non si dice: «È calata allontanandosi dalla tua salute», ma: "La mia anima è calata verso la tua salute", cioè dirigendosi verso la tua salute. È quindi un calo benefico, e chi l’esperimenta palesa un desiderio di bene non ancora raggiunto ma bramato con intensissima passione. Chi è, poi, che parla così, se non la stirpe eletta, il sacerdozio regale, il popolo santo che il Signore s’è conquistato? Lo dice nella persona di quanti desiderano Cristo, siano essi vissuti nel passato o vivano adesso o vivranno in avvenire: dalle origini dell’umanità, quindi, sino alla fine del mondo. Ne è testimone il santo vecchio Simeone, quando, tenendo in mano il Dio bambino, esclamò: “Ora, Signore, lascia pure che il tuo servo se ne vada in pace, secondo la tua parola, perché gli occhi miei hanno veduto la tua salute” (Lc 2,29). Aveva ottenuto da Dio il responso che non avrebbe assaporato la morte senza aver prima visto l’Unto del Signore (Lc 2,26); ed è da supporsi che il medesimo desiderio, come quel vecchio, così l’abbiano avuto tutti i santi dei tempi antecedenti. Lo conferma nostro Signore, quando parlando con i discepoli disse: "Molti profeti e re hanno voluto vedere le cose che voi vedete e non l’hanno vedute, udire ciò che voi udite e non l’hanno udito" (Mt 13,17). In effetti, è proprio la loro voce che dobbiamo riconoscere in questo passo che suona: "La mia anima è calata verso la tua salute". Non s’appagò infatti allora questo desiderio dei santi, né è pago attualmente nel corpo di Cristo che è la Chiesa, finché non si giunga alla fine dei tempi quando verrà "il Desiderato da tutte le genti", secondo la promessa del Profeta (Ag 2,8). In vista di ciò scrive l’Apostolo: "Mi attende alla fine la corona della giustizia, che darà a me in quel giorno il Signore, giusto giudice: e non solo a me ma a tutti quelli che amano la sua manifestazione" (2Tm 4,8). Il desiderio di cui stiamo trattando nasce quindi dall’amore per la manifestazione di Cristo, della quale dice ancora l’Apostolo: "Quando Cristo, vostra vita, si sarà manifestato, allora anche voi apparirete insieme con lui nella gloria" (Col 3,4). Ciò significa che nei tempi della Chiesa decorsi prima che la Vergine partorisse ci furono santi che desiderarono la venuta del Cristo incarnato, mentre nei nostri tempi, a cominciare dalla sua ascensione al cielo, ci sono santi che desiderano la sua manifestazione in cui verrà a giudicare i vivi e i morti. Questo desiderio della Chiesa, dagli inizi del mondo sino alla fine, è senza interruzione, se si voglia escludere il periodo che il Signore incarnato trascorse con i discepoli. Per cui molto a proposito si applica all’intero corpo di Cristo, gemente in questa vita, la voce: "La mia anima è calata verso la tua salute, e io ho sperato nella tua parola" (Ps 118,81). Ho sperato cioè nella tua promessa, ed è questa speranza che fa aspettare con pazienza quel che, finché dura il tempo della fede, è impossibile vedere (Rm 8,25).

       Agostino, Enarr. in Psal. 118, 20, 1


4. La parabola del seminatore (Mt 13,3-9)

Io mi sono indurito come roccia;
Son divenuto simile al sentiero;
Le spine del mondo m’hanno soffocato,
Hanno reso infeconda la mia anima.
Ma, o Signore, Seminator del bene,
La pianta del Verbo fa’ in me crescere:
Perché in uno dei tre io porti frutto:
Tra il cento (per cento), il sessanta o anche il trenta.

       Nerses Snorhali, Jesus, 468-469




XVI Domenica

56 Letture:
    
Sg 12,13 Sg 12,16-19
     Rm 8,26-27
     Mt 13,24-43

1. La continua vigilanza

       Anche questo è proprio del sistema diabolico, che consiste nel mescolare l’errore e la menzogna alla verità, in modo che, sotto la maschera ben colorata della verosimiglianza, l’errore possa apparire verità e possa facilmente sorprendere e ingannare coloro che non sanno resistere alla seduzione, o non comprendono l’insidia. Ecco perché Gesù chiama il seme del demonio «zizzania» e non con altro nome, poiché quest’erba è assai simile, in apparenza, al frumento. E subito dopo ci indica il modo in cui il diavolo attua i suoi tranelli e coglie le anime di sorpresa.

       “Or mentre gli uomini dormivano” (Mt 13,25): queste parole mostrano il pericolo cui sono esposti coloro che hanno la responsabilità delle anime, ai quali in particolare è affidata la difesa del campo; non solo però costoro, ma anche i fedeli. Cristo precisa inoltre che l’errore appare dopo lo stabilirsi della verità, come anche l’esperienza dei fatti può testimoniare. Dopo i profeti sono apparsi gli pseudoprofeti, dopo gli apostoli i falsi apostoli, e dopo Cristo l’anticristo. Se il demonio non vede che cosa deve imitare, o a chi deve tendere le sue insidie, non saprebbe in qual modo nuocerci. Ma ora che ha visto la divina seminagione di Gesù fruttificare nelle anime il cento, il sessanta e il trenta per uno intraprende un’altra strada; poiché si è reso conto che non può strappare ciò che ha radici ben profonde, né può soffocarlo e neppure bruciarlo, allora tende un altro insidioso inganno, spargendo la sua semente.

       Ma quale differenza vi è - mi chiederete - tra coloro che in questa parabola «dormono» e coloro che, nella parabola precedente sono raffigurati nella «via»? Nel caso di coloro che sono simboleggiati nella «via» il seme è portato via immediatamente dal maligno, che non gli dà il tempo di mettere radici; mentre in quelli che «dormono» il grano ha messo radici e allora il demonio deve intervenire con una più elaborata macchinazione. Cristo dice ciò per insegnarci a vigilare continuamente, perché - egli ci avverte - quand’anche riusciste a evitare quei danni cui è sottoposta la semente, non sareste ancora al sicuro da altri pericolosi assalti. Come là il seme si perde «lungo la via», o «sul suolo roccioso», o «tra gli spini», così anche qui la rovina può derivare dal sonno; perciò siamo obbligati a una vigilanza continua. Infatti Gesù ha detto pure che si salverà chi avrà perseverato sino alla fine (Mc 4,33)...

       Ma voi osserverete: Com’è possibile fare a meno di dormire? Certo non è possibile, se ci si riferisce al sonno del corpo: ma è possibile non cadere nel sonno della volontà. Per questo anche Paolo diceva: "Vigilate e restate costanti nella fede" (1Co 16,13) ...

       Considerate, invece, l’affettuoso interessamento dei servitori verso il loro padrone. Essi si sarebbero già levati per andare a sradicare la zizzania, anche se in tal modo non avrebbero agito in modo discreto e opportuno. Questo tuttavia mostra la loro cura per il buon seme e testimonia che il loro unico scopo non sta nel punire il nemico - non è questa la necessità più urgente - ma nel salvare il grano seminato. Essi perciò cercano il mezzo per rimediare rapidamente al male fatto dal diavolo. E neppure questo vogliono fare a caso, non s’arrogano infatti questo diritto, ma attendono il parere e l’ordine del padrone. "Vuoi, dunque, che andiamo a raccoglierla?" (Mt 13,28) - gli chiedono. Cosa risponde il padrone? Egli vieta loro di farlo, dicendo che c’è pericolo, nel raccogliere la zizzania, di sradicare anche il grano. Parla così per impedire le guerre, le uccisioni, lo spargimento di sangue.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 46, 1


2. Il Logos ha seminato il buon grano

       Ma, mentre dormono coloro che non praticano il comando di Gesù che dice: "Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione" (Mt 26,41 Mc 14,38 Lc 22,40), il diavolo, che fa la posta (1P 5,8), semina quella che viene detta la zizzania, le dottrine perverse, al di sopra di ciò che alcuni chiamano i pensieri naturali, e al di sopra dei buoni semi venuti dal Logos. Secondo tale interpretazione, il campo designerebbe il mondo intero e non solamente la Chiesa di Dio; infatti è nel mondo intero che il Figlio di Dio ha seminato il buon seme e il cattivo la zizzania (Mt 13,37-38), cioè le dottrine perverse che, per la loro nocività, sono «figlie del maligno». Ma ci sarà necessariamente, alla fine del mondo, che vien detta «la consumazione del secolo», una mietitura, perché gli angeli di Dio preposti a tale compito raccolgano le cattive dottrine che si saranno sviluppate nell’anima e le consegnino alla distruzione, gettandole, perché brucino, in quello che viene definito fuoco (Mt 13,40). E così, «gli angeli», servitori del Logos, raduneranno «in tutto il regno» di Cristo, «tutti gli scandali» presenti nelle anime e i ragionamenti «che producono l’empietà», e li distruggeranno gettandoli nella «fornace di fuoco», quella che consuma (Mt 13,41-42) così del pari coloro che prenderanno coscienza che, poiché hanno dormito, hanno accolto in sé stessi i semi del cattivo, piangeranno e saranno, per così dire, in collera con sé stessi. Sta in ciò, in effetti, "lo stridor di denti" (Mt 13,42), ed è anche per questo che è detto nei Salmi: "Hanno digrignato i denti contro di me" (Ps 35,16). È soprattutto allora che "i giusti brilleranno", non tanto in modo diverso, come agli inizi, bensì tutti alla maniera di un unico "sole, nel regno del Padre loro" (Mt 13,43).

       Origene, In Matth. 10, 2


3. Fede e predicazione

       "Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Certamente è il più piccolo di tutti i semi; ma, cresciuto che sia, è il maggiore dei legumi e diventa albero, tanto che gli uccelli vengono e si mettono al riparo tra i suoi rami" (Mt 13,31-32).

       L’uomo che semina nel suo campo è dai più ritenuto il Salvatore, che semina nelle anime dei credenti. Secondo altri, chi semina nel suo campo è colui che semina in se medesimo, nel suo cuore. Ebbene, chi è questo seminatore se non la nostra intelligenza, il nostro animo, che, ricevendo il granello della predicazione e nutrendolo con la linfa della fede, lo fa germogliare nel campo del suo cuore? La predicazione del Vangelo è fatta di piccoli insegnamenti. Annunziando lo scandalo della croce, la predicazione dapprima non presenta altre verità da credere che quella dell’Uomo-Dio e di Dio morto. Paragona una siffatta dottrina alle teorie dei filosofi, ai loro libri, allo splendore della loro eloquenza, all’armonia delle parole, e vedrai quanto la semente del Vangelo sia più piccola rispetto a tutti questi altri semi. Ma quando questi crescono, non dimostrano di avere niente di vitale, niente di ardente, né di vivo: flaccidi, molli e putridi, questi semi germogliano in ortaggi, in erbe, che rapidamente inaridiscono e si corrompono. Invece, questa predicazione, che all’inizio sembrava tanto piccola, quando è seminata nell’anima del credente, o meglio in tutto il mondo, non sboccia in ortaggio, ma cresce in albero, tanto che gli uccelli del cielo (in cui dobbiamo riconoscere le anime dei credenti, o le potenze che son poste al servizio di Dio) verranno e abiteranno sui suoi rami. Credo che i rami dell’albero evangelico che è nato dal granello di senape, siano le diverse verità, sulle quali ogni uccello si sostiene e riposa.

       Prendiamo anche noi le penne della colomba (Ps 55,7), per volare in alto e abitare sui rami di quest’albero e farci su di essi dei nidi di dottrina e avvicinarci così, rifuggendo dalle cose terrene, alle celesti. Molti, leggendo che il granello di senape è il più piccolo di tutti i semi e ascoltando quanto dicono nel Vangelo i discepoli: "Signore, accresci la nostra fede" (Lc 17,5), e quanto a essi risponde il Salvatore: "In verità vi dico che se avrete tanta fede quanto un granello di senape e direte a questo monte: «spostati», esso si sposterà" (Lc 17,6), suppongono che gli apostoli si limitino a chiedere una piccola fede, oppure che il Signore con quella espressione dubiti della loro poca fede; mentre l’apostolo Paolo considera grandissima la fede paragonata dal Signore al granello di senape. Infatti, l’Apostolo dice: "Se avessi una fede tale da trasportar le montagne, e non ho la carità, io sono un niente" (1Co 13,2). Per concludere: le opere che si possono compiere con la fede che il Signore paragona al granello di senape, per l’Apostolo sono il frutto che deriva da una fede completa.

       Girolamo, In Matth. II, 13, 31


4. Il lievito dei credenti nella massa

       "Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo" (Mt 13,31). Siccome Gesù aveva detto che i tre quarti della semente sarebbero andati perduti, che una sola parte si sarebbe salvata e che nella parte restante si sarebbero verificati tanti gravi danni, i suoi discepoli potevano bene chiedergli: Ma quali e quanti saranno i fedeli? Egli allora toglie il loro timore inducendoli alla fede mediante la parabola del granello di senape e mostrando loro che la predicazione della buona novella si diffonderà su tutta la terra.

       Sceglie per questo scopo un’immagine che ben rappresenta tale verità. "È vero che esso è il più piccolo di tutti i semi; ma cresciuto che sia, è il più grande di tutti i legumi e diviene albero, tanto che gli uccelli dell’aria vengono a fare il nido tra i suoi rami" (Mt 13,32). Cristo voleva presentare il segno, la prova della loro grandezza. Così - egli spiega - sarà anche della predicazione della buona novella. In realtà i discepoli erano i più umili e deboli tra gli uomini, inferiori a tutti; ma, siccome in loro c’era una grande forza, la loro predicazione si è diffusa in tutto il mondo...

       "Il regno dei cieli e simile a un po’ di lievito, che una donna prende e impasta con tre staia di farina, fino a che non sia tutta fermentata" (Mt 13,33). Come il lievito diffonde la sua forza in tutta la pasta, così anche voi - vuol dire Gesù - dovete trasformare il mondo intero. Considerate la sapienza del Salvatore. Egli vuol far intendere questo: Come è impossibile che i fatti naturali non si realizzino, così quanto io ho preannunciato avverrà infallibilmente. Non venite a dirmi che non potrete far nulla essendo dodici soltanto tra un’immensa moltitudine di uomini. Proprio in questo la vostra forza risplenderà, quando cioè, essendo in mezzo al mondo, non fuggirete. Come il lievito fermenta la massa quando lo si accosta alla farina, e non semplicemente lo si accosta, ma ve lo si mescola, - Gesù non dice che la donna mette il lievito nella farina, ma ve lo nasconde dentro, impastandolo con essa, - così anche voi, quando sarete spinti dentro e vi troverete in mezzo alle folle che da ogni parte vi faranno guerra, allora le vincerete. E come il lievito si diffonde in tutta la pasta senza perdersi, ma anzi pian piano trasforma tutta la pasta nella sua sostanza, così lo stesso fatto accadrà della predicazione del Vangelo. Non abbiate quindi timore delle sciagure di cui vi ho parlato. Questi ostacoli saranno la vostra gloria, e li supererete tutti.

       In questa parabola si parla di tre misure di farina per indicarne molta: sappiamo infatti che tale numero si usa per una notevole quantità. Non vi stupite se Gesù, parlando agli uomini del regno dei cieli, si avvale di paragoni come quello del granello di senape e del lievito. Si rivolge a persone rozze e ignoranti, che hanno bisogno di queste immagini. Essi sono così semplici, che, anche dopo aver udito tutte queste parabole, hanno ancora bisogno che egli le chiarisca ulteriormente.

       Orbene, dove sono i figli dei gentili? Che essi riconoscano la potenza di Cristo, vedendo la realtà stessa dei fatti. Che lo riconoscano e lo adorino, per questa duplice ragione: egli ha predetto una cosa tanto incredibile, e poi l’ha realizzata. È lui infatti che ha dato al lievito la sua forza. Egli ha mescolato alla moltitudine degli uomini coloro che credono in lui, in modo da comunicare agli altri la nostra fede. Nessuno dunque si lamenti per il piccolo numero degli apostoli, dato che grande è la forza e la potenza della predicazione evangelica e ciò che è stato una volta lievitato si cambia a sua volta in lievito per tutto il resto. Come una scintilla, quando cade sulla legna, l’incendia producendo via via un aumento di fiamma, che poi s’appicca agli altri ceppi, così è anche della predicazione. Tuttavia, Gesù qui non parla del fuoco, ma del lievito. Come mai? Perché nel primo caso tutta l’attività non è del fuoco, ma deriva anche dai legni cui il fuoco s’appicca e che incendia; nella pasta, invece, è il lievito da solo che compie tutta l’opera di trasformazione. Se dodici uomini hanno fermentato tutta la terra, pensate quale deve essere la nostra cattiveria e la nostra inerzia, se oggi, pur essendo noi cristiani moltissimi, non siamo capaci di convertire il resto dell’umanità, mentre dovremmo bastare e diventare lievito per mille mondi!

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 46, 2





Lezionario "I Padri vivi" 54