Lezionario "I Padri vivi" 66

XXVI Domenica

66 Letture:
    
Ez 18,25-28
     Ph 2,1-11
     Mt 21,28-32

1. La parabola dei due figli

       Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; e andato dal primo, gli disse. «Figlio, va’ a lavorare oggi nella vigna». Rispose: «Non voglio»; però poi, pentitosi, andò. E rivolto al secondo, gli disse lo stesso. Quegli rispose: «Vado, Signore»; ma non andò. Quale dei due ha fatto la volontà del Padre? «Il primo», risposero. E Gesù soggiunse..." (Mt 21,28-31). Questi due figli, di cui si parla anche nella parabola di Luca, sono uno onesto, l’altro disonesto; di essi parla anche il profeta Zaccaria con le parole: "Presi con me due verghe: una la chiamai onestà, l’altra la chiamai frusta, e pascolai il gregge" (Za 11,7). Al primo, che è il popolo dei gentili, viene detto, facendogli conoscere la legge naturale: «Va’ a lavorare nella mia vigna», cioè non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (Tb 4,16). Ma egli, in tono superbo, risponde: «Non voglio». Ma poi, all’avvento del Salvatore, fatta penitenza, va a lavorare nella vigna del Signore e con la fatica cancella la superbia della sua risposta. Il secondo figlio è il popolo dei Giudei, che rispose a Mosè: "Faremo quanto ci ordinerà il Signore" (Ex 24,3), ma non andò nella vigna, perché, ucciso il figlio del padrone di casa, credette di essere divenuto l’erede. Altri però non credono che la parabola sia diretta ai Giudei e ai gentili, ma semplicemente ai peccatori e ai giusti: ma lo stesso Signore, con quel che aggiunge dopo, la spiega.

       "In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio" (Mt 21,31). Sta di fatto che coloro che con le loro cattive opere si erano rifiutati di servire Dio, hanno accettato poi da Giovanni il battesimo di penitenza; invece i farisei, che davano a vedere di preferire la giustizia e si vantavano di osservare la legge di Dio, disprezzando il battesimo di Giovanni, non rispettarono i precetti di Dio. Per questo egli dice:

       "Perché Giovanni è venuto a voi nella via della giustizia, e non gli avete creduto ma i pubblicani e le meretrici gli hanno creduto; e voi, nemmeno dopo aver veduto queste cose, vi siete pentiti per credere a lui" (Mt 21,32). La versione secondo cui alla domanda del Signore: «Quale dei due fece la volontà del padre?» essi abbiano risposto «l’ultimo», non si trova negli antichi codici, ove leggiamo che la risposta è «il primo», non «l’ultimo»; così i Giudei si condannano col loro stesso giudizio. Se però volessimo leggere «l’ultimo», il significato sarebbe ugualmente chiaro. I Giudei capiscono la verità, ma tergiversano e non vogliono manifestare il loro intimo pensiero; così, a proposito del battesimo di Giovanni, pur sapendo che veniva dal cielo, si rifiutarono di riconoscerlo.

       Girolamo, In Matth. 21, 29-31


2. I due figli

       "Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli" (Mt 21,28). Egli chiamò i suoi «figli», per incitarli al lavoro. "D’accordo, Signore", disse l’uno. Il padre l’ha chiamato: Figlio mio, ma lui ha risposto chiamandolo: "Signore"; non lo ha chiamato: Padre, e non ha adempiuto la sua parola. "Quale dei due ha fatto la volontà del padre suo"? Essi giudicarono con rettitudine e "dissero: Il secondo" (Mt 21,31). Egli non disse: Quale vi sembra? - infatti il primo aveva detto: "Ci vado" - bensì: "Quale ha fatto la volontà del padre suo? Ecco perché i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli ()", poiché voi avete promesso a parole, ma essi corrono più veloci di voi. "Giovanni è venuto a voi nella via della Giustizia" (Mt 21,32), non ha trattenuto per sé l’onore del suo Signore, ma, allorché si riteneva che egli fosse il Cristo, egli ha detto: "Io non sono degno di sciogliere i lacci dei suoi sandali" (Lc 3,16).

       Efrem, Diatessaron, XVI, 18


3. La gioia di Dio per il peccatore pentito

       "Così, io vi dico, vi sarà in cielo una gioia maggiore per un solo peccatore che si pente, che non per novantanove giusti, i quali non hanno bisogno di penitenza" (Lc 15,7). Dobbiamo considerare, fratelli, perché il Signore affermi che c’è più gioia in cielo per i peccatori che si convertono che non per i giusti che rimangono tali. Noi sappiamo per esperienza quotidiana, che il più delle volte quelli che non si sentono oppressi dal peso dei peccati stanno sì saldi sulla via della giustizia, non commettono nulla d’illecito, ma non anelano ansiosamente alla patria celeste e tanto più facilmente usano delle cose lecite quanto più ricordano di non aver commesso nulla d’illecito. Essi per lo più rimangono pigri nel fare il bene straordinario, proprio perché sono sicuri di non aver commesso colpe più gravi. Al contrario, quelli che si ricordano di aver compiuto qualcosa d’illecito, presi dal dolore, si accendono di amor di Dio, si esercitano nelle virtù sublimi, cercano le difficoltà del santo combattimento, lasciano tutte le cose del mondo, fuggono gli onori, si rallegrano delle offese ricevute, bruciano di desiderio, anelano alla patria celeste; e poiché sanno di essersi allontanati da Dio, cercano di riparare le colpe del passato con le opere del presente. Pertanto, c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che non per un giusto che resta tale, perché anche il condottiero in battaglia ama di più quel soldato che, tornato indietro dopo essere fuggito, incalza fortemente il nemico, che non quello che non ha mai voltato le spalle ma non si è mai comportato valorosamente. Anche l’agricoltore ama di più quel campo che dopo le spine produce frutti abbondanti, di un altro che non produsse mai spine, ma non produce neppure una messe fertile.

       Ma a questo punto bisogna che si sappia che ci sono molti giusti, nella cui vita c’è soltanto gioia, così che non si può chiedere loro alcuna penitenza per i peccati. Molti, infatti, sono consapevoli di non aver commesso alcun male, e tuttavia si esercitano con tanto ardore a mortificarsi come se fossero ridotti alle strette da tutti i peccati. Tutto rifiutano, anche le cose lecite, si accingono con elevatezza d’animo a disprezzare il mondo, non vogliono che siano loro lecite quelle cose che piacciono, si privano anche dei beni concessi, disprezzano le cose visibili, ardono per quelle invisibili, godono nei lamenti, in ogni cosa si umiliano; e come alcuni piangono i peccati di opere, così fanno anch’essi per quelli di pensiero. Come dunque chiamerò costoro, se non giusti e penitenti, essi che si umiliano con penitenza del peccato di pensiero e perseverano sempre retti nelle loro azioni? Da questo bisogna capire quanta gioia dà a Dio quando un giusto umilmente piange, dal fatto che egli gode in cielo quando un ingiusto condanna con la penitenza il male che ha commesso.

       Gregorio Magno, Hom. 34, 4-5


4. È solo questo il tempo della conversione

       Il tempo per guadagnare la vita eterna Dio lo assegnò agli uomini solo in questa vita, nella quale volle che ci fosse anche una fruttuosa penitenza. Pertanto, la fruttuosa penitenza è qui, perché qui l’uomo, deposta la malizia, può vivere bene, e, mutato il volere, mutare insieme i meriti e le opere e nel timor di Dio compiere le cose che piacciono a Dio. E chi non avrà fatto ciò in questa vita, subirà di certo la pena delle sue colpe nel secolo avvenire, ma non troverà indulgenza al cospetto di Dio; poiché sebbene lì ci sarà lo stimolo della penitenza, mancherà la correzione della volontà. Da questi infatti viene talmente biasimata la loro colpa, che in nessun modo da essi può essere amata o desiderata la giustizia. Infatti, la loro volontà sarà tale, da aver sempre in sé il supplizio della propria malvagità, e da non poter mai ricevere un desiderio di bontà. Poiché come coloro che con Cristo regneranno, non avranno in sé alcun residuo di cattiva volontà, così coloro che saranno condannati al supplizio del fuoco eterno col diavolo e i suoi angeli, come non avranno più alcun refrigerio, così non potranno in alcun modo avere una buona volontà. E come ai coeredi di Cristo sarà concessa la perfezione della grazia per l’eterna gloria, così a coloro che partecipano della stessa sorte del diavolo, la stessa malizia aumenterà la pena; allorché cacciati nelle tenebre esteriori, non saranno illuminati da nessuna luce interiore della verità.

       Fulgenzio di Ruspe, De fide ad Petr. 38


5. La fede che giustifica e le opere buone

       Il solerte operaio riceve a testa alta la mercede del suo lavoro, mentre quello pigro ed indolente non osa guardare in volto il suo datore di lavoro. Noi, pertanto, dobbiamo essere zelanti e premurosi nell’adempimento del bene, giacché è Dio ad elargirci ogni cosa. Il Signore ha, infatti, detto: "Ecco il Signore Iddio che viene con la sua ricompensa e la sua retribuzione lo precede" (Is 40,10): "Egli accorderà a ciascuno secondo le opere che questo compie" (Pr 24,12). Con tali parole, perciò, egli ci esorta non soltanto a credere in lui con tutto il nostro cuore, ma a tenere altresì lontani da noi la passività ed il disinteresse nei confronti del bene. Poniamo nel Signore il nostro vanto ed ogni nostra sicurezza! Mostriamoci docili alla sua volontà, considerando che tutta la schiera dei suoi angeli, che gli sta intorno, si conforma costantemente alla sua volontà. La Scrittura, infatti, dice: "Diecimila miriadi lo attorniavano e mille migliaia lo servivano" (Da 7,10), "gridando: Santo, Santo, Santo, il Signore Dio degli eserciti, tutta la creazione è piena della sua gloria" (Is 6,3). Anche noi, perciò, concordemente e tutti uniti in un cuore solo, innalziamo a lui, con insistenza, ad una sola voce, il nostro grido, affinché egli ci elargisca quei gloriosi e grandi doni che ci ha promesso. Sta, infatti, scritto: "Quel che occhio mai non vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare, questo Dio ha preparato per coloro che lo amano (1Co 2,9 Is 64,4 Is 65,16).

       Clemente di Roma, Ad Corinth. 32-34


XXVII Domenica

67 Letture:
    
Is 5,1-7
     Ph 4,6-9
     Mt 21,33-43

1. Parabola dei vignaioli omicidi

       "Un uomo piantò una vigna" (Lc 20,9). Parecchi deducono diversi significati dal nome della vigna, ma è evidente che Isaia ha ricordato come la vigna del Signore di Sabaoth sia la casa d’Israele (Is 5,7). Chi altro mai, se non Dio, ha creato questa vigna? È dunque Lui che la diede in affitto e partì per andare lontano, non nel senso che il Signore si sia trasferito da un luogo all’altro, dato che Egli è sempre dappertutto, ma perché è più vicino a chi lo ama, ma sta lontano da chi lo trascura. Egli fu assente per lunghe stagioni, per evitare che la riscossione sembrasse prematura. Quanto più longanime la benevolenza, tanto più inescusabile la ostinatezza.

       Per cui, secondo Matteo, giustamente trovi che "la circondò anche di una siepe" (Mt 21,33 Is 5,2), cioè la recinse munendola della protezione divina, affinché non fosse facilmente esposta agli assalti delle belve spirituali.

       E al tempo dei frutti mandò i suoi poveri servi. È giusto che abbia indicato il tempo dei frutti, non il raccolto, infatti dai Giudei non si ebbe alcun frutto, questa vigna non ha dato alcun raccolto, poiché di essa il Signore dice: "Attendevo che producesse uve, ma essa diede spine" (Is 5,2). Perciò i torchi traboccarono non di vino che rallegra, non di mosto spirituale, ma del sangue rosseggiante dei profeti. Del resto Geremia fu gettato in una cisterna (Jr 38,6), di questa specie erano ormai i torchi dei Giudei, pieni non di vino ma di melma. E sebbene, come sembra, questa sia un’allusione generale ai profeti, tuttavia il passo ci permette di pensare che si tratti di quel ben noto Nabot (cf. 1R 21,1-14), il quale fu lapidato: sebbene di lui non ci sia stata tramandata nessuna parola profetica, ci è stata però tramandata la sua storia profetica, poiché prennunziò col proprio sangue che molti sarebbero stati i martiri a favore di questa vigna. E chi è colui che viene colpito al capo? È certamente Isaia, a cui una sega poté più facilmente tagliare in due le membra del corpo che non far vacillare la fede, o sminuir la costanza, o troncare il vigore dell’anima.

       E ciò avvenne perché, quando ormai aveva designato tanti altri estranei, che i Giudei cacciarono senza onore e senza risultati, non essendo riusciti a cavarne nulla, per ultimo mandò anche il Figlio unigenito, e quei perfidi, mossi dalla bramosia di eliminarlo perché era l’erede, l’uccisero (cf. Lc 20,13ss) crocifiggendolo, lo respinsero rinnegandolo.

       Quante cose, e quanto importanti, in così brevi tratti! Anzitutto questo: che la bontà è una dote di natura, e il più delle volte si fida di chi non lo merita; inoltre, che Cristo è venuto come estremo rimedio delle perversità; infine, che chi rinnega l’Erede, dispera del Creatore. E Cristo (He 1,2) è al tempo stesso erede e testatore; erede, perché sopravvive alla propria morte e raccoglie nei progressi che facciamo direi come i frutti ereditari dei testamenti, ch’Egli stesso ha stabilito.

       È però opportuno che faccia domande agli interlocutori, affinché emettano da sé stessi la sentenza della propria condanna. E afferma che alla fine giungerà il padrone della vigna (Lc 20,16), perché nel Figlio è anche presente la maestà del Padre, o anche perché negli ultimi tempi, più da vicino influirà dolcemente sugli affetti umani. Quindi coloro pronunciano contro sé stessi la sentenza, affermando che i cattivi devono andare in rovina e la vigna passare ad altri coloni ("ibid."). Consideriamo allora chi siano i coloni, e che cosa sia la vigna.

       La vigna prefigura noi: il popolo di Dio, stabilito sulla radice della vite eterna (Jn 15,1-6), sovrasta la terra e formando l’ornamento del suolo meschino, ora comincia a far sbocciare fiori splendenti come gemme, ora si riveste dei verdi germogli che l’avvolgono, ora accoglie su di sé un mite giogo (Mt 11,29), quando è ormai cresciuto estendendo i suoi bracci ben cresciuti come tralci di una vite feconda. Il vignaiolo è senza alcun dubbio il Padre (Jn 15,1) onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci (Jn 15,5): ma se non portiamo frutto in Cristo veniamo recisi (Jn 15,2) dalla falce del coltivatore eterno. Perciò è esatto che il popolo sia chiamato la vigna di Cristo, sia perché sulla sua fronte vien posto come ornamento il segno della croce, sia perché si raccoglie il suo frutto durante l’ultima stagione dell’anno, sia perché allo stesso modo che avviene per tutti i filari della vigna, così nella Chiesa di Dio uguale è la misura, e non vi è alcuna differenza tra poveri e ricchi, tra umili e potenti, tra schiavi e padroni (Col 3,25 Ep 6,8). Come la vite si sposa agli alberi, così il corpo si congiunge all’anima, e anche l’anima al corpo. Come il vigneto sta ritto quand’è legato insieme, e, se viene potato, non s’impoverisce ma diventa più rigoglioso, così la santa plebe quand’è legata è resa libera, quand’è umiliata si innalza, quand’è recisa riceve la corona. E, persino, come il tenero virgulto staccato dall’antico albero viene innestato nella fecondità di una nuova radice, così questo popolo santo, quando ha rimarginato i tagli dell’antico virgulto, si sviluppa perché è tenuto al sicuro dentro quel legno della croce come nel grembo di una madre affettuosa; e lo Spirito Santo, come se discendesse giù nelle buche profonde del terreno, riversandosi nel carcere di questo corpo, lava via il fetidume con la corrente dell’acqua che salva, e solleva le abitudini delle nostre membra all’altezza della disciplina celeste.

       Questa è la vigna che il premuroso vignaiolo è solito zappare aggiogare insieme, potare; egli, sgombrando i pesanti mucchi di terra, ora espone al sole cocente, ora fa intridere alla pioggia le miserie nascoste del nostro corpo, e suole sbarazzare dagli sterpi il terreno coltivabile per evitare che le gemme siano guaste dai rovi, o l’ombra del fogliame lussureggiante sia troppo densa o lo sfoggio infecondo delle parole, aduggiando le virtù, impedisca che la caratteristica della sua natura giunga a maturazione. Ma guardiamoci bene dal temere qualsiasi danno a questa vigna, che il custode sempre desto del Salvatore ha circondato col muro della vita eterna contro tutte le lusinghe della malizia mondana.

       Salve, vigna meritevole di un custode così grande: ti ha consacrato non il sangue del solo Nabot (cf. 1R 21,13) ma quello di innumerevoli profeti, e anzi quello, tanto più prezioso, versato dal Signore. È bensì vero che colui, senza farsi atterrire dalle minacce di un re, non soffocò la costanza con la paura né, allettato da ricchissime ricompense, barattò il suo sentimento religioso ma, opponendosi al desiderio del tiranno, perché l’erba della malva non si seminasse nei suoi orticelli al posto delle viti recise, contenne col proprio sangue, non potendo fare altro, le fiamme preparate per le proprie viti; ma egli difendeva pur sempre una vigna (cf. 1R 21,2) materiale; invece tu per noi sei stata piantata per l’eternità con lo sterminio di tanti martiri, e la croce degli apostoli, emulando la passione del Signore, ti ha diffusa fino ai confini del mondo.

       Ambrogio, In Luc. 9, 23-30.33


2. Il prezzo della nostra redenzione

       Il Creatore dell’universo e Dio invisibile, egli stesso fece scendere dal cielo tra gli uomini, la sua Verità, la sua Parola santa e incomprensibile, e la stabilì nei loro cuori. E lo fece non mandando - come si poteva pensare - qualche suo servo, o angelo, o principe preposto al governo sulla terra, o all’amministrazione in cielo, ma mandando lo stesso Artefice e Fattore di tutte le cose, per cui creò i cieli e chiuse il mare nelle sue sponde e le cui leggi misteriose sono fedelmente custodite da tutti gli elementi. Da lui, infatti, ebbe il sole la misura del suo corso quotidiano, a lui obbediscono la luna - quando splende nella notte - e le stelle - quando le fanno corteo nel suo viaggio, - da lui tutto fu stabilito, disposto, ordinato: il cielo e gli esseri celesti, la terra e le creature terrestri, il mare e gli animali marini, il fuoco, l’aria, l’abisso, quello che sta in alto, quello che è nel profondo e quello che sta nel mezzo (1Co 15,27-28 Ep 1,22 Ph 3,21 He 2,8). Costui Iddio mandò!

       Qualcuno potrebbe pensare: lo inviò per tiranneggiare o spaventare o colpire gli uomini. No davvero! Lo inviò con mitezza e con bontà come un re manda suo figlio (Mt 21,37); lo inviò come Dio e come uomo fra gli uomini; e fece questo per salvare, per persuadere, non per violentare; a Dio non conviene la violenza! Lo inviò per chiamare, non per castigare, lo inviò per amare, non per giudicare. Lo invierà, sì, un giorno, a giudicare: e chi potrà allora sostenere la sua presenza? (Ml 3,2).

       Epist. ad Diogn. 7


3. Dio non ha bisogno dell’uomo

       Neppure all’inizio avvenne che Dio modellasse Adamo perché avesse bisogno dell’uomo, bensì per avere qualcuno in cui posare i suoi benefici. Poiché non solo prima di Adamo, ma prima di tutta la creazione, il Verbo glorificava il Padre, rimanendo in lui ed era glorificato dal Padre, come egli stesso dice: "Padre, glorificami con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse" (Jn 17,5). E non fu neppure perché avesse bisogno del nostro servizio che egli ordinò di seguirlo, bensì per procurare a noi stessi la salvezza. Infatti, seguire il Signore significa aver parte alla salvezza, così come seguire la luce è prender parte alla luce. Quando gli uomini sono nella luce, non sono essi che illuminano la luce e la fanno risplendere, ma sono illuminati e resi splendenti da essa: lungi dall’apportarle alcunché, beneficiano della luce e ne sono illuminati. Così avviene del servizio verso Dio: esso non apporta nulla a Dio, perché Dio non ha bisogno del servizio degli uomini; ma, a coloro che lo servono, Dio procura la vita, l’incorruttibilità e la gloria eterna. Egli accorda i suoi benefici a coloro che lo servono, perché lo servono, e a quelli che lo seguono, perché lo seguono; ma egli non riceve da loro nessun beneficio, poiché egli è perfetto e senza necessità. Se Dio sollecita il servizio degli uomini, è per poter, egli che è buono e misericordioso, accordare i propri benefici a coloro che perseverano nel suo servizio. Infatti, come Dio non ha bisogno di nulla, del pari l’uomo ha bisogno della comunione di Dio. Infatti la gloria dell’uomo sta nel perseverare nel servizio di Dio. Ecco perché il Signore diceva ai suoi discepoli: "Non siete voi che avete scelto me, ma io che ho scelto voi" (Jn 15,16), indicando con ciò che non erano essi che lo glorificavano seguendolo, bensì che, per aver seguito il Figlio di Dio, erano essi glorificati da lui. E ancora: "Voglio che là, dove sono io, siano anch’essi, perché vedano la mia gloria" (Jn 17,24): nessuna vanteria in questo, ma volontà di render partecipi i discepoli della sua gloria. È di essi che parlava il profeta Isaia: "Dall’oriente adunerò la tua posterità e dall’occidente ti raccoglierò. Dirò all’aquilone: Restituiscili! e al vento di mezzogiorno: Non trattenerli! Aduna i miei figli dai paesi lontani e le mie figlie dalle estremità della terra quelli che portano il mio nome, poiché è per la mia gloria che ho preparato, che ho modellato e ho fatto" (Is 43,5-7). E tutto questo perché: "là dov’è il cadavere, ivi si raduneranno gli avvoltoi" (Mt 24,28), partecipando alla gloria del Signore che li ha modellati e preparati precisamente perché, stando con lui, partecipino della sua gloria.

       Ireneo di Lione, Adv. Haer. IV, 14, 1


XXVIII Domenica

68 Letture:
    
Is 25,6-10a
     Ph 4,12-14 Ph 4,19-20
     Mt 22,1-14

1. Gli inviti di Dio

       "Il regno dei cieli è simile a un re che fece le nozze per suo figlio" (Mt 22,2)...

       Dio Padre fece le nozze per Dio Figlio quando lo congiunse alla natura umana nel grembo della Vergine... Mandò dunque i suoi servi perché invitassero gli amici a queste nozze. Li mandò una volta, e li mandò di nuovo perché fece diventare predicatori dell’incarnazione del Signore prima i profeti, poi gli apostoli. Due volte, dunque, mandò i servi a invitare, infatti, per mezzo dei profeti disse che ci sarebbe stata l’incarnazione dell’Unigenito, e poi per mezzo degli apostoli disse che essa era avvenuta. Ma siccome quelli che erano stati invitati per primi al banchetto di nozze non vollero venire, nel secondo invito si dice: Ecco, ho preparato il mio pranzo, i miei buoi e i miei animali ingrassati sono stati macellati, e tutto è pronto (Mt 22,4)...

       E (il Vangelo) continua: "Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari" (Mt 22,5). Andare nel proprio campo è darsi smodatamente alle fatiche terrene; andare ai propri affari è cercare con ogni cura guadagni mondani. Poiché chi è intento alle fatiche terrene e chi è dedito alle azioni di questo mondo finge di non pensare al mistero dell’incarnazione del Signore e di non vivere secondo esso, si rifiuta di venire alle nozze del re come uno che va al campo o agli affari. Spesso anche - e ciò è più grave - alcuni non solo respingono la grazia di colui che chiama, ma la perseguitano. Per questo (il Vangelo) soggiunge: "Altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re, venendo a sapere queste cose, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e dede alle fiamme la loro città (Mt 22,6-7). Uccise gli assassini, perché fece perire i persecutori. Diede alle fiamme la loro città, perché nella fiamma dell’eterna geenna è tormentata non solo la loro anima, ma anche la carne nella quale abitarono...

       Ma questi che vede disprezzato il suo invito, non vedrà deserte le nozze del figlio suo. Egli manda a chiamare altri, perché anche se la parola di Dio fatica a trovare accoglienza presso alcuni, tuttavia troverà dove riposare. Per questo (il Vangelo) soggiunge "Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; andate ora alle uscite delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze" (Mt 22,8-9). Se nella Sacra Scrittura intendiamo «strade» come «opere», comprendiamo che «uscite delle strade» significano «mancanza di opere», poiché molte volte giungono facilmente a Dio coloro che non godono i favori della fortuna nelle opere terrene. E prosegue: Usciti nelle strade, i servi raccolsero quanti ne trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali (Mt 22,10).

       Ecco che con la stessa qualità dei commensali è detto chiaramente che in queste nozze del re è raffigurata la Chiesa del tempo presente, nella quale si riuniscono insieme ai buoni anche i cattivi. Essa è composta da figli diversi; tutti infatti li genera alla fede, ma non tutti, con un cambiamento di vita, li conduce alla libertà della grazia spirituale, per l’impedimento posto dal peccato. Finché viviamo quaggiù, è necessario che ce ne andiamo mescolati per la via del secolo presente. Saremo separati quando saremo giunti. I soli buoni, infatti, saranno in cielo, e i soli cattivi saranno all’inferno. Ora questa vita che è posta fra il cielo e l’inferno, per il fatto che è in posizione intermedia riceve cittadini da entrambe le parti; tuttavia quelli che ora la santa Chiesa riceve promiscuamente, alla fine del mondo li dividerà. Se dunque siete buoni, mentre restate in questa vita, sopportate pazientemente i cattivi. Infatti chi non sopporta i cattivi, attesta a se stesso di non essere buono a motivo della sua impazienza...

       Ma poiché, o fratelli, con la grazia di Dio, siete già entrati nella sala del convito nuziale, cioè nella santa Chiesa, guardate bene che, entrando, il re non abbia a rimproverare nulla nell’abito dell’anima vostra. Infatti bisogna pensare con un grande batticuore a ciò che segue subito dopo: "Il re entrò per vedere i commensali, e vide là un tale che non indossava l’abito nuziale" (Mt 22,11). Quale pensiamo, fratelli carissimi, che sia il significato della veste nuziale? Se diciamo che la veste nuziale significa il battesimo o la fede, chi mai è andato a queste nozze senza il battesimo e la fede? È escluso infatti chi ancora non ha la fede. Cosa dunque dobbiamo intendere per la veste nuziale, se non la carità? Entra alle nozze, ma senza la veste nuziale, chi facendo parte della santa Chiesa ha la fede, ma non ha la carità. Giustamente si dice che la carità è la veste nuziale, perché il nostro Redentore era vestito di essa quando venne alle nozze per congiungere a sé la Chiesa. Fu per solo amore di Dio che il suo Unigenito unì a sé le anime degli eletti. Per questo Giovanni dice: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito per noi" (Jn 3,16). Pertanto, Colui che venne agli uomini per la carità, ci svela che questa stessa carità è la veste nuziale. Ognuno di voi che vive nella Chiesa e crede in Dio, è già entrato al banchetto nuziale; ma è venuto senza la veste nuziale se non custodisce la grazia della carità...

       Chiunque, essendo commensale alle nozze, non ha questa (veste), sia pieno di ansia e di paura quando, all’arrivo del re, verrà gettato fuori. Ecco infatti come vien detto: "Il re entrò per vedere i commensali e vide là un tale che non indossava l’abito nuziale". Noi, fratelli carissimi, siamo quelli che sono commensali alle nozze del Verbo, avendo già la fede della Chiesa, nutrendoci al banchetto della Sacra Scrittura e godendo che la Chiesa sia unita con Dio. Considerate, vi prego, se siete venuti a queste nozze con la veste nuziale, esaminate attentamente i vostri pensieri. Soppesate i vostri cuori nei particolari, se non avete odio contro nessuno, se nessuna invidia vi infiamma contro la felicità altrui, se non vi studiate di danneggiare nessuno con occulta malizia.

       Ecco che il re entra nella sala delle nozze e osserva la veste del nostro cuore, e a chi non trova rivestito di carità subito dice adirato: "Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale?" (Mt 22,12). È cosa degna di nota, fratelli carissimi, il fatto che chiama costui amico e tuttavia lo condanna, come se lo chiamasse amico e nemico allo stesso tempo: amico per la fede, nemico nelle opere. "Ed egli ammutolì (Mt 22,12)", cioè - e non se ne può parlare senza dolore - nell’ultimo severo giudizio verrà a mancare ogni possibilità di scusa, perché Colui che rimprovera dall’esterno sarà anche voce della coscienza che accusa l’anima dall’interno...

       Coloro pertanto che ora si lasciano spontaneamente legare dal vizio, allora saranno controvoglia legati dai tormenti. È giusto poi dire che saranno gettati nelle tenebre esteriori. Noi chiamiamo tenebra interiore la cecità del cuore, e (chiamiamo) invece tenebra esteriore la notte eterna della dannazione. Ogni dannato dunque non viene mandato nelle tenebre interiori ma in quelle esteriori, poiché è gettato controvoglia nella notte della dannazione colui che volontariamente cade nella cecità del cuore. Si dice anche che là sarà pianto e stridor di denti, sì che stridano là i denti di coloro che qui godevano nella voracità, e piangano là gli occhi di coloro che qui si davano a concupiscenze illecite; e così saranno sottoposte a tormenti tutte quelle membra che qui servirono a qualche vizio.

       Subito dopo che è stato espulso costui, nel quale è raffigurata tutta la schiera dei malvagi, viene una sentenza generale, che dice: "Molti sono chiamati, ma pochi eletti" (Mt 20,16). È tremendo, fratelli carissimi, ciò che abbiamo ascoltato! Ecco che noi, chiamati per mezzo della fede, siamo già venuti alle nozze del re celeste, crediamo e professiamo il mistero della sua incarnazione, ci nutriamo con il cibo del Verbo divino, ma il re deve ancora venire a giudicare. Sappiamo che siamo stati chiamati: non sappiamo però se saremo eletti. Sicché è necessario che tanto più ciascuno di noi si abbassi nell’umiltà in quanto non sa se sarà eletto. Alcuni infatti nemmeno iniziano a fare il bene, altri non perseverano affatto nel bene che avevano iniziato a fare. Uno è stato visto condurre quasi tutta la vita nel peccato, ma verso la fine di essa si converte dal suo peccato attraverso i lamenti di una rigorosa penitenza; un altro sembra condurre già una vita da eletto, e tuttavia verso la fine della sua esistenza gli capita di cadere nella nequizia dell’errore. Uno comincia bene e finisce meglio; un altro si dà alle male azioni fin da piccolo e finisce nelle medesime dopo essere diventato sempre peggiore. Tanto più ciascuno deve temere con sollecitudine, quanto più ignora ciò che lo aspetta, poiché - bisogna dirlo spesso e non dimenticarselo mai - "molti sono chiamati, ma pochi eletti".

       Gregorio Magno, Hom. 38, 3.5-7.9.11-14


2. La veste nuziale

       "Ed entrato il re a vedere i commensali, scorse un uomo che non era in abito da nozze e gli disse: «Amico, come sei entrato qua, senza avere l’abito da nozze?». Costui ammutolì" (Mt 22,11-12). Gl’invitati alle nozze, raccolti lungo le siepi e negli angoli, nelle piazze e nei luoghi più diversi, avevano riempito la sala del banchetto reale. Ma poi, venuto il re per vedere i commensali riuniti alla sua tavola, cioè, in un certo senso, pacificati nella sua fede (come nel giorno del giudizio verrà a vedere i convitati per distinguere i meriti di ciascuno), trovò uno che non indossava l’abito nuziale. In quest’uno son compresi tutti coloro che sono solidali nel compiere il male. La veste nuziale sono i precetti del Signore e le opere che si compiono nello spirito della Legge e del Vangelo. Essi sono l’abito dell’uomo nuovo. Se qualcuno che porta il nome di cristiano, nel momento del giudizio sarà trovato senza l’abito di nozze, cioè l’abito dell’uomo celeste, e indosserà invece l’abito macchiato, ossia l’abito dell’uomo vecchio, costui sarà immediatamente ripreso e gli verrà detto: «Amico, come sei entrato?». Lo chiama amico perché è uno degli invitati alle nozze, e rimprovera la sua sfrontatezza perché col suo abito immondo ha contaminato la purezza delle nozze. «Costui ammutolì», dice Gesù. In quel momento infatti non sarà più possibile pentirsi, né sarà possibile negare la colpa, in quanto gli angeli e il mondo stesso saranno testimoni del nostro peccato.

       "Allora il re disse ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nel buio; ivi sarà pianto e stridor di denti»" (Mt 22,13). L’esser legato mani e piedi, il pianto, lo stridore di denti, son tutte cose che stanno a dimostrare la verità della risurrezione. Oppure, gli vengono legati le mani e i piedi perché desista dall’operare il male e dal correre a versare sangue. Nel pianto e nello stridor di denti si manifesta metaforicamente la gravità dei tormenti .

       Girolamo, In Matth. III, 22, 8-11



Lezionario "I Padri vivi" 66