Lezionario "I Padri vivi" 174

IV DOMENICA

174 Letture:
    
Jr 1,4-5 Jr 1,17-19
     1Co 12,31 1Co 12,13
     Lc 4,21-30

1. Nessuno è profeta in patria

       Stando al solo racconto di Luca, Gesù non ha ancora soggiornato a Cafarnao, e non si racconta che egli abbia compiuto miracoli in quella città per il semplice motivo che non vi si è fermato. Ma prima della sua venuta a Cafarnao la sua presenza è segnalata nella sua patria, che è Nazaret; e così egli parla ai suoi concittadini: "Certo mi citerete quel proverbio: medico, cura te stesso. Tutte quelle cose che abbiamo udito essere state fatte a Cafarnao, falle anche qui, nella tua patria" (Lc 4,23). Io credo che un mistero sia nascosto in questo passo, ove Cafarnao, che raffigura i Gentili, passa avanti a Nazaret, che raffigura i Giudei. Gesù, sapendo che nessuno gode di onori nella sua patria, né egli stesso, né i profeti, né gli apostoli, non ha voluto predicare nella sua città e ha predicato tra i Gentili nel timore che i suoi compatrioti gli dicessero: «Certo mi citerete quel proverbio: medico, cura te stesso».

       Verrà in effetti il tempo in cui il popolo giudeo dirà: «Tutte quelle cose che abbiamo udito essere state fatte a Cafarnao», cioè i miracoli e i prodigi compiuti tra i Gentili, «falle anche presso di noi, nella tua patria», mostra cioè anche a noi ciò che hai mostrato al mondo intero; annunzia il tuo messaggio a Israele, tuo popolo, affinché almeno, "quando la totalità dei pagani sarà entrata, sia salvo allora tutto Israele" (Rm 11,25-26). Per questo mi sembra che, secondo una linea ben precisa e logica, Gesù, rispondendo alle domande poste dai Nazareni, abbia detto loro: "Nessun profeta è bene accolto nella sua patria" (Lc 4,24); e penso che queste parole siano più vere secondo il mistero che secondo la lettera.

       Geremia non è stato ricevuto bene ad Anatot (Jr 11,21), sua patria, né Isaia nella sua, quale essa sia stata, e uguale sorte hanno avuto gli altri profeti: mi sembra pertanto che sia meglio comprendere questo rifiuto intendendo che la patria di tutti i profeti è il popolo della circoncisione che non ha bene accolto né loro, né le loro profezie. Invece i Gentili, che abitavano lontano dai profeti e non li conoscevano, hanno accettato la Parola di Gesù Cristo. «Nessun profeta è bene accolto nella sua patria », cioè dal popolo giudeo. Ma noi, che non appartenevamo all’Alleanza ed eravamo stranieri alle promesse, abbiamo accolto i profeti con tutto il nostro cuore; e Mosè e i profeti che hanno annunziato il Cristo, appartengono più a noi che a loro: infatti, per non aver accolto Gesù, essi non hanno accolto neppure coloro che lo avevano annunziato.

       Così dopo aver detto: «Nessun profeta è bene accolto nella sua patria», aggiunge: "In verità io vi dico che c’erano molte vedove in Israele ai giorni di Elia, quando il cielo stette chiuso per tre anni e sei mesi" (Lc 4,25). Ecco il significato di queste parole: Elia era un profeta e si trovava in mezzo al popolo giudeo, ma nel momento di compiere un prodigio, benché ci fossero parecchie vedove in Israele, egli le trascurò e venne a trovare "una vedova di Sarepta, nel paese di Sidone" (cf. 1R 17,9), una povera donna pagana, che raffigurava in se stessa l’immagine della futura realtà. Infatti il popolo di Israele era in preda a una "fame e sete, non di pane e d’acqua, ma di ascoltare la Parola di Dio" (Am 8,11) quando Elia venne da questa vedova, di cui il Profeta parla dicendo: "I figli dell’abbandonata sono più numerosi dei figli della maritata" (Is 54,1); e, appena arrivato, moltiplicò il pane e il cibo di questa donna.

       Eri tu la vedova di Sarepta, nel paese di Sidone, nel paese da cui viene fuori la Cananea (Mt 15,22) che desidera veder guarita la propria figlia e che, a causa della sua fede, merita di vedere accolta la propria preghiera. "C’erano dunque molte vedove in Israele ma a nessuna di esse Elia fu inviato se non alla povera vedova di Sarepta" (Lc 4,26).

       Cristo aggiunge ancora un altro esempio che ha il medesimo significato: "C’erano molti lebbrosi in Israele nei giorni del profeta Eliseo, e nessuno di essi fu mondato, salvo soltanto Naaman il Siro" (Lc 4,27), che certamente non apparteneva al popolo di Israele. Considera il gran numero di lebbrosi esistente sino ad oggi "in Israele secondo la carne" (1Co 10,18); e osserva d’altra parte che è dall’Eliseo spirituale, il nostro Signore e Salvatore, che vengono purificati nel mistero del Battesimo gli uomini coperti dalla sozzura della lebbra, e che a te sono rivolte le parole: "Alzati, va’ al Giordano, lavati, e la tua carne ritornerà sana" (2R 5,10). Naaman si alzò, se ne andò e, bagnandosi, compì il mistero del Battesimo, in quanto "la sua carne divenne simile alla carne di un fanciullo" (2R 5,14). Di quale fanciullo? Di colui che, "nel bagno della rigenerazione" (Tt 3,5), nascerà in Cristo Gesù, "cui appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen" (1P 4,11).

       Origene, In Luc., 33


2. L’invidia nemica della misericordia

       "In verità vi dico che nessun profeta è accetto in patria sua" (Lc 4,24). L’invidia non si manifesta mai per metà: dimentica dell’amore tra concittadini, fa diventare motivi di odio anche le naturali ragioni di affetto. Ma con questo esempio, e con queste parole, si vuol indicare che invano tu potresti attendere la grazia della misericordia celeste, se nutri invidia per la virtù degli altri; Dio, infatti, disprezza gli invidiosi e allontana le meraviglie del suo potere da coloro che disprezzano, negli altri, i doni suoi. Le azioni del Signore nella sua carne, sono espressione della sua divinità, e le sue cose invisibili ci vengono mostrate attraverso quelle visibili.

       Non a caso il Signore si scusa di non aver operato in patria i miracoli propri della sua potenza, allo scopo che nessuno di noi pensi che l’amor di patria debba essere considerato cosa di poco conto. Non poteva infatti non amare i suoi concittadini, egli che amava tutti gli uomini: sono stati essi che, con il loro odio, hanno rinunziato a quest’amore per la loro patria. Infatti l’amore "non è invidioso, non si gonfia d’orgoglio" (1Co 13,4). E, tuttavia, questa patria non è priva dei benefici di Dio: quale miracolo più grande infatti avvenne in essa della nascita di Cristo? Vedi dunque quali danni procura l’odio: a causa di esso vien giudicata indegna la patria, nella quale egli poteva operare come cittadino, dopo che era stata trovata degna di vederlo nascere nel suo seno come Figlio di Dio...

       "C’erano molti lebbrosi al tempo del profeta Eliseo, e nessuno di essi fu mondato, ma solo il siro Naaman" (Lc 4,27).

       È chiaro che questa parola del Signore e Salvatore ci spinge e ci esorta allo zelo di venerare Dio, poiché egli mostra che nessuno è guarito ed è stato liberato dalla malattia che macchia la sua carne, se non ha cercato la salute con desiderio religioso; infatti i doni di Dio non vengono dati a coloro che dormono, ma a coloro che vegliano...

       Perché il Profeta non curava i suoi fratelli e concittadini, non guariva i suoi, mentre guariva gli stranieri, coloro che non praticavano la legge e non avevano comunanza di religione, se non perché la guarigione dipende dalla volontà, non dalla nazione cui uno appartiene, e perché il beneficio divino si concede a chi lo desidera e l’invoca, e non per diritto di nascita? Impara quindi a pregare per ciò che desideri ottenere: il beneficio dei doni celesti non tocca in sorte agli indifferenti.

       Ambrogio, In Luc., 4, 46 s.


3. Gesù Cristo è venuto, come Elia per la vedova

       "In verità vi dico: C’erano molte vedove al tempo di Elia in Israele, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi, quando venne una gran fame su tutta la terra; e a nessuna di loro fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone" (Lc 4,25). Non sono stato mandato a voi, dice; non son venuto per guarire voi, perché non a tutte le vedove fu mandato Elia. Questo significava la sua condotta; lui era un segno, io sono la realtà. Io son venuto a curare, a saziare di cibo spirituale, a strappare dalla fame e dall’indigenza quella vedova di cui è scritto: "Benedirò la sua vedova, sazierò di pane i suoi poveri" (Ps 131,15). Questa vedova è la santa Chiesa ma può essere anche qualunque anima dei fedeli. Il Signore, infatti, venne per chiamare tutti e a liberare tutti dalla fame. Se non fosse venuto e non avesse parlato, non avrebbero commesso peccato; ma ora non hanno una giustificazione per i loro peccati.

       Bruno di Segni, In Luc., 1, 5


4. Piegarsi all’altrui volere è segno di sanità e di forza

       È risaputo che in generale chi sottomette la propria volontà a quella del fratello dimostra di agire meglio di chi difende ostinatamente le proprie opinioni. Quegli infatti, sostenendo e tollerando il prossimo, si pone tra i sani e i forti; questi, tra i deboli e in qualche modo malati prende posto, avendo bisogno di essere carezzato e coccolato, tanto che per tenerlo quieto e in pace, occorre talvolta trascurare anche le cose necessarie.

       Se avviene che qualcuno debba trascurare una pratica di perfezione per far questo, non pensi di nuocere alla propria perfezione, ché anzi quanto più avrà accondisceso alle esigenze del fratello più debole tanto più avrà, per la pazienza e la longanimità usate, segnato dei progressi. Così suona infatti il precetto apostolico: "Noi che siamo i forti abbiamo l’obbligo di sopportare l’infermità dei deboli" (Rm 15,1); e inoltre: "Portate gli uni i pesi degli altri, cosi avrete adempiuto la legge di Cristo" (Ga 6,2). Giammai, in effetti, un debole può dar forza ad un altro debole, né può sopportare o curare un malato chi si trova nelle identiche condizioni; può invece portar rimedio al debole solo chi non soggiace alla debolezza. A tal proposito è detto, infatti: "Medico, cura te stesso" (Lc 4,23).

       A questo punto, va sottolineata una cosa: è tipico della natura dei malati l’essere facili e pronti alle offese e a far scoppiare contese, mentre a loro volta esigono di non essere neppure sfiorati da ombra di ingiuria. Mentre lanciano le invettive più insolenti, trattando gli altri con la più spregiudicata libertà, non son disposti ad incassare la più piccola o lieve mancanza nei loro confronti.

       Cassiano Giovanni, Collationes, 16, 23 s.



V DOMENICA

175 Letture:
    
Is 6,1-2a Is 6,3-8
     1Co 15,1-11
     Lc 5,1-11


1. La barca di Pietro

       "Montato su una delle barche, che era di Simone, lo pregò di scostarsi un poco da terra" (Lc 5,3). Appena il Signore ebbe operato alcune guarigioni, né il tempo né il luogo furono più sufficienti a trattenere la folla dal desiderio di essere risanata. Cadeva la sera, ma la folla lo seguiva; incontrano il lago e la folla gli è da presso; per questo sale sulla barca di Pietro. È questa la barca che, secondo Matteo, è scossa dalle onde, e che, secondo Luca, si riempie di pesci, perché tu riconosca gli inizi così tempestosi della Chiesa, e i tempi successivi così fruttuosi. I pesci sono infatti coloro che navigano nel mare della vita. Là, Cristo dorme ancora presso i discepoli, qui egli dà ordini; dorme per coloro che tremano, veglia tra quanti sono già fortificati. Ma dal Profeta hai già sentito dire in qual modo dorme Cristo: "Io dormo, ma il mio cuore veglia" (Ct 5,2).

       Opportunamente san Matteo non tralascia di testimoniare la manifestazione della potenza divina, quando narra che Cristo comanda ai venti (Mt 8,26). Non si tratta infatti di scienza umana - come avete udito dai Giudei quando dicevano: «Con una parola comanda agli spiriti» - ma c’è il segno della potenza celeste, allorché il mare agitato si calma, gli elementi obbediscono all’ordine della voce divina, gli oggetti insensibili acquistano il senso dell’obbedienza.

       Il mistero della presenza divina si rivela quando i flutti del mondo si calmano, quando una parola sconfigge lo spirito immondo: ma questo aspetto non sopprime l’altro, ma l’uno e l’altro vengono esaltati. Riconosci il miracolo nel comportamento degli elementi, l’insegnamento nei misteri.

       Dunque, poiché san Matteo aveva già fatto la sua scelta, san Luca preferisce parlare della barca nella quale pescava Pietro. La barca che ospita Pietro non è scossa dalle onde; è scossa quella che ospita Giuda. Benché navigassero i molteplici meriti dei discepoli, tuttavia quest’ultima era turbata dalla perfidia del traditore. Nell’una e nell’altra, c’era Pietro; chi è ben saldo per la sua fede, è però turbato dai demeriti altrui. Guardiamoci dunque dal perfido, guardiamoci dal traditore, affinché la maggior parte di noi non sia agitata dai flutti a causa di uno solo. Non è turbata la nave, nella quale naviga la prudenza, la perfidia è assente, respira la fede. Come poteva essere agitata la nave, di cui era pilota colui sul quale poggia il fondamento della Chiesa? C’è dunque turbamento là dove la fede è debole; c’è sicurezza dove la carità è perfetta.

       E infine, benché il Signore comandi agli altri di gettare le reti, solo a Pietro dice: "vai al largo" (Lc 5,4), cioè avventurati nel mare profondo delle dispute. Che cosa c’è infatti di così alto come vedere l’altezza dei misteri, riconoscere il Figlio di Dio, proclamare la sua divina generazione? Sebbene lo spirito umano non possa comprenderla pienamente con la penetrazione della ragione, tuttavia la pienezza della fede può abbracciarla. Infatti, anche se non mi è concesso di sapere come egli è nato, tuttavia non mi è permesso ignorare il fatto che egli è nato; ignoro il modo della sua generazione, ma ne riconosco la verità. Non eravamo là, quando il Figlio di Dio era generato dal Padre; ma eravamo là quando dal Padre fu dichiarato Figlio di Dio.

       Se non crediamo a Dio, a chi crediamo? Tutto ciò che crediamo, lo crediamo per avere visto o per avere udito. Ebbene, la vista sovente si inganna, ma l’udito fa fede. Vogliamo discutere della veridicità del testimone? Se attestassero persone dabbene, giudicheremmo sconveniente non creder loro: qui Dio afferma, il Figlio prova, il sole che si eclissa lo riconosce, la terra tremando lo testimonia (Mt 27,45-51 Lc 23,44).

       La Chiesa è condotta da Pietro nel mare alto delle dispute, per vedere, da un lato, il Figlio di Dio che risorge, e dall’altro lo Spirito Santo che si effonde.

       Che cosa sono le reti dell’apostolo, che il Signore gli ordina di gettare, se non il significato delle parole, il senso del discorso, le profondità delle dispute, che non lasciano più sfuggire coloro che ne sono presi? Ed è giusto che gli strumenti della pesca apostolica siano le reti, perché le reti non fanno morire chi vi è preso, ma lo conservano, lo traggono dalle profondità alla luce e dal fondo conducono in alto chi fluttuava sott’acqua.

       Ambrogio, In Luc. 4, 68-72


2. Conoscere la propria anima

       Conosci dunque te stessa, o anima bella: tu sei l’immagine di Dio. Conosci te stesso, o uomo: tu sei la gloria di Dio. Ascolta in qual modo ne sei la gloria. Dice il Profeta: "La tua scienza è divenuta mirabile provenendo da me", cioè: nella mia opera la tua maestà è più ammirabile, la tua sapienza viene esaltata nel senno dell’uomo. Mentre io considero me stesso, che tu cogli anche nei pensieri segreti e negli intimi sentimenti, io riconosco i misteri della tua scienza. Conosci dunque te stesso, o uomo, quanto grande tu sei e vigila su di te perché, una volta o l’altra, incappando nei lacci del diavolo che ti dà la caccia, tu non ne divenga preda, perché tu per caso non finisca nelle fauci di quel tetro leone che ruggisce "e va in giro cercando chi divorare". Bada a te, considerando che cosa in te entra, che cosa ne esce. Non parlo del cibo, che viene digerito ed espulso, ma parlo del pensiero, alludo alle parole. Non entri in te il desiderio del talamo altrui, non si insinui nella tua mente; il tuo occhio non rapisca, il tuo animo non chiuda in sé la bellezza d’una donna che passa; la tua parola non escogiti trame di seduzione, non le conduca innanzi con l’inganno, non ricopra il prossimo con maldicenze calunniose. Iddio ti ha fatto cacciatore, non conquistatore; egli che ha detto: "Ecco mando molti cacciatori", cacciatori non di colpe, ma di perdono, cacciatori non di peccati, ma di grazia. Tu sei pescatore di Cristo, al quale si dice: "Da questo momento darai la vita agli uomini". Getta le tue reti, getta i tuoi sguardi, getta le tue parole, così da non opprimere nessuno, ma da sostenere chi vacilla. "Bada", dice, "a te stesso". Sta’ saldo per non cadere, corri in modo da guadagnare il premio, gareggia così da resistere sino alla fine, perché la corona è dovuta soltanto a un combattimento regolare. Tu sei un soldato: spia con attenzione il nemico, perché di notte non strisci sino a te; sei un atleta: sta’ più vicino all’avversario con le mani che con il volto, perché non colpisca il tuo occhio. Lo sguardo sia libero, astuto l’incedere per stendere a terra l’avversario quando ti si precipita contro, per serrarlo fra le braccia quando si ritrae, per evitare le ferite con la vigilanza dello sguardo, per impedirle assalendolo con decisione. Se poi sarai ferito, bada alla tua salute, corri dal medico, cerca il rimedio della penitenza. Bada a te stesso, perché hai una carne pronta a cadere. Venga a visitarti, medico buono delle anime, la parola divina, sparga su di te gli insegnamenti del Signore come rimedi salutari. Bada a te stesso, perché le parole celate nel tuo cuore non siano inique; serpeggiano infatti come veleno e causano contagi mortali. Bada a te stesso, per non dimenticare Iddio che ti ha creato e non pronunciare inutilmente il suo nome.

       Ambrogio, Hexaemeron, 6, 50


3. L’umiltà e la dote del predicatore del Vangelo

       Quando lo stupore e l’ammirazione si impadronirono di Simon Pietro e dei suoi compagni e l’animo tutto si raccolse su quei fatti straordinari, Pietro, comprendendo che ciò non poteva essere opera dell’umana forza, umilmente si gettò ai piedi di Cristo riconoscendo in lui il suo Signore, dicendogli: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore" (Lc 5,8s) e non sono degno di stare in tua compagnia. Allontanati da me, poiché sono un comune mortale, mentre tu sei il Dio-uomo; io peccatore, tu santo; io il servo, tu il Padrone. Quante cose mi dividono da te: la debolezza della mia natura, l’abiezione della colpa, il peccato. Si considerò indegno di trovarsi in presenza di una persona così santa. Questo dimostra quanto si debba temere di toccare le cose sante, di stare attorno all’altare e di accostarsi all’Eucaristia.

       Cristo, però, confortò Pietro spiegandogli che pescare voleva dire essere pescatori di uomini e questo avrebbe dovuto fare. Gli disse dunque: Non aver paura, non meravigliarti, ma piuttosto rallegrati e credi che sei destinato ad una pesca più grande: avrai un’altra barca e altre reti. Finora hai preso i pesci con le reti, d’ora in poi - cioè in un prossimo futuro - prenderai gli uomini con la parola, e con la dottrina salutifera li condurrai sulla via della salvezza, poiché tu sei chiamato al servizio della Parola.

       La Parola di Dio è stata paragonata all’amo, poiché come l’amo non prende il pesce se non viene ingoiato, così anche l’uomo per la vita eterna prende la Parola di Dio solo se custodisce nell’anima la Parola di Dio. "D’ora in poi sarai pescatore di uomini", vuol dire che, dopo quanto è accaduto, prenderai gli uomini; cioè, dato che ti sei umiliato, a te spetterà d’ufficio di pescare gli uomini; l’umiltà infatti ha il potere di attirare ed è cosa buona e giusta che coloro i quali, pur avendo autorità, sanno non esaltarsi nell’essere a capo degli altri...

       In Pietro - che per tutta la notte nulla aveva preso, ma dopo aver gettato le reti alle parole di Cristo fece una pesca abbondante, eppure nelle parole: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore", non si attribuisce altro che la colpa - abbiamo l’immagine di colui che predica il Vangelo. Quando fa assegnamento soltanto sulla propria forza, non ricava alcun utile, sostenuto però dalla potenza divina ottiene grandi frutti.

       Pietro si gettò ai piedi di Gesù dopo aver catturato una enorme quantità di pesci. Questo ci insegna che il predicatore, catturando con la sua eloquenza un gran numero di uomini, deve umiliarsi interamente davanti a Dio e a lui deve riconoscere ogni cosa, a sé invece nulla se non gli errori. Allora troverà forza nel Signore che gli dirà: Non aver paura, avrai in futuro un successo ancora più grande: d’ora in poi catturerai un maggior numero di uomini.

       Ludolfo il Certosino, Vita Dom. Christi, 1, 29


4. Perché Gesù sceglie dei pescatori

       La scelta dei pescatori (Mt 4,18-22) illustra l’attività del loro futuro incarico derivante dal loro mestiere umano: gli uomini, alla stregua dei pesci tirati su dal mare, debbono emergere dal secolo verso un luogo superiore, ossia verso la luce del soggiorno dei cieli.

       Abbandonando mestiere, patria, casa, ci insegnano, se vogliamo seguire Cristo, a non essere trattenuti né dall’inquietudine della vita nel mondo, né dall’attaccamento alla casa paterna.

       La scelta di quattro apostoli all’inizio, insieme alla veracità dei fatti, dal momento che questi sono effettivamente avvenuti, prefigura il numero futuro degli evangelisti.

       Ilario di Poitiers, In Matth., 3, 6




VI DOMENICA

176 Letture:
    
Jr 17,5-8
     1Co 15,12 1Co 15,16-20
     Lc 6,17 Lc 6,20-26


1. I «guai a voi» di Luca

       "Guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione" (Lc 6,24). In che cosa consista questo "guai a voi ricchi" lo si capisce meglio dove si dice che il regno dei cieli è dei poveri. Da questo regno infatti si separeranno coloro che mettono ogni loro piacere in questo mondo e udranno la sentenza del giusto giudice: "Rammentate, figli, che avete avuto dei beni nella vostra vita" (Lc 16,25). Dove però è da notare che l’incriminazione non è posta tanto sulla ricchezza quanto sull’amore della ricchezza. Infatti, non tutti quelli che hanno ricchezze, ma, come dice il Qoèlet: "Chi ama le ricchezze non ne avrà vantaggio" (Qo 5,9), perché colui che non sa staccare l’animo dai beni temporali e non sa farne parte ai poveri, per il momento, sì, gode del loro uso, ma resterà privo per sempre del frutto che avrebbe potuto acquistare, se li avesse donati. E leggiamo anche altrove: "Beato il ricco che è stato trovato senza macchia, che non è corso appresso all’oro e non ha riposto le sue speranze nel danaro e nel tesoro" (Si 31,8).

       "Guai a voi che siete sazi, perché avrete fame" (Lc 6,25).

       Era sazio quel ricco, vestito di porpora, che faceva ogni giorno splendidi banchetti, ma stava certo poi in un gran guaio, quando, affamato, dovette chiedere che dal dito del disprezzato Lazzaro gli cadesse una goccia sulla bocca. D’altra parte, se son beati quelli che hanno sempre fame delle opere di giustizia bisogna pur che siano infelici coloro che, al contrario, seguendo i loro desideri, non sentono nessuna fame di veri e solidi beni e si reputano abbastanza felici, se per il momento non son privi del loro piacere.

       "Guai a voi che ridete, perché sarete tristi e piangerete" (Lc 6,25). E Salomone dice: "Il riso sarà mescolato al dolore e la gioia finirà in lutto" (Pr 14,13). E ancora: "Il cuore dei sapienti è quello dov’è tristezza e il cuore degli stolti è quello dov’è letizia" (Qo 7,4-5); e questo vuole insegnare che la stoltezza dev’essere attribuita a quelli che ridono e la prudenza a quelli che piangono.

       "Guai a voi, quando tutti gli uomini diranno bene di voi" (Lc 6,26). È ciò che il Salmista deplora, "poiché il peccatore è lodato per i suoi desideri e il malvagio è benedetto" (Ps 9,24). A costui non dà nessuna pena che i suoi delitti non siano ripresi e che egli ne sia lodato, come se avesse fatto bene.

       "I padri di questa gente hanno trattato allo stesso modo i profeti" (Lc 6,26). Ma qui intende gli pseudoprofeti, i quali nella Sacra Scrittura son chiamati anche profeti, perché, per accaparrarsi il favore del popolo, si sforzavano di predire cose future. Perciò dice Ezechiele: "Guai ai profeti stolti che vanno dietro alla loro fantasia e non vedono niente; i tuoi profeti, Israele, erano come volpi nel deserto" (Ez 13,3). Perciò il Signore sulla montagna descrive soltanto le Beatitudini dei buoni, invece nella campagna annunzia anche le sventure dei malvagi; perché la gente più rude per essere spinta al bene ha bisogno di minacce e terrore, i perfetti invece basta invitarli con la prospettiva d’un premio.

       Beda il Venerabile, In Luc., 2, 24 ss.


2. La cupidigia di ricchezze è insaziabile

       Tu chiami te stesso povero, ed io son d’accordo. Povero infatti, è colui che ha bisogno di molte cose. Tuttavia, non è altro che l’insaziabile cupidigia a rendervi tali. A dieci talenti cerchi di aggiungerne altri dieci; diventati venti, ne vuoi altrettanti e ciò che tu ammassi, lungi dal calmare il tuo appetito, lo stimola ancor di più. Infatti, come per gli ubriaconi il continuare a ingerire vino costituisce uno stimolo al bere, parimenti le persone che si arricchiscono, dopo aver messo insieme delle ricchezze, ne desiderano ardentemente delle altre ancora, in tal modo, continuando sempre a nutrirsi, aggravano la loro malattia ed il loro desiderio ottiene l’effetto contrario a quello auspicato. Le ricchezze materiali, infatti, anche quando siano abbondanti, non rallegrano tanto i loro detentori quanto invece li rattristano le cose di cui son privi, quelle, cioè, di cui essi ritengono di avere bisogno. Così il loro animo è costantemente tormentato dalle preoccupazioni, poiché si danno da fare per raccogliere profitti sempre maggiori.

       E al posto di essere lieti e di pensare che sono meglio piazzati rispetto a molti altri, sono abbattuti e tristi poiché sono messi in ombra da questa o da quest’altra persona più ricca. Una volta però che abbiano raggiunto anche quest’ultima, subito si dan da fare per diventare pari ad un’altra più ricca ancora salvo poi, eguagliata questa, puntare su di un’altra la loro cupidigia. Come coloro che salgono delle scale, con il piede sempre proteso verso il gradino superiore, non trovano pace prima di aver guadagnato la cima; similmente anche costoro non cessano di aspirare alla potenza, fino a quando, pervenuti alla vetta, non precipitino con una lunga caduta.

       A beneficio degli uomini il Creatore di tutte le cose stabilì che l’uccello seleucide fosse insaziabile; tu, invece, è a danno di molti che hai reso insaziabile l’anima tua. Tutto ciò che l’occhio vede, l’avaro lo desidera grandemente. "L’occhio non si sazierà di vedere" (Qo 1,8), né l’avaro si sazierà di arraffare. L’inferno non ha mai detto: Basta; e l’avaro neppure ha mai detto: Basta (Pr 27,20 Pr 30,16). Quando dunque potrai servirti delle ricchezze presenti? Quando potrai goderne tu, che sempre ti affanni a procurartene ancora? "Guai a coloro che uniscono casa a casa e congiungono campo a campo, togliendo qualcosa al vicino" (Is 5,8). E tu cosa fai?

       Basilio di Cesarea, Adversus divites, 5


3. La povertà non è per noi un’infamia, ma una gloria

       Noi siamo per lo più ritenuti poveri: non è un’infamia, ma una gloria. Il lusso abbatte l’animo, la frugalità lo afferma. Del resto, come può dirsi povero chi non ha bisogno di nulla, chi non brama i beni altrui, chi è ricco in Dio? È povero piuttosto colui che, pur possedendo molto, desidera ancor di più. Dirò proprio quello che sento: Nessuno può essere tanto povero come quando è nato. Gli uccelli vivono senza patrimonio e gli animali ogni giorno trovano il loro pascolo: sono tutte creature nate per noi, e, se non le bramiamo, le possediamo tutte. Dunque, come chi fa un viaggio è tanto più fortunato quanto minore è il carico che porta, così è tanto più felice nel viaggio di questa vita chi è alleggerito dalla povertà, chi non sospira sotto il peso delle ricchezze. Tuttavia, se ritenessimo utili le ricchezze, le chiederemmo a Dio: potrebbe concedercene un po’, perché è padrone di tutto. Ma noi preferiamo disprezzare i beni, anziché conservarli; bramiamo piuttosto l’innocenza, chiediamo piuttosto la pazienza; preferiamo essere buoni che prodighi.

       Minucio Felice, Octavius, 36, 3-7


4. La certezza dei cristiani

       Tutta la famiglia del sommo e vero Dio ha la sua consolazione, non ingannevole, non fondata nella speranza di beni incerti e caduchi; e non deve crucciarsi per la stessa vita temporale in cui viene ammaestrata alla vita eterna, come pellegrina, usa dei beni terreni ma non se ne rende schiava, mentre i mali della terra sono per lei o prova o emenda. Ma quelli che insultano questa sua prova e che quando cade in qualche travaglio temporale le chiedono: "Dove è il tuo Dio?" (Ps 41,4), dicano loro dove sono i loro dèi quando soffrono quei mali per evitare i quali li adorano o pretendono che tutti li adorino. La famiglia di Dio risponde: Il mio Dio è presente ovunque, in ogni luogo c’è tutto e in nessun luogo è racchiuso; può essere presente nel segreto e può essere lontano senza muoversi. Egli quando mi mette alla prova con le avversità, o esamina i miei meriti o castiga i miei peccati, e mi riserva un premio eterno per i mali di quaggiù piamente sopportati.

       Agostino, De civit. Dei, 1, 29


5. Gli uomini a servizio della divina volontà salvifica

       Nella persecuzione e nella pace, mostriamo al Signore la nostra amicizia. Egli ci dona la sua grazia increata, perché vuole che tutti vivano e diventino eredi della gloria e della grandezza che è in Gesù Cristo nostro Signore. E noi, da lui liberati purificati dalle brame perverse, divenuti per molti causa di salvezza, dobbiamo, ciascuno con la sua fatica e le sue virtù, innalzarci veramente dalla terra alla pace celeste, nel regno dell’amore, per essere sempre con Cristo e godere dei suoi beni eterni. E come le membra costituiscono la figura del corpo, così la fede consiste nelle buone opere; e con la fede si rafferma la speranza, con la speranza si raggiunge l’approvazione. Così dobbiamo avvicinarci all’amore di Dio, ricevere la grazia dello Spirito Santo, giungere al cielo, renderci eredi della vita eterna nell’abitazione dei santi, nella carità vivifica, radianti di splendore divino, nell’indicibile, nell’eterno, per lodare la Santissima Trinità per tutti i secoli.

       Mesrop Armeno, Sermo 5




VII DOMENICA

177 Letture:
    
1S 26,2 1S 26,7-9 1S 26,12-13 1S 26,22-23
     1Co 15,45-49
     Lc 6,27-38

1. Amare i nemici

       La carità ci viene ordinata, quando ci viene detto: "Amate i vostri nemici" (Lc 6,27), e così si realizza quella parola della Chiesa di cui abbiamo parlato prima: "Ordinate in me la carità" (Ct 2,4), poiché la carità viene ordinata quando sono formulati i precetti della carità stessa. Osserva come si cominci dalle cose più elevate, e si volga le spalle alla legge dopo le beatitudini.

       La legge comanda il ricorso alla vendetta (cf. Ex 21,23-26); il Vangelo richiede per i nemici carità, bontà per l’odio, benedizioni per le maledizioni, invita a dare soccorso a chi ci perseguita, diffonde la pazienza tra gli affamati e la grazia della rimunerazione. Quanto è più perfetto di un atleta colui che non si risente per l’offesa.

       E, per non apparire come il distruttore della legge, il Signore ordina per le buone azioni la reciprocità che invece proibisce per le offese. Tuttavia, dicendo: "E come volete che gli uomini facciano a voi, cosi fate voi a loro" (Lc 6,31), mostra che il bene reso è maggiore, in quanto il valore dell’altro è adeguato alle intenzioni .

       Il cristiano si è formato a questa buona scuola e, non soddisfatto del diritto della natura, ne cerca anche la grazia. Se tutti anche i peccatori, sono d’accordo nel ricambiare l’affetto, colui che ha convinzioni più elevate deve applicarsi con maggiore generosità all’esercizio della carità, al punto da amare anche coloro che non lo amano. Infatti, benché l’assenza di ogni titolo a essere amati escluda l’esercizio dell’amore, non tuttavia esclude l’esercizio della virtù. E come tu ti vergogneresti di non ricambiare l’amore a uno che ti ama, e per ricambiare il bene ricevuto ti metti ad amare, così per virtù devi amare chi non ama, affinché, amando, per virtù, tu incominci ad amare chi non amavi. Poiché, mentre è futile e vuota la ricompensa dell’affetto, duratura è la ricompensa della virtù.

       Cosa c’è di più ammirevole che porgere l’altra guancia a chi ti colpisce? Questo, non significa spezzare l’impeto dell’uomo adirato e calmare la sua collera? Non puoi tu giungere forse, per mezzo della pazienza, a colpire più forte colui che ha colpito te, suscitando in lui il rimorso? Così tu respingerai l’offesa e otterrai l’affetto. Spesso grandi amicizie nascono per la dimenticanza d’una insolenza, o per un favore fatto in risposta ad una ingiuria.

       Ed ecco che le parole dell’Apostolo: "La carità è paziente, benigna, non è invidiosa, non si gonfia d’orgoglio" (1Co 13,4), appaiono perfette in questi precetti. Se essa è paziente, deve sopportare chi offende; se è benigna, non deve rispondere a chi maledice; se non cerca il bene per sé, non deve resistere a chi toglie; se non è invidiosa, non deve odiare il nemico. E tuttavia i precetti della carità divina vanno oltre quelli dell’Apostolo; dare è più che cedere, amare i nemici è ben più che non essere invidiosi. Tutto questo il Signore lo ha detto e fatto, egli che, oltraggiato, non ha restituito l’oltraggio; schiaffeggiato, non ha restituito gli schiaffi; spogliato, non ha opposto resistenza; crocifisso, ha chiesto perdono per gli stessi suoi persecutori, dicendo: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34), scusava del loro crimine i suoi accusatori: quelli preparavano la croce, ed egli diffondeva grazia e salvezza.

       Ambrogio, In Luc., 6, 73-77


2. La liberazione operata dal Verbo

       La Legge, perché imposta agli schiavi, educava l’anima attraverso cose esteriori e corporali, conducendola quasi a catena verso la sottomissione ai comandamenti, affinché l’uomo potesse apprendere l’obbedienza a Dio. Il Verbo, però, liberando l’anima, insegnò del pari a purificare il corpo per suo tramite, in modo volontario. Fatto questo, si rese necessario sopprimere le catene del servaggio, alle quali ormai l’uomo era avvezzo, per seguire Dio senza catene, con la contemporanea amplificazione dei precetti della libertà e l’accresciuta sottomissione al Re, affinché nessuno, volgendosi indietro, si mostri indegno del suo Liberatore: infatti, se la pietà e l’obbedienza nei riguardi del padrone di casa sono le stesse per gli schiavi e per gli uomini liberi, questi ultimi ne traggono peraltro una maggiore sicurezza, perché il servizio della libertà è più grande e più glorioso della docilità nel servaggio.

       Per questo il Signore ci ha dato come parola d’ordine, al posto di "non commettere adulterio", di "non desiderare neppure" (Mt 5,27-28); al posto di "non uccidere", di "non adirarsi" (Mt 5,21-22); al posto di pagare semplicemente le decime, di distribuire tutti i nostri averi ai poveri (Mt 19,21), di amare non solo i nostri prossimi, ma anche i nemici (Mt 5,43-44); di essere non solo generosi e pronti a condividere (1Tm 6,18), ma di più, di dare graziosamente i nostri beni a coloro che ce li prendono: "A chi ti sottrae la tunica, tu lascia anche il mantello; a chi ti prende un bene, non reclamarlo; e ciò che volete che gli uomini facciano nei vostri confronti, voi fatelo per loro" (Mt 5,40 Lc 6,30-31): in tal modo, non ci rattristeremo come persone derubate loro malgrado, ma ci rallegreremo al contrario come persone che avranno dato di buon animo, poiché faremo un dono gratuito al prossimo più che una concessione alla necessità. "E se uno ti costringe a fare un miglio - aggiunge - "tu fanne con lui due" (Mt 5,41), per non seguirlo come uno schiavo, bensì precedendolo come un uomo libero, rendendoti in ogni cosa utile al tuo prossimo, non considerando la sua cattiveria, ma sovrabbondando in bontà alla stregua del Padre "che fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti" (Mt 5,45).

       Tutto ciò, lo abbiamo detto più sopra, non era questione di uno venuto ad abolire la Legge, quanto piuttosto di uno che la compiva e l’amplificava in noi. Come dire che è più grande il servizio della libertà, ed una sottomissione e una pietà più piene si sono radicate in noi nei riguardi del nostro Liberatore. Infatti, egli non ci ha liberati perché ci distaccassimo da lui - nessuno può, se posto fuori dai beni del Signore, procurarsi il nutrimento di salvezza -, ma perché, avendo ricevuto più abbondantemente la sua grazia, noi lo amassimo maggiormente; e, avendolo amato maggiormente, ricevessimo da lui una gloria ancor più grande, quando saremo per sempre alla presenza del Padre.

       Ireneo di Lione, Adv. haer., 4, 13, 2-3


3. Non giudicare

       Non giudicate, affinché non siate giudicati (Mt 7,1).

       Ma come? Non dovremo, dunque, rimproverare chi pecca? Anche Paolo ci vieta di farlo, o meglio ce lo vieta Gesù Cristo per mezzo di Paolo, con queste parole: "Tu poi perché giudichi il tuo fratello? E perché tu disprezzi il tuo fratello?" (Rm 14,10). "E chi sei tu che ti fai giudice del servo di un altro?" (Rm 14,4). E ancora: "Perciò non giudicate di nulla prima del tempo, finché non venga il Signore" (1Co 4,5). Ma perché, poi, in un’altra circostanza lo stesso Apostolo aggiunge: "Riprendi, correggi, esorta" (2Tm 4,2)? E altrove ripete: "Quelli che peccano, riprendili alla presenza di tutti" (1Tm 5,20). E Cristo dice a Pietro: "Se il fratello tuo ha peccato contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo. Se poi non ascolta, prendi con te un’altra persona se neppure così dà ascolto, dillo alla Chiesa" (Mt 18,15-17). Perché Cristo invita tante persone, non soltanto a rimproverare, ma anche a punire coloro che peccano? Egli ordina, infatti, di considerare il peccatore ostinato, che non dà ascolto a nessuno, come il gentile e il pubblicano (Mt 18,17). E perché ha dato anche le chiavi del cielo ai suoi apostoli? Se essi non possono giudicare, non hanno nessuna autorità su alcuno e, perciò, invano hanno ricevuto il potere di legare e di sciogliere. E d’altra parte se ciò prevalesse, la libertà cioè di peccare senza che nessuno ci rimproveri, tutto precipiterebbe in rovina, sia nella Chiesa, come nelle città e nelle famiglie. Se il padrone non giudicasse il suo servo, e la padrona la sua domestica, il padre il proprio figlio e l’amico il suo amico, la malvagità di certo aumenterebbe. E non soltanto l’amico deve giudicare l’amico, ma noi dobbiamo giudicare anche i nemici, poiché non facendolo non potremo mai sciogliere ed eliminare l’inimicizia esistente fra loro e noi, e tutto sarebbe sconvolto.

       Qual è dunque il senso preciso di queste parole del Vangelo? Esaminiamole con cura, in modo che nessuno sia tentato di vedere in questo comando, che costituisce un rimedio di salvezza e di pace, uno strumento di sovversione e di turbamento. Soprattutto attraverso le parole che seguono, Cristo dimostra la forza e l’efficacia di questo precetto: «Perché - egli chiede - osservi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non badi alla trave che è nell’occhio tuo?». Può darsi che questa spiegazione appaia ancora oscura a molti spiriti pigri: io cercherò per questo di chiarirla, prendendo in esame il discorso. Mi sembra dunque che Cristo non vieti in senso assoluto di giudicare qualsiasi peccato, che non neghi questo diritto genericamente a tutti, ma a coloro che, pieni di un’infinità di vizi, condannano insolentemente gli altri per lievi colpe. E a me pare che qui egli voglia riferirsi anche ai Giudei, che erano severi censori delle più piccole colpe del prossimo, mentre essi non si accorgevano di essere colpevoli di peccati ben più gravi. Questa stessa cosa, infatti, Cristo ripete verso la fine del Vangelo, rimproverando i Giudei: "Affastellano carichi gravi e difficili a portarsi, e li impongono sulle spalle degli altri; ma essi non vogliono smuoverli con un dito" (Mt 23,24). E ancora: "Voi pagate la decima della menta, dell’aneto e del comino, e avete tralasciato le cose più gravi della legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà" (Mt 23,23). Contro questi stessi Giudei - mi sembra - Cristo parla ora con forza, reprimendo in anticipo le accuse che essi lanceranno anche contro i suoi discepoli. I farisei, infatti, li accusarono di peccato per delle cose che non erano affatto peccati, come il non osservare il sabato, mangiare senza lavarsi le mani e sedersi alla stessa mensa con i pubblicani; il che fu stigmatizzato altrove: "Col filtro togliete il moscerino e ingoiate il cammello" (Mt 23,24). Ma Cristo stabilisce qui, contro tali giudizi, una legge comune e valida per tutti.

       Anche Paolo non vietava ai Corinti di giudicare genericamente, ma proibiva soltanto di giudicare chi era loro preposto e li guidava, e su questioni ancora incerte e non chiare. Non vietava loro di correggere i peccatori. Il divieto che egli formulava non si rivolgeva a tutti indistintamente, ma solo a quei discepoli che osavano giudicare e condannare i loro maestri, e a coloro che, colpevoli di mille colpe, ardivano lanciare accuse atroci contro persone innocenti.

       È proprio questo che Gesù Cristo vuol far capire qui: e non soltanto lo fa capire, ma con queste altre parole incute pure un grande timore e minaccia l’inevitabile supplizio: "Poiché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati" (Mt 7,2). Non è vostro fratello - egli dice - che voi condannate, ma voi stessi; siete voi che vi preparate un temibile tribunale, davanti al quale dovrete rendere conto rigoroso del vostro comportamento. Come Dio ci perdonerà i nostri peccati nella misura in cui noi avremo perdonato agli altri, così anche ci giudicherà nella misura in cui avremo giudicato gli altri. Non dobbiamo, quindi, né ingiuriare, né insultare coloro che peccano, ma dobbiamo avvertirli. Non bisogna dirne male e diffamarli, ma consigliarli. Dobbiamo correggerli con amore e non insorgere contro di loro con arroganza. Se trattate il vostro prossimo senza rispetto e senza pietà quando dovrete decidere dei suoi errori e determinare le sue colpe, non sarà lui, ma voi a essere condannati all’estremo supplizio.

       Vedete come sono lievi questi due comandi di Gesù, e come essi costituiscono in effetti una sorgente di grandi beni per coloro che li praticano e, per conseguenza, di mali per quanti li trascurano? Chi perdona suo fratello, libera se medesimo da ogni accusa, prima ancora che suo fratello, senza che gli costi alcun sacrificio. Chi giudica le colpe degli altri con moderazione e con indulgenza, accumula in tal modo per se stesso un grande tesoro di misericordia. Qualcuno potrebbe dirmi a questo punto: Ma se un uomo cade nella fornicazione, non gli si dovrà dunque dire che la fornicazione è un male e non si dovrà correggerlo con energia per il suo peccato? Correggilo, certo, però, non come se tu fossi un nemico che chiede giustizia, ma comportandoti come un medico che prepara il rimedio per guarire il malato. Cristo non ti disse di non impedire al prossimo di peccare, ma ti ordinò di non giudicare, cioè di non diventare un giudice aspro e severo. Inoltre egli non parla qui, come ho già cercato di chiarire, dei grandi peccati, dei delitti gravissimi, ma di quelle colpe che paiono tali e non lo sono.

       Ecco infatti che dice: "Perché osservi la pagliuzza che è nel l’occhio del tuo fratello?" (Mt 7,3). Questa è una colpa in cui cadono tuttora molti uomini. Se vedono che un religioso ha un abito in più, subito gli rinfacciano la regola di povertà che il Signore ha dato; ma non tengono conto che essi rubano a più non posso e ogni giorno accumulano ingiuste ricchezze. E se vedono che prende un po’ più di cibo, subito assumono il ruolo dei severi accusatori, essi che passano tutta la loro vita negli eccessi del bere e del mangiare. Non si accorgono che così facendo attirano sul loro capo, oltre a quanto già meritano per i loro delitti, un fuoco ancor più intenso e che, giudicando gli altri in tal modo, privano se stessi di ogni scusa e attenuante.

       Crisostomo Giovanni, In Matth., 23, 1 s.





Lezionario "I Padri vivi" 174