Lezionario "I Padri vivi" 136

XXXI DOMENICA

136 Letture:
    
Dt 6,2-6
     He 7,23-28
     Mc 12,28-34


1. Il modo esatto di amare il prossimo

       Dunque, poiché non è necessario un ordine, perché ognuno ami se stesso e la propria persona, cioè, poiché ciò che noi siamo singolarmente e comunitariamente ci riguarda in modo particolare, amiamo con una legge fermissima che anche negli animali è stata estesa - infatti anche gli esseri inferiori amano sé stessi e i loro corpi - non rimaneva, e per quel precetto che è sopra di noi, e per quello che è presso di noi, che osservarlo, come sta scritto: «Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, e con tutta la tua intelligenza» e, «Amerai il prossimo tuo come te stesso». "Da questi due comandamenti dipende tutta la legge e i profeti" (Mt 22,37-40). L’amore, infatti, è lo scopo del precetto, cioè, ambedue di Dio e del prossimo. Poiché se tu ti ami nella tua interezza, cioè nell’anima e nel corpo, e parimenti, il tuo prossimo, nell’anima e nel corpo - la persona umana, infatti, è composta di anima e di corpo - in questi due comandamenti non è tralasciata nessuna delle cose che bisogna amare. Precedendo, infatti, l’amore di Dio ed apparendo prescritta la maniera di amarlo, tanto che le rimanenti cose sono comprese in esso, sembra che niente sia stato detto intorno all’amore di te stesso, ma, poiché si è detto: «Ama il tuo prossimo come te stesso» simultaneamente anche l’amore di te stesso non è stato disgiunto da te.

       Vive, infatti, una vita giusta e santa, colui che sa stimare rettamente le cose, questi inoltre, è colui che ha un amore ordinato, perché o non ama ciò che è da amarsi, oppure non ama ciò che deve amarsi, o ama esageratamente ciò che deve amare di meno, oppure ama in maniera eguale ciò che deve amare o di meno o di più, poiché è da amarsi in maniera giusta.

       Ogni peccatore, in quanto è tale, non lo si deve amare, ed ogni uomo, in quanto è tale, deve essere amato per amor di Dio, ma Dio, per se stesso.

       E se si deve amar maggiormente Dio che ogni uomo, ognuno deve amare Dio più di se stesso. Parimenti si deve amare di più un altro uomo che la propria persona, poiché è a motivo di Dio che tutte queste cose si debbono amare, e un altro uomo può insieme con noi godere di Dio, ciò che non può il corpo, poiché il corpo vive per mezzo dell’anima, con la quale godiamo di Dio.

       Tutti gli uomini, inoltre, debbono amarsi in maniera giusta, ma poiché tu non puoi essere di utilità a tutti, devi provvedere in special modo a quelli che sono uniti a te più strettamente quasi con una certa sorte, dalle condizioni o dei luoghi, o dei tempi o di qualsiasi altra circostanza.

       Come, infatti, se tu fossi nell’abbondanza in qualche cosa, ciò che bisognerebbe dare a colui che non ha, non si sarebbe potuto dare a due persone, se ti venissero incontro due, dei quali né il primo né il secondo supera l’altro o per indigenza o in qualche bisogno verso di te, [e così agendo] non faresti niente di più giusto che scegliere per sorte a chi si dovrebbe dare, poiché non è possibile dare a tutti e due, così negli uomini, ai quali tutti tu non possa provvedere, si deve giudicare che ognuno può esserti congiunto temporaneamente dalla sorte.

       Inoltre, fra tutti, quelli che con noi possono godere di Dio, in parte amiamo quelli che aiutiamo, in parte quelli dai quali siamo aiutati, in parte quelli del cui aiuto abbiamo bisogno ed alla cui indigenza siamo venuti incontro, in parte quelli ai quali né abbiamo dato alcunché di utilità e né da quelli da cui attendiamo che venga elargito a noi. Dobbiamo, tuttavia, volere che tutti amino Dio insieme con noi, e deve tendere tutto a quest’unico scopo il fatto o che noi siamo loro di aiuto, oppure essi di giovamento a noi.

       Agostino, De dectr. christ., 1, 26-29


2. Amore di Dio e amore del prossimo

       Mosè scrisse nella legge: "Dio fece l’uomo a immagine e somiglianza sua" (Gn 1,26). Considerate, di grazia, la dignità di queste parole. Dio onnipotente, invisibile, incomprensibi!e ineffabile, inestimabile, fa l’uomo con del limo, e lo nobilita con la dignità della sua somiglianza. Qual è il rapporto tra il limo e Dio? Quale, quello tra il limo e lo spirito? Dio infatti, è spirito (Jn 4,24). Enorme degnazione di Dio, il quale donò all’uomo l’impronta della sua eternità e la somiglianza dei suoi costumi! Enorme dignità per l’uomo la sua somiglianza con Dio, se questa vien conservata, ma anche poi tremenda rovina, qualora venga profanata l’immagine di Dio!...

       Tutte le virtù che Dio seminò in noi nella nostra condizione primitiva, ci ha insegnato, poi, coi suoi precetti, a restituirgliele. Questa è la prima: "Amare il nostro Dio con tutto il cuore" (Mt 22,37 Mc 12,30), "perché lui per primo ci ha amati" (1Jn 4,10), dal principio, prima ancora che fossimo. L’amor di Dio è la rinnovazione della sua immagine. Ama Dio chi ne osserva le leggi; disse infatti: "Se mi amate, osservate i miei precetti" (Jn 13,34). Il vero amore non è fatto di parole, ma di opere (cf. 1Jn 3,23). Restituiamo perciò a Dio, nostro Padre, la sua immagine inviolata nella santità, perché lui è santo ("Siate santi, perché io sono santo" Lv 11,44 1P 1,16), inviolata nella carità, perché lui è amore (1Jn 4,8: Dio è amore), inviolata nella pietà e nella verità, perché lui è pio e verace.

       Evitiamo di farci un ‘immagine diversa da quella di Dio; infatti sarebbe a immagine di un tiranno, chi fosse superbo, iracondo, feroce...

       Perché, dunque non ci diamo delle immagini di tiranni, dipinga in noi Cristo la sua immagine, lui che dipinse un’immagine, quando disse: "Vi do la mia pace, vi lascio la mia pace" (Jn 14,27). Ma che cosa vale sapere che la pace è un bene, se poi questa pace non è ben conservata? Di solito quanto più una cosa è buona, tanto più è fragile, e quanto più è preziosa, tanto più accortamente dev’essere custodita; è veramente troppo fragile ciò che si può sciupare con una sola parola o con un piccolo sgarbo...

       Purtroppo niente è più gradito agli uomini che interessarsi delle cose altrui, parlar di cose inutili e dir male degli assenti; perciò coloro che non possono dire: "Il Signore mi ha dato una lingua raffinata, per sostener con la mia parola colui che è stanco" (Is 50,4) tacciano e, se vogliono dir qualcosa, sia detto solo al fine di fomentar la pace...

       "Chi non ama sta nella morte" (1Jn 3,14). Dunque, o non si deve far altro che amare, o non ci si può aspettar altro che la morte. "La pienezza della legge", infatti, "sta nell’amore" (Rm 13,8). E che questo amore si degni ispirarci abbondantemente il Signor nostro e Salvatore Gesù Cristo, che ci è stato donato da Dio, autore della pace e dell’amore.

       Colombano Abate, Praecepta, 11, 1-4


3. Chi ama Dio lo conosce

       Osserviamo quanto l’apostolo Giovanni ci raccomandi l’amore fraterno: "Colui che ama il suo fratello", egli dice, "dimora nella luce, e nessuno scandalo è in lui" (1Jn 2,10). È chiaro che egli ha posto la perfezione della giustizia nell’amore del fratello; perché colui nel quale non c’è scandalo è perfetto. E tuttavia sembra aver taciuto dell’amore di Dio, cosa che non avrebbe mai fatto se nello stesso amore fraterno non sottintendesse Dio. Poco dopo infatti, nella stessa Epistola, dice in modo chiarissimo: "Carissimi, amiamoci vicendevolmente perché l’amore viene da Dio; colui che ama è nato da Dio, e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore" (1Jn 4,7-8). Questo contesto mostra in maniera sufficiente e chiara che questo amore fraterno - infatti l’amore fraterno è quello che ci fa amare vicendevolmente - non solo viene da Dio, ma che, secondo una così grande autorità, è Dio stesso. Di conseguenza, amando secondo l’amore il fratello, lo amiamo secondo Dio. Né può accadere che non amiamo principalmente questo amore, con cui amiamo il fratello. Da ciò si conclude che quei due precetti non possono esistere l’uno senza l’altro. Poiché in verità "Dio è amore" (1Jn 4,8 1Jn 4,16), ama certamente Dio, colui che ama l’amore ed è necessario che ami l’amore colui che ama il fratello. Perciò poco più innanzi l’apostolo Giovanni afferma: "Non può amare Dio, che non vede, colui che non ama il prossimo che vede" (1Jn 4,20), perché la ragione per cui non vede Dio è che non ama il fratello. Infatti chi non ama il fratello, non è nell’amore e chi non è nell’amore non è in Dio, perché "Dio è amore" (1Jn 4,16). Inoltre chi non è in Dio non è nella luce, perché: "Dio è luce, e tenebra alcuna non è in lui" (1Jn 1,5). Qual meraviglia, dunque, se chi non è nella luce non vede la luce, cioè non vede Dio, perché "è nelle tenebre" (1Jn 1,9-11)? Vede il fratello con sguardo umano che non permette di vedere Dio. Ma se amasse colui che vede per sguardo umano, con carità spirituale, vedrebbe Dio, che è la carità stessa, con lo sguardo interiore con cui lo si può vedere. Perciò "chi non ama il fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede", precisamente perché "Dio è amore" (1Jn 4,8 1Jn 4,16 1Jn 4,20), amore che manca a colui che non ama il fratello? E non si ponga più il problema di sapere quanto amore dobbiamo al fratello, quanto a Dio. A Dio, senza alcun confronto, più che a noi. Al fratello poi tanto, quanto a noi stessi. Amiamo infine tanto più noi stessi quanto più amiamo Dio.

       Agostino, De Trinit., 8, 8, 12


4. L’amore fa abitare Dio in noi

       "Nessuno vide Dio". Ecco, dilettissimi: "Se ci amiamo vicendevolmente, Dio resterà in noi, e il suo amore in noi sarà perfetto". Incomincia ad amare e giungerai alla perfezione. Hai cominciato ad amare? Dio ha iniziato ad abitare in te, ama colui che iniziò ad abitare in te affinché, abitando in te sempre più perfettamente, ti renda perfetto. "In questo conosciamo che rimaniamo in lui e lui in noi: egli ci ha dato il suo Spirito" (1Jn 4,12-13). Bene, sia ringraziato il Signore. Ora sappiamo che egli abita in noi. E questo fatto, cioè che egli abita in noi, da dove lo conosciamo? Da ciò che Giovanni afferma, cioè che egli "ci ha dato il suo Spirito". Ed ancora, da dove conosciamo che "egli ci ha dato il suo Spirito?" Sì, che egli ci ha dato il suo Spirito, come lo sappiamo? Interroga il tuo cuore: se esso è pieno di carità, hai lo Spirito di Dio. Da dove sappiamo che proprio a questo segno noi conosciamo che abita in noi lo Spirito di Dio? Interroga Paolo apostolo: "La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che è dato a noi".

       Agostino, In Io. ep. tract., 8, 12


5. La legge dell’amore

       Gesù Cristo ci insegna ciò che è giusto, onesto, utile, e tutte le virtù, in pochissime parole, chiare, comprensibili a tutti, come quando dice: "In due comandi si riassumono la legge e i profeti" (Mt 22,40), cioè nell’amore verso Dio e nell’amore verso il prossimo; oppure, quando ci dà questa norma di vita: "Fate agli altri tutto ciò che voi volete ch’essi facciano a voi. Sta in questo la legge e i profeti" (Mt 7,12). Non c’è contadino, né schiavo, né donna semplice, né fanciullo, né persona di limitata intelligenza che non riesca a comprendere facilmente queste parole: nella loro chiarezza, infatti, è il segno della verità, e l’esperienza ha dimostrato questo.

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 1, 5




XXXII DOMENICA

137 Letture:
    
1R 17,10-16
     He 9,24-28
     Mc 12,38-44

1. Investire i talenti ricevuti nella banca del Signore

       L’apostolo Paolo grida: "Non abbiamo portato nulla venendo in questo mondo, neanche lo possiamo portar via" (1Tm 6,7) e anche: "Che cosa hai, che tu non abbia ricevuto?" (1Co 4,7). Perciò, carissimi, non siamo avari del nostro, ma diamo a interesse ciò che ci è stato affidato. Abbiamo ricevuto dei beni, da usare come temporale merce di scambio, non come possesso eterno di cosa privata. Se li riconoscerai come temporaneamente tuoi sulla terra, potrai fartene una ricchezza eterna nei cieli. Se ti ricorderai di quei tali che ricevettero dei talenti dal Signore e che cosa il padre di famiglia diede loro in compenso, capirai quanto sia meglio mettere il danaro alla banca del Signore, perché si moltiplichi; capirai con quanta sterilità di fede, con quanta perdita per il servo inutile, fu conservato quel talento, che fruttò solo un aumento di pena a chi l’aveva nascosto.

       Sbrigati, dunque, per meritar di sentir le parole: "Via, servo buono, entra nel gaudio del tuo signore" (Mt 25,21), piuttosto che le altre: "Servo malvagio e pigro ti giudico dalle tue parole" (Lc 19,21); il servo pigro fu gettato in carcere, il suo talento fu dato a chi era già ricco per la moltiplicazione dei suoi crediti, e il Signore sentenziò: "A colui che ha sarà dato, a chi non ha, sarà tolto anche ciò che ha" (Mt 25,29). Ricordiamoci anche di quella vedova che, trascurando se stessa per amor dei poveri, testimone lo stesso Giudice, si privò di tutto il suo cibo: Gli altri hanno dato parte di ciò che loro sovrabbondava, essa, invece più bisognosa forse anche di molti poveri, che aveva solo due spiccioli, ma nell’animo era più ricca di tutti i ricchi, interessata solo dell’eterna mercede, cupida del tesoro celeste, rinunciò a tutto ciò che proviene dalla terra e si riconverte in terra. Diede ciò che aveva, per poter possedere ciò che non aveva ancora visto. Diede cose corruttibili, per procurarsi le incorruttibili. Quella poveretta non disprezzò il criterio di Dio circa la ricompensa futura, e il giudice finale non trascurò il suo gesto e preannunziò la sua sentenza; predicò nel vangelo colei che avrebbe coronato il giorno del giudizio.

       Diamo, dunque, a interesse al Signore i suoi stessi doni; non abbiamo, infatti, nulla che non sia suo dono, noi che siamo noi stessi, un suo dono. E noi, in verità, che cosa possiamo ritenere nostro, se per un più grande e speciale debito non siamo nostri? e non solo perché creati da Dio, ma anche perché da lui ricomprati. Rallegriamoci anche, perché siamo stati ricomprati a caro prezzo, col sangue dello stesso Signore; col quale prezzo non siamo più vili e venali. Riportiamo, dunque, i suoi doni al Signore; diamo a colui che riceve attraverso il povero; diamo, dico, con gioia e riceveremo da lui esultanti. Piace a lui, infatti, che gli facciamo forza, spezzando con le opere buone le sbarre del cielo. Il Signor nostro, il solo buono, come il solo Dio, non vuol ricevere per un calcolo di avarizia, ma per generosità di affetto. Che cosa manca, infatti, a colui che dà tutte le cose? O che cosa non possiede, colui che è padrone dei possidenti? Tutti i ricchi sono nelle sue mani, ma la sua immensa giustizia e bontà vuole che gli si faccia dono dei suoi stessi doni, per avere ancora un titolo di misericordia verso di te, perché è buono. E davvero ti prepari lui un merito di cui tu sia degno, perché egli è giusto!

       Paolino di Nola, Epist., 34, 2-1


2. Il Regno di Dio vale tutto ciò che uno possiede

       Avete udito, fratelli carissimi, che Pietro e Andrea non appena furono chiamati, al primo suono del comando, lasciarono le reti e seguirono il Redentore. Non l’avevano ancora visto operare alcun prodigio; ancora non l’avevano ascoltato in tema di premio eterno; e nondimeno, al primo cenno del Signore, dimenticarono tutto quello che poteva costituire il loro possesso...

       Mi sembra, peraltro, di sentire qualcuno che dice tra sé: Pietro e Andrea erano pescatori, non possedevano nulla o quasi. Cosa mai lasciarono al comando del Signore? Ma, in questo caso, fratelli carissimi, dobbiamo guardare più all’affetto che al valore del censo. Certamente, molto lascia chi non trattiene nulla per sé; molto lascia chi abbandona completamente tutto quel che possiede. Noi, invece, siamo aggrappati gelosamente a quanto possediamo e desideriamo avidamente quel che non abbiamo. Pietro e Andrea lasciarono davvero molto, dal momento che rinunciarono persino al desiderio di possedere. Sì, questi apostoli lasciarono molto, rinunciando non solo alle cose ma altresì al desiderio di esse. Tanto lasciarono, ponendosi al seguito di Cristo, quanto avrebbero potuto desiderare, se non avessero intrapreso la sua sequela.

       Nessuno dica, quindi, allorché vede che altri han lasciato tutto: imiterei volentieri questi spregiatori del mondo, però non ho nulla da lasciare. Infatti, fratelli, anche voi rinunciate a molto, se rinunciate ai desideri terreni. Lasciando il poco che possedete, è quanto basta per far contento il Signore: egli guarda il vostro cuore, non il vostro patrimonio. Non guarda quanto gli offriamo in sacrificio, bensì l’amore con cui glielo offriamo. Se guardiamo al patrimonio terreno, dobbiamo dire che quei due santi mercanti acquistarono la vita eterna degli angeli, in cambio delle reti e della barca.

       Il Regno di Dio, invero, non ha prezzo; però esso vale tutto ciò che uno possiede. Nel caso di Zaccheo, esso valse la metà dei suoi beni, perché l’altra metà egli se la riservò per restituire il quadruplo a coloro che aveva defraudato (Lc 19,8); nel caso di Pietro e Andrea, valse le reti e la barca (Mt 4,20); per la vedova, valse solo due spiccioli (Lc 21,2 Mc 12,42); per un altro, sarà valso magari un semplice bicchiere d’acqua fresca (Mt 10,42). Quindi, il Regno di Dio, come ho già detto, vale tutto quello che uno possiede.

       Riflettete, dunque, fratelli, sul valore del regno dei cieli: niente vi è di meno costoso nell’acquisto e niente di più prezioso nel possesso. Supponiamo però di non avere neppure un bicchiere d’acqua fresca da dare al povero; ebbene, anche in questo caso ci soccorre la parola divina. Alla nascita del Redentore, si mostrarono i cittadini del cielo, cantando: "Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buon volere" (Lc 2,14). Davanti a Dio, la nostra mano non è sprovvista di doni, se l’arca del cuore è piena di buona volontà. Ecco perché il Salmista dice: "In me sono, o Dio, i voti che ti rendo, a te si levano le mie lodi" (Ps 55,12). È come se dicesse: «Anche se non trovo fuori di me doni da offrire, nondimeno trovo nel mio intimo qualcosa da porre sull’altare della tua lode, poiché tu non ti pasci del nostro dono, ma ti lasci placare dall’offerta del cuore.

       Gregorio Magno, Hom. in Ev., 5, 1-3


3. Nelle opere di pietà vi è posto per tutti

       Le opere della pietà sono vastissime e la loro stessa varietà dà ai veri cristiani la possibilità di svolgere per intero il proprio ruolo nella distribuzione delle elemosine, siano essi ricchi e nell’abbondanza, o, al contrario, poveri e mediocri, cosicché coloro che sono ineguali nelle possibilità di largizione, siano almeno simili nell’affetto del cuore. Infatti, quando, sotto gli occhi del Signore, molti buttavano nel gazofilacio del tempio grosse cifre prese dalla loro opulenza, una vedova vi introdusse due monetine e meritò di essere onorata dalla testimonianza di Gesù Cristo per quel dono minimo, preferito all’offerta di tutti gli altri: infatti, davanti ai doni magnifici di coloro ai quali restava ancora molto, il suo, per misero che fosse, costituiva tutto il suo avere (Lc 21,1-4).

       Pertanto, se qualcuno è ridotto ad una povertà tale da non poter neppure elargire due spiccioli ad un indigente trova nei precetti del Signore di che adempiere il dovere deila benevolenza. Infatti, neppure chi avrà donato ad un povero un semplice bicchiere d’acqua fresca rimarrà senza ricompensa per il suo gesto (Mt 10,42): oh, quali scorciatoie non ha preparato il Signore ai suoi servi per far loro conquistare il suo Regno, se persino il dono di un bicchiere d’acqua, d’uso gratuito e comune, non deve restare senza ricompensa!

       E, perché nessuna difficoltà potesse frapporvi ostacoli, è proprio un po’ d’acqua fresca che viene proposto come esempio di misericordia, per timore che qualcuno cui manca la legna per fare il fuoco e farla scaldare, potesse pensare di essere privato della ricompensa.

       Il Signore, peraltro e non senza ragione, avvertì che tale bicchiere d’acqua doveva essere dato in suo nome, perché è la fede che rende preziose cose in sé stesse vili, e che le offerte degli infedeli, anche se fatte senza badare a spese, restano nondimeno vuote di ogni giustificazione.

       Leone Magno, Sermo, 31, 2


4. Dio non pesa la quantità ma il cuore

       Grande è quel che Egli trarrà dal poco disponibile, poiché sulla bilancia della giustizia divina non si pesa la quantità dei doni, bensì il peso dei cuori. La vedova del Vangelo depositò nel tesoro del tempio due spiccioli e superò i doni di tutti i ricchi (Mt 12,41-44). Nessun gesto di bontà è privo di senso davanti a Dio, nessuna misericordia resta senza frutto. Diverse sono senza dubbio le possibilità da lui date agli uomini, ma non differenti i sentimenti che egli reclama da loro.

       Valutino tutti con diligenza l’entità delle proprie risorse e coloro che hanno ricevuto di più diano di più.

       Leone Magno, Sermo de jejunio dec. mens., 90, 3




XXXIII DOMENICA

138 Letture:
    
Da 12,1-3
     He 10,11-14 He 10,18
     Mc 13,24-32


1. Il ritorno di Cristo

       Annunciamo la venuta di Cristo, non la prima solo, ma anche una seconda, molto più bella della prima. La prima fu una manifestazione di pazienza, la seconda porta il diadema della regalità divina. Tutto è per lo più duplice nel Signore nostro Gesù Cristo: doppia la nascita, una da Dio prima dei secoli, una dalla Vergine alla fine dei secoli; doppia la discesa: una oscura, come (rugiada) sul vello (cf. Jg 6,36-40 Ps 71,6), l’altra piena di splendore: quella che verrà. Nella prima venuta fu avvolto in panni nella mangiatoia, nella seconda è circondato di luce come d’un mantello. Nella prima subì la croce, subì disprezzi e vergogna; nella seconda viene sulle schiere degli angeli che l’accompagnano, pieno di gloria. Non fermiamoci dunque alla prima venuta solamente, ma aspettiamo anche la seconda. Nella prima abbiam detto: "Benedetto colui cbe viene nel nome del Signore" (Mt 21,9), e nella seconda lo ripeteremo ancora: insieme con gli angeli andremo incontro al Padrone, ci getteremo ai suoi piedi e diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Viene il Salvatore non per essere nuovamente giudicato, ma per chiamare in giudizio quelli che lo condannarono. Egli, che tacque la prima volta quando fu giudicato, lo ricorderà agli scellerati che osarono crocifiggerlo, dicendo: "Questo facesti, e tacqui" (Ps 49,21). Per la divina economia, venne allora ad ammaestrare gli uomini con la persuasione; ora invece per regnare su di loro a forza, anche se non lo vogliono.

       Di queste due venute dice il profeta Malachia: "E subito verrà al suo tempio il Signore, che voi cercate" (Ml 3,1). Ecco la prima venuta. Invece della seconda venuta dice: "E l’angelo del testamento che voi cercate. Ecco, viene il Signore onnipotente: chi sosterrà il giorno della sua venuta, chi sopporterà la sua vista? Si appresserà infatti come il fuoco della fornace, come la soda dei lavandai, si siederà per fondere e pulire" (Ml 3,2s). E subito dopo il Salvatore stesso dice: "Vi verrò incontro per fare giustizia, e sarò un testimone pronto contro gli avvelenatori e gli adulteri, contro quelli che nel mio nome giurano il falso" (Ml 3,5). Già Paolo allude a queste due parusie scrivendo a Tito: "È apparsa la grazia di Dio, salvatore di tutti gli uomini, e ci ha insegnato a rinnegare l’empietà e le cupidigie mondane, e a vivere in questo mondo con temperanza, con giustizia e pietà, aspettando la beata speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Iddio e salvatore Gesù Cristo" (Tt 2,11-13). Per questo nella fede che a noi è annunciata anche oggi ci è tramandato di credere in colui «che è asceso al cielo, siede alla destra del Padre, e verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine».

       Viene dunque il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli; viene nella gloria alla fine di questo mondo, nell’ultimo giorno; ci sarà infatti la fine di questo mondo e il mondo creato sarà rinnovato. Infatti la corruzione, il furto, l’adulterio e ogni specie di delitto si è effuso sulla terra e nel mondo si è mescolato sangue al sangue, affinché perciò questa mirabile dimora non resti oppressa dall’iniquità, se ne va questo mondo perché ne sia inaugurato uno migliore. Vuoi una dimostrazione di ciò dai detti scritturistici? Odi Is che dice: "Il cielo si avvolgerà come una pergamena e tutte le stelle cadranno come le foglie dalla vite, come cadono le foglie dal fico" (Is 34,4). E il Vangelo dice: "Il sole si oscurerà la luna non darà più il suo splendore e gli astri cadranno dal cielo" (Mt 24,29). Non affliggiamoci come se noi soli dovessimo finire: anche le stelle finiscono, ma forse di nuovo risorgeranno. Il Signore arrotola i cieli, non per distruggerli, ma per farli risorgere più belli. Ascolta il profeta David che dice: "In principio tu, Signore, hai fondato la terra, e opera delle tue mani sono i cieli. Essi periranno, ma tu rimani" (Ps 101,26).

       Ma qualcuno obietterà: «Però dice chiaramente che periranno». Ma ascolta in che senso dice «periranno»: è chiaro da ciò che segue: "E tutti invecchieranno come un vestito e tu li avvilupperai come un mantello: ed essi muteranno" (Ps 101,27). Si parla infatti come di una morte di un uomo, come sta scritto: "Vedete in che modo perisce il giusto, e nessuno se la prende a cuore" (Is 57,1), ma se ne aspetta la risurrezione; così aspettiamo quasi la risurrezione dei cieli. "Il sole si muterà in tenebre e la luna in sangue" (Jl 2,31 Ac 2,20). Notino questo i convertiti dal manicheismo: non attribuiscano più la divinità agli astri, né ritengano empiamente che questo sole, il quale si oscurerà, sia Cristo. E ascolta ancora il Signore che dice: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno" (Mt 24,25). Le parole del Signore non possono paragonarsi alle realtà create. Le realtà visibili passano e vengono le realtà che aspettiamo, più belle delle presenti: ma nessuno ne ricerchi curiosamente il tempo: "Non sta in voi" - è detto infatti - "conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato in suo potere" (Ac 1,7). Non osare dunque di stabilire il tempo in cui ciò avverrà; ma neppure, al contrario, non adagiarti supinamente: "Vigilate" - è detto infatti -, "perché nell’ora in cui non aspettate, il figlio dell’uomo verrà" (Mt 24,44).

       Cirillo di Gerusalemme, Catech., 15, 1-3


2. Il mistero dell’ultimo giorno

       Affermano alcuni che nessuno, neanche il Figlio, ma il solo Padre, conosca l’ultimo giorno.

       Ma com’è possibile che la Sapienza ignori anche una sola delle cose che sono, che l’ignori il creatore e rinnovatore dei secoli, colui che è il fine di tutte le cose create, che conosce le cose di Dio, come lo spirito dell’uomo conosce ciò che ha in se stesso? Che c’è al mondo di più pieno e perfetto di questa conoscenza? E com’è possibile che quello stesso che conosce tutto ciò che precede un evento e ne conosce esattamente lo svolgimento, non ne conosca poi ora? È come se uno dicesse di sapere tutto ciò che è innanzi a un muro e di non saper nulla del muro, o come se uno conoscesse la fine di un giorno, ma ne ignorasse il principio della notte seguente. È fuor di dubbio che Cristo, come Dio, conosce l’ora della fine del mondo, ma, poiché qui si parla di Figlio senza alcun riferimento, possiamo ritenere che questa ignoranza la si possa attribuire alla umanità del Cristo, senza coinvolgere la sua divinità.

       Gregorio Nazianzeno, Oratio, 30, 15


3. Scienza umana e divina di Gesù

       Certo, quando nel Vangelo dice di sé, come di uomo: "Padre viene l’ora, glorifica tuo figlio" (Jn 17,1), mostra chiaramente che egli conosce, come Verbo, l’ora in cui verrà la fine di tutte le cose, ma che l’ignora come uomo. Perché è proprio dell’uomo ignorare, particolarmente cose di questa specie. Ma questo è un tratto di singolare benevolenza del Salvatore. Fattosi uomo, infatti, non si vergogna di accusare la sua ignoranza di uomo. Non disse: "Neanche il Figlio di Dio lo sa" (Mc 13,32), perché non sembrasse che la divinità lo ignorasse; ma solo: "neanche il Figlio", perché si capisse che parlava dell’ignoranza del Figlio nato dagli uomini.

       Atanasio, Contra Arian., 3, 43


4. Solo il Padre conosce «il giorno e l’ora»

       È irragionevole, pertanto, che voi, tronfi di alterigia, affermiate con audacia che si possano conoscere i misteri mirabili di Dio, dal momento che lo stesso Signore, il Figlio di Dio in persona, ammise che solo al Padre era dato conoscere il giorno e l’ora del giudizio, dicendo espressamente: "Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre" (Mc 13,32).

Se dunque la conoscenza del giorno lo stesso Figlio non ebbe remore a riferirla al Padre, ma disse semplicemente quel che è vero, neppure noi dobbiamo averne nel riservare a Dio quelle cose che superano le nostre possibilità di giudizio. "Nessuno", infatti, "è superiore al proprio maestro" (Mt 10,24 Lc 6,40).

       Di conseguenza, se qualcuno ci avrà chiesto: «Come dunque il Figlio è generato dal Padre?», possiamo rispondergli che una tale accezione, o generazione, o denominazione, o spiegazione, o altro termine con cui si voglia chiamare la di lui generazione è indicibile nella sua esistenza, e nessuno lo sa.

       Ireneo di Lione, Adv. haer., II, 28, 6




XXXIV DOMENICA: SOLENNITÀ DI CRISTO RE

139 Letture:
    
Da 7,13-14
     Ap 1,5-8
     Jn 18,33-37


1. Gesù e Pilato

       In questo discorso dobbiamo esaminare e spiegare che cosa disse Pilato a Cristo, e cosa egli rispose a Pilato.

       Dopo aver detto ai giudei: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge», e dopo che essi gli ebbero risposto: «Non è permesso a noi dare la morte ad alcuno», "Pilato rientrò nel pretorio, e chiamò Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei giudei?». Rispose Gesù: «Da te lo dici, ovvero altri te l’hanno detto di me?»" (Jn 18,33-34). Il Signore sapeva bene quel che chiedeva a Pilato, come pure sapeva cosa egli gli avrebbe risposto; tuttavia, volle che fosse detto ciò, non per sapere quanto già sapeva, ma perché fosse scritto quanto voleva che giungesse a nostra conoscenza. "Rispose Pilato: «Sono io forse giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me: che hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi avrebbero certamente combattuto perché io non fossi dato nelle mani dei giudei; invece il mio regno non è di quaggiù»" (Jn 18,35-36).

       Questo è quanto il buon maestro ci volle insegnare: ma prima era necessario dimostrarci quanto vana fosse l’opinione che del suo regno avevano sia i gentili sia i giudei, dai quali Pilato l’aveva appresa. Essi pretendevano che egli dovesse esser messo a morte perché aveva cercato di impadronirsi ingiustamente del regno; oppure perché sia i romani che i giudei dovevano temere, come avverso al loro potere, il suo regno, in quanto appunto i detentori del potere sono soliti temere ed esser gelosi di chi potrebbe prendere il loro posto. Il Signore avrebbe potuto rispondere subito alla prima domanda di Pilato: «sei tu il re dei giudei?», dicendo: «il mio regno non è di questo mondo». Ma egli, chiedendo a sua volta se quanto Pilato domandava, lo diceva da sé, cioè fosse la sua opinione personale, oppure l’avesse inteso da altri, volle che fosse palese, attraverso la risposta di Pilato, che erano i giudei a formulare tale accusa contro di lui. Egli ci mostra così la vanità dei pensieri degli uomini (Ps 93,11), che ben conosceva, e rispondendo loro, giudei e gentili insieme, con parole più opportune ed efficaci, dopo quanto ha detto Pilato, dice: «Il mio regno non è di questo mondo».

       Se avesse fatto questa dichiarazione subito dopo la prima domanda di Pilato, si sarebbe potuto pensare che egli rispondesse, non anche ai giudei ma ai soli gentili, come se fossero stati solo questi ad avere di lui una tale opinione. Poiché invece Pilato risponde: «Sono io forse giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me», allontana da sé ogni sospetto che si possa ritenere che egli abbia spontaneamente detto, e non piuttosto sentito dai giudei, che Gesù aveva affermato di essere re dei giudei. E Pilato, inoltre, col chiedergli: «che hai tu fatto?», lascia intendere che egli era stato condotto a motivo di un delitto. È come se Pilato dicesse: Se non sei re, che hai fatto di male da essere consegnato a me? Quasi non fosse già straordinario il fatto che si consegnasse al giudice per essere punito chi diceva di essere re, ecco che se non avesse detto ciò, il giudice deve chiedere cos’altro abbia fatto di male per essere condotto da lui ad essere giudicato.

       Ascoltate dunque, giudei e gentili, ascoltate circoncisi e incirconcisi; tutti i regni della terra prestino orecchio: Io non danneggio il vostro potere in questo mondo, dice in sostanza il Signore, perché «il mio regno non è di questo mondo». Non fatevi prendere dall’assurdo timore che colse Erode, quando apprese la nascita di Cristo, e si spaventò tanto che fece uccidere tutti i neonati, sperando di uccidere anche Gesù tra quelli, mostrandosi così sanguinario e crudele più per la paura che non per la collera (Mt 2,3-16). «Il mio regno» - dice il Signore - «non è di questo mondo». Che volete di più? Venite dunque nel regno che non è di questo mondo; venite credendo, e guardatevi dalla crudeltà ispirata dalla paura. È vero che in una profezia, il Figlio, parlando di Dio Padre, ha detto: "Sono stato consacrato re da lui su Sion, il sacro suo monte" (Ps 2,6), ma questo monte e quella Sion non sono dl questo mondo. Di chi è composto il suo regno, se non di coloro che credono in lui, ai quali egli ha detto: «Non siete del mondo, così come io non sono del mondo»? Senza dubbio egli voleva che essi dimorassero nel mondo, e per questo chiese al Padre: «Non domando che tu li tolga via dal mondo, ma che li custodisca dal male». Notate che anche ora non dice: Il mio regno non è in questo mondo; ma dice: «il mio regno non è di questo mondo». E dopo aver provato la sua asserzione, soggiungendo: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi avrebbero certamente combattuto perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei», non dice: invece il mio regno non è qui, ma dice: «il mio regno non è di quaggiù». In realtà, il suo regno è qui, sulla terra, fino alla fine dei secoli, dove la zizzania è mischiata al buon grano sino alla mietitura che sarà alla fine dei tempi quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo regno tutti gli scandalosi (Mt 13,38-41). E questo non potrebbe accadere, se il suo regno non fosse sulla terra. Tuttavia, esso non è di quaggiù, perché è esiliato nel mondo. È al suo regno, cioè a questi pellegrini nel mondo, che egli dice: «Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo». Essi erano del mondo, quando ancora non facevano parte del suo regno ma appartenevano al principe di questo mondo. Tutto quanto negli uomini è stato creato da Dio, ma che ha avuto origine dalla stirpe colpevole e dannata di Adamo, appartiene al mondo; e tutto quanto è stato rigenerato in Cristo fa parte del regno e non appartiene più al mondo. È in questo modo che Dio ci ha sottratti al potere delle tenebre (Col 1,13) e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. Ed è appunto di questo regno che egli dice: «Il mio regno non è di questo mondo», oppure: «Il mio regno non è di quaggiù».

       "Gli disse allora Pilato: «Dunque tu sei re?». E Gesù rispose: «Tu dici che io sono re»" (Jn 18,37).

       Il Signore non teme di riconoscersi re, ma la sua espressione: «tu lo dici», è così calibrata che non nega di essere re (re, si intende, il cui regno non è di questo mondo), ma neppure afferma di esserlo, in quanto ciò potrebbe far pensare che il suo regno è di questo mondo. In questo senso infatti pensava Pilato, col dire: «dunque tu sei re?». Gesù risponde: «tu lo dici», cioè tu sei della terra, e secondo la carne così ti esprimi.

       Agostino, Comment. in Ioan., 115, 1-3


2. La città terrena è fondata sull’amore di sé, la città di Dio sull’amore di Dio

       Due amori fondarono due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio fondò la città terrena; l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, invece, la città celeste. Perciò quella si gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella ricerca la gloria dagli uomini; la gloria più grande di questa, invece, è Dio, testimone della sua coscienza. Quella innalza il capo nella sua gloria; questa dice al suo Dio: "Gloria mia, che innalza il mio capo" (Ps 3,4). Quella è dominata dalla brama di dominio sui principi o sulle nazioni soggiogate; in questa si servono a vicenda, nella carità, i capi governando, i sudditi obbedendo. Quella ama, nei suoi potenti, la propria forza; questa dice al suo Dio: "Amo te, o Signore, o forza mia" (Ps 17,2)...

       Ma la città celeste, o meglio quella sua parte che è pellegrina in questo corpo mortale e vive di fede, è necessario che fruisca di questa pace fino a quando questo suo stato mortale cui tale pace è necessaria non se ne passi. Pertanto, mentre trascorre la sua vita in schiavitù e pellegrinaggio nella città terrena, pur avendo già accolto la promessa della redenzione e il dono spirituale che ne è il pegno, non dubita di obbedire alle leggi della città terrena; quelle, cioè, con cui questa si amministra, leggi atte a sorreggere la vita mortale. Le è comune con essa il suo stato mortale: si mantiene di tal modo la concordia tra le due città in tutto ciò che a questo stato mortale si riferisce...

       Questa città celeste, dunque, mentre è pellegrina sulla terra, raccoglie i propri cittadini da tutte le genti, e raduna una società pellegrinante, dai popoli di tutte le lingue: non bada a ciò che nei costumi, nelle leggi e nelle tradizioni è diverso, se pur crea o mantiene la pace terrena; nulla disprezza di quei popoli, nulla distrugge, ma anzi tutto conserva e osserva. Infatti, benché diverso in diverse nazioni, tutto serve allo stesso fine di ottenere la pace terrena, se non impedisce la religione che ci insegna di dover adorare un unico sommo e vero Dio. La città celeste, dunque, gode, in questo suo pellegrinaggio, della pace terrena e di tutto ciò che giova alla natura umana; difende e desidera, quanto lo ammette l’integrità della devozione e della religione, la concordia delle volontà e mette in rapporto la pace terrena alla pace terrestre. Ma è quest’ultima la vera pace, tanto che si può dir l’unica pace della creatura razionale, cioè l’unione ordinatissima e piena di armonia nel godimento di Dio e nel godimento reciproco in Dio; al quale quando si giungerà, la vita non sarà più mortale, ma certamente e pienamente vitale; e il corpo non sarà più animale, che si corrompe e aggrava l’anima, ma spirituale, senza bisogno alcuno, soggetto in ogni sua parte alla volontà. Anche in questo pellegrinaggio possiede tale pace nella fede; e per questa fede vive nella giustizia perché al raggiungimento di tale pace ordina tutte le sue buone azioni compiute verso Dio e verso il prossimo; la vita infatti di tale città è evidentemente sociale.

       Agostino, De civit. Dei, 14, 28; 19, 17


3. I Giudei e il mistero della salvezza

       Sappiamo, infatti, che il Cristo verrà e che i Giudei non lo rifiuteranno, giacché daranno la loro speranza alla sua venuta.

       Né su questo argomento la maggior parte dovrebbe cercare di sapere di più, dal momento che nell’antichità tutti i profeti avevano predicato su di lui, come Isaia: "Così dice il Signore Dio al mio Cristo: lo ascoltino tutte le genti, di lui ho la destra! frantumerò il regno della potenza, aprirò davanti a Lui le porte, e le città non gli saranno chiuse" (Is 45,1). E questo noi lo vediamo adempiuto in Lui. A chi, infatti, tiene la destra Dio Padre, se non al Cristo, suo Figlio, che tutti i popoli hanno ascoltato, del quale nei salmi di David sono mostrati e i predicatori e gli apostoli: "In tutta la terra risuonò la loro voce e fino ai confini della terra le loro parole?" (Ps 18,5).

       In quale altro, infatti, tutti i popoli credettero, se non nel Cristo che già è venuto? [A chi in effetti, credettero le genti] "Parti e Medi ed Elamiti e quelli che abitano la Mesopotamia, Armenia (Frigia), la Cappadocia, e gli abitanti del Ponto e dell’Asia, la Frigia e la Panfilia, i dimoranti in Egitto, e le regioni dell’Africa, che è al di là di Cirene, e quelli che risiedono - Rm e stranieri" - allora e i "Giudei in Gerusalemme" e tutti gli altri popoli, come le differenti razze di Getuli e i molti confini dei Mauri, e tutti i limiti degli Ispani e le diverse nazioni delle Gallie, e le regioni dei Britanni inaccessibili ai Romani, assoggettati, invero, al Cristo, e dei Sarmati, e delle molte popolazioni lontane e delle province e delle isole a noi ignote, che non possiamo in nessun modo enumerare? In tutte queste regioni, il nome di Cristo, alle quali già giunse, e regna (Is 45,1), poiché prima di lui le porte di tutte le città sono state aperte (Is 45,2), e a lui nessuna è stata chiusa, prima del quale quelle di ferro.

       Quantunque queste cose anche spiritualmente sono intelligibili, poiché l’intimità dei singoli in vari modi posseduta dal demonio, della fede del Cristo è stata liberata, tuttavia anche per la propria natura sono state adempiute, affinché il popolo nel nome di Cristo abitasse in tutti quei luoghi.

       Chi, infatti, avrebbe potuto regnare in tutti i popoli, se non il Cristo, figlio di Dio, che veniva annunziato a tutti che avrebbe regnato per sempre? (Ps 10,16).

       Ma il nome di Cristo è predicato ovunque, dovunque è creduto, è onorato da tutti i popoli sopra enumerati, regna ovunque, ed è adorato dappertutto.

       A tutti, in ogni luogo, è presentato in maniera eguale; presso di lui non c’è maggior grazia di re, non minor gioia di alcun barbaro; i suoi meriti distinti non dipendono o dalla dignità o dai natali; per tutti è uguale, per tutti è re; per tutti è giudeo; di tutti è il Signore e il Dio.

       Tertulliano, Adv. Judaeos, 7, 2-6.9





Lezionario "I Padri vivi" 136