Lezionario "I Padri vivi" 182

XII DOMENICA

182 Letture:
    
Za 12,10-11
     Ga 3,26-29
     Lc 9,18-24


1. Confessione di Pietro

       "Ed egli disse loro: «Voi chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Il Cristo di Dio»" (Lc 9,20). Non è senza interesse l’opinione della folla: gli uni credevano che fosse risorto Elia, che ritenevano dovesse tornare, altri che fosse risorto Giovanni, che sapevano che era stato decapitato, o qualcuno degli antichi profeti (Lc 9,19 Mt 16,14). Ma cercare i motivi di queste diverse opinioni è al di sopra delle nostre forze: diverse sono le opinioni e la prudenza di ciascuno. Del resto, se è stato sufficiente all’apostolo Paolo non conoscere altro che Cristo Gesù e questo crocifisso (1Co 2,2), che cosa debbo desiderare io di conoscere più del Cristo? In questo solo nome è espressa la divinità, l’Incarnazione, la fede e la Passione. E sebbene gli apostoli lo sappiano anche loro, Pietro risponde a nome di tutti: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16). Egli ha riassunto ogni cosa, esprimendo la natura e il nome che comprende la somma delle virtù...

       Credi dunque nel modo in cui ha creduto Pietro, per poter essere anche tu beato, e meritare anche tu di sentirti dire: "Perché non la carne e il sangue te lo ha rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli" (Mt 16,17). La carne e il sangue possono, infatti, rivelare solamente ciò che è terrestre; mentre chi parla in spirito dei misteri, non si fonda sugli insegnamenti della carne e del sangue, ma sull’ispirazione divina. Non appoggiarti quindi sulla carne e sul sangue, per non finire col prendere ordini dalla carne e dal sangue, e divenire tu stesso carne e sangue...

       Pietro non ha aspettato di sapere l’opinione del popolo, ma ha espresso subito la sua dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Colui che è, è sempre, non comincia ad essere, né finisce di essere. Ebbene, la bontà di Cristo è grande: egli dona ai suoi discepoli quasi tutti i suoi nomi. "Io sono" - egli ha detto - "la luce del mondo" (Jn 8,12): e questo nome di cui egli si gloria, lo ha dato ai suoi discepoli dicendo: "Voi siete la luce del mondo" (Mt 5,14). "Io sono il pane vivo" (Jn 6,51) ha detto, "e tutti noi siamo un solo pane" (1Co 10,17). Ancora: "Io sono la vera vite", dice di sé (Jn 15,1), e a te dice: "Ti ho piantato come una vite fruttuosa, tutta vera" (Jr 2,21). Cristo era la pietra: "Bevevano infatti dalla pietra spirituale che li accompagnava, e la pietra era Cristo" (1Co 10,4); e Cristo non rifiuta la grazia di questo nome al suo discepolo affinché anch’egli sia Pietro, in modo che abbia della pietra la solidità della costanza, la fermezza della fede.

       Sforzati anche tu di essere pietra. Cercala in te questa pietra, non al di fuori di te. La tua pietra è la tua azione, la tua pietra è il tuo spirito. Sopra questa pietra si costruisce la tua casa, in modo che nessuna tempesta, scatenata dagli spiriti malvagi, possa rovesciarla. La tua pietra è la fede, e la fede è il fondamento della Chiesa. Se tu sarai pietra, sarai nella Chiesa, perché la Chiesa poggia sulla pietra. Se sarai nella Chiesa, le porte dell’inferno non prevarranno contro di te. Le porte dell’inferno sono le porte della morte, e queste non possono essere le porte della Chiesa.

       Ma che cosa sono allora le porte della morte, ossia le porte dell’inferno, se non le diverse specie di peccato? Se tu avrai fornicato, avrai varcato le porte della morte. Se ferisci la buona fede altrui, ti apri le porte dell’inferno. Se hai commesso un peccato mortale, sei entrato per le porte della morte. Ma Dio ha il potere di farti uscire dalle porte della morte, a condizione che tu proclami le sue lodi alle porte della figlia di Sion (Ps 9,14). Invece le porte della Chiesa sono quelle della castità, quelle della giustizia, che il giusto è solito varcare dicendo: "Apritemi le porte della giustizia, ed io, entrato in essa, loderò il Signore" (Ps 117,19). E come la porta della morte è la porta dell’inferno, così la porta della giustizia è la porta di Dio: "Questa" - infatti - "è la porta del Signore, i giusti vi entreranno" (Ps 117,20). Fuggi perciò l’ostinazione nel peccato, in modo che le porte dell’inferno non possano prevalere: se infatti il peccato sarà il tuo padrone, la porta della morte trionfa.

       Ambrogio, In Luc., 6, 93 s. 97-99


2. La rinunzia a se stesso

       Il Signore ci dice di rinunziare alle cose nostre, se vogliamo andare con lui, perché quando andiamo alla prova della fede, dobbiamo affrontare gli spiriti maligni. Ma questi spiriti non posseggono niente di questo mondo. Dobbiamo lottare, perciò, nudi contro nudi. Perché se uno combatte vestito contro uno che è nudo, facilmente viene gettato a terra, perché ha più modo di essere afferrato. Che cosa sono, infatti, tutte le cose terrene, se non dei vestiti del corpo? E, allora, chi va a combattere col diavolo, si spogli, se non vuol soccombere. Non possegga nulla in questo mondo, o non sia attaccato a nulla, non cerchi piaceri nelle cose periture, perché ciò di cui si copre, non diventi strumento della sua caduta. E neanche basta lasciar le cose nostre; bisogna lasciar noi stessi. Ma che vuol dire lasciar noi stessi? Dove andremo fuori di noi, se lasciamo noi stessi? O chi è che va, se uno lascia se stesso? Ma una cosa siamo nella caduta del peccato e un’altra nella genuina creazione, una cosa è ciò che abbiam fatto di noi stessi e altra è ciò che siamo stati fatti. Sforziamoci, allora, di lasciare quello che abbiam fatto di noi stessi col peccato e di restare quello che siamo stati fatti attraverso la grazia. Ecco, chi è stato superbo, se convertendosi a Cristo è diventato umile, questo ha lasciato se stesso. Se un lussurioso s’è ridotto alla continenza, questi ha rinnegato se stesso. Se un avaro ha smesso di agognar ricchezze e lui, che rapiva l’altrui, ha imparato a donare il suo, senza dubbio questi ha lasciato se stesso. È ancora lui, quanto a natura, ma non è più lui, quanto a peccato. Perciò fu scritto: "Converti gli empi e non saranno più" (Pr 12,7). Gli empi convertiti non sono più, non quanto alla loro essenza, ma quanto alla colpa di empietà. Allora, dunque, lasciamo noi stessi, quando evitiamo ciò che era il nostro uomo vecchio e ci sforziamo d’essere l’uomo nuovo. Riflettiamo come aveva rinnegato se stesso Paolo, quando diceva: "Non sono più io che vivo" (Ga 2,20). Era finito il persecutore ed era cominciato a vivere il pio predicatore. E aggiunge subito: "Ma vive il Cristo in me"; come se volesse dire: Io sono morto, perché non vivo secondo la carne, ma essenzialmente non sono morto, perché spiritualmente vivo in Cristo. Dica, dunque, la Verità: "Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso" (Lc 9,23). Se uno non rinunzia a se stesso, non s’avvicina a chi è sopra di lui e non prende ciò che è fuori di lui, se non sacrifica se stesso. I broccoli devono essere trapiantati, per sviluppare; cioè, sono sradicati per crescere. I semi marciscono in terra, per moltiplicarsi. Mentre sembra che perdano ciò che erano, ricevono ciò che non erano.

       Gregorio Magno, Hom., 32, 2


3. Lascia tutto e troverai tutto

       Sii persuaso che tu devi vivere come chi sta per morire; e che quanto più uno muore a se stesso, tanto più comincia a vivere per Dio. Nessuno è atto a comprendere le cose di Dio se non si sarà sottoposto a tollerare per Cristo le avversità. Nulla vi è di più gradito a Dio, nulla vi è di più salutare per te in questo mondo, che patire volentieri per Cristo.

       E se ti fosse lasciata libertà di scelta, ti converrebbe piuttosto desiderare di soffrire contrarietà per amore di Cristo, che esser deliziato da tante consolazioni; perché, così, saresti più simile a Cristo e più conforme ai santi; infatti il nostro merito e la perfezione del nostro stato non consiste nell’avere molte soavi consolazioni, ma piuttosto nel saper sostenere i grandi dolori e le avversità...

       Figlio, tu non potrai mai possedere una perfetta libertà fino a quando non avrai rinnegato te stesso completamente. Sono incatenati tutti coloro che posseggono dei beni contro la povertà; coloro che sono egoisti, avari, curiosi, girovaghi, sempre alla ricerca di ciò che è piacevole, non di ciò che si riferisce a Gesù Cristo; quelli che sempre costruiscono e compongono un edificio che non si reggerà. Perirà infatti tutto ciò che non è nato da Dio. Ritieni bene questa massima, breve ma densa: Lascia tutto e troverai tutto.

       Lascia la cupidigia e troverai la quiete. Rumina bene questa cosa nella tua mente e quando l’avrai penetrata capirai tutto.

       De imitatione Christi, 2, 12, 14; 3, 32, 1


4. Colloquio con Dio dal fondo del cuore

La mano tua che tutte le anime aduna
e crea tutti gli esseri,
a strumento di morte l’hai inchiodata,
e l’emblema della croce,
per spezzare la mia audacia
che al tuo voler mi oppone.

       Gregorio di Narek, Liber orat., 36, 1




XIII DOMENICA

183 Letture:
    
1R 19,16b 1R 19,19-21
     Ga 4,31 Ga 5,1 Ga 5,13-18
     Lc 9,51-62

1. Le scelte di Gesù Cristo

       Riflettete sul capitolo del Vangelo che il Signore ci ha donato. Abbiamo sentito la diversa condotta del Signore. Uno si offrì per seguirlo ed egli lo riprovò; un altro non osava ed egli lo stimolò; un terzo rimandava e gliene fece una colpa. Il primo disse: "Signore, ti seguirò dovunque andrai" (Lc 9,57). Dove troveresti maggiore prontezza e alacrità e dove troveresti maggiore idoneità di questo, che è pronto a seguire il Signore dovunque andrà? Ti sorprende che il buon Maestro e Signore Gesù Cristo, che invitò i discepoli con la promessa del regno dei cieli, abbia rifiutato uno così preparato? Ma, poiché quel Maestro era uno che conosceva il futuro, dobbiamo capire che questo uomo, se avesse seguito Cristo, avrebbe cercato il suo interesse e non quello di Gesù Cristo. Gesù stesso disse: "Non tutti quelli che mi dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno dei cieli" (Mt 7,21). E questi era uno di quelli, ma non si conosceva, come lo vedeva il medico. Poiché se sapeva di fingere, se tramava un inganno, non sapeva con chi parlava. Di Gesù, infatti, dice l’Evangelista: "Non aveva bisogno che altri lo informasse intorno a qualcuno; sapeva da sé che cosa fosse in ogni uomo" (Jn 2,25). Che cosa rispose, allora? "Le volpi hanno tane e gli uccelli nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo". Ma dove il Signore non ha posto? Nella tua fede. Le volpi hanno tane nel tuo cuore; sei un ingannatore. Gli uccelli hanno nidi nel tuo cuore; sei superbo. Sei ingannatore e superbo, non mi seguirai. Come può un ingannatore andar dietro alla semplicità?

       A un altro, che taceva e non prometteva niente, dice: "Seguimi" (Lc 9,59). Quanto male vide in quello, tanto bene vide in questo. "Signore", vai a dire: Seguimi a uno che non ti pensa? Mi rispondi: Rifiuto quello, perché vedo in lui tane, vi vedo nidi. Ma perché poi vai a infastidire questo? Tu lo stimoli e lui si scusa; lo forzi e non viene, lo esorti e non ti segue. Vedi che ti risponde: "Andrò prima a seppellire mio padre" (Lc 9,59)? La fede del suo cuore si manifestava al Signore; ma la pietà verso il padre gli faceva rimandare l’accettazione dell’invito. Ma il Signore, quando chiama gli uomini per il Vangelo, non vuole che s’interponga nessuna scusa di ordine temporale. Ma qui si tratta della legge di Dio, e il Signore stesso rimproverò i Giudei perché distruggevano i comandamenti di Dio, e anche Paolo dice. "Questo è il primo comandamento confermato da una promessa". Quale? "Onora tuo padre e tua madre" (Ep 6,2). È certo Parola di Dio. Dunque, questo giovane voleva obbedire a Dio, seppellendo il padre. Ma si tratta di tempo, luogo e circostanze. Il padre dev’essere onorato e Dio dev’essere obbedito. Il padre dev’essere amato, ma Dio Creatore dev’esser preferito. Io, dice il Signore, ti chiamo per il Vangelo: mi sei necessario per un’altra cosa; questa è più grande di quella che vuoi fare tu. "Lascia che i morti seppelliscano i loro morti" (Lc 9,60). Tuo padre è morto; ci son degli altri morti per seppellire i morti. Chi son questi morti che seppelliscono i morti? Può un morto esser seppellito da altri morti? Come possono fasciare, se sono morti? Come piangono, come portano al sepolcro, se son morti? Fasciano, piangono e portano, e son morti, perché sono infedeli.

       Ha voluto insegnarci ciò che è scritto nel Cantico dei Cantici: "Mettete in ordine in me la carità" (Ct 2,4). Cos’è questo: "Mettete in ordine la carità"? Fate una graduatoria e date a ciascuno ciò che gli è dovuto. Non mettete prima ciò che sta indietro. Amate i genitori, ma mettete Dio al di sopra dei genitori. Pensate alla madre dei Maccabei: "Figlio, non so come apparisti nel mio ventre". Vi ho concepiti, vi ho partoriti; ma non vi ho fatti io. Ascoltate lui, allora; lui è da più di me. Non vi preoccupate che io rimanga senza di voi. Così disse e fu obbedita (2M 7). Ciò che questa madre insegnò ai figli, il Signore Gesù Cristo lo insegnò a quel tale cui disse: "Seguimi".

       Un terzo discepolo ancora, senza che nessuno lo invitasse, venne fuori e disse: "Ti seguirò, Signore; ma prima vado a dirlo a quelli che stanno a casa" (Lc 9,61). Il senso dovrebbe essere: Vado a dirlo ai miei, perché, come di solito avviene, non si mettano a cercarmi. Ma il Signore: "Nessuno che si guardi indietro, dopo aver messo mano all’aratro, è buono per il regno dei cieli" (Lc 9,62). Ti chiama l’Oriente e tu guardi l’Occidente. La lezione di questa pagina è che il Signore scelse chi volle lui.

       Agostino, Sermo 100, 1-3


2. Le condizioni poste da Gesù per diventare suoi discepoli

       "Colui che mette mano all’aratro e poi si gira indietro non è adatto per il Regno di Dio" (Lc 9,62). Colui che svolge con cura questo lavoro della natura e guida l’aratro e i buoi secondo le regole umane, non smette mai di guardare davanti a sé; non guarda mai all’indietro perché un tal modo di lavorare non sarebbe farlo con cura, non potrebbe camminare avanti a sé, i suoi solchi non sarebbero aperti in linea diritta, e i buoi non procederebbero innanzi; e questo, per quanto si tratti di lavoro materiale e chi lo vede appartenga del pari all’ordine corporale. Ora, il lavoro del mio discepolo è diverso dall’altro, così come un mondo differisce dall’altro, e una vita dall’altra, e gli esseri immortali dai mortali, e Dio dagli uomini. Se dunque assumi il giogo della mia disciplina nella tua anima e nel tuo corpo, svolgi con cura il lavoro dei miei precetti...

       Molti si fanno discepoli per fregiarsi del nome di Cristo e non per onorare Cristo; si lasciano ingaggiare da lui per rimanere nei piaceri corporei e non per portare le austerità dei suoi comandamenti. Altri si avvicinano a questa regola che esige rinuncia, spinti dal desiderio di Mammona, e per acquistare fuori dal mondo quello che non possono avere standovi dentro. Attraverso quell’unico discepolo di cui parla il Vangelo del nostro Salvatore, Gesù ha stigmatizzato questo pensiero iniquo in tutti gli altri: "Maestro, ti seguirò dovunque andrai; e Gesù gli rispose: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo" (Mt 8,20 Lc 9,58). Lungi da me, discepolo d’iniquità! Io non posso darti quello che tu desideri e tu non puoi ricevere quello che io ti do; conosco ciò che chiedi e io non ti do ciò che cerchi; hai creduto di venire a me per amore della ricchezza; sei andato a cercare le tenebre nella luce, la povertà nel possesso autentico, e la morte nella vita; tu vuoi acquistare venendo a me quanto io chiedo a tutti di lasciare per seguirmi; la porta per la quale sei spinto ad entrare per seguirmi è la stessa per la quale voglio farti uscire. Ecco perché non ti accolgo. Io sono povero per la mia condizione pubblica, e, per tal motivo, non detengo pubbliche ricchezze da elargire nel mondo in cui sono venuto. Io sono visto come uno straniero e non ho né casa né tetto, e chi vuole essere mio discepolo eredita da me la povertà: perché vuoi acquistare da me ciò che ti faccio rinunciare a possedere?

       Filosseno di Mabbug, Hom., 9, 306-307.312-313


3. Come seguire Gesù

       E se egli rimprovera i discepoli che volevano far discendere il fuoco su coloro che non avevano voluto accogliere Cristo (Lc 9,55), questo ci indica che non sempre si devono colpire coloro che hanno peccato: spesso giova di più la clemenza, sia a te, perché fortifica la tua pazienza, sia al colpevole, perché lo spinge a correggersi.

       Ma il Signore agisce mirabilmente in tutte le sue opere. Egli non accoglie colui che si offre con presunzione, mentre non si adira contro coloro che, senza nessun riguardo, respingono il Signore. Egli vuole così dimostrare che la virtù perfetta non ha alcun desiderio di vendetta, che non c’è alcun posto per la collera laddove c’è la pienezza della carità, e che, infine, non bisogna respingere la debolezza ma aiutarla.

       L’indignazione stia lungi dalle anime pie, il desiderio della vendetta sia lontano dalle anime grandi; e altrettanto lontano stia dai sapienti l’amicizia sconsiderata e l’incauta semplicità. Perciò egli dice a quello: «Le volpi hanno tane»; il suo ossequio non è accettato perché non è trovato effettivo. Con circospezione si usi dell’ospitalità della fede, nel timore che aprendo agli infedeli l’intimità deUa nostra dimora si finisca col cadere, per la nostra imprevidente credulità, nella rete della cattiva fede altrui.

       Ambrogio, In Luc., 7, 27 s.


4. La sequela di Gesù (Lc 9,59-62)

Non ho ascoltato la voce che vivifica
che non permette di seppellire il padre;
ma ancora sono morto con la morte
per le opere di morte del Maligno.

All’aratro della parola posi mano,
però non come il lavoratore;
egli, infatti, non si gira indietro
ma verso il solco che gli sta davanti.

Da parte mia, il consiglio dall’alto ho trascurato
la retta via che conduce al cielo;
di nuovo alla terra vile mi son volto,
dalla qual m’avevi tratto con la tua venuta.

Ora, nuovamente elevami,
verso di Te nel ciel dei cieli io ascenda;
non permettermi di rivolgermi al Nemico,
per tema che non mi getti nelle tenebre.

       Nerses Snorhali, Jesus, 502-505




XIV DOMENICA

184 Letture:
    
Is 66,10-14c
     Ga 6,14-18
     Lc 10,1-12 Lc 10,17-20

1. Gli operai evangelici

       Il nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, a volte ci istruisce con le parole, alle volte con dei fatti. Le sue azioni diventano precetti, quando tacitamente, con ciò che fa, c’indica ciò che dobbiamo fare. Eccolo che manda i suoi discepoli a predicare a due a due. Perché son due i precetti della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo, e perché ci sia amore, ci vogliono almeno due persone. L’amore che uno ha per se stesso, nessuno lo chiama carità; dev’essere diretto a un altro, perché lo si chiami carità. Il Signore manda i discepoli a due a due, per farci capire che se uno non ha amore per gli altri, non deve mettersi a predicare.

       È detto bene che "li mandò innanzi a sé in ogni città e villaggio, love egli pensava di recarsi" (Lc 10,1). Il Signore, infatti, va dietro ai suoi predicatori, perché prima arriva la predicazione nella nostra mente e poi vi arriva il Signore, quando si accetta la verità. Perciò Is dice ai predicatori: "Preparate ta via del Signore, raddrizzate le vie di Dio" (Is 40,3)...

       Sentiamo ora che cosa dice il Signore ai suoi predicatori: "La messe è molta, ma gli operai son pochi. Pregate dunque il padrone della messe, che mandi operai nella sua messe" (Lc 10,2). La messe è molta, ma gli operai son pochi. Non lo possiamo dire senza rammarico. Son molti quelli che son disposti a sentire, ma son pochi a predicare. Il mondo è pieno di sacerdoti ma nella messe è difficile trovarci un operaio, perché abbiamo accettato l’ufficio sacerdotale, ma non facciamo il lavoro del nostro ufficio. Ma riflettete, riflettete, fratelli, alle parole: "Pregate il padrone della messe, che mandi operai alla sua messe". Pregate per noi, perché possiamo lavorare adeguatamente per voi, perché la nostra lingua non desista dall’esortare, perché, dopo aver preso l’ufficio della predicazione, il nostro silenzio non ci condanni. Spesso infatti la lingua tace per colpa dei predicatori; ma succede anche altre volte che, per colpa di chi deve sentire, la parola vien meno a chi deve parlare. A volte la parola manca per la cattiveria del predicatore, come dice il Salmista: "Dio disse al peccatore: Perché osi parlare della mia giustizia?" (Ps 49,16); e alle volte il predicatore è impedito per colpa degli uditori, come in Ezechiele: "Farò attaccare la tua lingua al tuo palato e sarai muto, e non potrai rimproverare, perché è una casa che esaspera" (Ez 3,26). Come se dicesse: Ti tolgo la parola, perché un popolo che mi esaspera con le sue azioni, non è degno che gli si porti la verità. Non è facile, quindi, discernere per colpa di chi vien tolta la parola al predicatore; ma è certo che il silenzio del pastore, se qualche volta è dannoso al pastore stesso, al suo gregge lo è sempre...

       Colui che prende l’ufficio di predicare, non deve fare il male ma lo deve tollerare, perché con la sua mansuetudine, gli riesca di mitigare l’ira di quelli che infieriscono contro di lui, e lui ferito riesca con le sue pene a guarire negli altri le ferite dei peccati. E anche se lo zelo della giustizia vuole che talvolta egli sia severo con gli altri, il suo furore deve nascere da amore e non da crudeltà; ed ami con amore paterno, quando col castigo difende i diritti della disciplina. E questo il superiore lo dimostra bene, quando non ama se stesso, non cerca cose del mondo, non piega il suo collo al peso di terreni desideri...

       "L’operaio è degno della sua mercede" (Lc 10,7), perché gli alimenti fanno parte della mercede, in modo che qui cominci la mercede della fatica della predicazione, che sarà compiuta in cielo con la visione della Verità. Il nostro lavoro, dunque, ha due mercedi, una qui nel viaggio e un’altra nella patria: una che ci sostiene nel lavoro, l’altra che ci premia nella risurrezione. La mercede che riceviamo qui però ci deve rendere più forti per la seconda. Il predicatore perciò non deve predicare per ricevere una mercede temporale, ma deve accettare la mercede, perché possa continuare a predicare. E chiunque predica per una mercede di lode o di danaro, si priva della mercede eterna. Colui invece che, quando parla, desidera di piacere, non perché lui sia amato, ma perché il Signore sia amato, e accetta uno stipendio solo perché non venga poi meno la voce della predicazione, certamente questi non sarà premiato meno nella patria perché ha accettato un compenso in questa vita.

       Ma che facciamo noi pastori, non posso dirlo senza dolore, che facciamo noi che prendiamo la mercede dei pastori e non ne facciamo il lavoro? Mangiamo ogni giorno il pane della santa Chiesa, ma non lavoriamo affatto per la Chiesa eterna. Riflettiamo quale titolo di dannazione sia il prendere il salario d’un lavoro senza fare il lavoro. Viviamo con le offerte dei fedeli, ma dov’è il lavoro per le loro anime? Prendiamo come paga ciò che i fedeli danno in sconto dei loro peccati, ma non ci diamo da fare con l’impegno della preghiera e della predicazione, come sarebbe giusto, contro quegli stessi peccati.

       Gregorio Magno, Hom., 17, 1-4.7 s.


2. Missione dei discepoli

       Gli apostoli hanno ordine di non portare il bastone: questo è quanto Matteo ha creduto di dover scrivere (Mt 10,10). Cos’è il bastone, se non l’insegna della potestà che si porta innanzi, e lo strumento che vendica il dolore? Quindi ciò che l’umile Signore, - "nell’umiliazione" infatti "il suo giudizio è stato innalzato" (Is 53,8), - ciò che l’umile Signore, ripeto, ha prescritto ai suoi discepoli, essi lo adempiono con la pratica dell’umiltà. Li ha inviati infatti a seminare la fede non con la costrizione, ma con l’insegnamento; non spiegando la forza del potere, ma esaltando la dottrina dell’umiltà. Ed ecco, egli ha giudicato opportuno aggiungere all’umiltà la pazienza; egli infatti, conforme alla testimonianza di Pietro, "ingiuriato non ricambiava l’ingiuria, percosso non restituiva il colpo" (1P 2,23).

       "Siate miei imitatori" (Ph 3,17), significa dunque questo: abbandonate il piacere della vendetta, rispondete ai colpi dell’arroganza non restituendo l’ingiuria ma con magnanima pazienza. Nessuno deve imitare quanto rimprovera negli altri; la mansuetudine colpisce ben più gravemente gli insolenti. Un simile colpo di pugno il Signore ha restituito a colui che ha colpito, quando ha detto: "A chi ti colpisce la guancia, porgigli l’altra" (Mt 5,39). Finisce infatti in questo modo che uno si condanna col suo proprio giudizio, e ha il cuore come punto da uno stimolo, quando vede che al torto che ha fatto, l’altro risponde con la premura...

       "E per via non saluterete nessuno" (Lc 10,4).

       Qualcuno troverà forse in queste parole durezza e orgoglio, poco conformi ai precetti del Signore dolce e umile; egli che pure aveva prescritto di cedere il posto a tavola (cf. Lc 14,7ss), ecco che ora ordina ai discepoli: «per via non saluterete nessuno», quando invece questo è un uso di gentilezza. È in questo modo che le persone inferiori usano guadagnarsi il favore dei potenti; anche i Gentili usano con i cristiani questo scambio di cortesia. Perché il Signore vuole estirpare quest’usanza civile?

       Ma considera che egli non dice soltanto: «non saluterete nessuno». Non è senza ragione che aggiunge: «per via». Anche Eliseo, quando mandò il servitore a deporre il suo bastone sul corpo del piccolo morto, gli disse di non salutare nessuno per strada (cf. 2R 4,29): gli ordinò di far presto, perché potesse compiere l’incarico relativo alla risurrezione da effettuare, perché nessuno scambio di parole con qualche passante ritardasse la missione che doveva eseguire. Dunque, anche qui non si tratta di abolire la reciproca cortesia del saluto, ma di togliere di mezzo l’ostacolo che potrebbe intralciare l’incarico; in presenza del divino, l’umano deve essere temporaneamente messo da parte. È bello il saluto: ma il compimento delle opere divine è tanto più bello quanto più è rapido, e il ritardarlo spesso genera scontento. Per questo si vieta anche lo scambio di cortesie, nel timore che le civili usanze ritardino e danneggino il compimento di un dovere che non può essere rimandato senza colpa.

       Ed ecco un’altra virtù: non passare da una casa all’altra con volubile facilità; conservare la costanza negli stessi sentimenti di ospitalità e non spezzare con leggerezza i legami di una amicizia già annodata; portare sempre dinanzi a noi un annunzio di pace.

       Ambrogio, In Luc., 7, 59.62 s


3. L’augurio della pace nell’ospitalità

       "In qualunque casa entriate, dite anzitutto: Pace a questa casa!" (Lc 10,5 Mt 10,12), perché il Signore stesso vi entri e vi si stabilisca come in casa di Maria (Lc 10,38-42 Jn 12,1-8), e poi vi soggiornino con i suoi discepoli in quanto discepoli. Questo saluto costituisce il mistero di fede che risplende nel mondo; per esso, l’inimicizia è soffocata, la guerra fermata e gli uomini si riconoscono reciprocamente. L’effetto di questo stesso saluto era come dissimulato dal velo dell’errore, nonostante la prefigurazione del mistero della risurrezione dei corpi, mistero espresso dalle cose inanimate, allorché sopraggiunge la luce ed appare l’aurora che scaccia la notte. Da quel momento, gli uomini cominciarono a salutarsi reciprocamente e a ricevere il saluto gli uni dagli altri, per la guarigione di chi lo dà e la benedizione di quelli che lo ricevono. Su coloro, però, che ricevono solo esteriormente la parola di saluto, le cui anime non recano l’impronta di membri di Nostro Signore, il saluto si spande come una luce mutata da coloro che la ricevono, cosi come i raggi del sole lo sono ad opera del mondo.

       Questo saluto che il suo nome annuncia, del quale la scienza spiega la potenza nascosta, e che regola un simbolo, basta ampiamente per tutti gli uomini. Ecco perché Nostro Signore lo inviò insieme con i suoi discepoli, quale precursore, perché esso ristabilisca la pace e, avvolto dalla voce degli apostoli, suoi inviati, prepari la via davanti a loro. Esso veniva seminato in tutte le case per adunarne e smistarne le membra; esso entrava in tutti coloro che lo ascoltavano per separare e mettere a parte i figli che riconosceva come suoi; restava in essi e denunciava coloro che gli si dimostravano estranei, poiché, una volta seminato in questi ultimi, esso li abbandonava.

       Tale saluto non inaridiva, zampillando dagli apostoli sui loro fratelli, per rivelare che i tesori del Signore che lo inviava non si esauriscono. Esso non si trasformava in coloro che lo accoglievano, manifestando in tal modo che i doni del donatore erano stabili e sicuri. Presente in coloro che lo davano e in quelli che lo accoglievano, quel saluto non subiva né diminuzione, né divisione.

       Del Padre, esso proclamava che è vicino a tutti e in tutti della missione del Figlio, che egli è tutto intero presso tutti e che la sua fine è presso il Padre. Immagine del Padre, quel saluto non ha cessato di predicare, così come non ha cessato di essere proclamato, fino all’avvento della certezza che adempie le figure tipiche, fino a quando la verità non metterà fine alle immagini e le ombre vengano respinte dal corpo stesso, e i simboli dispersi dalle rappresentazioni vere.

       È così dunque che noi lanciamo la parola del Signore su ascoltatori ed amici, quale coagulo per separare e unire; per separarli e dissociarli da ogni miscuglio e unirli al Signore che aduna la comunità.

       Efrem, Diatessaron, 8, 3-5


4. L’aiuto ci viene da Cristo

       "Non rallegratevi però perché i demoni vi obbediscono; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti in cielo" (Lc 10,20); quando invero questo avvenga per opera sua (di Cristo), anche se con la nostra volontà ed impegno, dobbiamo esser convinti che siamo stati aiutati da lui. Non dunque è necessario che ogni fedele scacci i demoni o susciti i morti o parli le lingue, bensì colui che è fatto degno di un carisma per una causa utile in vista della salvezza degli infedeli, i quali, spesso, non per la esatta spiegazione mediante discorsi ma ad opera di segni si convertono, e quelli che precisamente sono degni di salvezza.

       Constitutiones Apostolor., VIII, 1, 3 s.




XV DOMENICA

185 Letture:
    
Dt 30,10-14
     Col 1,15-20
     Lc 10,25-37

1. La carità e il Samaritano

       Il maestro interrogato circa il più grande comandamento risponde: "Amerai il Signore Dio con tutta la tua anima e con tutte le tue forze" (Mt 12,36). Questo è certamente il più grande comandamento e ben a ragione, perché riguarda Dio, che è primo e massimo, nostro Padre, per il quale esistono tutte le cose e al quale tutte ritornano. E per noi, amati e creati da lui, non ci può essere nulla di più importante che rendergli almeno grazie degli immensi doni che ci ha fatti, tanto più che, in ricambio, non possiamo dargli nulla, perché lui non ha bisogno di niente; intanto, amando Dio con amore di figli possiamo ottenere il dono dell’immortalità. Poiché quanto più uno ama Dio, tanto più intimamente s’innesta a Dio.

       L’altro comandamento, ma non inferiore, è: "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (Mt 22,39). Dunque, Dio sta al di sopra. Poiché quel tale insisteva domandando: "E chi è il mio prossimo?" (Lc 10,29), non definì il prossimo, come facevano i Giudei, nominando un consanguineo, un concittadino, un proselita, un circonciso o uno che osservasse la stessa legge; ma si riferisce a un uomo che da Gerusalemme si recava a Gerico e lo descrive ferito dai ladri e lasciato mezzo morto per la strada un sacerdote lo lascia lì, un levita non se ne cura; ma un Samaritano (disprezzato ed emarginato dai Giudei) ne ha compassione; ma l’incontro non fu a caso, egli era fornito delle cose necessarie a un ferito, come l’olio, le fasce, la cavalcatura; ed egli in parte dà e in parte promette la mercede all’oste. "Chi di questi", domanda, "fu prossimo al ferito"? E avendo quegli risposto: "Colui che n’ebbe misericordia", "Va’", disse, "e fa’ anche tu lo stesso (ibid". 36, 37); cioè la carità è madre di bontà.

       La base dell’uno e dell’altro comandamento è la carità; l’ordine è diverso: Dio sta al primo posto, il prossimo al secondo. E chi è quel Samaritano se non lo stesso Salvatore? O chi fa una maggiore misericordia a noi quasi uccisi dalle potenze delle tenebre con ferite, paure, desideri, furori, tristezze, frodi, piaceri? Di queste ferite solo Gesù è medico; lui sradica i vizi dalle radici. È lui che infonde il vino (il sangue della vite davidica) alle anime ferite; è lui che dalle viscere dello Spirito trae l’olio e lo diffonde largamente. È lui che tiene strette le fasce della salvezza: la carità, la fede, la speranza. È lui che impegna angeli e arcangeli, perché ci assistano col loro ministero. Bisogna amarlo, allora, come amiamo Dio. Ama Cristo, chi fa la sua volontà e ne osserva i precetti. "Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio" (Jn 14,23). E: "Perché mi chiamate Signore, se non fate ciò che vi dico?" (Lc 6,40).

       Clemente di Alessandria, Quis dives, 27-29


2. Il buon Samaritano

       "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico" (Lc 10,29ss). Cristo si serve di una definizione specifica. Non dice: «Qualcuno scendeva», ma «un uomo scendeva», poiché questo versetto riguarda tutta l’umanità. Per il peccato di Adamo l’umanità ha perduto il diritto di stare nel paradiso, luogo posto in alto, tranquillo, libero dalle sofferenze e meraviglioso, che giustamente viene chiamato qui Gerusalemme, in quanto questo nome vuol dire «pace divina». Ed essa scende a Gerico, paese squallido e infossato in cui regna un caldo soffocante. Gerico è la vita febbrile del mondo, vita lontana da Dio e che trascina in basso. Il fuoco dei piaceri più impudichi causa lì afa ed esaurimento.

       Quando dunque l’umanità è scesa dalla retta via verso una vita del genere, quando si è lasciata trascinare dall’alto verso il basso, una torma di demoni come una banda di malfattori l’ha assalita sulla china. L’hanno depredata delle vesti della perfezione, non lasciando in essa la minima traccia né della forza dello spirito, né di purezza, né di giustizia e prudenza, né nulla che mostri l’immagine divina. Aggredendola molte volte, le hanno provocato un gran numero di ferite di peccati diversi, per abbandonarla poi in terra tramortita... La Legge data da Mosè è passata oltre. Ha visto l’umanità a terra e agonizzante. Il sacerdote ed il levita, infatti, rappresentano nella parabola l’Antico Testamento che ha istituito il sacerdozio dei leviti. La Legge ha visto veramente l’umanità, ma le è mancata la forza, è stata impotente. Non ha condotto l’umanità alla completa guarigione, non l’ha sollevata da terra. E poiché le è mancata la forza, ha dovuto necessariamente allontanarsi per l’inefficacia dei suoi interventi. Ha dovuto allontanarsi, poiché - come insegna Paolo - i suoi "doni e sacrifici non possono rendere perfetto, nella coscienza, l’offerente" (He 9,9), "poiché è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri" (He 10,4).

       Finalmente passa un samaritano. Cristo, volutamente, si fa chiamare Samaritano. Rivolgendosi a chi conosce bene la Legge a chi sa perfettamente parlare della Legge, egli vuole in tal modo dimostrare che né il sacerdote, né il levita, né in generale nessuno di quelli che presumibilmente seguono le prescrizioni della Legge di Mosè, ma lui solo è venuto ad adempiere la Legge e a dimostrare con i fatti chi è il prossimo e che cosa significa «amare il prossimo come se stesso»; egli di cui i Giudei dicevano, volendolo oltraggiare: "Non diciamo con ragione che sei un samaritano e hai un demonio?" (Jn 8,48).

       Il Samaritano che passa - ed è Cristo che veramente è in viaggio - vede il ferito. Non va oltre, poiché lo scopo del suo viaggio è quello di «visitare» noi; noi per i quali è sceso sulla terra e in mezzo ai quali ha abitato. Perciò non solo si è manifestato agli uomini, ma è stato veramente in mezzo a loro... "Sulle sue ferite ha versato del vino", il vino della parola... E poiché le ferite gravi non hanno potuto sopportare la sua forza, ecco che ha aggiunto dell’olio, così che con la sua dolce «filantropia» si è attirato il biasimo dei farisei e ha dovuto rispondere spiegando loro il significato delle parole: "Voglio misericordia, non sacrifici" (Os 6,6).

       Quindi ha messo il ferito su una bestia da soma, mostrandoci con ciò che egli ci innalza al di sopra delle passioni bestiali, egli che anche ci porta in sé, rendendoci così membra del suo Corpo.

       Poi, ha condotto l’uomo in una locanda, chiamando così la Chiesa, luogo di dimora e di adunata per tutti; infatti, mai abbiamo sentito che impedendo agli Ammoniti e ai Moabiti l’entrata in Chiesa, l’abbia limitata solo all’Antico Patto che è ombra della Legge, o al culto delle immagini e delle profezie. Al contrario, egli ordina agli apostoli: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni" (Mt 28,19) e insegna che il Signore ama in ogni popolo colui che lo teme e vive secondo giustizia. Giunto nella locanda, il buon Samaritano ha ancora di più cura di colui che ha salvato.

       Infatti, quando la Chiesa si formò dalla comunità dei martiri, in essa era Cristo dispensatore di grazie.

       Al padrone della locanda - che rappresenta gli apostoli, i pastori e i dottori - consegna, andando via, entrando in cielo, due denari, perché abbia cura del ferito. Questi due denari vanno intesi come i due Testamenti: il Vecchio e il Nuovo, l’Antica Legge e i profeti, la Nuova Legge dataci dal Vangelo e le istituzioni apostoliche. Come i due Testamenti discendono da Dio stesso dall’alto dei cieli, così i denari recano l’effigie di un re. Tutti e due - per mezzo delle Sacre Scritture - imprimono il marchio regale, poiché uno ed uno stesso Spirito dice codeste parole.

       I pastori delle sante Chiese, una volta ricevuti i due denari, li fanno fruttare nuovi soldi nel faticoso lavoro di maestri, ed anche con lo spenderli per i propri bisogni, poiché il denaro spirituale, parola di dottrina, ha la proprietà di non diminuire, bensì di aumentare con lo spenderlo. Ognuno di loro dirà nell’ultimo giorno, quando il Signore tornerà: "Signore, mi hai consegnati due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due" (Mt 25,22); con essi ho ingrandito il tuo gregge. E il Signore rispondendo dirà: "Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone" (Mt 25,23).

       Severo di Antiochia, Hom., 89, passim


3. Il prossimo è ogni uomo

       Dimmi ora, o dottore della Legge, senza guardarmi con i tuoi occhi cattivi e indagatori, chi è per te il prossimo? Non deve essere forse chi è diventato tale per il semplice fatto che era nel bisogno? Tu credi spesso nella tua ignoranza che tuo prossimo sia semplicemente chi professa la tua religione o un tuo connazionale. Ma io dico e sostengo che prossimo è ogni uomo, ogni essere che partecipa della natura umana. Come vedi, ci alza anche il capo per il fatto di essere sacerdote, e colui che si vanta di essere levita e svolge le sacre funzioni del servizio sacerdotale secondo la Legge, ambedue - come te - dicono con orgoglio di conoscere i comandamenti divini. Eppure, a loro non viene nemmeno in mente il pensiero che il loro fratello abbandonato in terra nudo, coperto di ferite e morente, è un uomo della loro stessa nazione. Lo disprezzano come un sasso, come un pezzo di legno gettato via.

       Ma il Samaritano riconosce la natura umana e comprende chi è il prossimo, anche se ignora i comandamenti e voi lo ritenete uno zotico... Così, dunque, colui che voi considerate troppo lontano, eccolo vicino a chi ha bisogno di cure.

       Perciò, non rimanere attaccato alla lettera delle tue leggi giudaiche, quando devi riconoscere il tuo prossimo, non vederlo solo in quelli del tuo sangue, poiché è prossimo ogni persona e su di essa deve scendere lo spirito di carità.

       Severo di Antiochia, Hom., 89, passim





Lezionario "I Padri vivi" 182