Lezionario "I Padri vivi" 130

XXV DOMENICA

130 Letture:
    
Sg 2,12 Sg 2,17-20
     Jc 3,16-4,3
     Mc 9,29-36

B1. «Imparate da me che sono mite»

       "Partiti di là, si aggiravano per la Galilea, e non voleva che alcuno lo sapesse. Ammaestrava frattanto i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, ma, ucciso, dopo tre giorni risorgerà»" (Mc 9,30-31).

       «Il Signore unisce sempre alle cose liete le tristi, affinché, quando queste giungeranno, non atterriscano gli apostoli, ma siano accolte da anime pronte. Così li rattrista dicendo che dovrà essere ucciso, ma li fa lieti col dire che nel terzo giorno risorgerà» (Girolamo).

       "Essi però non comprendevano quel discorso e temevano di interrogarlo" (Mc 9,32).

       Questa ignoranza dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza del loro intelletto, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore; questi uomini ancora carnali e ignari del mistero della croce, non avevano la forza di accettare che colui che essi avevano riconosciuto essere vero Dio tra poco sarebbe morto. Ed essendo abituati a sentirlo parlare per parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, tentavano di dare un significato figurato anche a quanto egli diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione.

       "E giunsero a Cafarnao. Entrati in casa chiese loro: «Di che cosa discutevate per via?». Ma essi tacevano. Infatti, mentre erano per strada discutevano tra loro chi fosse il più grande"(Mc 9,33-34).

       Sembra che la discussione fra i discepoli sul primato fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che ivi qualcosa in segreto era stato dato loro. Ma erano convinti già da prima, come narra Matteo (Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del regno dei cieli, e che la Chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome; perciò concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri, o che Pietro fosse superiore a tutti.

       "E sedutosi, chiamò i dodici e disse loro: «Se qualcuno vuole essere il primo, sarà l’ultimo di tutti e il servo di tutti». E preso un fanciullo lo collocò in mezzo a loro, e presolo tra le braccia, disse loro: «Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel mio nome, riceve me...»"(Mc 9,35-37).

       «Il Signore, vedendo i discepoli pensierosi, cerca di rettificare il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà, e fa loro intendere che non si deve ricercare di essere i primi, così dapprima li esorta col semplice comandamento dell’umiltà, e li ammaestra subito dopo con l’esempio dell’innocenza del fanciullo. Dicendo infatti: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli nel nome mio, riceve me", o mostra semplicemente che i poveri di Cristo debbono essere ricevuti da coloro che vogliono essere più grandi per rendere così un atto d’onore al Signore, oppure li esorta, a motivo della loro malizia, ad essere anche essi come i fanciulli, cioè, come fanno i fanciulli nella loro età, a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia, e la devozione senza ira» (Girolamo). Prendendo poi in braccio il fanciullo, fa intendere che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili, e che, quando essi avranno messo in pratica il suo comandamento: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29), solo allora potranno giustamente gloriarsene e dire: "La sua mano sinistra è sotto la mia testa e la sua destra mi abbraccerà" (Ct 2,6). E dopo aver detto: «Chiunque di voi riceverà uno di questi fanciulli», giustamente aggiunge: «nel mio nome», in modo che anch’essi sappiano di poter raggiungere, nel nome di Cristo e con l’aiuto della ragione, quello splendore della virtù che il fanciullo possiede per natura. Ma poiché egli insegnava ad accogliere se stesso nei fanciulli come si accoglie il capo accogliendo le membra, affinché i discepoli non avessero a fermarsi solo all’apparenza, aggiunge:

       ...«E chiunque riceve me, non riceve me, ma Colui che mi ha mandato»,

       volendo così convincere gli astanti che egli era tale e quale il Padre.

       Beda il Venerabile, In Evang. Marc., 3, 9, 28-37


2. Umiltà e grandezza del Verbo incarnato

       Non è ovviamente, senza motivo il fatto che i tre magi, condotti dallo splendore di una nuova stella ad adorare Gesù, non lo abbiano visto in procinto di comandare ai demoni, di risuscitare i morti, di ridare la vista ai ciechi, o la deambulazione agli storpi, o la parola ai muti; né in procinto di compiere qualche altro gesto rivelatore della potenza divina; no, videro un bimbo silenzioso, tranquillo, affidato alle cure di sua madre; in lui non appariva alcun segno esterno del suo potere, offrendo invece alla vista un solo grande prodigio: la sua umiltà. Così, lo spettacolo stesso di quel santo bambino al quale Dio, il Figlio di Dio, si era unito, impartiva all’occhio quell’insegnamento che più tardi doveva essere proclamato all’orecchio, e quanto non proferiva ancora il suono della sua voce, lo insegnava già il semplice fatto di guardarlo. Tutta la vittoria del Salvatore, infatti - vittoria che ha soggiogato il demonio e il mondo -, è iniziata dall’umiltà ed è stata consumata nell’umiltà. Egli ha inaugurato nella persecuzione i suoi giorni predestinati, e nella persecuzione li ha portati a termine; al bambino non è mancata la sofferenza, e a colui che era chiamato a soffrire non è mancata la dolcezza dell’infanzia; infatti, il Figlio unico di Dio ha accettato, con un unico atto di abbassamento della sua maestà, tanto di nascere volontariamente come uomo che di poter essere ucciso dagli uomini.

       Se dunque Dio onnipotente, per il privilegio della sua umiltà, ha reso buona la nostra causa sì perversa, e ha distrutto la morte e l’autore della morte (1Tm 1,10 He 2,14), non rifiutando quanto di sofferenze gli procuravano i suoi persecutori, sopportando anzi con suprema dolcezza e per obbedienza al Padre le crudeltà di coloro che si accanivano contro di lui; quanto noi stessi dovremmo essere umili, quanto pazienti, dal momento che, se qualche prova ci sopraggiunge, di certo mai la subiamo senza averla meritata! Chi si potrà vantare di avere il cuore puro o di essere esente da peccato? (Pr 20,9). E, come afferma san Giovanni: "Se diciamo di essere senza peccato, mentiamo e la verità non è in noi" (1Jn 1,8).

       Chi si troverà sì indenne da colpa che la giustizia non abbia niente da rimproverargli in lui, o che la misericordia non debba perdonargli? Per cui, o carissimi, tutta la pratica della sapienza cristiana non consiste né in abbondanza di parole, né in abilità nel discutere, né in appetiti di lode e di gloria, bensì nella sincera e volontaria umiltà che il Signore Gesù Cristo ha scelto e insegnato con ogni mezzo, dal seno materno fino al supplizio della croce. Infatti, un giorno che i suoi discepoli disputavano, come dice l’evangelista, per stabilire "chi, tra di loro dovesse essere il più grande nel regno dei cieli, egli chiamò a sé un bambino e postolo in mezzo a loro, disse: In verità, in verità vi dico, se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi dunque si farà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli" (Mt 18,1-4). Cristo ama l’infanzia che egli ha dapprima vissuto sia nell’anima che nel corpo. Cristo ama l’infanzia, maestra di umiltà, regola di innocenza, modello di dolcezza. Cristo ama l’infanzia e verso di lei orienta il modo di agire degli adulti; verso di lei riconduce gli anziani; egli attrae al suo esempio personale coloro che egli innalza al regno eterno.

       Se però vogliamo divenire capaci di capire come sia possibile pervenire ad una conversione così mirabile, e per quali trasformazioni si debba ritornare allo stato di infanzia, lasciamo che sia san Paolo ad istruirci, con le parole: "Non siate come bambini nel modo di giudicare, siate invece bambini in fatto di malizia" (1Co 14,20). Non si tratta perciò per noi di ritornare ai giochi dell’infanzia, né alle goffaggini degli inizi, bensì di riprendere da essa una cosa che si addice benissimo anche agli anni della maturità, cioè che svaniscano senza indugi le nostre agitazioni interiori e che ritroviamo rapidamente la pace, che non serbiamo alcun ricordo delle offese; non siamo minimamente avidi di dignità; che amiamo stare insieme, serbando una uguaglianza secondo natura. È un gran bene, infatti, non saper nuocere e non avere il gusto del male; infatti, far torto e restituire il torto, costituisce la sapienza di questo mondo; al contrario, non ricambiare a nessuno male per male (Rm 12,17), è quello spirito d’infanzia, pieno di uguaglianza, proprio di un’anima cristiana. È a questo tipo di somiglianza con i bambini che ci invita, o carissimi, il mistero della festa di oggi; ed è questa forma di umiltà che vi insegna il Salvatore bambino adorato dai magi. Per mostrare quale gloria egli prepara per i suoi imitatori, egli ha consacrato con il martirio dei neonati insieme a lui; nati a Betlemme come Cristo, essi sono stati in tal modo associati a lui sia nell’età che nella passione.

       Amino dunque i fedeli l’umiltà ed evitino ogni orgoglio; preferisca ciascuno a sé il proprio prossimo (1Co 4,6) e che "nessuno ricerchi il proprio interesse, bensì quello degli altri" (1Co 10,24); in tal modo, quando tutti saranno compenetrati da sentimenti di benevolenza, più non esisterà il virus dell’invidia: infatti, "chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato" (Lc 14,11). È quanto attesta lo stesso nostro Signore Gesù Cristo, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

       Leone Magno, Sermo VII, in Epiphan., 2-4


3. I danni dell’invidia e della gelosia per i singoli e per la Chiesa

       Molto si estende la rovina, molteplice e tristemente feconda, della gelosia. È la radice di tutti i mali, la sorgente delle stragi, il vivaio dei delitti, la sostanza delle colpe. Da lei sorge l’odio, da lei procede l’animosità. La gelosia infiamma l’avarizia, perché non può essere contento del suo, chi vede l’altro più ricco di sé. La gelosia eccita l’ambizione, se si vede qualcuno maggiormente onorato. Quando la gelosia accieca il nostro senso e soggioga al suo potere l’intimo della nostra mente, si disprezza il timore di Dio, si trascura l’insegnamento di Cristo, non si pensa al giorno del giudizio. La superbia si gonfia, la crudeltà si esacerba, la perfidia si erge, l’impazienza si scuote, furoreggia la discordia e ferve l’ira; e chi è in potere altrui non può più reggere e reprimere sé. Si rompe così il vincolo della pace donataci dal Signore, si viola la carità fraterna, si adultera la verità, si scinde l’unità, ci si getta nell’eresia e nello scisma, si disprezzano i sacerdoti, si invidiano i vescovi - lamentandosi di non essere stati nominati al posto loro - e si sdegna di riconoscere i propri superiori. Così ricalcitra e si ribella chi è superbo per l’invidia e pervertito dalla gelosia: chi è nemico, per animosità e livore, non dell’uomo, ma della sua dignità.

       Ma quale tignola per l’anima, quale muffa per il pensiero, quale ruggine per il cuore, invidiare in altrui, o la sua virtù, o la sua felicità, odiare cioè in lui o i suoi meriti, o i benefici divini, convertire in male proprio il bene altrui, esser tormentati dalla prosperità dei ricchi, far propria pena della gloria degli altri, e radunare quasi nel proprio tetto i propri carnefici, farsi cioè torturare dai propri pensieri e dai propri sensi, lasciarsi da loro lacerare con sofferenze profonde, strappare a brani l’intimo del cuore con le unghie del rancore. In tale stato non si può gustare cibo o apprezzare bevanda: e si sospira sempre, si geme e ci si duole; mai gli invidiosi depongono il loro livore, giorno e notte il loro petto è internamente lacerato senza posa. Gli altri mali hanno un termine e ogni sentimento delittuoso, una volta compiuto il delitto, si placa... ma l’invidia non ha termine: è un male sempre vivo, un peccato senza fine; più chi è oggetto di invidia avanza e ha successo, più l’invidioso arde in un maggiore fuoco di gelosia...

       Perciò il Signore, preoccupandosi di questo pericolo e che nessuno incappasse nel laccio mortale dell’invidia contro i fratelli, interrogato dai suoi discepoli chi tra loro fosse maggiore, disse: "Chi sarà il minimo fra tutti voi, costui sarà grande" (Lc 9,48).

       Cipriano di Cartagine, De zelo et livore, 6-7


4. Il vero significato di bambino per Gesù

       Anche noi, sicuramente, andiamo fieri di un termine che evoca nel bambino i beni più belli e più perfetti che possediamo in questa vita, quelli che siamo soliti definire "educazione e pedagogia". Per pedagogia intendiamo una buona formazione che porti qualitativamente dall’infanzia alla virtù. Il Signore, d’altronde, ci ha indicato chiaramente cosa bisognasse intendere per "bambino. Essendo sorta una disputa tra gli apostoli per stabilire chi di loro fosse il più grande, Gesù pose in mezzo a loro un bambino e disse: Chi si farà come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli" (Mt 18,1-4 Lc 9,46-48 Mc 9,33-37).

       Non si serve del termine "bambino" pensando all’età in cui si manca di intelligenza, come certuni hanno ritenuto. E quando dice: "Se non diverrete come questi bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 18,3), non bisogna interpretarlo scioccamente.

       In effetti, noi non siamo più dei bambini che camminano carponi, non ci trasciniamo più sul suolo come prima, alla maniera di serpenti rotolandoci con tutto il nostro corpo nei desideri irragionevoli; al contrario, tesi verso l’alto con la nostra intelligenza, separati dal mondo e dai peccati, toccando appena la terra con la punta del piede, pur apparendo presenti in questo mondo, conseguiamo la santa sapienza. Questa, però, sembra una follia (1Co 1,18-22) a coloro che sono orientati alla malvagità.

       Sono davvero dei bambini coloro che riconoscono Dio come unico Padre, semplici, piccolini, puri...

       Nei confronti di coloro che sono progrediti nel Logos, (il Signore) ha fatto una simile dichiarazione; ordina loro di disprezzare i fastidi di quaggiù e di fissare l’attenzione solamente sul Padre, imitando i bambini.

       Ecco perché dice loro subito dopo: "Non datevi pensiero per il domani, perché ad ogni giorno basta il suo affanno" (Mt 6,34). Egli intende prescrivere in tal modo di deporre le preoccupazioni di questa vita per affezionarsi al Padre solamente. E chi mette in pratica questo precetto è realmente un piccolino e un bambino, ad un tempo per Dio e per il mondo: questo lo considera nell’errore; quegli lo ama. Ma poiché, come dice la Scrittura, vi è un solo maestro, che è nei cieli (Mt 23,8), in accordo con ciò si potrà dire con ragione che tutti gli abitanti della terra sono suoi discepoli. E tale è in effetti la verità: la perfezione appartiene al Signore, che non cessa di insegnare, fintanto che noi conserviamo il carattere di bambini e di piccolini e non cessiamo di apprendere.

       Clemente di Alessandria, Paedagogus, V, 16, 1 - 17, 3




XXVI DOMENICA

131 Letture:
    
Nb 11,25-29
     Jc 5,1-6
     Mc 9,37-42 Mc 9,44 Mc 9,46-47

1. Ricevere un piccolo è accogliere Cristo

       "Giovanni gli rivolse la parola: «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demoni in nome tuo, ma non gliel’abbiamo permesso perché non è dei nostri»" (Mc 9,38).

       Giovanni, che amava con straordinario fervore il Signore e perciò era degno di essere riamato, riteneva dovesse essere privato del beneficio chi non ricopriva un ufficio. Ma viene ammaestrato che nessuno dev’essere allontanato dal bene che in parte possiede, ma che piuttosto dev’essere invitato a ciò che non ancora possiede. Continua infatti:

       "Ma Gesù gli disse: «Non gliel’impedite. Non c’è nessuno infatti che operi miracoli nel mio nome e possa subito dopo parlar male di me. Chi infatti non è contro di voi, è con voi»" (Mc 9,39-40).

       Lo stesso concetto ripete il dotto Apostolo: "Purché Cristo sia in ogni modo annunziato, per dispetto o con lealtà, io di questo godo e godrò!" (Ph 1,18). Ma anche se egli s’allieta per coloro che annunziano Cristo in modo non sincero e, poiché fanno di conseguenza talvolta miracoli per la salvezza degli altri, consiglia che non ne vengano impediti, tuttavia costoro per tali miracoli non possono sentirsi giustificati; anzi, in quel giorno in cui diranno: "Signore, Signore, non abbiamo forse profetato in nome tuo, e non abbiamo scacciato i demoni nel tuo nome, e nel tuo nome non abbiamo compiuto molti miracoli?", essi riceveranno questa risposta: "Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me voi che operate l’iniquità" (Mt 7,22-23). Perciò, per quanto riguarda gli eretici e i cattivi cattolici, dobbiamo solennemente respingere non quelle credenze e quei sacramenti che essi hanno in comune con noi e non contro di noi, ma la scissione che si oppone alla pace e alla verità, per la quale essi sono contrari a noi e non seguono in unità con noi il Signore.

       «Infatti, chiunque vi darà da bere un bicchier d’acqua in mio nome, perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41).

       Leggiamo nel profeta David (Ps 140,4) che molti, a titolo di scusa dei loro peccati, pretendono che siano giusti gli stimoli che li spingono a peccare, così che, mentre volontariamente peccano, s’illudano di farlo per necessità. Il Signore, che scruta il cuore e i reni, sarà capace di vedere i pensieri di ciascuno. Aveva detto: "Chiunque riceverà uno di questi fanciulli in mio nome, riceve me" (Mt 18,5). Qualcuno avrebbe potuto obiettare polemizzando: «Me lo vieta la povertà, la mia miseria mi impedisce di riceverlo», ma il Signore annulla anche questa scusa col suo lievissimo comandamento per indurci almeno a porgere con tutto il cuore un bicchier d’acqua, magari fredda, come dice Matteo (Mt 10,42). Dice un bicchiere d’acqua fredda, non calda, affinché non si cerchi in questo caso una scusa adducendo la miseria e la mancanza di legna per scaldarla.

       Beda il Venerabile, In Evang. Marc., 9, 38-43


2. Il figlio dell’ancella e il figlio della libera

       Due sono dunque i figli di Abrahamo, "uno dall’ancella e uno dalla libera" (Ga 4,22), tuttavia l’uno e l’altro figli di Abrahamo, quantunque non ambedue anche della libera. Per questo colui che nasce dall’ancella, non diventa ugualmente erede con il figlio della libera, tuttavia riceve doni e non viene rimandato a mani vuote; anch’egli riceve una benedizione, ma il "figlio della libera" riceve la promessa (Ga 4,23 Ga 4,30); anch’egli diventa "una nazione numerosa" (Gn 21,13 Gn 12,2), ma costui il popolo dell’adozione (Ga 4,31 1P 2,9-10).

       Spiritualmente, dunque, tutti quelli che mediante la fede giungono alla conoscenza di Dio, possono essere detti figli di Abrahamo; ma fra questi ve ne sono alcuni che aderiscono a Dio per amore, altri per la paura e il timore del giudizio futuro. Per cui anche l’apostolo Giovanni dice: "Chi teme non è perfetto nell’amore; l’amore perfetto scaccia il timore" (1Jn 4,18). Questi dunque, che è "perfetto nell’amore", nasce da Abrahamo, ed è "figlio della libera". Chi invece custodisce i comandamenti non per amore perfetto, ma per paura della pena futura e per timore dei supplizi, certo è anch’egli figlio di Abrahamo, anch’egli riceve doni, cioè la mercede della sua opera (poiché anche chi avrà dato soltanto un bicchiere di acqua fresca per riguardo al nome di discepolo, la sua mercede non verrà meno [ Mt 10,42 ]), tuttavia è inferiore a colui che è perfetto non nel timore servile, ma nella libertà dell’amore.

       Origene, Hom. in Genesim, 7, 4


3. Il verme che non morirà e il fuoco che non estinguerà

       Avverrà, avverrà certamente ciò che Dio ha detto, per mezzo del suo profeta, circa il supplizio eterno dei dannati: "Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà" (Is 66,24). È per rincalzare con più forza questa verità che il Signore Gesù -raffigurando con le membra che scandalizzano quegli uomini che amiamo come le nostre stesse membra - dice comandando di amputarle. "È bene per te entrare nella vita mutilato, piuttosto che con due mani andartene nella gehenna, nel fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il loro fuoco non si estingue" (Mc 9,43s). Così, parlando del piede, dice: "È bene per te entrare zoppo nella vita eterna, piuttosto che con due piedi essere mandato nella gehenna del fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue" (Mc 9,45s). E non altrimenti dice, parlando dell’occhio: "È bene per te entrare guercio nel regno di Dio, piuttosto che con due occhi essere mandato nella gehenna del fuoco, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue" (Mc 9,47s). Non esita a ripetere nello stesso passo per tre volte le stesse parole. Chi non è atterrito per questa ripetizione, e per la minaccia tanto veemente di quella pena uscita dalla bocca divina?

       Alcuni intendono che questi due elementi, il fuoco e il verme, siano pene dell’anima e non del corpo, e dicono anche che gli uomini, che saranno stati separati dal regno di Dio, saranno riarsi dal dolore dell’anima, che troppo tardi e senza frutto ormai si pente, e perciò pretendono che si può convenientemente usare il termine «fuoco» al posto di questo dolore bruciante, come nella frase dell’Apostolo: "Chi viene scandalizzato, che io non ne arda?" (2Co 11,29). E pensano che nello stesso modo si debba interpretare «verme»; infatti, come dicono, sta scritto: "Come la tignola consuma il vestito e il verme il legno, così la tristezza tormenta il cuore dell’uomo" (Pr 25,20). Coloro invece che non hanno dubbi sulla presenza, in quel supplizio, di pene sia dell’anima e del corpo, affermano che il corpo sarà bruciato dal fuoco e l’animo sarà roso quasi dal verme dell’afflizione. Quantunque questa affermazione sia più attendibile - è certamente assurdo infatti che ivi non vi sia dolore o dell’anima o del corpo -, a me tuttavia sembra più ovvio asserire che tutt’è due questi dolori interessino il corpo, piuttosto che nessuno dei due. Perciò in quelle parole della divina Scrittura non si parla del dolore dell’anima, perché è logico, anche se non lo si dice, che quando il corpo soffre tanto, anche l’anima ne sia tormentata da una sterile penitenza. Si legge del resto anche nelle antiche Scritture: "La vendetta sulla carne dell’empio: fuoco e verme" (Si 7,19). Si poteva dire più in breve: «La vendetta sull’empio». Perché dunque si dice «sulla carne dell’empio», se non per il fatto che ambedue, cioè il fuoco e il verme, saranno pena della carne? Se poi la Scrittura ha voluto parlare di vendetta della carne, perché si punirà nell’uomo la sua vita secondo la carne (per la quale l’uomo vien travolto dalla morte seconda, come ci insegna l’Apostolo dicendo: "Infatti se vivrete secondo la carne morirete" [ Rm 8,13 ]), ciascuno scelga ciò che gli piace: o riferire il fuoco al corpo e il verme all’anima - quello in senso proprio, questo in senso figurato -; o riferire tutt’e due in senso proprio al corpo.

       Agostino, De civ. Dei, 21, 9, 1


4. Nell’anima, e non nel corpo, si deve combattere il peccato

       "Se uno dei tuoi membri ti è d’inciampo, taglialo e gettalo via da te come ci vien comandato" (Mt 5,30). E ancora: "Se un tuo occhio ti è di scandalo, strappalo e gettalo via dal tuo viso" (Mt 5,29 Mc 9,47). Ma l’agiografo non ti insegna a distruggere in realtà le tue membra: tu non devi annientare ciò che Dio ha creato, perché egli ha creato tutto bene. L’occhio non ha mai commesso un adulterio, perché questo peccato non rientra nelle sue azioni; e neppure la mano ha mai commesso furto, perché essa è per sua natura priva d’intelligenza. Vi sono adulteri ciechi e ladri monchi; non pensare, perciò, che la causa dei peccati sia nella mano o nell’occhio. Ma è il tuo spirito piuttosto che vede qualcosa e lo brama; contro di lui devi combattere. È la bramosia cattiva che ti è di impaccio: taglia essa via da te e gettala lontano: ciò ti è comandato. Il pazzo si recide le membra, ma non allontana, con ciò, il male da sé. Una parte del suo corpo in tal modo è stata asportata e gettata, ma il peccato è ancora attivo in lui. Le membra ubbidiscono alla tua anima come docili discepoli, e configurano le loro azioni secondo il modello da essa proposto.

       All’uomo esteriore corrisponde quello interiore, e l’uomo percepibile al di fuori è simile a quello nascosto, all’uomo spirituale. Anche l’uomo interiore ha occhi, ha orecchie e mani, proprio come quello esteriore e ha i suoi sensi. Chiudi i tuoi occhi e comprenderai che non solo l’organo visivo corporeo può vedere; tappa le orecchie e odi il tumulto dei tuoi pensieri! Vedi: esso ti travolge in una guerra crudele; perché tendi le tue orecchie a ciò che sta di fuori? Vedi: in casa tua vi sono i ladri; dove corri tu, dietro di loro? Perché dunque le tue membra hanno peccato? Combatti contro la tua anima! Ciò che è esterno non è in te causa di peccato: con l’interno devi sostenere battaglia. Ma anche se riuscissero a tagliare dal loro corpo la concupiscenza malvagia coloro che si son mutilati delle proprie stesse membra, non otterrebbero con ciò la giustizia.

       Anche l’Apostolo, come abbiam visto sopra, biasima quei vili che sono crudeli col loro corpo, ma non vivono in onore, come conviene. Secondo la tua idea, quale tuo membro sarebbe tanto aggravato di peccati che, amputando esso solo, tu possa allontanare il male dal tuo corpo? I tuoi discorsi sono peggiori di un adulterio e ciò che ascolti è più perverso del furto; la tua bocca commette continuamente il grave crimine dell’omicidio, le tue labbra sono come un arco teso e le tue parole producono ira; senza pietà ricopri di ridicolo coloro che si rivolgono a te. La tua lingua è più acuta di una spada e il tuo occhio è rivolto al male. Tutto ciò è in te nascosto, e tu credi che vi sia un unico male? Se tu vuoi tagliarti un membro, taglia piuttosto questo male che hai dentro. Invece che un membro, che non ha peccato, colpisci la causa di tutte le colpe, non essere un giudice ingiusto tra il tuo corpo e la tua anima; come arbitro, non condannare l’innocente invece del colpevole. Rimprovera l’uomo spirituale che sta nascosto in te e rivolgi il tuo furore verso chi in te si cela, non verso chi in te è visibile!

       Isacco di Antiochia, Carmen de poenit.


5. Temere solo per il castigo è riprovevole

       "Laggiù non morrà il loro verme né si spegnerà il fuoco che li divora" (Mc 9,43). Ascoltando queste minacce, che toccheranno certamente agli empi, alcuni, presi da timore, si astengono dal peccato. Hanno paura e per questa paura non commettono peccati. Son persone che temono [il castigo] ma non ancora amano la giustizia. Tuttavia quel timore che li spinge ad astenersi dal peccato crea in loro un’inclinazione costante per la giustizia, e ciò che prima era difficile comincia a piacere e si assapora la dolcezza di Dio. A tal punto l’uomo inizia a vivere nella giustizia non per timore delle pene ma per amore dell’eternità.

       Agostino, Enarrat. in Ps., 127, 7




XXVII DOMENICA

132 Letture:
    
Gn 2,18-24
     He 2,9-11
     Mc 10,2-16

1. È Dio l’autore dell’unione coniugale

       Non ripudiare quindi la tua sposa: significherebbe negare che Dio è l’autore della tua unione. Infatti se è tuo compito sopportare e correggere i costumi degli estranei, a maggior ragione lo è nei riguardi di tua moglie.

       Ascolta quanto dice il Signore: "Chi ripudia la sposa ne fa un’adultera" (Mt 5,32). Colei infatti che, finché vive il marito, non può sposarsi di nuovo, può essere soggetta alla lusinga del peccato. Così colui che è responsabile dell’errore lo è anche della colpa, quando la madre è ripudiata con i suoi bambini, quando, già anziana e col passo ormai stanco, è messa alla porta. Ed è male scacciare la madre e trattenere i suoi figli: perché si aggiunge, all’oltraggio fatto al suo amore, la ferita nei suoi affetti materni. Ma più crudele è scacciare anche i figli per causa della madre, in quanto i figli dovrebbero piuttosto riscattare agli occhi del padre il torto della madre. Quale rischio esporre all’errore la debole età di un adolescente! E quale durezza di cuore scacciare la vecchiaia, dopo aver deflorato la giovinezza! Sarebbe lo stesso se l’imperatore scacciasse un soldato veterano senza compensarlo per i suoi servigi, togliendogli gli onori e il comando che ha; o che un agricoltore scacciasse dal suo campo il contadino spossato dalla fatica! Ciò che è vietato fare nei confronti dei sudditi, sarebbe dunque permesso nei riguardi dei congiunti?

       Tu invece ripudi la tua sposa quasi fosse nel tuo pieno diritto, senza temere di commettere un’ingiustizia; tu credi che ciò ti sia permesso perché la legge umana non lo vieta. Ma lo vieta la legge di Dio: e se obbedisci agli uomini, devi temere Dio. Ascolta la legge del Signore cui obbediscono anche quelli che fanno le leggi: "Ciò che Dio ha unito, l’uomo non divida" (Mt 19,6).

       Ma non è soltanto un precetto del cielo che tu violi: tu in certo modo distruggi un’opera di Dio.

       Tu permetteresti - ti prego - che, te vivente, i tuoi figli dipendessero da un patrigno, oppure che, mentre è viva la loro madre, essi vivessero sotto una matrigna? E supponi che la sposa che hai ripudiata non torni a sposarsi: ebbene, ti era sgradita, quando eri suo marito, questa donna che si mantiene fedele a te, ora che sei adultero? Supponi invece che torni a sposarsi: la sua necessità è un tuo crimine, e ciò che tu credi un matrimonio in realtà è un adulterio. E senza importanza che tu commetta adulterio pubblicamente, oppure che tu lo commetta sembrando marito; c’è solo il fatto che la colpa commessa per principio è più grave di quella commessa furtivamente.

       Forse qualcuno potrà dire: "Ma allora perché Mosè ha comandato di dare il libello di divorzio e di licenziare la moglie?" (Mt 19,7 Dt 24,1). Chi parla in questo modo è giudeo, non è cristiano: egli obietta ciò che fu obiettato al Signore, e perciò lasciamo al Signore il compito di rispondergli: "Per la durezza del vostro cuore" - dice - "Mosè vi permise di dare il libello del divorzio e di ripudiare le mogli; ma all’inizio non era così" (Mt 19,8). Cioè egli dice che Mosè lo ha permesso, ma Dio non lo ha ordinato: all’inizio valeva la legge di Dio. Qual è la legge di Dio? "L’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua sposa, e saranno due in una carne sola" (Gn 2,24 Mt 19,5). Dunque chi ripudia la sposa, dilania la sua carne, divide il suo corpo.

       Ambrogio, Exp. in Luc., 8, 4-7


2. Due in una sola carne

       "Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina, e disse: Per questo l’uomo abbandonerà il padre e la madre sua e si unirà alla sua donna e saranno i due in una sola carne? Pertanto non sono più due, ma una carne sola. Non separi dunque l’uomo ciò che Dio congiunse" (Mt 19,4-6 Gn 2,24). Ammira la sapienza del Maestro. Interrogato, infatti, se sia lecito ripudiare la propria moglie, non risponde subito: Non è lecito, per non turbare e confondere i suoi ascoltatori. Ma, prima di pronunciare la sua sentenza, chiarisce la questione dimostrando che quel comando veniva dal Padre suo e che egli ordinava questo non per opporsi a Mosè. E notate che non si limita a confermare la verità di quanto dice solo con la creazione dell’uomo e della donna, ma con il comando stesso del Padre. Cristo non dice soltanto che Dio ha fatto un solo uomo e una sola donna, ma che ha dato anche questo comando: che l’uomo deve unirsi a una sola donna. Se Dio avesse voluto che l’uomo, lasciata una donna, ne sposasse un’altra, dopo aver creato l’uomo, avrebbe creato molte donne. Il fatto è che, con il modo stesso della creazione e con la sua legge, Dio ha dimostrato che un uomo deve convivere sempre con una sola donna e che l’unione non deve mai essere spezzata. Considera le parole stesse di Cristo: «Il Creatore da principio li creò maschio e femmina»; essi cioè uscirono da una stessa radice e si unirono in una stessa carne. E aggiunge che i due saranno in una carne sola. Poi, volendo intimorire chi pretende condannare questa legge e per fissare bene questa norma, non dice: Non dividete e neppure non separate. Ma che dice allora? «Non separi dunque l’uomo ciò che Dio congiunse». E se voi - aggiunge - mi citate Mosè, io vi cito il Signore di Mosè e ve lo confermo inoltre riferendomi al tempo. Infatti «Dio da principio li creò maschio e femmina». Questa infatti è una legge antichissima, anche se sembra che sia io a introdurla ora, e venne stabilita con grande vigore e fermezza. Dio infatti non presentò semplicemente all’uomo la donna, ma gli comandò che per lei abbandonasse il padre e la madre. E non ordinò soltanto di accostarsi alla donna, ma di congiungersi a lei, indicando, con la forma stessa delle espressioni, l’inseparabilità dei due. E neppure di questo si contentò, ma ricercò e aggiunse un altro vincolo più intimo: «Saranno i due in una sola carne».

       Dopo aver riproposto la legge antica, promulgata con fatti e con parole, e aver dimostrato il rispetto che meritava a causa di colui che l’aveva emanata, ora con autorità egli stesso la interpreta e sancisce, dicendo: «Pertanto non sono più due, ma una carne sola». Ebbene, così come è delitto tagliare carne umana, è un crimine separare il marito dalla moglie. E non si limita a questo, ma si appella anche all’autorità di Dio, dicendo: «Non separi dunque l’uomo ciò che Dio congiunse». Dimostra così che tale separazione va contro natura e contro la legge: contro natura, perché si taglia ciò che è una sola carne; contro la legge, perché avendo Dio congiunto e comandato che non si separi ciò che egli ha unito, essi non pensino ugualmente a separarlo.

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 62, 1 s.


3. Il regno dei cieli è di coloro che somigliano ai bambini

       "Allora gli furono condotti dei fanciulli perché imponesse loro le mani e pregasse per essi. I discepoli li sgridarono, ma Gesù disse loro: «Lasciate che i fanciulli vengano a me, poiché di quelli che sono come loro è il regno dei cieli «; e dopo aver imposto loro le mani, proseguì il suo cammino" (Mt 19,13-15). Per qual motivo i discepoli allontanano da Gesù i fanciulli? A causa della sua dignità. Che fa allora il Maestro? Per insegnar loro a essere umili e a calpestare il fasto e la gloria mondana, non solo accoglie i fanciulli, ma li abbraccia e promette il regno dei cieli a quelli che sono come loro: affermazione questa che già ha fatto precedentemente. Anche noi, dunque, se vogliamo ereditare il regno dei cieli, cerchiamo con grande impegno di acquistare questa virtù: il termine, infatti, la meta della filosofia è appunto la semplicità unita alla prudenza. Questa è vita angelica. L’anima del bambino, infatti, è pura da ogni passione: non serba rancore per quelli che l’offendono, ma si accosta a loro come ad amici, come se nulla fosse accaduto. E per quanto la madre lo picchi, il bambino sempre la ricerca e la preferisce a tutti. E quand’anche tu gli presentassi una regina con il suo diadema, egli non la preferirebbe a sua madre, anche se la madre fosse vestita di stracci: guarderebbe infatti con maggior piacere a lei, ricoperta di quei poveri abiti, che non alla regina con tutti i suoi ornamenti: ché il bambino sa distinguere i suoi dagli estranei, non per la loro ricchezza o per la loro povertà, ma per l’amore che essi hanno per lui e che lui sente per loro. Non ricerca niente più del necessario, ma quando il seno della madre l’ha saziato allora si stacca da esso. Il fanciullo non si dà pena, come facciamo noi, per futili motivi, come ad esempio per la perdita di denaro e per cose simili; né si rallegra come noi per cose passeggere: non si estasia, infatti, davanti alla bellezza dei corpi. Perciò Gesù ha detto: «Di quelli che sono come loro è il regno dei cieli», affinché noi facciamo per libera volontà ciò che i fanciulli fanno per natura.

       Siccome i farisei non avevano altro movente alle loro azioni se non la malvagità e l’orgoglio, per questo il Signore ripete ai suoi discepoli in ogni occasione il comando di essere semplici, e mentre allude ai farisei istruisce i discepoli. Niente infatti come il comando e la preminenza spinge gli uomini all’arroganza. Orbene, siccome i discepoli avrebbero goduto di grande onore per tutta la terra, il Signore previene il loro spirito e non permette che essi abbiano qualche sentimento umano, che ricerchino gli onori della moltitudine o si offrano a spettacolo davanti alle folle. Benché queste cose sembrino insignificanti, tuttavia esse sono causa di grandi mali. Così i farisei, per aver desiderato i saluti, l’autorità e i primi posti, hanno raggiunto il culmine della malvagità; di qui sono passati a concepire la più furiosa passione per la gloria e sono precipitati infine nell’empietà. Ecco perché si allontanano da Gesù, dopo aver attirato su di sé la sua maledizione per averlo tentato; i fanciulli, invece, ottengono la sua benedizione, essendo liberi da tutte queste passioni.

       Diventiamo anche noi come i fanciulli e siamo come loro privi di malizia. Non vi è infatti altro modo di vedere il cielo.

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 62, 4


4. La moglie fedele

       La moglie che ha cura della casa, sarà anche pudica e regolerà tutto; né si darà ai piaceri, a spese ingiustificate e simili cose. "Perché non sia bestemmiato il nome di Dio", dice l’Apostolo. Lo vedi che egli si preoccupa principalmente della predicazione e non delle cose temporali? Difatti, scrivendo a Timoteo dice: "Meniamo una vita quieta e tranquilla con tutta pietà e onestà" (1Tm 2,2); qui poi dice: "Perché non sia bestemmiato il nome e la dottrina di Dio". Se capita, infatti, che una donna fedele maritata a un infedele, non sia ben fornita di virtù, di qui suole nascere la bestemmia contro Dio, ma se è ben fornita di virtù le sue parole e le sue azioni promuoveranno la gloria di Dio. Sentano le donne che sono sposate a uomini malvagi o infedeli; sentano e imparino a indurli alla pietà con i loro buoni costumi. Se, infatti, non dovessi cavarci altro né riuscissi a ridurlo alla vera fede, però ne chiuderai la bocca e non gli darai occasione di bestemmiare contro la religione cristiana. E questo non è tanto poco, è anzi moltissimo, perché dai contatti della vita la nostra verità acquista ammirazione.

       Crisostomo Giovanni, In epist. ad Tit., 4, 2


5. Scena provvisoria del mondo

       Infatti non si può trovare il principio di una sfera o dove cominci il globo lunare o dove termini quando la luna mensilmente scompare. Ma anche se tu non riesci a rendertene conto, non per questo la sfera non ha avuto un punto d’inizio o non finirà mai. Se tu con l’inchiostro o con lo stilo tracciassi una circonferenza o la descrivessi con un compasso, dopo un po’ di tempo non potresti o cogliere con gli occhi o ricordare con la mente dove hai cominciato e dove hai finito; e tuttavia sei testimone a te stesso di aver cominciato e di aver finito tale figura. Anche se ciò sfugge ai sensi, non scalza la verità. Ciò che ha un inizio, ha pure una fine, ed è chiaro che a ciò cui si pone fine è stato dato inizio. E che il mondo finirà, lo stesso Salvatore insegna nel suo Vangelo dicendo: "Passa infatti la figura di questo mondo" (1Co 7,31) "e il cielo e la terra passeranno" (Mt 24,35) e più sotto: "Ecco io sono con voi sino alla fine del mondo" (Mt 28,20).

       Ambrogio, Exameron, I, I, 3, 10


6. La nostra gioia è per ora in speranza

       Benediciamo il Signore Dio nostro, che ci ha qui riuniti a letizia spirituale. Conserviamo il cuore sempre nell’umiltà, e riponiamo nel Signore la nostra gioia. Non ci inorgogliamo per una qualsiasi prosperità terrena, piuttosto rendiamoci conto che la felicità nostra avrà inizio solo quando tutte queste cose saranno passate. La nostra gioia, fratelli miei, per ora sia in speranza; nessuno goda delle cose presenti, se non vuole arrestarsi per via. Tutta la gioia sia nella speranza del futuro, tutto il nostro desiderio, nella vita eterna. Tutti i sospiri siano volti a Cristo; lui solo sia desiderato, il più bello fra tutti, che amò noi, difformi per farci belli. Corriamo a lui solo, per lui il nostro gemito: "e dicano sempre: sia esaltato il Signore, quelli che amano la pace del suo servo" (Ps 34,27).

       Agostino, Comment. in Ioan., 10, 13


7. Rispondere con amore all’amore

       Siamo accorti nel formare e nel conservare l’unione coniugale, amiamo la parentela a noi concessa. Se coloro che sono stati separati in lontane regioni sin dal tempo della loro nascita ritornano insieme, se il marito parte per l’estero, né la lontananza né l’assenza possano mai diminuire l’amore reciproco. Unica è la legge che stringe i presenti e gli assenti; identico è il vincolo di natura che stringe, nell’amore coniugale, sia i vicini, sia i lontani unico è il giogo benedetto che unisce i due colli, anche se uno deve allontanarsi assai in regioni remote: hanno infatti accolto il giogo della grazia non sulle spalle di questo corpo, ma sull’anima.

       Ambrogio, Exameron, 5, 18





Lezionario "I Padri vivi" 130