Lezionario "I Padri vivi" 153

IV DOMENICA DI QUARESIMA

153 Letture:
    
Jos 5,9a Jos 5,10-12
     2Co 5,17-21
     Lc 15,1-3 Lc 15,11-32

1. Il figlio prodigo

       "Un uomo aveva due figli e il più giovane gli disse: «Dammi la mia parte di patrimonio»" (Lc 15,11-12). Vedi che il patrimonio divino viene dato a coloro che lo chiedono. E non credere che il padre sia in colpa perché ha dato il patrimonio al più giovane: non si è mai troppo giovani per il Regno di Dio, e la fede non sente il peso degli anni. In ogni caso colui che ha domandato il patrimonio si riteneva capace di possederlo: Dio volesse che egli non si fosse mai allontanato dal padre, e non avesse ignorato gli inconvenienti della sua età! Ma poi se ne partì per un paese straniero - necessariamente dissipa il suo patrimonio chi si allontana dalla Chiesa -; lasciando la casa e la patria, "se ne partì per un paese straniero, in una regione lontana" (Lc 15,13).

       Non c’è luogo più remoto di quello in cui va chi va lontano da sé, e si allontana non per lo spazio, ma per i costumi, si separa non per la distanza ma per i desideri, e, come se mettesse in mezzo l’onda dei piaceri mondani, con la sua condotta spezza ogni legame. Chiunque infatti si separa da Cristo è un esule dalla sua patria, diventa cittadino del mondo.

       Noialtri, invece, non siamo stranieri di passaggio, "siamo concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio" (Ep 2,19); eravamo lontani, ma siamo stati fatti vicini nel sangue di Cristo (Ep 2,13). Ma non siamo maldisposti verso chi viene da una regione lontana, perché anche noi siamo stati in una regione lontana, come insegna Isaia; così leggi: "Per coloro che sedevano nella regione dell’ombra della morte, per loro è sorta la luce" (Is 9,2). La regione lontana è dunque quella dell’ombra della morte; ma noi che abbiamo per spirito dinanzi al volto il Cristo Signore (Lm 4,20), viviamo nell’ombra di Cristo. Per questo la Chiesa dice: "Nella sua ombra sedetti desiderosa" (Ct 2,3).

       Quello, vivendo nella lussuria, ha sciupato ogni ornamento proprio della sua natura: ebbene tu, che hai ricevuto l’immagine di Dio e che sei simile a lui, guardati bene dal rovinarla con una irragionevole e degenerata condotta. Tu sei opera di Dio...

       "Venne la carestia in quella regione" (Lc 15,14): carestia non di pane e cibo, ma di buone opere e di virtù. Esiste un digiuno peggiore di questo? In verità chi si allontana dalla Parola di Dio è affamato, perché "non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola di Dio" (Lc 4,4). Se ci si allontana dalla fonte siamo colti dalla sete, si diventa poveri se ci si allontana dal tesoro, si diviene sciocchi se ci si allontana dalla sapienza, si distrugge infine se stessi allontanandosi dalla virtù. È quindi naturale che costui cominciò a sentirsi in gravi ristrettezze, in quanto aveva abbandonato i tesori della sapienza e della scienza di Dio e la profondità delle ricchezze celesti (cf. Col 2,3). Egli cominciò a sentire la miseria e a soffrire la fame, perché niente è abbastanza per la prodiga voluttà. Sempre patisce la fame, chi non si sa nutrire degli alimenti eterni...

       "E bramava di riempirsi il ventre di carrube" (Lc 15,16). I lussuriosi non hanno infatti altro desiderio che di riempirsi il ventre, perché "il ventre è il loro dio" (Ph 3,19). E a simili uomini quale cibo è più adatto di questo che è, come le carrube, vuoto di dentro, di fuori è molle, ed è fatto non per alimentare, ma per gravare il corpo, e che è più pesante che nutriente?...

       "Ed ecco, nessuno gliene dava" (Lc 15,6); si trovava infatti nella regione di colui che non ha nessuno, perché non ha quelli che sono. Infatti tutte le nazioni sono stimate un niente (Is 40,17); non c’è che Dio, "che vivifica i morti, e chiama le cose che non sono come cose che sono" (Rm 4,17).

       "Allora, tornato in sé, disse: «Quanti pani hanno in abbondanza i mercenari di mio padre!»" (Lc 15,17).

       È ben vero che ritorna in sé, poiché si era allontanato da sé. Chi torna infatti al Signore torna in sé, mentre chi si allontana da Cristo rinnega sé.

       Ma chi sono i mercenari? Non sono forse quelli che servono per il salario, cioè quelli d’Israele? Che non perseguono il bene per amore dell’onestà, che sono attirati non dalla bellezza della virtù ma dal desiderio del guadagno? Ma il figlio che ha in cuore il pegno dello Spirito Santo (2Co 1,22) non cerca il meschino profitto di un salario di questo mondo, perché possiede il diritto all’eredità. Vi sono anche dei mercenari che sono impegnati nei lavori della vigna. Buoni mercenari sono Pietro, Giovanni, Giacomo, ai quali è detto: "Venite, farò di voi pescatori di uomini" (Mt 4,19). Costoro hanno in abbondanza non carrube, ma il pane: perciò poterono riempire dodici ceste di avanzi. O Signore Gesù, se tu ci togliessi le carrube e ci donassi il pane, tu che sei il dispensiere nella casa del Padre! Se tu ti degnassi anche di accoglierci come mercenari, anche se veniamo sul tardi! Tu infatti assumi mercenari anche all’undicesima ora, e ti compiaci di pagare un’eguale mercede (Mt 20,6-16), eguale mercede di vita, non di gloria; non a tutti infatti è «riservata la corona di giustizia», ma a colui che può dire: "Ho combattuto la buona battaglia" (2Tm 4,7ss)...

       Se vi fosse restato anche quello, non si sarebbe mai allontanato da suo padre. Ma stiamo tuttavia attenti a non ritardare la sua riconciliazione, che il padre non gli ha ritardato. Egli si riconcilia volentieri, quando è pregato intensamente. Apprendiamo con quali suppliche è necessario avvicinare il Padre. Padre, egli dice. Quanta misericordia, quanta tenerezza, vi è in colui che, pur essendo stato offeso, non sdegna di sentirsi chiamare padre! "Padre" - dice -, "ho peccato contro il cielo e dinanzi a te" (Lc 15,18).

       Ecco la prima confessione della colpa, rivolta al creatore della natura, all’arbitro della misericordia, al giudice del peccato. Sebbene egli sappia tutto, Dio tuttavia attende dalla tua voce la confessione, infatti "è con la bocca che si fa la confessione per la salvezza" (Rm 10,10). Solleva il peso della propria colpa colui che spontaneamente se ne carica: taglia corto all’animosità dell’accusa chi previene l’accusatore confessando: infatti "il giusto nell’esordio del suo discorso, è accusatore di se stesso" (Pr 18,17). E d’altra parte sarebbe vano tentar di dissimulare qualcosa a colui che su nessuna cosa può trarre in inganno; non rischi niente, a denunziare ciò che sai esser già noto. Meglio è confessare, in modo che per te intervenga Cristo, che noi abbiamo come avvocato presso il Padre (cf. 1Jn 2,1), per te preghi la Chiesa, e il popolo infine per te pianga. E non aver timore di ottenere. L’avvocato ti garantisce il perdono, il patrono ti promette la grazia, il difensore ti assicura la riconciliazione con l’amore paterno. Credi dunque, perché il Signore è verità, e sii tranquillo, perché il Signore è potenza. Egli ha un fondamento per intervenire a tuo favore; altrimenti sarebbe morto inutilmente per te. E anche il Padre ha ben ragione di perdonarti, perché ciò che vuole il Figlio lo vuole anche il Padre.

       Ti viene incontro colui che ti ha sentito parlare nell’intimo della tua anima; e mentre tu sei ancora lontano, egli ti vede e ti corre incontro (Lc 15,20). Egli vede nel tuo cuore, e corre a te perché niente sia di ritardo, ti abbraccia, anche. Nel venirti incontro è chiara la sua prescienza; nell’abbracciarti si manifesta la sua clemenza e il suo amore paterno. Si getta al collo, per sollevare colui che giaceva in terra carico di peccati, per sollevarlo verso il cielo in modo che possa cercarvi il suo autore. Cristo si getta al tuo collo, per liberare la tua nuca dal giogo della schiavitù, e mettervi il suo giogo soave (Mt 11,30). Non ti sembra che egli si sia gettato al collo di Giovanni, quando Giovanni riposava sul suo petto, con la testa rovesciata all’indietro? Per questo egli vide il Verbo presso Dio, perché si era innalzato verso altezze sublimi. Il Signore si getta al collo, quando dice: "Venite a me, voi che siete affaticati, e io vi darò sollievo; prendete su di voi il mio giogo" (Mt 11,28-29). È in questo modo che egli ti abbraccia, se tu ti converti.

       Ambrogio, In Luc., 7, 213-230


2. La parabola del figlio perduto (Lc 15,11-32)

Al presente, ti supplico con lui:
«Padre, contro di te ho peccato e contro il cielo;
non son più degno che tu mi chiami figlio
fa’ di me l’ultimo dei tuoi salariati».

Rendimi degno del più puro e santo
bacio del Padre tuo sì buono.

Sotto il tetto della sala di Nozze
ti piaccia ricevermi di nuovo.

E la veste iniziale della quale
briganti di strada mi spogliarono,
rivestimene ancora
come ornamento di Sposa preparata.

L’anello regale,
che d’autorità è il segno,
fa’ ch’io lo riporti nella mano destra,
per non deviare mai più verso sinistra.

E come protezione dal Serpente
metti scarpe ai miei piedi
perché non urtino la tenebra,
ma la sua testa schiaccino.

Al sacrificio del vitello grasso,
che sulla Croce per noi s’è immolato
e al sangue uscito per la lancia dal Costato
donde usciva il ruscello della Vita,

fammi partecipare nuovamente,
come nella parabola del Figlio Prodigo,
per mangiare il pane che dà vita,
per bere alla tua celeste coppa...

Sulle tracce del Prodigo ho camminato
in paesi estranei e lontani;
l’eredità paterna ho scialacquato
che al Fonte sacro avevo ricevuto.

Laggiù straziato fui da carestia
del Pane della Vita e della divina Bevanda.

Pascolando il gregge dei porci, sfamato
non mi son con i peccati della dolce carruba.

Invoco il Padre tuo come il cadetto
dicendo: «Contro Te e contro il ciel peccai;
anche se di figlio il nome al tuo cospetto,
Padre celeste, non son degno di portare.

Fa’ di me (quantomeno) un salariato
che per modesta paga compia il bene;
(ponimi) tra quei che son salvati dal secondo gruppo,
perché ho spezzato l’amor dovuto al Padre».

Accoglimi tra le braccia per esser da Te curato,
o Sublime; rendimi degno del tuo santo bacio;
sostituisci, o Immortal, col tuo profumo,
il lezzo cadaverico dell’anima!

Dammi la carne del Vitello grasso;
il vin che è sulla Croce fammi bere;
allieta lo stuol degli angeli,
perch’io morto la vita ho ritrovato.

L’Ebreo, figlio primogenito,
ovver color che son dei Giusti a lato,
che provenendo dal campo della Legge,
alla tua Chiesa vennero,

sol da lontano intesero la voce,
dei suoi figli che danzavano concordi,
e non vollero entrar nel Santuario,
quali persone afflitte alla maniera umana.

Si consumavan per la gelosia
al veder la salvezza dei gentili:
poiché si vantavano i lor padri
che la tua Legge non han trasgredito.

Quanto ad essi, non erano salvati
né dal Vitello grasso, olocausto di tuo Figlio,
né dal capretto pure immolato
per umano od angelico che fosse.

       Nerses Snorhali, Jesus, 19-25, 591-600




V DOMENICA DI QUARESIMA

154 Letture:
    
Is 43,16-21
     Ph 3,8-14
     Jn 8,1-11


1. Verità, bontà, giustizia e misericordia

       Considerate ora in qual modo la bontà del Signore fu posta alla prova dai suoi nemici. "Allora gli scribi e i farisei conducono una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero. «Maestro, questa donna è stata colta in adulterio. Ora Mosè nella legge ci ha comandato di lapidare tali donne: tu che ne dici?». E questo dicevano per metterlo alla prova, in modo da poterlo accusare" (Jn 8,3-6).

       Accusarlo di cosa? Forse avevano colto anche lui in qual che delitto?... E siccome i suoi nemici, per invidia e per rabbia, non riuscivano a sopportare queste due qualità, cioè la sua dolcezza e la sua verità, cercarono allora di tendergli un tranello sulla terza, cioè sulla giustizia. In qual modo?

       La legge comandava che gli adulteri dovevano essere lapidati, e la legge non poteva comandare ciò che non era giusto: se qualcuno si opponeva a un precetto della legge, veniva accusato di prevaricazione. I Giudei avevano pensato tra sé: egli è ritenuto amico della verità e appare mansueto; dobbiamo cercare di coglierlo in fallo sulla giustizia: presentiamogli una donna colta in adulterio, e diciamogli che cosa stabilisce la legge in tali casi. Se egli ordinerà che sia lapidata, mostrerà di non essere affatto mansueto: se dirà che deve essere lasciata andare, mostrerà di non avere giustizia. Siccome non vorrà perdere - essi dicevano - l’aureola di mansuetudine, grazie alla quale è amato dal popolo, senza dubbio dirà che dobbiamo lasciarla andare. Così noi avremo l’occasione per accusarlo, per dichiararlo reo come prevaricatore e potremo dire di lui che è nemico della legge, che ha parlato contro Mosè o, meglio, contro colui che per mezzo di Mosè ci ha dato la legge; e quindi è degno di morte e deve essere lapidato insieme alla donna.

       Con queste parole e con questi ragionamenti la loro invidia si accresceva, ardeva il loro desiderio di accusarlo, diveniva più forte la voglia di condannarlo. Cosa li spingeva a parlare in questo modo, e contro chi parlavano? Era la perversità che tramava contro la rettitudine, la menzogna contro la verità, il cuore corrotto contro il cuore retto, la stoltezza contro la sapienza...

       Cosa rispose il Signore Gesù? Cosa rispose la verità, la sapienza, la stessa giustizia contro la quale era diretta l’insidia?

       Non disse: Non sia lapidata! Se lo avesse detto sarebbe apparso che egli andava contro la legge. Ma si guardò bene anche dal dire: Sia lapidata! Egli era venuto infatti per non perdere ciò che aveva trovato, anzi per trovare ciò che si era perduto (Lc 19,10). Cosa rispose? Considerate quanto la sua risposta sia contemporaneamente carica di giustizia, di mansuetudine e di verità! Disse: "Chi di voi è senza peccato scagli per primo una pietra contro di lei" (Jn 8,7).

       Risposta piena di saggezza! In che modo li costrinse a guardare dentro se stessi? Essi infatti calunniavano gli altri, ma non scrutavano in se stessi: vedevano l’adulterio della donna, non i loro peccati...

       L’avete sentita voi, farisei, dottori della legge, custodi della legge, ma non avete compreso il Legislatore.

       Che cosa ha voluto mostrarvi ancora, quando scriveva con il dito in terra? Ha voluto mostrarvi che la legge è stata scritta col dito di Dio e che, a causa della durezza dei cuori, essa è stata scritta sulla pietra (cf. Ex 31,18). E ora il Signore scriveva sulla terra perché cercava il frutto della legge. Voi avete inteso: «si compia la legge», «sia lapidata l’adultera»: ma nel punire la donna, la legge dovrà essere applicata da coloro che a loro volta debbono essere puniti? Ciascuno di voi consideri se stesso, entri in se medesimo, si ponga dinanzi al tribunale della sua anima, si costituisca alla sua coscienza, e obblighi se stesso a confessarsi. Egli solo sa chi è, poiché nessun uomo conosce i segreti di un altro, se non lo spirito medesimo dell’uomo che è dentro di lui. Ciascuno, guardando in se stesso, si scopre peccatore (1Co 2,11). Non c’è alcun dubbio su questo. Quindi, lasciate andare questa donna, oppure accettate con lei le pene previste dalla legge. Se il Signore avesse detto: Non lapidate l’adultera!, sarebbe stato accusato di ingiustizia; se avesse detto: Lapidatela!, non sarebbe apparso mansueto. Che formuli dunque una risposta che a lui si addice, che è mansueto e giusto: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo una pietra contro di lei». Questa è la voce della giustizia: si punisca la peccatrice, ma non siano i peccatori a punirla; sia rispettata la legge, ma non siano i violatori della legge a imporne il rispetto. Ben a ragione è la voce della giustizia.

       Essi, colpiti da queste parole come da una freccia grossa quanto una trave, "uno dopo l’altro se ne andarono" (Jn 8,9). Restano solo loro due, la misera e la misericordia. E il Signore, dopo averli colpiti con la freccia della giustizia, non si degna neppure di stare a vedere la loro umiliazione, ma, voltando loro le spalle, "di nuovo col dito scriveva in terra" (Jn 8,8).

       Quella donna era dunque rimasta sola, poiché tutti se ne erano andati: Gesù allora levò i suoi occhi su di lei. Abbiamo udito la voce della giustizia, udiamo ora anche quella della dolcezza.

       Credo che quella donna fosse stata più degli altri colpita e spaventata dalle parole che avete sentito dire dal Signore: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo una pietra contro di lei». I farisei esaminandosi e con la loro stessa partenza confessandosi colpevoli, avevano lasciato la donna con un così grande peccato, insieme a colui che era senza peccato. Ed essa, dopo avere udito: «Chi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei», temeva di essere punita da lui, nel quale non era peccato. Ma egli, dopo avere cacciato i suoi nemici con la voce della giustizia, levando su di lei gli occhi della mansuetudine, le chiese: "Nessuno ti ha condannato?" (Jn 8,10). E quella rispose: "Nessuno, o Signore" (Jn 8,11). Ed egli replicò: "Neppure io ti condannerò ()", tu che avevi temuto di essere punita da me, poiché in me non hai trovato peccato.

       «Neppure io ti condannerò». Che vuol dire questo, Signore? Tu favorisci dunque il peccato? No di certo. Sentite ciò che segue: "Va’ e d’ora innanzi non peccare più ()". In altre parole, il Signore condanna il peccato, non il peccatore. Infatti, se avesse perdonato il peccato, avrebbe detto: Neppure io ti condanno, va’ vivi come vuoi, sta’ sicura che io ti libererò; per quanto grandi siano i tuoi peccati, io ti libererò da ogni pena e da ogni sofferenza dell’inferno. Ma non disse così.

Intendano bene coloro che amano nel Signore la mansuetudine e temano la verità. Infatti è insieme "dolce e retto il Signore" (Ps 24,8).

       Tu lo ami perché è dolce, devi temerlo perché è retto. In quanto è mansueto disse: «Tacqui»; ma in quanto è giusto aggiunse: "Ma forse sempre tacerò?" (Is 42,14 secondo i LXX). "Il Signore è pietoso e benigno" (Ps 85,15). Senza dubbio è così. Aggiungi ancora «pieno di bontà» e ancora "tardo all’ira ()"; ma non dimenticare di temere ciò che sarà nell’ultimo giorno, cioè «verace». Egli sopporta ora le colpe dei peccatori, ma allora giudicherà chi lo ha disprezzato. "Ovvero disprezzi le ricchezze della sua bontà e della sua mansuetudine, ignorando che la pazienza di Dio ti spinge alla penitenza? Ma tu con la durezza del tuo cuore impenitente, ti attiri sul capo un cumulo di collera per il giorno dell’ira e della manifestazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere" (Rm 2,4-6). Il Signore è mansueto, il Signore è longanime, è misericordioso; ma è anche giusto, è anche verace. Ti dà il tempo di correggerti, ma tu preferisci godere di questa dilazione piuttosto che emendarti. Fosti malvagio ieri? Sii buono oggi. Hai passato nel male la giornata di oggi? Deciditi a cambiare domani. Ma tu aspetti sempre a correggerti, sempre ti riprometti di usufruire della misericordia di Dio, come se colui che ti ha promesso il perdono in cambio del pentimento, ti avesse anche promesso una vita lunghissima. Come fai a sapere che per te ci sarà anche il giorno di domani? Hai ragione quando dici nel tuo cuore: quando mi correggerò, Dio mi rimetterà tutti i peccati. Non possiamo certo negare che Dio ha promesso il perdono a tutti coloro che si correggono e che si convertono. Ma in quella stessa profezia dove tu leggi che Dio promise indulgenza a chi si pente, non puoi leggere che Dio ti ha promesso anche una lunghissima vita.

       Contro due ostacoli gli uomini rischiano di naufragare la speranza presuntuosa e la disperazione; due ostacoli del tutto opposti, e che derivano da sentimenti diametralmente contrari. Uno dice: Dio è buono, è misericordioso, io posso perciò fare ciò che mi pare e piace, posso lasciare sciolte le briglie alle mie passioni, posso soddisfare tutti i miei desideri. Perché posso farlo? Perché Dio è misericordioso, è buono, è mansueto. Costoro corrono rischi proprio per la loro speranza, perché non si inducono mai a correggersi. Sono invece vittime della disperazione coloro che, avendo commesso gravi peccati, ritengono di non poter essere più perdonati e, considerandosi, senza dubbio alcuno, destinati alla dannazione, dicono: Saremo certamente dannati; perché non possiamo allora fare ciò che ci pare, come fanno i gladiatori che sanno di non avere scampo e che il loro destino è essere uccisi dalla spada? Per questo i disperati sono anche pericolosi: essi che credono di non avere più ormai niente da temere, debbono invece essere riguardati con timore. La disperazione li uccide, così come la speranza uccide gli altri.

       L’anima fluttua tra la speranza e la disperazione. Devi temere di essere ucciso dalla speranza, devi cioè temere che, mentre tranquillamente continui a sperare nella misericordia, tu non ti ritrovi d’improvviso di fronte al giudizio; altrettanto devi temere che la disperazione non ti uccida; devi temere cioè, poiché hai ritenuto di non poter ottenere il perdono per i gravi delitti che hai commesso e perciò non te ne sei pentito, di incorrere nel giudizio del tribunale della sapienza, che dice: "E io riderò della vostra sventura" (Pr 1,26).

       Cosa fa il Signore verso coloro che sono in pericolo per l’una o l’altra di queste due malattie? A coloro che corrono rischi per la troppa speranza dice: "Non tardare a convertirti a Dio, né differire di giorno in giorno; perché d’un tratto scoppia la sua ira e nel giorno del giudizio tu sei spacciato" (Si 5,7). E a coloro che corrono pericoli per la disperazione, che dice Dio? "In qualunque giorno l’iniquo si sarà convertito, tutte le sue iniquità io dimenticherò" (Ez 18,21 Ez 18,22 Ez 18,27). A coloro dunque che sono in pericolo per la disperazione egli indica il porto dell’indulgenza; per coloro che corrono rischi per la eccessiva speranza e si illudono di avere sempre tempo, fa incerto il giorno della morte. Tu non sai quando verrà l’ultimo giorno. Sei un ingrato, non riconosci la grazia di Dio, che ti ha dato anche il giorno di oggi affinché tu ti corregga.

       Questo è il senso delle parole che disse a quella donna: «Neppure io ti condannerò»: ora che sei tranquilla a proposito di quanto hai commesso in passato, abbi timore di quanto potrà accadere nel futuro. «Neppure io ti condannerò»: cioè ho distrutto ciò che hai commesso, ma osserva quanto ti ho comandato, al fine di ottenere quanto ti ho promesso.

       Agostino, Comment. in Ioan., 33, 4-8


2. Preghiera per ricevere la pace

Noi ti supplichiamo e t’imploriamo

con i sospiri e le lacrime dell’anima,

o Creatore glorioso, Spirito incorruttibile e increato,

eterno e compassionevole;

Tu che sei nostro Avvocato con gemiti indicibili (Rm 8,26) presso il Padre misericordioso;

Tu che sui santi vigili,

e purifichi i peccatori facendone dei Templi (1Co 3,16)

vivi e vivificanti per il beneplacito del Padre altissimo.

Liberaci da tutte le azioni impure,

ripugnanti alla tua inabitazione in noi;

non siano estinti da noi gli splendori

della tua grazia che illumina

la vista degli occhi interiori!

Siamo, in effetti, edotti che Tu ti unisci a noi

grazie alla preghiera e ad una condotta di vita

irreprensibile e santa (1Co 6,17).

E poiché Uno della Trinità in sacrificio è offerto,

e un Altro Lo riceve e propizio verso noi si mostra

per riguardo al Sangue riconciliatore del suo Primogenito,

voglia Tu accettare le nostre suppliche

e disporci in dimore onorevoli e ben pronte,

affinché assaporiamo e mangiamo l’Agnello celeste,

e riceviamo senza castigo e condanna (1Co 11,29)

la Manna che dà vita immortale,

e una salvezza nuova.

Le nostre colpe fondi per questo Fuoco,

come quelle del Profeta, purificate dal carbone ardente

con pinzette appoggiato alle sue labbra (Is 6,5-7),

perché sia proclamata ovunque

la tua compassione, e al pari,

attraverso il Figlio, la soavità del Padre;

Lui che riammise il figlio prodigo all’eredità del padre

e avviò al Regno le cattive donne (Lc 7,36-50 Lc 8,2 Jn 4,1-42),

nella Beatitudine dei Giusti.

Sì, sì, anch’io uno di questi sono;

con loro dunque anche me accogli,

come uno che ha gran bisogno

della benignità tua, io che dalla tua grazia

fui salvato, dal Sangue di Cristo riscattato;

affinché, in tutto questo, sempre e ovunque

la tua Divinità sia conosciuta

e sia glorificata con il Padre in un eguale onore

in un’unica Volontà e nell’unica beata Sovranità lodata.

A Te, invero, appartiene la Compassione, la Potenza,

e l’Amore degli uomini,

la Forza e la Gloria, nei secoli dei secoli. Amen.

       Gregorio di Narek, Liber orat., 33, 5




DOMENICA DI PASSIONE O DELLE PALME

155 Letture:
    
Is 50,4-7
     Ph 2,6-11
     Lc 22,14-71 Lc 23,1-56

1. Benedetto il regno che viene

       "Benedetto il regno che viene, del padre nostro David! Osanna nel più alto dei cieli" (Mc 11,10).

       Leggiamo nel Vangelo di Giovanni (Jn 6,15) che le folle, ristorate coi cinque pani e i due pesci, volevano rapire Gesù e proclamarlo re, ma che Gesù, per evitare che questo avvenisse, fuggì sul monte a pregare. Ora invece, mentre viene a Gerusalemme ove subirà la passione, non sfugge a coloro che lo proclamano re; che in schiera osannante e cantando canzoni degne del re e del Figlio di Dio lo conducono alla città regale, non impone il silenzio a quanti insieme cantano la restaurazione in lui del regno del patriarca David, e la riconquista dei doni dell’antica benedizione. Per qual motivo ciò che prima rifiutò fuggendo, ora l’accoglie volentieri, e il regno che non volle accettare quando ancora doveva riportare la sua vittoria nel mondo, ora che sta per abbandonare il mondo per la passione della croce, ora questo regno non lo rifiuta? Certo per insegnare apertamente che egli è il re di un impero non temporaneo e terreno ma eterno nei cieli, di un regno al quale perverrà con il disprezzo della morte, con la gloria della Risurrezione e il trionfo dell’Ascensione. Ecco perché apparendo ai discepoli dopo la Risurrezione dirà: "Mi è stata data ogni potestà in cielo e in terra" (Mt 28,18), con quel che segue. Dobbiamo osservare peraltro quanta somiglianza vi sia tra le parole della folla che loda in coro il Signore e quelle di Gabriele che lo annunzia alla Vergine madre dicendo: "Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di David suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe" (Lc 1,32-33). Il Signore accettò il trono e il regno di David per chiamare al regno celeste e immortale e introdurre nella stessa visione di Dio Padre con fatti, parole, doni e promesse degne soltanto del Mediatore tra Dio e gli uomini, quel popolo al quale un tempo David aveva offerto l’organizzazione di un regno temporale insieme con esempi di giustizia, e che egli soleva spingere all’amore e alla fede nel suo Creatore con le melodie di suoi salmi spirituali. «Aggiungendo osanna, cioè salvezza, nel più alto dei cieli, chiaramente si mostra che l’avvento di Cristo non è soltanto la salvezza degli uomini, ma di tutto il mondo, in quanto unisce le cose terrene a quelle celesti in modo che ogni ginocchio, celeste, terrestre e infernale, si pieghi dinanzi a lui».

       Beda il Venerabile, In Marc., 3, 11, 10


2. Gesù e David, la Legge e la grazia

Con palme i bambini ti lodano,
chiamandoti figlio di David:
avevan ragione, o Maestro,
perché tu l’insolente hai ucciso
Golia spirituale.

Le danzatrici dopo la vittoria
così l’acclamarono:
Saul mille ne uccise, David diecimila (1S 18,6-7).
Questo la Legge sta a dire,
e dopo la tua grazia, o mio Gesù.

La Legge è Saul geloso che perseguita;
però su David perseguitato
sboccia il frutto di grazia,
poiché di David il Signor tu sei,
o Benedetto, venuto a richiamare Adamo...

Tu la forza manifesti
eleggendo l’indigenza.
Segno di povertà fu quello
infatti di sedersi sopra un asinello,
mentre con la tua gloria
fai vacillare Sion.

Le vesti dei discepoli eran certo
un marchio d’indigenza,
ma l’inno dei bambini e delle folle il grido (Mt 21,9)
eran di tua potenza il segno:
«Osanna nell’alto dei cieli» - ovvero:
Salvaci alfine; Salva, o Altissimo, gli oppressi.

Abbi pietà di noi, per queste palme;
I rami che si agitano il tuo cuore toccheranno,
tu che venuto sei per richiamare Adamo.
Adamo per noi contrasse,
mangiando il non dovuto,
il debito che ci opprime,
e fino ad oggi, al posto suo vien chiesto
a noi suoi discendenti.

Impadronirsi di sua vittima
dal creditor fu ritenuto poco;
incombe allor sui figli
reclamando del padre il debito,
svuota del debitor la casa,
tutti menando fuori.

A colui che è onnipotente
perciò noi ricorriamo:
conoscendo la nostra spoliazione,
assumiti tu il nostro debito,
tu ricco qual sei,
tu che venuto sei per richiamare Adamo.

Per liberare gli uomini venisti,
testimone il profeta Zaccaria,
che dolcissimo, giusto e salvatore,
un tempo t’ha chiamato (Za 9,9).

Esausti e vinti siamo,
scacciati dappertutto.
Nella Legge credemmo intravedere
un liberator, però in servaggio
essa ormai ci ha ridotti;
quindi appello ai profeti
facemmo e sulla speranza ci han lasciati.

Per questo coi bambini
ci gettiamo ai tuoi piedi:
pietà di noi, oppressi;
consenti a subir la croce e la sentenza
tu della morte lacera,
tu che venuto sei per richiamare Adamo.

«O creatura della mano mia -
risponde il Creatore a quelli che sì gridano -,
sapendo che la Legge non aveva
potere di salvarti,
lo stesso son venuto.

Alla Legge salvarti non spettava,
perché non è lei che t’ha creato;
né dei profeti compito,
che creature mie come te erano.

Solo a me spetta d’affrancarti
dal debito oppressore.

Per te sono venduto, e sì ti libero;
per te son crocifisso, e dalla morte scampi;
muoio, così a gridar ti insegno:
Benedetto tu sei
tu che venuto sei per richiamare Adamo.

Ho forse io amato tanto gli angeli?
No, sei tu, il meschino, che io ho preferito.

La mia gloria offuscai,
e ricco, liberamente povero mi feci,
per amor tuo.

Per te ho sofferto
fame, sete e fatica.

Per monti, valli e per burroni ho corso,
pecorella smarrita, per cercarti;
nome di agnello presi
per ricondurti, attratta da mia voce;
e di pastore, per dare la mia vita
per te, e sottrarti al lupo.

Tutto perché tu gridi io sopporto:
Benedetto tu sei,
tu che venuto sei per richiamare Adamo».

       Romano il Melode, Hymn., 32, 6.8-12


3. Sulla Passione di Gesù

       Gesù, sapendo che era ormai venuto il tempo di dar compimento alla sua gloriosa Passione, disse: "L’anima mia è triste fino alla morte" (Mt 26,38), e ancora: "Padre, se possibile passi da me questo calice" (Mt 26,39). Con tali parole rivelatrici di un certo timore, egli guariva condividendole le emozioni della nostra debolezza e aboliva, sottomettendovisi, la paura della sofferenza da subire. È dunque in noi che il Signore tremava del nostro terrore, di modo che, assumendo la nostra debolezza e rivestendosene, vestì la nostra incostanza con la fermezza scaturita dalla sua forza.

       Egli, infatti, era disceso dal cielo in questo mondo come un mercante ricco e benefattore, e, per un ammirabile scambio aveva concluso un affare, prendendo ciò che apparteneva a noi, e accordando ciò che era suo, dando l’onore per gli obbrobri, la guarigione per i dolori, la vita per la morte; e lui che per sterminare i suoi persecutori poteva avere a suo servizio più di dodicimila legioni di angeli (Mt 26,53), preferì meglio subire il nostro terrore piuttosto che fare uso della propria potenza.

       Quanto quella umiltà fosse di profitto per tutti i fedeli, il beato apostolo Pietro lo sperimentò per primo, lui che, con la sua violenta tempesta, l’assalto della crudeltà aveva scosso; con brusco cambiamento, ritornò in sé e ritrovò la sua forza; attingendo il rimedio nell’esempio, quel membro tremante indossò immediatamente la fermezza del suo Capo. Il servo, in effetti, non poteva essere più grande del suo Signore, né il discepolo più del Maestro (Jn 15,20); e non avrebbe potuto vincere il terrore dell’umana fragilità, se il vincitore della morte non avesse dapprima tremato. Il Signore dunque guardò Pietro (Lc 22,61), e, pur in mezzo alle calunnie dei sacerdoti, alle menzogne dei testimoni, alle ingiurie di coloro che lo colpivano e lo schernivano, incontrò il discepolo scosso da quello sguardo che in anticipo aveva visto che sarebbe rimasto turbato; la Verità penetrò in lui per scoprire il punto in cui il cuore reclamava la correzione, era come se una non so quale voce del Signore avesse detto: «Pietro, perché scappi? Perché ti rinchiudi in te stesso? Ritorna a me, abbi fiducia, sono io (Jn 21,23); questo è il tempo della mia Passione, l’ora del tuo martirio non è ancora venuta. Perché hai paura di ciò che anche tu supererai? Non lasciarti sconcertare dalla debolezza che ho voluto assumere. Se io tremo, è in proporzione di quanto prendo da te, ma tu, sii senza paura in proporzione di quanto prendi da me».

       Leone Magno, Sermo 41 [54], 4-5


4. Perché Gesù ha avuto paura della morte?

       Al crepuscolo della notte in cui consegnò se stesso, egli distribuì il suo corpo e il suo sangue agli apostoli, ordinando loro di fare atrettanto in memoria della sua Passione.

       Eppure, colui che raccomandò ai suoi discepoli di non aver paura della morte - "Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo" (Mt 10,28) -, come mai ha avuto paura della morte ed ha chiesto che il calice si allontanasse da lui (Mt 26,39)?...

       Egli ha avuto paura, così come ha avuto fame e sete, si è affaticato e ha dormito. Oppure, dice questo perché gli uomini non possano dire nel mondo: È senza sofferenza e senza dolore che ha pagato i nostri debiti. O anche, per insegnare ai discepoli ad affidare la propria vita e la propria morte a Dio. In effetti, se colui che è saggio della stessa sapienza di Dio ha chiesto ciò che per lui era bene, quanto più occorre che gli ignoranti abbandonino la loro volontà a colui che sa tutto.

       A meno che, per diffondere con la sua Passione la consolazione nei discepoli, egli non abbia voluto entrare nel loro sentimento, proponendosi come esempio, ed assunse in sé la loro paura, affinché la somiglianza della sua anima mostrasse che non bisogna gloriarsi della morte prima di averla subita. In effetti, se colui che non teme ha avuto paura ed ha chiesto di essere liberato, sapendo che ciò era impossibile, quanto più è necessario che gli altri perseverino nella preghiera prima della tentazione, per esserne liberati quando essa si presenta.

       Infine, forse, perché nell’ora della tentazione le nostre anime sono tormentate in tutti i sensi e i nostri pensieri divagano, egli è rimasto in preghiera per insegnarci che è necessario pregare contro i complotti e le insidie del demonio, per poter padroneggiare con una preghiera incessante i dispersi pensieri. O semplicemente, è per confortare coloro che hanno paura della morte che egli ha esternato la propria paura, perché essi sappiano che tale paura non li induce in peccato se essa non perdura a lungo. "Non la mia, o Padre, ma la tua volontà sia fatta" (Lc 22,42), ossia che io muoia per ridare la vita a molti (Is 53,11).

       Efrem, Diatessaron, 20, 3-7





Lezionario "I Padri vivi" 153