Lezionario "I Padri vivi" 73

XXXIII Domenica

73 Letture:
    
Pr 31,10-13 Pr 31,19-20 Pr 31,30-31
     1Th 5,1-6
     Mt 25,14-30

1. La simbologia dei talenti

       Sarà infatti come d’un uomo il quale, stando per fare un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, all’altro due, e a un altro uno solo: a ciascuno secondo la sua capacità" (Mt 25,14-15). Non v’è dubbio che quest’uomo, questo padrone di casa, è Cristo stesso, il quale, mentre s’appresta vittorioso ad ascendere al Padre dopo la Risurrezione, chiamati a sé gli apostoli, affida loro la dottrina evangelica, dando a uno più e a un altro meno, non perché vuol essere con uno più generoso e con l’altro più parco, ma perché tiene conto delle forze di ciascuno (l’Apostolo dice qualcosa di simile quando afferma di aver nutrito col latte coloro che non erano ancora in grado di nutrirsi con cibi solidi) (1Co 3,2). Infatti poi con uguale gioia ha accolto colui che di cinque talenti, trafficandoli, ne ha fatto dieci e colui che di due ne ha fatto quattro, considerando non l’entità del guadagno, ma la volontà di ben fare. Nei cinque, come nei due e nell’unico talento, scorgiamo le diverse grazie che a ciascuno vengono date. Oppure si può vedere, nel primo che ne riceve cinque, i cinque sensi, nel secondo che ne ha due, l’intelligenza e le opere, e nel terzo che ne ha uno solo, la ragione, che distingue gli uomini dalle bestie.

       "Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti, se ne andò a negoziarli e ne guadagnò altri cinque" (Mt 25,16). Ricevuti cioè i cinque sensi terreni, li raddoppiò acquisendo per mezzo delle cose create la conoscenza delle cose celesti, la conoscenza del Creatore: risalendo dalle cose corporee a quelle spirituali, dalle visibili alle invisibili, dalle contingenti alle eterne.

       "Come pure quello che aveva ricevuto due talenti ne guadagnò altri due (Mt 25,17). Anche costui, le verità che con le sue forze aveva appreso dalla Legge le raddoppiò nella conoscenza del Vangelo. O si può intendere che, attraverso la scienza e le opere della vita terrena, comprese le caratteristiche ideali della futura beatitudine.

       "Ma colui che ne aveva ricevuto uno solo, andò a scavare una buca nella terra e vi nascose il denaro del suo padrone" (Mt 25,18). Il servo malvagio, dominato dalle opere terrene e dai piaceri del mondo, trascurò e macchiò i precetti di Dio. Un altro evangelista dice che questo servo tenne la sua moneta legata in una pezzuola (Lc 19,20), cioè, vivendo nella mollezza e nelle delizie, rese inefficiente l’insegnamento del padrone di casa.

       "Ora, dopo molto tempo, ritornò il padrone di quei servi e li chiamò a render conto. Venuto dunque colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, tu mi desti cinque talenti; ecco, io ne ho guadagnati altri cinque»" (Mt 25,19-20). Molto tempo c’è tra l’Ascensione del Salvatore e la sua seconda venuta. Ora, se gli apostoli stessi dovranno render conto e risorgeranno col timore del giudizio, che dobbiamo mai far noi?

       "E il padrone gli disse «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore». Si presentò poi l’altro che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, tu mi desti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». Il suo padrone gli disse: «Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nella gioia del tuo Signore» (Mt 25,21-23) . Ambedue i servi, e quello che di cinque talenti ne ha fatto dieci e quello che di due ne ha fatto quattro, ricevono identiche lodi dal padrone di casa. E dobbiamo rilevare che tutto quanto possediamo in questa vita, anche se può sembrare grande e abbondante, è sempre poco e piccolo a confronto dei beni futuri. «Entra - dice il padrone - nella gioia del tuo Signore»: cioè ricevi quel che occhio mai vide, né orecchio mai udì, né mai cuore d’uomo ha potuto gustare (1Co 2,9). Che cosa mai di più grande può essere donato al servo fedele, se non di vivere insieme col proprio signore e contemplare la gioia di lui?

       "Presentatosi infine quello che aveva ricevuto un solo talento, disse: «Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; ecco, prendi quello che ti appartiene» (Mt 25,24-25). Quanto sta scritto nel salmo: A cercare scuse per i peccati (Ps 141,4), si applica anche a questo servo, il quale alla pigrizia e negligenza, ha aggiunto anche la colpa della superbia. Egli che non avrebbe dovuto fare altro che confessare la sua infingardaggine e supplicare il padrone di casa, al contrario lo calunnia, e sostiene di aver agito con prudenza non avendo cercato alcun guadagno per timore di perdere il capitale.

       "Il suo padrone gli rispose: «Servo malvagio e infingardo, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; potevi dunque mettere il mio denaro in mano ai banchieri, e al ritorno io avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il talento e datelo a colui che ne ha dieci» (Mt 25,26-28). Quanto credeva di aver detto in sua difesa, si muta invece in condanna. E il servo è chiamato malvagio, perché ha calunniato il padrone; è detto pigro, perché non ha voluto raddoppiare il talento: perciò è condannato prima come superbo e poi come negligente. Se - dice in sostanza il Signore - sapevi che io son duro e crudele e che desidero le cose altrui, tanto che mieto dove non ho seminato, perché questo pensiero non ti ha istillato timore tanto da farti capire che io ti avrei richiesto puntualmente ciò che era mio, e da spingerti a dare ai banchieri il denaro e l’argento che ti avevo affidato? L’una e l’altra cosa significa infatti la parola greca arghyrion. Sta scritto: "La parola del Signore è parola pura, argento affinato nel fuoco, temprato nella terra, purificato sette volte" (Ps 12,7). Il denaro e l’argento sono la predicazione del Vangelo e la parola divina, che deve essere data ai banchieri e agli usurai, cioè o agli altri dottori (come fecero gli apostoli, ordinando in ogni provincia presbiteri e vescovi), oppure a tutti i credenti, che possono raddoppiarla e restituirla con l’interesse, in quanto compiono con le opere ciò che hanno appreso dalla parola. A questo servo viene pertanto tolto il talento e viene dato a quello che ne ha fatto dieci affinché comprendiamo che - sebbene uguale sia la gioia del Signore per la fatica di ciascuno dei due, cioè di quello che ha raddoppiato i cinque talenti e di quello che ne ha raddoppiato due - maggiore è il premio che si deve a colui che più ha trafficato col denaro del padrone. Per questo l’Apostolo dice: "Onora i presbiteri, quelli che sono veramente presbiteri, e soprattutto coloro che s’affaticano nella parola di Dio (1Tm 5,17). E da quanto osa dire il servo malvagio: «Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», comprendiamo che il Signore accetta anche la vita onesta dei pagani e dei filosofi, e che in un modo accoglie coloro che hanno agito giustamente e in un altro coloro che hanno agito ingiustamente, e che infine, paragonandoli con quelli che hanno seguito la legge naturale, vengono condannati coloro che violano la legge scritta.

       "Poiché a chi ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere" (Mt 25,29). Molti, pur essendo per natura sapienti e avendo un ingegno acuto, se però sono stati negligenti e con la pigrizia hanno corrotto la loro naturale ricchezza, a confronto di chi invece è un poco più tardo, ma con il lavoro e l’industria ha compensato i minori doni che ha ricevuto, perderanno i loro beni di natura e vedranno che il premio loro promesso sarà dato agli altri. Possiamo capire queste parole anche così: chi ha fede ed è animato da buona volontà nel Signore, riceverà dal giusto Giudice, anche se per la sua fragilità umana avrà accumulato minor numero di opere buone. Chi invece non avrà avuto fede, perderà anche le altre virtù che credeva di possedere per natura. Efficacemente dice che a costui «sarà tolto anche quello che crede di avere». Infatti, anche tutto ciò che non appartiene alla fede in Cristo, non deve essere attribuito a chi male ne ha usato, ma a colui che ha dato anche al cattivo servo i beni naturali.

       "E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, dove sarà pianto e stridor di denti" (Mt 25,30). Il Signore è la luce; chi è gettato fuori, lontano da lui, manca della vera luce.

       Girolamo, In Matth. IV, 22, 14-30


2. Parabola dei talenti

Son stato simile al cattivo servo
Che nulla ha tratto dai talenti confidatigli;
Anzi l’ho persino superato,
Perché ho perduto il dono della grazia.

Non ho fatto raddoppiare il tuo talento,
Né quadruplicare i due, né decuplicare i cinque,
Per cui regno completamente
Sulle dieci cittadelle del sensibile.

Ma ho sotterrato l’unico (talento),
Nel velame dei vizi ravvolgendolo;
Non ho posto il tuo denaro in banca,
Per darti modo di averne l’interesse,
(Non ho portato) cioè la parola del Comandamento
Alle orecchie dell’essere pensante,
Che son la banca spirituale
Della sapienza del Pane di Vita.

Ecco perché io mi spetto
D’esser punito e gettato nelle tenebre,
Finché Tu venga a richiedere il talento,
Che m’hai concesso alla Fontana sacra.

Ma a Te, Salvatore della mia anima,
Piangendo, voglio rivolgere queste parole:
«Poiché m’è dato ancor di fare il bene,
Dammi la grazia di piacerTi per suo mezzo».

Ascolterò così la (sentenza) gioiosa
Come il servo fedele:
«Entra nella casa celeste
Nella gioia del tuo Signore!».

       Nerses Snorhali, Jesus, 694-700


XXXIV Domenica: Solennità di Cristo Re

74 Letture:
    
Ez 34,11-12 Ez 34,15-17
     1Co 15,20-26 1Co 15,28
     Mt 25,31-46

1. Nell’amore dei poveri costruiamo il nostro eterno futuro

       "Io ho avuto fame, ho avuto sete, ero forestiero e nudo, e infermo e carcerato" (Mt 25,35). "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi (miei fratelli), l’avete fatto a me" (v. 40). Per cui, "venite", dice, "benedetti del Padre mio" (v. 34). Che cosa impariamo da queste cose? Che la benedizione e il più grande bene sono riposti nello zelo e nell’osservanza dei precetti; la maledizione e il massimo dei mali derivano dall’accidia e dal disprezzo dei comandamenti. Abbracciamo allora la prima e fuggiamo questa seconda, finché ci è possibile, affinché delle due noi possiamo avere quella che desideriamo. Infatti, in quello a cui con grande alacrità d’animo ci saremo inclinati, noi saremo stabiliti. Per la qual cosa, il Signore della benedizione, che parimenti accetterà da noi ciò che per sollecitudine e per dovere avremo fatto nei confronti dei poveri, come fatto a lui, rendiamocelo benevolo e costringiamolo almeno in questo tempo in cui a noi, mentre viviamo, è data la grande possibilità di osservare il comandamento; e sono molti che mancano del necessario, molti che sono carenti nello stesso corpo, logorati e consumati dalla stessa violenza del male. Cosicché, noi in questa cosa, cioè, per dirla più ampiamente, poniamo più cura e diligenza nel curare coloro che sono colpiti da gravissimo morbo, per conseguire quel magnifico premio promesso... (Cosa dirò forse degli angeli) quando lo stesso Signore degli angeli, lo stesso re della celeste beatitudine si è fatto uomo per te, e queste sordide e abiette spoglie della carne cinse a sé, unitamente all’anima che di esse era rivestita, affinché col suo contatto egli curasse le tue infermità? Tu invece, che sei della stessa natura di chi è ammalato, fuggi uomini di quel genere. Non ti piaccia, fratello, te ne prego, far tuo il cattivo proposito. Considera chi sei, e di chi ti interessi: uomo (sei) soprattutto, tra gli uomini, che nulla hai di proprio in te e nulla di estraneo alla natura comune. Non compromettere le cose future. Mentre infatti condanni la passione grande nel corpo altrui, pronunci una incerta sentenza di tutta la natura. Di quella natura, poi, anche tu sei partecipe, come tutti gli altri. Per la quale cosa, si decida come di cosa comune...

       Che cosa dobbiamo fare, perché non sembri che noi pecchiamo contro la legge di natura? È sufficiente che deploriamo le loro passioni e che con la preghiera togliamo via la malattia e ci commuoviamo al suo stesso ricordo? O non si richiede che, con dei fatti mostriamo verso di essi la misericordia e la benevolenza? È proprio così. Infatti, il rapporto che sussiste tra le cose vere e le pitture appena abbozzate, è quello che c’è tra le parole separate dalle opere. Dice infatti il Signore che la salvezza non sta nelle parole, ma nel compiere le opere della salvezza. Per cui, quello che c’è comandato per causa di essi, occorre che noi lo facciamo per lui... "Via, lontano da me, nel fuoco eterno: perch‚ ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli, non l’avete fatto a me" (Mt 25,41 Mt 25,45).

       Se infatti pensassero di conseguire tali cose in quel modo, non arriverebbero mai a subire quella sentenza, allontanando da sé coloro che soffrono, né stimerebbero contagio per la nostra vita l’impegno per gli sventurati. Per cui, se consideriamo che colui che promise è fedele, ottemperiamo ai suoi comandi, senza dei quali non possiamo essere degni delle sue promesse. Il forestiero, il nudo, l’affamato, il malato, il carcerato, e tutto quello che ricorda il Vangelo, in questo misero ti viene posto dinanzi. Egli va errabondo e nudo e infermo, e a causa della povertà che consegue alla malattia, manca del necessario. Chi infatti non ha a casa di che sostentarsi, né d’altronde può guadagnare col lavoro, questi manca delle cose che le necessità della vita esigono. Per tale motivo, quindi, è schiavo perché legato dai vincoli della malattia. Pertanto, in ciò avrai adempiuto l’essenziale di tutti i comandamenti, e lo stesso Signore di tutte le cose, per quello che gli avrai prestato con benignità, avrai legato e obbligato a te (Pr 19,17). Perché dunque fai assegnamento su ciò che è la rovina della tua vita? Colui, infatti, che non vuole avere amico il Signore di tutte le cose, è a se stesso grandemente nemico. A quel modo, infatti, che viene realizzata l’osservanza dei comandamenti, viene liberato dalla crudeltà (del supplizio eterno) "Prendete" (dice) "il mio giogo su di voi" (Mt 11,29). Chiama giogo l’osservanza dei comandamenti, obbediamo a colui che comanda.

       Facciamoci giumento di Cristo, rivestendo i vincoli della carità. Non rifiutiamo questo giogo, non scuotiamolo, esso è soave e lieve. A chi si sottomette, non opprime il collo, ma lo accarezza. "Seminiamo in benedizione", dice l’Apostolo, "perché possiamo anche mietere nelle benedizioni" (2Co 9,6). Da un tale seme germinerà una spiga dai molti grani. Ampia è la messe dei comandamenti, sublimi sono le stirpi della benedizione. Vuoi capire a quale altezza si libra il rigoglio di tale progenie? Esse toccano gli stessi vertici del cielo. Tutto ciò che infatti in esse avrai portato, lo troverai al sicuro nei tesori del cielo. Non diffidare delle cose dette, non ritenere che sia da disprezzare la loro amicizia. Le loro mani certamente sono mutilate, ma non inidonee a recare aiuto. I piedi sono divenuti inutili, ma non vietano di correre a Dio. Vien meno la luce degli occhi, ma con l’anima scelgono quei beni che l’acutezza della vista non può fissare... Non c’è infatti chi non sappia, chi non consideri eccellente il premio prima nascosto che viene conferito umanamente e benignamente nelle altrui sventure. Poiché infatti le umane cose signoreggia l’una e medesima natura. E a nessuno è data certezza che a lui in perpetuo le cose saranno prospere e favorevoli. In tutta la vita, occorre ricordare quel precetto evangelico secondo il quale quanto vogliamo che gli uomini facciano a noi, noi lo facciamo loro. Perciò, finché puoi navigare tranquillamente, stendi la mano a colui che ha fatto naufragio; comune è il mare, comune la tempesta, comune il perturbamento dei flutti gli scogli che si nascondono sotto le onde, le sirti, gli inciampi, e tutte infine quelle molestie che alla navigazione di questa vita incutono un uguale timore a tutti i naviganti.

       Mentre sei integro, mentre con sicurezza attraversi il mare di questa vita, non trascurare inumanamente colui la cui nave andò a urtare. Chi può garantire, qui, che avrai sempre una felice navigazione? Non sei ancora pervenuto al porto della quiete (Ps 106,19). Non sei ancora stabilito fuori dal pericolo dei flutti. La vita non ti ha ancora collocato in luogo sicuro. Nel mare della vita sei ancora esposto alla tempesta. Quale ti mostrerai verso il naufrago, tali verso di te troverai coloro che insieme navigano.

       Gregorio di Nissa, Oratio II: De pauper. amandis


2. L’amore a Cristo nei poveri

       Niente infatti ha l’uomo di così divino, quanto il meritare bene dagli altri: sebbene quello (Dio) conferisca maggiori benefici, e questo (l’uomo) minori, l’uno e l’altro, io credo, in ragione delle proprie forze. Quegli formò l’uomo, e di nuovo lo raccoglie una volta che si sia dissolto: tu non disprezzare il caduto. Egli ne ha avuto compassione nelle cose di ben altro peso, quando a lui dette, oltre al resto, la Legge, i profeti e ancor prima la legge naturale non scritta, censore delle cose che vengono fatte, riprendendo, ammonendo, castigando; infine, donando se stesso per la redenzione del mondo...

       Colui che naviga, è vicino al naufragio, e lo è tanto di più, quanto più naviga con audacia; e chi coltiva il corpo, è più vicino ai mali del corpo, tanto di più, quanto più cammina altezzoso, e non si accorge di coloro che giacciono davanti a lui. Mentre viaggi col vento favorevole, porgi aiuto a colui che fa naufragio: mentre sei sano e ricco, soccorri chi è ridotto male. Non aspettare di apprendere per diretta esperienza quanto male sia l’inumanità, e quale bene mettere a disposizione dei poveri le proprie sostanze. Non voler far esperienza di Dio che stende la mano contro coloro che alzano il collo, e passano oltre (senza curarsi) dei poveri. Nelle disgrazie altrui impara questo, a chi ha bisogno da’ qualcosa: non è poco infatti per chi manca di tutto, anzi neppure allo stesso Dio è impari considerare le rispettive forze. Che tu abbia al posto della più grande dignità la sollecitudine dell’animo: se non hai nulla, versa lacrime. Grande sollievo è la compassione per chi ha l’animo colpito da grande calamità. . .

       O tu ritieni che la benevolenza non sia per te necessaria ma libera? che sia consiglio, anziché norma? Anche questo in sommo grado vorrei e stimerei, ma mi spaventa quella mano sinistra, e i capri, e gli anatemi lanciati da chi li ha collocati lì; non perché saccheggiarono i templi, o commisero adulterio, o fecero altra cosa di quelle vietate con sanzione, ma perché non si curarono minimamente di Cristo nei poveri.

       Di conseguenza, se ritenete di dovermi ascoltare in qualcosa, servi di Cristo, e fratelli, e coeredi, visitiamo Cristo, tutto il tempo che ci è possibile, curiamo Cristo, nutriamo Cristo, vestiamo Cristo, riuniamo Cristo, onoriamo Cristo, non solo alla mensa, come qualcuno, né con gli unguenti, come Maria, né soltanto al sepolcro, come Giuseppe d’Arimatea, né con le cose che riguardano la sepoltura, come quel Nicodemo che amava Cristo solo a metà, né infine con l’oro, l’incenso e la mirra come i Magi prima ancora di tutti coloro che abbiamo nominato, ma poiché da tutti il Signore esige la misericordia e non il sacrificio, e la cui misericordia supera le migliaia di pingui agnelli, e questa portiamogli attraverso i poveri prostrati a terra in questo giorno, affinché quando saremo usciti di qui, essi ci ricevano nei tabernacoli eterni nello stesso Cristo Signore nostro, a cui è la gloria nei secoli. Amen.

       Gregorio Nazianzeno, Oratio XIV de pauper. amore, 27 s., 39 s.


3. Quanto avete fatto ad uno dei più piccoli...

       Avevamo una libera intelligenza per capire che in ogni povero era Cristo affamato che veniva nutrito, o dissetato quando ardeva dalla sete, o ricoverato quand’era forestiero, o vestito allorché era nudo, o visitato mentre era malato, o consolato con la nostra parola quand’era in carcere. Ma le parole che seguono: "Quanto avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me" (Mt 25,40), non mi sembra siano rivolte genericamente a tutti i poveri, ma a coloro che sono poveri in spirito, a coloro ai quali, indicandoli con la mano, ha detto: "Ecco, mia madre e i miei fratelli sono coloro che fanno la volontà del Padre mio" (Mc 3,34-35 Lc 8,21).

       Girolamo, In Matth. IV, 22, 40




Anno B



I DOMENICA DI AVVENTO

75 Letture:
    
Is 63,16-17 Is 64,1 Is 64,3-8
     1Co 1,3-9
     Mc 13,33-37

1. La vigilanza cristiana

       "State attenti! Vegliate e pregate, perché non sapete quando verrà il momento" (Mc 13,33-34).

       «È come un uomo che, partito per un lungo viaggio, ha lasciato la sua casa e ha conferito ai suoi servi l’autorità di compiere le diverse mansioni, e ordini al guardiano di vigilare. Chiaramente rivela il perché delle parole: «Riguardo poi a quel giorno o a quell’ora nessuno sa nulla, né gli angeli che sono in cielo, né il Figlio, ma solo il Padre". Non giova agli apostoli saperlo affinché, stando nell’incertezza, credano con assidua attesa che stia sempre per venire quel giorno di cui ignorano il momento dell’arrivo. Inoltre non ha detto "noi non sappiamo" in quale ora verrà il Signore, ma "voi non sapete" (Mt 24,42). Coll’esempio del padrone di casa spiega con maggiore chiarezza perché taccia sul giorno della fine. Questo è quanto dice:

       "Vigilate dunque; non sapete infatti quando viene il padrone di casa, se di sera, se a mezzanotte, se al canto del gallo, se di mattina; questo affinché, venendo all’improvviso, non vi trovi a dormire (Mc 13,35-36).

       «L’uomo - che è partito per un viaggio e ha lasciato la sua casa, - non v’è dubbio che sia Cristo, il quale, ascendendo vittorioso al Padre dopo la risurrezione, ha abbandonato col suo corpo la Chiesa, che tuttavia mai è abbandonata dalla sua divina presenza poiché egli rimane in lei per tutti i giorni fino alla fine dei secoli. Il luogo proprio della carne è infatti la terra, ed essa viene guidata come in un paese straniero quando è condotta e alloggiata in cielo dal nostro Redentore» (Mt 28,20).

       Egli ha dato ai suoi servi l’autorità per ogni mansione, in quanto ha donato ai suoi fedeli, con la grazia concessa dello Spirito Santo, la facoltà di compiere opere buone. Ha ordinato poi al guardiano di vegliare, in quanto ha stabilito che incombe alla categoria dei pastori e delle guide spirituali di prendersi cura con abile impegno della Chiesa loro affidata.

       "Ciò che dico a voi, lo dico a tutti: Vigilate!" (Mc 13,37).

       Non solo agli apostoli e ai loro successori, che sono le guide della Chiesa, ma anche a tutti noi ha ordinato di vigilare. Ha ordinato a tutti noi con insistenza di custodire le porte dei nostri cuori, per evitare che in essi irrompa l’antico nemico con le sue malvagie suggestioni. Ed affinché il Signore, venendo, non ci trovi addormentati, dobbiamo tutti stare assiduamente in guardia. Ciascuno infatti renderà a Dio ragione di se stesso.

       «Ma veglia chi tiene aperti gli occhi dello spirito per guardare la vera luce; veglia chi conserva bene operando ciò in cui crede; veglia chi respinge da sé le tenebre del torpore e della negligenza. Per questo Paolo dice: Vegliate giusti e non peccate; e aggiunge È ormai il momento di destarci dal sonno» (1Co 15,34 Rm 13,11).

       Beda il Venerabile, In Evang. Marc., 4, 13, 33-37


2. Ascoltare vigilanti la parola di Dio

       Veglia, quindi, in questa notte, tanto il mondo ostile, quanto il mondo riconciliato. Questo, veglia per lodare, liberato, il proprio medico; quello, condannato, per abbandonarsi alla bestemmia. Veglia questo, fervido e luminoso nei pii pensieri; quello digrignando i denti e struggendosi per la rabbia. Finalmente, a questo la carità, a quello l’iniquità; a questo il cristiano vigore, a quello il diabolico livore, mai permetterebbero di dormire in questa solennità.

       Persino dai nostri incoscienti nemici, veniamo dunque ammoniti circa il modo di vegliare per noi, se, a nostro vantaggio, vegliano financo coloro che ci invidiano.

       Questa notte, nondimeno, di tutti coloro che in alcun modo sono segnati nel nome di Cristo, tanti per dolore, molti per pudore, alcuni, poi, che, avvicinandosi alla fede, già più non dormono per timore di Dio. In diversi modi li eccita invero questa solennità.

       Come dunque deve vegliare, nella gioia, l’amico di Cristo, allorché veglia, nel dolore, persino il nemico? Quanto conveniente, per chi è entrato a far parte di questa grande casa, è il vegliare in questa sua grande festività, allorché già veglia chi si dispone ad entrarvi!

       Vegliamo, dunque, e preghiamo, per solennizzare dentro e fuori questa vigilia. Dio ci parli nelle sue letture; a Dio parliamo nelle nostre orazioni. Se ascoltiamo obbedienti le sue parole, in noi abita colui che preghiamo.

       Agostino, Sermo 219, passim


3. Il giudizio di Dio è alle porte

       Se un uomo ti indicasse sulla terra un luogo sicurissimo per custodire il tuo tesoro, non esiteresti a seguirlo anche se ti conducesse in un deserto, e là tu deporresti questo tesoro con piena tranquillità. Ebbene, non gli uomini, ma Dio stesso ti offre questa sicurezza, non in un deserto, ma in cielo; eppure tu non vuoi ascoltarlo. Quand’anche i tuoi beni fossero qui in terra completamente al sicuro, non per questo cesseresti di vivere nell’inquietudine. Potresti infatti non perdere le tue ricchezze, ma non riusciresti certo a liberarti dalla preoccupazione e dal timore di perderle. Ma quando saranno custodite lassù, non avrai niente da temere. E non solo il tuo oro sarà perfettamente al sicuro, ma darà frutti. Il tuo denaro sarà cosi, nello stesso tempo, un tesoro e una semente. Anzi, sarà qualcosa di più ancora. La semente non dura sempre: mentre il tuo oro, così moltiplicato, durerà eternamente. Il tesoro che tu sotterri quaggiù non germoglia né fruttifica; mentre, se lo depositi in cielo, produce frutti che non periranno mai.

       Se ora vieni a dirmi che occorre aspettare molto tempo, se lamenti il fatto che la ricompensa che riceverai non ti giungerà subito, ebbene io posso ben mostrarti e dirti quali sono i vantaggi che otterrai già in questo mondo se depositerai in cielo le tue ricchezze. Ma, senza soffermarmi su questo, mi sforzerò di convincerti dell’inutilità e della falsità del pretesto che adduci, servendomi proprio delle condizioni in cui viviamo in terra.

       Quante cose, infatti, tu cerchi di procurarti in questa vita, senza aver mai la possibilità di goderne! Se qualcuno ti accusasse per questo motivo, gli risponderesti che ti consideri sufficientemente consolato delle tue fatiche, pensando ai figli e ai nipoti. Se, nella più avanzata vecchiaia, ti metti a costruire splendidi palazzi, che spesso la morte ti impedisce di terminare, se pianti alberi che daranno frutti solo molti anni dopo la tua morte, se acquisti poderi e un’eredità di cui diverrai proprietario solo dopo molto tempo, se, insomma, ti procuri altri simili beni di cui non potrai mai godere i frutti: ebbene, tutto questo lo fai per te, oppure per coloro che saranno vivi dopo di te? Non è dunque una completa follia non turbarsi in questi casi per il trascorrere del tempo quando esso è la causa che ci priverà della ricompensa delle nostre fatiche, e d’altra parte scoraggiarci e intorpidirci quando si tratta del cielo, per un rinvio che però servirà ad aumentare il tuo guadagno senza che i tuoi beni passino in mano d’altri e servirà a farti godere personalmente tutti i doni che ricevi?

       Pensa, inoltre, che questo rinvio non è affatto così lungo. Il giudizio di Dio è alle porte e non siamo certi che la fine di tutte le cose non venga nell’epoca in cui viviamo; non possiamo essere sicuri che non giunga tra poco il terribile giorno in cui vedremo quel tribunale così temibile e severo. Numerosi segni si sono già compiuti: il Vangelo è già stato annunziato a quasi tutta la terra, e le guerre, i terremoti, le carestie sono arrivati: quel giorno, perciò, non può essere molto lontano. Tu dici di non vedere questi segni: ebbene, proprio questa tua incredulità è il segno più grande. Nessuno, al tempo di Noè, vide segni premonitori del diluvio, che portò la morte in tutto il mondo: mentre gli uomini non pensavano che a divertirsi, a banchettare, a sposarsi e a fare tutte le cose che erano soliti compiere, di colpo furono sorpresi da quella spaventosa inondazione, che fece giustizia di tutti i peccati. La stessa cosa accadde agli abitanti di Sodoma: mentre vivevano tra le delizie e non avevano il minimo sospetto di quanto stava per capitare loro, proprio in quel momento furono arsi vivi dai fulmini infocati che piombarono su loro.

       Ricordandoci di questi esempi, teniamoci sempre pronti a partire da questa vita. Anche se il giorno della fine comune non fosse così prossimo, il giorno della morte di ciascuno di noi, vecchi e giovani, è sempre alle porte. In quel momento non sarà più possibile andare a comprar l’olio per accendere le nostre lampade e, nonostante le nostre preghiere, non potremo ottenere il perdono, anche se intercedessero per noi Abramo o Noè, Giobbe o Daniele (cf. Mt 25,1ss). Finché, dunque, ci resta un po’ di tempo, dobbiamo usare in anticipo e copiosamente la facoltà di parlare e di chiedere grazie, dobbiamo procurarci olio abbondante e mettere tutto in deposito in cielo. Se faremo così, nel momento opportuno e quando ne avremo estremo bisogno, ritroveremo e potremo godere di tutti i beni; per la grazia e la misericordia di nostro Signore Gesù Cristo.

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 20, 5 s.




II DOMENICA DI AVVENTO

76 Letture:
    
Is 40,1-5 Is 40,9-11
     2P 3,8-14
     Mc 1,1-8


1. Il Verbo di Dio accolto dal cuore umano

       Un tempo "la parola di Dio veniva rivolta a Geremia, figlio di Elchia, membro della famiglia sacerdotale" (Jr 1,1), all’epoca di questo o di quell’altro re di Giuda; mentre ora «a Giovanni figlio di Zaccaria che si rivolge la parola di Dio», quella parola che non era mai stata rivolta ai profeti «nel deserto». Ma siccome «i figli della donna abbandonata» avrebbero dovuto abbracciare la fede «in numero maggiore dei figli della donna sposata» (Ga 4,27 Is 54,1), è per questa ragione che «la parola di Dio fu rivolta a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto».

       Osserva nello stesso tempo che il significato è più forte se si intende «deserto» nel senso spirituale, e non in quello letterale puro e semplice. Infatti colui che predica «nel deserto» spreca la sua voce invano, in quanto non c’è nessuno che lo sente parlare. Il precursore di Cristo, "la voce di colui che grida nel deserto", predica dunque nel deserto dell’anima che non ha pace. E non solo allora, ma anche oggi "è una lampada ardente e brillante" (Jn 5,35), che viene per prima "e annunzia il battesimo della penitenza per la remissione dei peccati". Poi viene "la luce vera" (Jn 1,9), quando la lampada stessa dice: "è necessario che egli cresca e io diminuisca" (Jn 3,30). La parola di Dio è proferita dunque "nel deserto, e si diffonde in tutta la regione circostante il Giordano". Quali altri luoghi avrebbe dovuto infatti percorrere il Battista, se non i dintorni del Giordano, per spingere al lavacro dell’acqua tutti coloro che volevano fare penitenza?...

       Troviamo nel profeta Isaia il passo dell’Antico Testamento or ora citato: "Voce di colui che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri" (Is 40,3). Il Signore vuol trovare in voi una strada per poter entrare nelle vostre anime e compiere il suo viaggio: preparate dunque per lui la strada di cui sta scritto: «raddrizzate i suoi sentieri». «Voce di colui che grida nel deserto». C’è dunque una voce che grida: "Preparate la via". Dapprima infatti è la voce che giunge alle orecchie; poi, dopo la voce, o meglio insieme con la voce, è la parola che penetra nell’udito. È in questo senso che Giovanni ha annunziato il Cristo.

       Vediamo dunque ciò che annunzia la voce a proposito della parola. Essa dice: «Preparate la via al Signore». Quale strada dobbiamo noi preparare al Signore? Si tratta di una strada materiale? La parola di Dio può forse seguire una simile strada? O non bisogna invece preparare al Signore una via interiore, e disporre nel nostro cuore delle strade dritte e spianate? È attraverso questa via che è entrato il Verbo di Dio, che prende il suo posto nel cuore umano capace di accoglierlo.

       Grande è il cuore dell’uomo, spazioso, capace, sempreché sia puro. Vuoi conoscere la sua grandezza e la sua ampiezza? Osserva l’estensione delle conoscenze divine che esso contiene. È esso che dice: "Egli mi ha dato una vera conoscenza di ciò che è; egli mi ha fatto conoscere la struttura del mondo, le proprietà degli elementi, l’inizio, la fine e lo svolgersi dei tempi, il cambiamento delle stagioni, la successione dei mesi, il ciclo degli anni, la posizione degli astri, la natura degli animali, la furia delle belve, la violenza degli spiriti e i pensieri degli uomini, le varietà degli alberi e la potenza delle radici" (Sg 7,17-20). Vedi dunque che non è affatto piccolo il cuore dell’uomo che abbraccia tutte queste cose. Devi intendere questa grandezza, non secondo le sue dimensioni fisiche, ma secondo la potenza del suo pensiero, che è capace di abbracciare la conoscenza di tante verità.

       Ma per portare gli uomini semplici a riconoscere la grandezza del cuore umano, prenderò qualche esempio dalla vita di tutti i giorni. Per quanto numerose siano le città che abbiamo visitato, noi le conserviamo tutte nel nostro spirito; le loro caratteristiche, la posizione delle piazze, delle mura, degli edifici restano nel nostro cuore. Conserviamo la strada che abbiamo percorso, disegnata e tracciata nella nostra memoria; serbiamo, chiuso nel nostro silenzioso pensiero, il mare che abbiamo attraversato. Come vi ho detto, non è piccolo il cuore dell’uomo se può contenere tanto. E se non è piccolo, dato che contiene tante cose, si può benissimo in esso preparare il cammino del Signore, e tracciare un dritto sentiero in modo che il Verbo e la Sapienza di Dio possano entrarvi.

       Preparate una strada al Signore osservando una condotta onesta, spianate i sentieri con opere degne, in modo che il Verbo di Dio cammini in voi senza incontrare ostacoli e vi dia la conoscenza dei suoi misteri e del suo avvento, egli "cui appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen" (1P 4,11).

       Origene, Evang. Luc., 21, 2, 2-7


2. Raddrizzare i sentieri dell’anima

       Frattanto ascoltiamo tuttavia ciò che ci grida la voce del Verbo affinché un giorno possiamo progredire dalla voce al Verbo stesso: "Preparate la via del Signore", dice, "raddrizzate i suoi sentieri" (Mc 1,3 Is 40,3). Prepara la via colui che corregge la sua vita; raddrizza il sentiero chi mena un genere di vita più stretto. Chiaramente una vita corretta è la via dritta attraverso la quale il Signore potrà venire a noi, lui che in ciò ci previene. Giacché‚ è il Signore che dirige i passi dell’uomo (Ps 37,23); per questo fatto, la sua via gli piace talmente che la prende volentieri per venire all’uomo e al cui fianco camminare costantemente. Se lui che è la via, verità e vita (Jn 14,6) non prepara lui stesso il suo avvento verso di noi è impensabile poter correggere la nostra via secondo la regola della verità e tantomeno quindi poterla indirizzare verso la vita eterna. Invero, come un giovane potrà correggere la sua via se non custodendo le parole (Ps 119,9) e seguendo le orme di Colui che si è fatto egli stesso via per la quale andremo a lui? O Signore, possano le mie vie essere dirette in modo da custodire le tue vie (Ps 119,5); acciocché io custodisca, a causa delle parole delle tue labbra, anche le vie dure! Sebbene esse appaiano dure alla carne, la quale è inferma, appaiono soavi e belle allo spirito, se è pronto. Le sue vie, dice la Scrittura, sono deliziose e tutti i suoi sentieri sono pacifici (Pr 3,17). E le vie della Sapienza non solo sono pacificate, ma pacifiche; poiché quando il Signore si compiace della via seguita da un uomo, riconcila a sé anche i suoi nemici (Pr 16,7). Se Israele, dice il Signore, avesse camminato per le mie vie, avrei annientato i suoi nemici e avrei portato la mia mano contro i suoi vessatori (Ps 81,15). Perché infatti l’afflizione e l’infelicità sono sulle loro vie, se non perché essi hanno misconosciuto la via della pace? (Ps 14,3).

       Guerric d’Igny, Sermo IV de Adv.


3. Il battesimo di Giovanni e quello di Gesù

       Il battesimo annunziato da Giovanni già allora sollevò una disputa proposta dallo stesso Signore ai farisei: se fosse un battesimo celeste oppure terreno, ma sul quale essi non valsero a dare una risposta, poiché non poterono né capire, né credere, noi invece, per quanto siamo di poca fede, ed abbiamo poca intelligenza: possiamo giudicare che quel battesimo fosse divino, in verità, tuttavia, per comando e non per potere, poiché leggiamo che Giovanni fu inviato dal Signore per questo ministero, pur essendo uomo secondo la condizione di tutti gli altri.

       Niente, pertanto, di celeste amministrava, ma in luogo dei celesti amministrava, essendo, cioè, preposto alla penitenza, che è nella volontà dell’uomo. Infine, i dottori della legge e i farisei, che non vollero credere, non vollero nemmeno entrare nello spirito di penitenza.

       Che se la penitenza è cosa umana è necessario anche che il battesimo sia stato di quella stessa condizione: oppure darebbe anche lo Spirito Santo e la remissione dei peccati se fosse stato celeste. Ma né i peccati rimette n‚ perdona all’anima, se non Dio.

       Anche lo stesso Signore disse che non sarebbe disceso lo Spirito se egli stesso non ritornava al Padre. Così il discepolo [Giovanni] non potrebbe amministrare [il Battesimo] poiché il Signore non lo conferiva ancora.

       Inoltre, negli "Atti degli Apostoli" troviamo che poiché avevano il battesimo di Giovanni non avevano ricevuto lo Spirito Santo che neppure conoscevano.

       Dunque, non era celeste, ciò che non conferiva doni celesti, e quello che di celeste era presente in Giovanni, come lo spirito di profezia, dopo il conferimento sul Signore di tutto lo Spirito, venne meno fino a tal punto, che colui che aveva annunziato alla folla [nel Giordano], colui che aveva indicato che veniva, in seguito, se fosse egli stesso, avrebbe cercato di saperlo. Si trattava, infatti, di un battesimo di penitenza come preparazione della remissione e della santificazione che sarebbero venute col Cristo. Infatti, ciò che leggiamo: "Predicava un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati" (Mt 11,10) era annunciato per la futura remissione, perché la penitenza precede, la remissione segue, e questo significa preparare la via, chi, invero, prepara non perfeziona egli stesso ciò, ma lo dà da perfezionare agli altri. Egli stesso proclama che non sono suoi i doni celesti ma del Cristo, quando dice: Chi ha origine dalla terra, parla di cose terrene, chi viene dall’alto è superiore a tutti (Is 3,31) parimenti battezzarsi solo nella penitenza, [è sapere] che verrà qualcuno fra non molto che battezzerà nello spirito e nel fuoco, poiché la vera e duratura fede sarà battezzata nell’acqua per la salvezza, ma la fede simulata e debole è battezzata neI fuoco per il giudizio.

       Tertulliano, De Baptismo, 10, 1-7





Lezionario "I Padri vivi" 73