Lezionario "I Padri vivi" 69

XXIX Domenica

69 Letture:
    
Is 45,1 Is 45,4-6
     1Th 1,1-5b
     Mt 22,15-21

1. Il tributo a Cesare

       "Di chi è l’immagine e l’iscrizione?" (Lc 20,24). In questo passo Egli c’insegna che dobbiamo essere cauti nel respingere le accuse degli eretici oppure dei Giudei. In un altro punto ha detto: "Siate astuti come i serpenti". Questo, diversi lo interpretano così: poiché la croce di Cristo fu preannunciata nel serpente levato in alto, affinché venisse distrutto il veleno serpigno degli spiriti del male, parrebbe che si debba essere accorti come il Cristo, e semplici come lo Spirito. Ecco dunque chi è il serpente che tiene sempre protetto il capo, ed evita così le ferite mortali. Quando i Giudei gli chiedevano se avesse ricevuto dal Cielo la sua autorità, Egli rispose: "Il battesimo di Giovanni di dov’era, dal Cielo o dagli uomini?" (Mt 20,4). E lo scopo era che essi, non osando negare che era dal Cielo, si convincessero da soli della propria demenza nel negare che Colui che lo dava era dal Cielo. Egli chiede un didramma e domanda di chi è l’effigie: infatti diversa è l’effigie di Dio, diversa l’effigie del mondo. Per questo anche colui ci ammonisce: "E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo terreno, così portiamo l’immagine dell’uomo celeste" (1Co 15,49).

       Cristo non ha l’immagine di Cesare, perché Egli è "l’immagine di Dio". Pietro non ha l’immagine di Cesare, perché ha detto: Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" (Mt 19,27). Non si trova l’immagine di Cesare in Giacomo o in Giovanni, perché sono i figli del tuono, ma essa si trova nel mare, dove vi sono sulle acque quei mostri dalle teste fracassate, e lo stesso mostro principale, col capo mozzo, vien dato come cibo ai popoli degli Etiopi. Ma se non aveva l’immagine di Cesare, perché mai ha pagato il tributo? Non l’ha pagato del suo, ma ha restituito al mondo ciò che apparteneva al mondo. E se anche tu non vuoi esser tributario di Cesare, non possedere le proprietà del mondo. Però hai le ricchezze: e allora sei tributario di Cesare. Se non vuoi esser assolutamente debitore del re della terra, abbandona ogni tua cosa e segui Cristo.

       E giustamente Egli ordina di dare prima a Cesare ciò che è di Cesare, perché nessuno può appartenere al Signore, se prima non ha rinunziato al mondo. Tutti, certo, rinunziamo a parole, ma non rinunziamo col cuore; infatti, quando riceviamo i sacramenti, facciamo la rinunzia. Che pesante responsabilità è promettere a Dio, e poi non soddisfare il debito! "È meglio non fare voti", sta scritto, "piuttosto che farne e non mantenerli" (Qo 5,4). L’obbligo della fede è più forte di quello pecuniario. Rendi quanto hai promesso, finché sei in questo corpo, prima che giunga l’esecutore "e questi ti getti in prigione. In verità ti dico che non ne uscirai prima di aver pagato fino all’ultimo spicciolo";(Lc 12,58 Mt 5,25s).

       Ambrogio, Exp. Ev. sec. Luc. 9, 34-36


2. Preghiera per i governanti

       Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra come la desti ai padri nostri quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità (1Tm 2,7). Rendici sottomessi al tuo nome onnipotente e pieno di virtù e a quelli che ci comandano e ci guidano sulla terra.

       Tu, Signore, desti loro il potere della regalità per la tua magnifica e ineffabile forza perché noi conoscendo la gloria e l’onore loro dati ubbidissimo ad essi senza opporci alla tua volontà. Dona ad essi, Signore, sanità, pace, concordia e costanza per esercitare al sicuro la sovranità data da te.

       Tu, Signore, re celeste dei secoli concedi ai figli degli uomini gloria, onore e potere sulle cose della terra. Signore, porta a buon fine il loro volere secondo ciò che è buono e gradito alla tua presenza per esercitare con pietà nella pace e nella dolcezza il potere che tu hai loro dato e ti trovino misericordioso.

       Te, il solo capace di compiere questi beni ed altri più grandi per noi ringraziamo per mezzo del gran Sacerdote e protettore delle anime nostre Gesù Cristo per il quale ora a te sia la gloria e la magnificenza e di generazione in generazione e nei secoli dei secoli. Amen.

       Clemente di Roma, Ad Corinth. 60, 4 - 61, 3


3. L’adorazione si deve a Dio solo

       Onorerò l’imperatore: non lo adorerò, ma per lui pregherò. Solo il Dio reale, il Dio vero adorerò, sapendo che da lui l’imperatore è stato fatto. Certo mi chiederai: perché non adori l’imperatore? Perché non è stato fatto per essere adorato, ma per essere onorato con l’ossequio delle leggi: non è infatti un Dio, ma un uomo costituito da Dio non ad essere adorato, ma a fungere da giusto giudice. In un certo senso gli è stata affidata da Dio l’amministrazione; ed egli stesso non vuole che chi a lui è subordinato si chiami imperatore: imperatore è il nome suo e a nessun altro è lecito chiamarsi così. Egualmente anche l’adorazione è unicamente di Dio. Dunque, o uomo, sei davvero in errore: onora l’imperatore amandolo, ubbidendogli, pregando per lui: facendo così, farai il volere di Dio. Dice infatti la legge divina: "O figlio, onora Dio e l’imperatore, e non essere disubbidiente né all’uno né all’altro. Subito infatti puniscono i loro nemici" (Pr 24,21s).

       Teofilo di Antiochia, Ad Auct. 1, 11


4. Dio va messo al primo posto

       Noi ci sforziamo d’essere i primi a pagare tasse e tributi ai vostri funzionari, dovunque; e così da lui ci fu insegnato. In quel tempo, difatti, presentatisi a lui certuni, gli domandarono se si dovessero i tributi a Cesare. Egli rispose "Ditemi: di chi reca l’immagine la moneta?" Quelli risposero: "Di Cesare". Ed egli: "Date dunque a Cesare ciò ch’è di Cesare; a Dio ciò ch’è di Dio" (Mt 22,21). Perciò l’adorazione la prestiamo a Dio solo; quanto al resto di buon grado serviamo voi, riconoscendovi imperatori e capi degli uomini, e pregando Dio che accanto all’autorità imperiale si riscontri in voi anche un sano discernimento. Che se, pur pregando per voi e mettendo ogni cosa alla luce, ci disprezzerete, sappiate che non saremo noi a riportarne danno, dacché crediamo, anzi siamo convinti, che ciascuno sconterà la pena del fuoco eterno secondo le azioni e renderà conto in proporzione delle facoltà ricevute da Dio, secondo il monito di Cristo: "Da colui al quale Dio più diede, più anche si esigerà" (Lc 12,48).

       Giustino, I Apol. 17


5. L’esempio di Daniele

       Pertanto, "quando Daniele venne a conoscenza dello scritto", accortosi che si trattava di un complotto contro di lui, tuttavia non ebbe paura, non si spaventò, perché era pronto ad andare in pasto alle fiere piuttosto che sottomettersi al decreto del re. Egli si ricordava dell’esempio che gli avevano dato i tre fanciulli. Poiché non avevano voluto prostrarsi davanti alla statua del re, essi erano stati salvati dalla fornace ardente. Rientrato a casa sua, aprì le finestre "del piano superiore, in direzione di Gerusalemme, e tre volte al giorno si inginocchiava e pregava continuando a far penitenza, come faceva prima".

       Bisogna contemplare la pietà del beato Daniele. Benché sembrasse molto occupato dagli affari del re, nondimeno si applicava alla preghiera quotidiana, rendendo "a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio" (Mt 22,21). Forse mi si potrà dire: E che? Egli non poteva, di giorno, pregare Dio nel profondo del cuore, e, di notte, raccogliersi nascostamente in casa sua, come voleva, senza correre pericolo? Sì. Ma lui non voleva. Se infatti avesse agito così, i ministri e i satrapi avrebbero potuto dire: Che vale il suo timor di Dio, dal momento che ha paura dell’editto del re e si sottomette ai suoi ordini? Ed erano pronti a portare contro di lui un motivo di accusa: il rimprovero di infedeltà. Questo lo fa l’ipocrisia: non così il timore e la fede in Dio. E fu perché non diede ai suoi avversari pretesto alla maldicenza: "Perché chiunque è sottomesso a un uomo, è suo schiavo" (2P 2,19).

       In effetti, coloro che credono in Dio non sanno che farsene della dissimulazione, e non devono temere coloro che sono costituiti in autorità, se non commettono il male. Ma se vengono costretti, a causa della loro fede in Dio, ad agire diversamente, preferiscono morire spontaneamente piuttosto che fare ciò che è loro ordinato. E quando l’Apostolo dice che bisogna sottomettersi ad ogni "autorità costituita" (Rm 13,1), non allude a questo caso. Egli non domanda che rinneghiamo la nostra fede, né i comandamenti divini per eseguire gli ordini degli uomini, ma al contrario che, per deferenza verso l’autorità, non commettiamo alcun delitto, in modo da non essere castigati come malfattori. Ecco perché aggiunge: L’autorità è al servizio di Dio, contro coloro che fanno il male. "Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne riceverai lode. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada" (1P 2,14 1P 2,20). Dunque l’Apostolo raccomanda, in tal modo, di sottomettersi a una esistenza santa e pia in questo mondo, e di avere davanti agli occhi il pericolo della spada. Anche gli apostoli, nonostante l’opposizione dei principi e degli scribi, continuavano tuttavia a predicare la parola e a obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Ac 4,18-20). Ecco perché i principi si infuriarono contro di loro e li chiusero in prigione. "Ma durante la notte un angelo li condusse fuori e disse: Andate e predicate queste parole di vita (Ac 5,19 Ac 5,20).

       Nemmeno lui, Daniele, nonostante il divieto di pregare, si sottomise all’editto del re, non volendo mettere la gloria di Dio al di sotto di quella degli uomini. Infatti quando si muore per Dio, ci si può rallegrare di aver ottenuto così la vita eterna. E quando si soffre per Dio e si vive quaggiù nella purezza e nel timore, non bisogna dare il minimo pretesto di accusa a coloro che lo cercano, perché così essi saranno ancor più coperti di confusione.

       Così i ministri cercavano contro Daniele un pretesto e non ne trovavano, perché egli era fedele. E se alcuni ci obbligassero a non adorare Dio e a non pregare, minacciandoci di morte, sarebbe più dolce per noi morire piuttosto che eseguire i loro ordini. "Chi", infatti, "ci separerà dall’amore di Dio? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, il pericolo, la spada"? (Rm 8,35). Ecco perché il beato Daniele, che aveva preferito il timor di Dio e si era offerto alla morte, fu salvato dai leoni grazie all’angelo. Se egli avesse tenuto conto dell’editto, se fosse rimasto tranquillo per trenta giorni, la sua fede in Dio non avrebbe più avuto la sua purezza. "Nessuno può servire a due padroni" (Mt 6,24). Sempre l’arte del diavolo s’ingegna di perseguitare, opprimere, abbattere i santi per impedire loro di levare, nelle loro orazioni, "le mani sante" (1Tm 2,8) verso Dio. Egli infatti sa bene che la preghiera dei santi dà al mondo la pace e ai malvagi il castigo. Allo stesso modo, "quando", nel deserto, "Mosè alzava le mani, Israele era più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek" (Ex 17,11). È quanto ancor oggi ci capita: quando cessiamo di pregare, l’Avversario ha la meglio su noi, e quando ci aggrappiamo alla preghiera, la forza e la potenza del Maligno restano senza effetto.

       Ippolito di Roma, In Daniel. 3, 21-24




XXX Domenica

70 Letture:
    
Ex 22,20-26
     1Th 1,5-10
     Mt 22,34-40

1. Dio ci domanda il cuore

       Bene, fratelli miei, interrogate voi stessi, scuotete le celle interiori: osservate, e vedete bene se avete un po’ di carità, e quel tanto che avrete trovato accrescete. Fate attenzione ad un tale tesoro, perché siate ricchi dentro. Certamente, le altre cose che hanno un grande valore, vengono definite «care»; e non invano. Esaminate la consuetudine del vostro linguaggio: questa cosa è più cara di quella. Che vuol dire è più cara, se non che è più preziosa? Se si dice più cara, cos’è più prezioso; cos’è più caro della carità stessa, fratelli miei? Qual è, riteniamo, il suo valore? Da dove deriva il suo valore? Il valore del frumento: il tuo danaro, il valore di un fondo: il tuo argento; il valore di una gemma: il tuo oro; il valore della carità sei tu stesso. Tu chiedi peraltro di sapere come possedere il fondo, la gemma, il frumento; come comprare e tenere presso di te il fondo. Ma se vuoi avere la carità, cerca te e trova te. Hai paura infatti di darti per non consumarti? Anzi, se non ti doni, ti perdi. La stessa carità parla per bocca della Sapienza, e ti dice qualcosa perché non ti spaventi quanto vien detto: Dona te stesso. Se uno infatti ti vuol vendere un fondo, ti dirà: Dammi il tuo oro; e chi ti vuol vendere qualcos’altro: Dammi il tuo danaro, o dammi il tuo argento. Ascolta ciò che ti dice la carità per bocca della Sapienza: "Dammi il tuo cuore, figlio mio" (Pr 23,26). «Dammi», dice: cosa? «Il tuo cuore, figlio mio». Era male quando era da te, quando ti apparteneva: infatti eri portato alle futilità ed agli amori lascivi e perniciosi. Toglilo di là. Dove lo porti? Dammi, egli dice, il tuo cuore. Sia per me, e non si perda per te. Osserva, infatti, cosa ti dice, allorché vuole rimettere in te qualcosa, perché tu ami soprattutto te stesso: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente" (Mt 23,37 Dt 6,5). Cosa rimane del tuo cuore, per amare te stesso? Cosa della tua anima? E cosa della tua mente? Con tutto, egli dice. Tutto te stesso esige, colui che ti ha fatto.

       Però, non esser triste quasi non ti resti nulla di che rallegrarti in te stesso. "Gioisca Israele", non in sè, "bensì in colui che lo ha fatto" (Ps 149,2)

       "Il prossimo quanto deve essere amato?" Risponderei e direi: Se nulla mi rimasto, come mi amerò; poiché mi si ordina di amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente colui che mi ha fatto, in che modo mi si ordina il secondo precetto di amare il prossimo come me stesso? Il che è più che il dire di amare il prossimo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. In che modo? "Ama il prossimo tuo come te stesso" (Mt 22,37 Mt 22,39). Dio con tutto me stesso: il prossimo come me. Come me, così te? Vuoi sentire come ti ami? Per questo ti ami, poiché ami Dio con tutto te stesso. Ritieni infatti di avanzare con Dio, perché ami Dio? E poiché ami Dio, si aggiunga qualcosa a Dio? E se non ami, avrai di meno? Quando ami, tu progredisci: lì tu sarai dove non perirai. Ma mi risponderai e dirai: Quando infatti non mi sono amato? Non ti amavi affatto, quando non amavi Dio che ti ha fatto. Anzi quando ti odiavi credevi di amarti. "Chi infatti ama l’iniquità, odia la sua anima" (Ps 10,6).

       Agostino, Sermo 34, 7-8


2. I due amori: Dio e il mondo

       Vi sono due amori, dai quali derivano tutti i desideri, e questi sono così diversi per qualità, in quanto si distinguono per cause. L’anima razionale, infatti, che non può essere priva di amore, o ama Dio o ama il mondo. Nell’amore di Dio nulla è eccessivo, nell’amore del mondo, invece, tutto è dannoso. Per questo è necessario essere inseparabilmente attaccati ai beni eterni, e usare in maniera transitoria di quelli temporali, di modo che, per noi che siamo pellegrini e ci affrettiamo per tornare in patria, qualunque cosa ci tocchi delle fortune di questo mondo sia viatico per il viaggio e non attrattiva per il soggiorno. Per questo, il beato Apostolo così afferma: "Il tempo è breve. Rimane che quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che godono come se non godessero, quelli che comprano come se non possedessero, e quelli che usano di questo mondo come se non ne usassero: perché passa la scena di questo mondo (1Co 7,29-31). Ma ciò che piace per aspetto, abbondanza, varietà, non viene facilmente evitato, a meno di non amare, nella stessa bellezza delle cose visibili, il Creatore piuttosto che la creatura. Quando infatti egli dice: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza" (Mc 12,30), vuole che mai ci sciogliamo dai vincoli del suo amore. E quando con questo precetto del prossimo (cf. Mc 12,31ss) congiunge strettamente la carità, ci prescrive l’imitazione della sua bontà, affinché amiamo ciò che egli ama, e ci occupiamo di ciò di cui egli si occupa. Sebbene infatti siamo "il campo di Dio e l’edificio di Dio" (1Co 3,9), e "ne chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere" (1Co 3,7), tuttavia esige in tutto il servizio del nostro ministero, e vuole che siamo dispensatori dei suoi doni, affinché colui che porta "l’immagine di Dio" (Gn 1,27), faccia la sua volontà. Per questo nella preghiera del Signore diciamo in maniera sacrosanta: "Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra" (Mt 6,10). Con tali parole cos’altro domandiamo, se non che Dio assoggetti chi non ha ancora assoggettato a sé, e, come [lo sono] in cielo gli angeli, così faccia ministri della sua volontà anche gli uomini sulla terra? Chiedendo dunque ciò, amiamo Dio e amiamo anche il prossimo, e in noi c’è non un amore diverso, ma unico, dal momento che desideriamo sia che il servo serva, sia che il padrone comandi.

       Questo affetto dunque, o carissimi, dal quale escluso l’amore terreno, si rafforza con la consuetudine delle buone opere, poiché è necessario che la coscienza si rallegri nelle azioni rette, e volentieri ascolti ciò che gode di aver fatto. Si sceglie di fare digiuno, si custodisce la castità, si moltiplicano le elemosine, si prega incessantemente, ed ecco che il desiderio dei singoli diventa il voto di tutti. La fatica alimenta la pazienza, la mitezza spegne l’ira, la benevolenza si mette sotto i piedi l’invidia, le cupidigie umane sono uccise dai santi desideri, l’avarizia è scacciata dalla generosità, e le ricchezze che costituiscono un peso diventano strumenti di virtù.

       Leone Magno, Tractatus, 90, 3-4


3. Dio promette se stesso a chi lo ama

       In effetti, non una qualsiasi cosa ti promette Dio, cioè qualcosa che non sia Dio stesso. Insomma, Dio non potrebbe saziarmi, se non promettendomi Dio stesso.

       Cos’è l’intera terra? Cosa l’intero mare? O l’intero cielo? Cosa sono tutti gli astri? O il sole? Cosa la luna? Cosa le schiere stesse degli angeli? Più di tutti costoro, ho sete del Creatore: di lui stesso ho fame, di lui ho sete a lui dico: "Poiché presso di te è la fonte della vita" (Ps 35,10). È lui che mi dice: "Io sono il pane disceso dal cielo" (Jn 6,41).

       Brami dunque ed abbia sete il mio peregrinare, perch‚ si sazi la mia presenza. Il mondo gioisce di molte cose, belle, forti, varie: più bello è però colui che le ha fatte; più forte e luminoso è colui che le ha fatte; più soave è colui che le ha fatte. "Mi sazierò, quando si manifesterà la tua gloria" (Ps 16,15). Se perciò è in voi quella fede che opera per mezzo dell’amore, già vi annoverate tra i predestinati, tra i chiamati, tra i giustificati: quindi cresca in voi. La fede infatti che opera per mezzo dell’amore, non può sussistere senza la speranza. Ma quando saremo arrivati, allora sarà ancora con te la fede? Ci sarà forse detto: Credi? No, assolutamente. Allora, lo vedremo, lo contempleremo.

       Agostino, Sermo 158, 7


XXXI Domenica

71
Letture:
    
Ml 1,14 Ml 2,2 Ml 2,8-10
     1Th 2,7-9 1Th 2,13
     Mt 23,1-12

1. L’essenziale della Legge

       In effetti, la tradizione dei loro anziani, che essi ostentavano di osservare al pari di una legge, era contraria alla Legge di Mosè. Motivo per cui Is dice: "I tuoi tavernieri mescolano il vino con l’acqua" (Is 1,2) per mostrare che all’austero precetto di Dio gli anziani mescolano una tradizione acquosa, cioè aggiungono una legge adulterata e contraria alla Legge. È quanto il Signore ha chiaramente evidenziato, dicendo loro: "Perché trasgredite i comandamenti di Dio per la vostra tradizione?" (Mt 15,3). Non contenti di violare la Legge di Dio con la loro trasgressione mescolando il vino con l’acqua, hanno contrapposto ad essa la loro legge, che a tutt’oggi vien detta legge farisaica. Vi sopprimono alcune cose, ne aggiungono delle altre, ne interpretano altre ancora a loro modo: così ne usano in particolare i loro dottori. Volendo difendere queste tradizioni, non si sono sottomessi alla Legge di Dio che li orientava verso la venuta di Cristo, e sono arrivati persino a rimproverare al Signore di operare guarigioni in giorno di sabato, il che, come abbiamo già detto, la Legge non vietava, dal momento che anch’essa guariva in certo modo, facendo circoncidere l’uomo in quel giorno; tuttavia non riproveravano nulla a s‚ stessi, quando, per la loro tradizione e per la legge farisaica anzidetta, trasgredivano il comandamento di Dio e non possedevano l’essenziale della Legge, cioè l’amore verso Dio.

       Quell’amore è in effetti il primo e più grande comandamento, e il secondo è l’amore verso il prossimo: lo ha insegnato il Signore, dicendo che tutta la Legge e i profeti si ricollegano a questi comandamenti (Mt 22,37-40). E lui stesso non ha portato altro comandamento più grande di questo, ma ha rinnovato quello stesso comandamento ingiungendo ai suoi discepoli di amare Dio con tutto il cuore e il loro prossimo come sé stessi. Se fosse disceso da un altro Padre, mai egli avrebbe fatto uso del primo e più grande comandamento della Legge: si sarebbe sforzato in tutte le maniere di apportarne uno più grande secondo un Padre perfetto e a non fare uso di quello che aveva dato l’Autore della Legge. Perciò, Paolo dice che la carità è il compimento della Legge (Rm 13,10); essendo abolito tutto il resto, restano solo la fede, la speranza e la carità, ma la più grande di tutte è la carità (1Co 13,13); senza la carità verso Dio, né la conoscenza ha alcuna utilità, né la comprensione dei misteri, né la fede, né la profezia, ma tutto è vano e superfluo senza la carità (1Co 13,2); la carità rende l’uomo perfetto, e colui che ama è perfetto, nel secolo presente e in quello futuro: infatti mai cesseremo di amare Dio, ma, più lo contempleremo, più lo ameremo.

       Così dunque, visto che nella Legge come nel Vangelo il primo e più grande comandamento è lo stesso, cioè amare il Signore Dio con tutto il cuore, e il secondo del pari, cioè amare il prossimo come se stessi, è acquisita la prova che vi è un solo e medesimo Legislatore. I comandamenti essenziali della vita, per il fatto che sono gli stessi in un verso e nell’altro, manifestano effettivamente lo stesso Signore: infatti, se ha impartito comandi particolari adatti all’una o all’altra alleanza, per quanto attiene a comandamenti universali e più importanti, senza i quali non vi può essere salvezza, sono gli stessi da lui proposti da una parte e dall’altra.

       Chi non avrebbe confuso il Signore, quando affermava, insegnando alla folla e ai discepoli, nei termini seguenti, che la Legge non veniva da un altro Dio: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei: osservate dunque e fate tutto ciò che essi vi dicono, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno; legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23,2-1)? Egli non condannava perciò la legge di Mosè, dal momento che li invitava ad osservarla fintanto che sussistesse Gerusalemme: ma erano essi che egli biasimava, perché, pur proclamando le parole della Legge, erano vuoti d’amore e, per questo, violatori della Legge rispetto a Dio e al prossimo. Come dice Isaia: "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me, è invano che mi rendono culto, mentre insegnano dottrine e comandamenti di uomini" (Is 29,13). Non è la Legge di Mosè che egli chiama «comandamenti di uomini», bensì le tradizioni dei loro anziani, inventate di sana pianta, per difendere i quali essi rigettavano la Legge di Dio e, come conseguenza non si sottomettevano neppure al suo Verbo. È quanto Paolo sottolinea a loro proposito: "Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio: infatti, il termine della Legge è Cristo, per la giustificazione di ogni credente" (Rm 10,3-1). Come Cristo sarebbe il termine della Legge, se non ne fosse stato anche il principio? Infatti, colui che ha portato a termine è anche colui che ha realizzato il principio. È lui che diceva a Mosè: "Ho visto l’afflizione del mio popolo in Egitto, e sono disceso per liberarlo" (Ex 3,7-8). Fin dal principio, infatti, era solito salire e scendere per la salvezza degli afflitti.

       Ireneo di Lione, Adv. Haer. IV, 12, 1-4


2. La suprema sventura

       Guai a noi, sventurati, se abbiamo ereditato i vizi dei farisei!

       Girolamo, In Matth. IV, 23, 5-7


3. Necessità delle opere

       E poiché sono pochi quelli che trovano la via stretta, egli espone l’inganno di quelli che fanno finta di cercarla: "Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore" (Mt 7,15), ecc. Bisogna notare che le parole adulatrici e la finta dolcezza devono essere giudicate dai frutti delle azioni, di modo che non ci aspettiamo da qualcuno che sia così come si dipinge a parole, ma come si comporta a fatti, perch‚ molti uomini hanno la rabbia del lupo nascosta sotto una veste di pecora. Così, siccome le spine non producono uva e i rovi non [ producono ] fichi, siccome gli alberi cattivi non portano frutti mangerecci,egli ci insegna che presso tali uomini non c’è più posto per la realizzazione di un’opera buona e che, perciò, è dai suoi frutti che bisogna riconoscere ciascuno. Non si ottiene, infatti, il regno dei cieli soltanto a forza di parole, e non sarà chi avrà detto "Signore, Signore" (Mt 7,21) ad aver parte con lui. Che merito c’è, infatti, nel dire al Signore: "Signore?" Forse che non ci sarà il Signore, se noi non lo nominiamo? Quale dovere sacro c’è nel chiamare un nome, dal momento che è piuttosto l’obbedienza alla volontà di Dio, e non il fatto di chiamare il suo nome, che farà trovare la via del regno dei cieli?

       "Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome?" (Mt 7,22), ecc. Egli condanna ora l’inganno degli pseudoprofeti e le simulazioni degli ipocriti, che trovano nella potenza della parola di che attribuirsi una gloria nella profezia della dottrina, nel cacciare i demoni e in siffatte azioni miracolose, e da ciò promettono a se stessi il regno dei cieli - come se veramente ciò che dicono e ciò che fanno fosse proprio di loro e non fosse invece la virtù di Dio quando è invocata, a compiere tutto -, mentre è la lettura che dà la scienza della dottrina ed è il nome di Cristo che provoca la cacciata dei demoni; dobbiamo dunque meritare a nostre spese questa eternità beata, e intraprendere qualcosa da noi stessi per volere il bene, evitare ogni male, obbedire di tutto cuore ai precetti celesti e adempiere tutti questi doveri per essere conosciuti da Dio e far ciò che egli desidera, piuttosto che gloriarci di ciò che sta in suo potere, lui che respinge e scarta coloro che per le opere inique non hanno potuto conoscerlo.

       Ilario di Poitiers, In Matth. 6, 4-5




XXXII Domenica

72
Letture:
    
Sg 6,12-16
     1Th 4,13-18
     Mt 25,1-13

1. Le dieci vergini

       "Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini" (Mt 25,1), e il seguito. È dopo le affermazioni precedenti che si può comprendere anche la ragion d’essere di questo brano. Esso si riferisce interamente al gran giorno del Signore, in cui i segreti dei pensieri degli uomini saranno rivelati (1Co 3,13) dall’indagine del giudizio divino e in cui la fede verace nel Dio che si attende avrà la soddisfazione di una speranza non incerta. Infatti, nella contrapposizione delle cinque sagge e delle cinque stolte, è definita in maniera lampante la divisione di credenti e increduli, a esempio della quale Mosè aveva ricevuto i dieci comandamenti consegnati su due tavole (cf. Ex 32,15). Difatti, era necessario che essi fossero consegnati interamente su due tavole, e la doppia pagina, spartendo tra la destra e la sinistra ciò che era proprio di esse, contrassegnava la divisione dei buoni e dei cattivi, sebbene essi fossero riuniti sotto uno stesso testamento.

       Lo sposo e la sposa sono Dio nostro Signore in un corpo, poiché la carne è per lo Spirito una sposa, come lo Spirito è uno sposo per la carne. Quando, alla fine, la tromba suona la sveglia, si va incontro allo sposo soltanto, perché i due erano ormai uno, per il fatto che l’umiltà della carne aveva attinto una gloria spirituale. Ma dopo una prima tappa, noi, adempiendo i doveri di questa vita, ci prepariamo ad andare incontro alla risurrezione dai morti. Le lampade sono la luce delle anime risplendenti che il sacramento del Battesimo ha fatto brillare. L’olio (Mt 25,3) è il frutto delle opere buone. I piccoli vasi (Mt 25,4) sono i corpi umani, nelle cui viscere dev’essere riposto il tesoro di una coscienza retta. I venditori (Mt 25,9) sono coloro che, avendo bisogno della pietà dei credenti, danno in cambio la mercanzia che è loro richiesta, cioè che stanchi della loro miseria, ci vendono la coscienza di una buona azione. È essa che alimenta a profusione una luce inestinguibile e che occorre comprare e riporre mediante i frutti della misericordia. Le nozze (Mt 25,10) sono l’assunzione dell’immortalità e l’unione della corruzione e dell’incorruttibilità secondo un’alleanza inaudita. Il ritardo dello sposo (Mt 25,5) è il tempo della penitenza. Il sonno di quelle che attendono è il riposo dei credenti e la morte temporale di tutto il mondo al tempo della penitenza. Il grido in mezzo alla notte (Mt 25,6) è, in mezzo all’ignoranza generale, il suono della tromba che precede la venuta del Signore (1Th 4,16) e che sveglia tutti perché si esca incontro allo sposo. Le lampade che vengono prese (Mt 25,7) sono il ritorno delle anime nei corpi e la loro luce è la coscienza risplendente di una buona azione, coscienza che è racchiusa nei piccoli vasi dei corpi.

       Le vergini sagge sono le anime che, cogliendo il momento favorevole in cui sono nei corpi per fare delle opere buone, si sono preparate per presentarsi per prime alla venuta del Signore. Le stolte sono le anime che, rilassate e negligenti, si sono curate solo delle cose presenti e, dimentiche delle promesse di Dio, non sono arrivate fino alla speranza della risurrezione. E poiché le vergini stolte non possono andare incontro con le loro lampade spente, domandano in prestito alle sagge dell’olio (Mt 25,8). Ma quelle risposero che non potevano darne loro, perché forse non ce ne sarebbe stato abbastanza per tutte (Mt 25,9), il che vuol dire che nessuno deve appoggiarsi sulle opere e sui meriti altrui, perché è necessario che ognuno compri olio per la propria lampada. Le sagge le invitano a tornare indietro a comprarne, qualora obbedendo sia pure in ritardo alle prescrizioni di Dio, esse si rendano degne d’incontrare lo sposo con le loro lampade accese. Ma mentre esse indugiavano, entrò lo sposo e, insieme a lui, le sagge velate e munite della loro lampada tutta pronta entrano alle nozze (Mt 25,10), cioè penetrano nella gloria celeste appena giunto il Signore nel suo splendore. E poiché non hanno più tempo per pentirsi, le stolte accorrono, chiedono che si apra loro la porta (Mt 25,11). Al che lo sposo risponde loro: "Non vi conosco" (Mt 25,12). Esse, infatti, non erano state là per compiere il loro dovere verso colui che arrivava, non si erano presentate all’appello del suono della tromba, non si erano aggiunte al corteo di quelle che entravano, ma, per il loro ritardo e il loro comportamento indegno, avevano lasciato passare l’ora di entrare alle nozze.

       Ilario di Poitiers, In Matth. 27, 3-5


2. Vigilanza nella preghiera

       E tu dunque, o anima, una del popolo, una della folla.... certamente una delle vergini, tu che illumini la grazia del corpo con lo splendore interiore..., tu, dico, nel tuo letto, anche di notte apparecchiata, medita sempre Cristo e la sua venuta sia in ogni momento desiderata.

       Se ti sembra che tardi, levati. Sembra tardare quando dormi a lungo; sembra tardare quando non sei intenta alla preghiera; sembra tardare quando non fai sentire la tua voce che salmeggia. Avendo dedicato a Cristo le primizie delle tue veglie, sacrifica a Cristo le primizie delle tue azioni... Chiedi dunque che lo Spirito Santo ti ispiri, che soffi sopra il tuo letto e accresca il profumo della pia mente e della grazia spirituale. Ti risponderà: "Io dormo, ma il mio cuore veglia" (Ct 5,2)...

       Aperta così la porta, [Cristo] entra; infatti non può mancare lui che ha promesso di entrare. Abbraccia dunque colui che hai cercato, accostati a lui, e sarai illuminata: trattienilo, pregalo di non andarsene presto, supplicalo di non lasciarti; poiché il Verbo di Dio corre, non lo si prende con la superbia, non lo si trattiene con la negligenza. La tua anima vada incontro alla sua parola, e segui le orme dei celesti detti; infatti passa presto.

       Cosa dice infine quella? "L’ho cercato, ma non l’ho trovato; l’ho chiamato, ma non mi ha dato ascolto" (Ct 5,6). Non pensare a dispiacerti, tu che hai chiamato, pregato, aperto, per il fatto che se n’è andato così presto, spesso egli lascia che noi siamo tentati. Cosa risponde infine nel Vangelo alle folle che lo pregano di non allontanarsi? "Bisogna che io annunzi la parola di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato" (Lc 4,43). Ma anche se ti sembra che egli se ne sia andato, esci fuori, indaga di nuovo (Ct 5,7)...

       Chi dunque se non la santa Chiesa deve insegnarti come possedere Cristo? Anzi già lo ha spiegato, se comprendi ciò che leggi: "Da poco", dice, "le avevo oltrepassate" [le guardie], "quando trovai l’amato del mio cuore: lo strinsi, e non lo lascerò" (Ct 3,4). Da quali cose dunque Cristo è trattenuto? Non dai lacci dell’ingiustizia, non dai nodi delle funi; ma dai vincoli della carità, è stretto dai lacci del cuore ed è trattenuto dall’affetto dell’anima. Se vuoi trattenere Cristo anche tu, cerca incessantemente, non aver paura della sofferenza; spesso infatti Cristo lo si trova meglio in mezzo ai dolori del corpo, in mezzo alle stesse mani dei persecutori. "Da poco", dice, "le avevo oltrepassate". Quando infatti nel breve spazio di un momento sei sfuggita alle mani dei persecutori e non hai ceduto al dominio del mondo, Cristo ti si farà incontro e non permetterà che tu sia tentata oltre.

       Colei che così cerca Cristo e così lo trova, può dire: "Lo strinsi, e non lo lascerò; finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice ()". Qual è la casa di tua madre e la stanza di lei, se non l’intimo tuo? Custodisci questa casa, dopo averne nettato l’interno; affinché essendo pura e immune dalle macchie di una coscienza adulterina, tale spirituale dimora si levi verso il sacerdozio santo sul saldo fondamento della pietra angolare, e lo Spirito Santo abiti in essa. Colei che così cerca Cristo e così lo prega, non sarà abbandonata da lui, che anzi di frequente tornerà a farle visita; infatti egli è con noi fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

       Ambrogio, De virginit. 12, 68 s.74 s.; 13, 77 s.


3. Parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13)

Io non sono divenuto saggio in due punti,
Come lo erano divenute le cinque vergini sagge;
Il bene facile con il difficile
Io non l’ho acquistato.

Ma son divenuto l’ultimo degli insensati
Non conservando l’olio per la lampada:
La misericordia con la verginità,
O meglio ancora, l’Unzione della Fontana sacra,
Che, nella notte finale ove non si può più lavorare,
Non mi son più vendute a prezzo di denaro;
Ecco perché le porte della Sala di Nozze, del pari
Restan chiuse per me, neghittoso.

Ma quaggiù, finché in un corpo io resto,
Tu, mio Sposo, ascolta l’anima mia sposa;

Invece di quell’ultimo clamore,
Fin d’ora grido con voce supplichevole:
«Aprimi la tua porta celeste
Introducimi nella camera nuziale di lassù,
Rendimi degno del tuo bacio santo,
Dell’abbraccio tuo puro e immacolato.
Che io possa non udir la voce
Che risponda di non riconoscermi,
Ma la fiaccola spenta riaccenda
Del mio spirito, a me cieco, grazie alla tua luce!».

       Nerses Snorhali, Jesus, 688-693





Lezionario "I Padri vivi" 69