Verbum Domini IT 28


28 In questa circostanza desidero richiamare l’attenzione sulla familiarità di Maria con la Parola di Dio. Ciò risplende con particolare efficacia nel Magnificat. Qui, in un certo senso, si vede come Ella si identifichi con la Parola, entri in essa; in questo meraviglioso cantico di fede la Vergine esalta il Signore con la sua stessa Parola: «Il Magnificat — un ritratto, per così dire, della sua anima — è interamente tessuto di fili della sacra Scrittura, di fili tratti dalla Parola di Dio. Così si rivela che lei nella Parola di Dio è veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con la Parola di Dio; la Parola di Dio diventa parola sua, e la sua parola nasce dalla Parola di Dio. Così si rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio. Essendo intimamente penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare madre della Parola incarnata».[81]

Inoltre, il riferimento alla Madre di Dio ci mostra come l’agire di Dio nel mondo coinvolga sempre la nostra libertà perché nella fede la Parola divina ci trasforma. Anche la nostra azione apostolica e pastorale non potrà mai essere efficace se non impariamo da Maria a lasciarci plasmare dall’opera di Dio in noi: «L’attenzione devota e amorosa alla figura di Maria come modello e archetipo della fede della Chiesa, è di importanza capitale per operare anche oggi un concreto cambiamento di paradigma nel rapporto della Chiesa con la Parola, tanto nell’atteggiamento di ascolto orante quanto nella generosità dell’impegno per la missione e l’annuncio».[82]

Contemplando nella Madre di Dio un’esistenza totalmente modellata dalla Parola, ci scopriamo anche noi chiamati ad entrare nel mistero della fede, mediante la quale Cristo viene a dimorare nella nostra vita. Ogni cristiano che crede, ci ricorda sant’Ambrogio, in un certo senso, concepisce e genera il Verbo di Dio in se stesso: se c’è una sola Madre di Cristo secondo la carne, secondo la fede, invece, Cristo è il frutto di tutti.[83] Dunque, quanto è accaduto a Maria può riaccadere in ciascuno di noi ogni giorno nell’ascolto della Parola e nella celebrazione dei Sacramenti.

[81] Id., Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), : AAS 98 (2006), 251.
[82] Propositio 55.
[83] Cfr Expositio Evangelii secundum Lucam 2, 19: PL 15, 1559-1560.


L’ermeneutica della sacra Scrittura nella Chiesa

La Chiesa luogo originario dell’ermeneutica della Bibbia

29 Un altro grande tema emerso durante il Sinodo, sul quale intendo ora richiamare l’attenzione, èl’interpretazione della sacra Scrittura nella Chiesa.Proprio il legame intrinseco tra Parola e fede mette in evidenza che l’autentica ermeneutica della Bibbia non può che essere nella fede ecclesiale, che ha nel sì di Maria il suo paradigma. San Bonaventura afferma a questo proposito che senza la fede non c’è chiave di accesso al testo sacro: «Questa è la conoscenza di Gesù Cristo, da cui hanno origine, come da una fonte, la sicurezza e l’intelligenza di tutta la sacra Scrittura. Perciò è impossibile che uno possa addentrarsi a conoscerla, se prima non abbia la fede infusa di Cristo, che è lucerna, porta e anche fondamento di tutta la Scrittura».[84] E san Tommaso d’Aquino, menzionando sant’Agostino, insiste con forza: «Anche la lettera del vangelo uccide se manca l’interiore grazia della fede che sana».[85]

Questo ci permette di richiamare un criterio fondamentale dell’ermeneutica biblica: il luogo originario dell’interpretazione scritturistica è la vita della Chiesa.Questa affermazione non indica il riferimento ecclesiale come un criterio estrinseco cui gli esegeti devono piegarsi, ma è richiesta dalla realtà stessa delle Scritture e da come esse si sono formate nel tempo. Infatti, «le tradizioni di fede formavano l’ambiente vitale in cui si è inserita l’attività letteraria degli autori della sacra Scrittura. Questo inserimento comprendeva anche la partecipazione alla vita liturgica e all’attività esterna delle comunità, al loro mondo spirituale, alla loro cultura e alle peripezie del loro destino storico. L’interpretazione della sacra Scrittura esige perciò, in modo simile, la partecipazio­ne degli esegeti a tutta la vita e a tutta la fede della comunità credente del loro tempo».[86] Di conseguenza, «dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta»,[87] occorre che gli esegeti, i teologi e tutto il Popolo di Dio si accostino ad essa per ciò che realmente è, quale Parola di Dio che si comunica a noi attraverso parole umane (cfr
1Th 2,13). Questo è un dato costante ed implicito nella Bibbia stessa: «nessuna Scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio» (2P 1,20-21). Del resto, è proprio la fede della Chiesa che riconosce nella Bibbia la Parola di Dio; come dice mirabilmente sant’Agostino, «non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica».[88] È lo Spirito Santo, che anima la vita della Chiesa, a rendere capaci di interpretare autenticamente le Scritture. La Bibbia è il libro della Chiesa e dalla sua immanenza nella vita ecclesiale scaturisce anche la sua vera ermeneutica.

[84] Breviloquium, Prol.: Opera Omnia, V, Quaracchi 1891, pp. 201-202.
[85] Summa Theologiae, I-II 106,2.
[86] Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), III, A, 3: Ench. Vat. 13, n. 3035.
[87] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, DV 12.
[88] Contra epistolam Manichaei quam vocant fundamenti, V, 6: PL 42, 176.


30 San Girolamo ricorda che non possiamo mai da soli leggere la Scrittura. Troviamo troppe porte chiuse e scivoliamo facilmente nell’errore. La Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il «noi» nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire.[89] Il grande studioso, per il quale «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»,[90] afferma che l’ecclesialità dell’interpretazione biblica non è un’esigenza imposta dall’esterno; il Libro è proprio la voce del Popolo di Dio pellegrinante, e solo nella fede di questo Popolo siamo, per così dire, nella tonalità giusta per capire la sacra Scrittura. Un’autentica interpretazione della Bibbia deve essere sempre in armonica concordanza con la fede della Chiesa cattolica. Così san Girolamo si rivolgeva ad un sacerdote: «Rimani fermamente attaccato alla dottrina tradizionale che ti è stata insegnata, affinché tu possa esortare secondo la sana dottrina e confutare coloro che la contraddicono».[91]

Approcci al testo sacro che prescindano dalla fede possono suggerire elementi interessanti, soffermandosi sulla struttura del testo e le sue forme; tuttavia, un tale tentativo sarebbe inevitabilmente solo preliminare e strutturalmente incompiuto. Infatti, come è stato affermato dalla Pontificia Commissione Biblica, facendo eco ad un principio condiviso nell’ermeneutica moderna, «la giusta conoscenza del testo biblico è accessibile solo a colui che ha un’affinità vissuta con ciò di cui parla il testo».[92] Tutto questo mette in rilievo la relazione tra la vita spirituale e l’ermeneutica della Scrittura. Infatti, «con la crescita della vita nello Spirito cresce anche, nel lettore, la comprensione delle realtà di cui parla il testo biblico».[93] L’intensità di un’autentica esperienza ecclesiale non può che incrementare un’intelligenza della fede autentica riguardo alla Parola di Dio; reciprocamente si deve dire che leggere nella fede le Scritture fa crescere la stessa vita ecclesiale. Da qui possiamo cogliere in modo nuovo la nota affermazione di san Gregorio Magno: «le parole divine crescono insieme con chi le legge».[94] In questo modo l’ascolto della Parola di Dio introduce ed incrementa la comunione ecclesiale con quanti camminano nella fede.

[89] Cfr Benedetto XVI, Udienza Generale (14 novembre 2007): Insegnamenti III, 2 (2007), 586-591.
[90] Commentariorum in Isaiam libri, Prol.: PL 24, 17.
[91] Epistula 52, 7: CSEL 54, p. 426.
[92] Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), II, A, 2: Ench. Vat. 13, n. 2988.
[93] Ibidem, II, A, 2: Ench. Vat. 13, n. 2991.
[94] Homiliae in Ezechielem, I, VII, 8: PL 76, 843 D.


«L’anima della sacra Teologia»

31 «Sia dunque lo studio delle Sacre Pagine come l’anima della Sacra Teologia»:[95] questa espressione della Costituzione dogmatica Dei Verbum ci è diventata in questi anni sempre più familiare. Possiamo dire che l’epoca successiva al Concilio Vaticano II, per quanto riguarda gli studi teologici ed esegetici, ha fatto frequente riferimento a quest’espressione come simbolo del rinnovato interesse per la sacra Scrittura. Anche la XII Assemblea del Sinodo dei Vescovi si è spesso riferita a questa nota affermazione per indicare la relazione tra ricerca storica ed ermeneutica della fede in riferimento al testo sacro. In questa prospettiva, i Padri hanno riconosciuto con gioia l’accresciuto studio della Parola di Dio nella Chiesa lungo gli ultimi decenni ed hanno espresso un vivo ringraziamento ai numerosi esegeti e teologi che con la loro dedizione, impegno e competenza hanno dato e danno un contributo essenziale all’approfondimento del senso delle Scritture, affrontando i problemi complessi che il nostro tempo pone alla ricerca biblica.[96] Sentimenti disincera gratitudine anche per i membri della Pontificia Commissione Biblica che si sono succeduti in questi anni e che, in stretto rapporto con la Congregazione per la Dottrina della Fede, continuano a dare il loro qualificato apporto nell’affrontare questioni peculiari inerenti allo studio della sacra Scrittura. Il Sinodo ha sentito, inoltre, il bisogno di interrogarsi sullo stato degli attuali studi biblici e sul loro rilievo nell’ambito teologico. Infatti, dal fecondo rapporto tra esegesi e teologia dipende gran parte dell’efficacia pastorale dell’azione della Chiesa e della vita spirituale dei fedeli. Per questo ritengo importante riprendere talune riflessioni emerse nel confronto avuto su questo tema nei lavori del Sinodo.

[95] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum,
DV 24; cfr Leone XIII, Lett. enc. Providentissimus Deus (18 novembre 1893), Pars II, sub fine: ASS 26 (1893-94), 269-292; Benedetto XV, Lett. enc. Spiritus Paraclitus (15 settembre 1920), Pars III: AAS 12 (1920), 385-422.
[96] Cfr Propositio 26.


Sviluppo della ricerca biblica e Magistero ecclesiale

32 Innanzitutto è necessario riconoscere il beneficio derivato nella vita della Chiesa dall’esegesi storico-critica e dagli altri metodi di analisi del testo sviluppati nei tempi recenti.[97] Per la visione cattolica della sacra Scrittura l’attenzione a questi metodi è imprescindibile ed è legata al realismo dell’incarnazione: «Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato nel Vangelo secondo Giovanni 1, 14: Verbum caro factum est.Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana. La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica».[98] Pertanto, lo studio della Bibbia esige la conoscenza e l’uso appropriato di questi metodi di indagine. Se è vero che questa sensibilità nell’ambito degli studi si è sviluppata più intensamente nell’epoca moderna, benché non dappertutto in modo uguale, tuttavia, nella sana tradizione ecclesiale, vi è sempre stato amore per lo studio della «lettera». Basti qui ricordare la cultura monastica, cui dobbiamo ultimamente il fondamento della cultura europea, alla cui radice sta l’interesse per la parola. Il desiderio di Dio include l’amore per la parola in tutte le sue dimensioni: «poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua».[99]

[97] Cfr Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), A-B: Ench. Vat. 13, n. 2846-3150.
[98] Benedetto XVI, Intervento nella XIV Congregazione Generale del Sinodo (14 ottobre 2008): Insegnamenti IV, 2 (2008), 492; cfr Propositio 25.
[99] Id., Discorso agli uomini di cultura al «Collège des Bernardins» di Parigi (12 settembre 2008): AAS 100 (2008), 722-723.


33 Il Magistero vivo della Chiesa, al quale spetta «d’interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa»,[100] è intervenuto con sapiente equilibro in relazione alla giusta posizione da avere di fronte all’introduzione dei nuovi metodi di analisi storica. Mi riferisco in particolare alle encicliche Providentissimus Deus di Papa Leone XIII e Divino afflante Spiritu di Papa Pio XII. Fu il mio venerabile predecessore Giovanni Paolo II a ricordare l’importanza di questi documenti per l’esegesi e la teologia in occasione della celebrazione rispettivamente del centenario e cinquantenario della loro promulgazione.[101] L’intervento di Papa Leone XIII ebbe il merito di proteggere l’interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi del razionalismo, senza però rifugiarsi in un senso spirituale staccato dalla storia. Non rifuggendo la critica scientifica, si diffidava solamente «dalle opinioni preconcette che pretendono di fondarsi sulla scienza ma che in realtà fanno uscire subdolamente la scienza dal suo campo».[102] Il Papa Pio XII, invece, si trovava di fronte agli attacchi dei sostenitori di un’esegesi cosiddetta mistica che rifiutava qualsiasi approccio scientifico. L’Enciclica Divino afflante Spiritu, con grande sensibilità, ha evitato di ingenerare l’idea di una dicotomia tra l’«esegesi scientifica» per l’uso apologetico e l’«interpretazione spirituale riservata all’uso interno», affermando invece sia la «portata teologica del senso letterale metodicamente definito», sia l’appartenenza della «determinazione del senso spirituale… al campo della scienza esegetica».[103] In tal modo entrambi i documenti rifiutano «la rottura tra l’umano e il divino, tra la ricerca scientifica e lo sguardo della fede, fra il senso letterale e il senso spirituale».[104] Questo equilibrio è stato poi espresso successivamente nel documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993: «Nel loro lavoro di interpretazione, gli esegeti cattolici non devono mai dimenticare che ciò che interpretano è la parola di Dio. Il loro compito non finisce una volta che hanno distinto le fonti, definito le forme o spiegato i procedimenti letterari. Lo scopo del loro lavoro è raggiunto solo quando hanno chiarito il significato del testo biblico come Parola attuale di Dio».[105]

[100] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum,
DV 10.
[101] Cfr Giovanni Paolo II, Discorso in occasione del 100º anniversario della Providentissimus Deus e del 50º anniversario della Divino afflante Spiritu (23 aprile 1993): AAS 86 (1994), 232-243.
[102] Ibidem, n. 4: AAS 86 (1994), 235.
[103] Ibidem, n. 5: AAS 86 (1994), 235.
[104] Ibidem, n. 5: AAS 86 (1994), 236.
[105] Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), III, C, 1: Ench. Vat. 13, n. 3065.


L’ermeneutica biblica conciliare: un’indicazione da recepire

34 Dato questo orizzonte, si possono apprezzare maggiormente i grandi principi dell’interpretazione propri dell’esegesi cattolica espressi dal Concilio Vaticano II, particolarmente nella Costituzione dogmatica Dei Verbum: «Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che Egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole».[106] Da una parte il Concilio sottolinea come elementi fondamentali per cogliere il significato inteso dall’agiografo lo studio dei generi letterari e la contestualizzazione. Dall’altra, dovendo la Scrittura essere interpretata nello stesso Spirito nel quale è stata scritta, la Costituzione dogmatica indica tre criteri di base per tenere conto della dimensione divina della Bibbia: 1) interpretare il testo considerando l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; 2) tenere presente la Tradizione viva di tutta la Chiesa; e, infine, 3) osservarel’analogia della fede. «Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica – di una esegesi adeguata a questo Libro».[107]

I Padri sinodali hanno affermato giustamente che il frutto positivo apportato dall’uso della ricerca storico-critica moderna è innegabile. Tuttavia, mentre l’attuale esegesi accademica, anche cattolica, lavora ad alto livello per quanto riguarda la metodologia storico-critica, anche con le sue più recenti integrazioni, è doveroso esigere un analogo studio della dimensione teologica dei testi biblici, affinché progredisca l’approfondimento secondo i tre elementi indicati dalla Costituzione dogmatica Dei Verbum.[108]

[106]
DV 12.
[107] Benedetto XVI, Intervento nella XIV Congregazione Generale del Sinodo (14 ottobre 2008): Insegnamenti IV, 2 (2008), 493; cfr Propositio 25.
[108] Cfr Propositio 26.


Il pericolo del dualismo e l’ermeneutica secolarizzata

35 A questo proposito, occorre segnalare il grave rischio oggi di un dualismo che si ingenera nell’accostare le sacre Scritture. Infatti, distinguendo i due livelli dell’approccio biblico non si intende affatto separarli, né contrapporli, né meramente giustapporli. Essi si danno solo in reciprocità. Purtroppo, non di rado un’improduttiva separazione tra essi ingenera un’estraneità tra esegesi e teologia, che «avviene anche ai livelli accademici più alti».[109] Vorrei qui richiamare le conseguenze più preoccupanti che vanno evitate.

a)Innanzitutto, se l’attività esegetica si riduce solo al primo livello, allora la stessa Scrittura diviene un testo solo del passato: «Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l’esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura».[110] È chiaro che in una tale riduzione non si può in alcun modo comprendere l’evento della Rivelazione di Dio mediante la sua Parola che si trasmette a noi nella viva Tradizione e nella Scrittura.

b) La mancanza di un’ermeneutica della fede nei confronti della Scrittura non si configura poi unicamente nei termini di un’assenza; al suo posto inevitabilmente subentra un’altra ermeneutica,un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana. Secondo questa ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, lo si deve spiegare in altro modo e ridurre tutto all’elemento umano. Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini.[111]

c)Una tale posizione non può che produrre danno alla vita della Chiesa, stendendo un dubbio su misteri fondamentali del cristianesimo e sul loro valore storico, come ad esempio l’istituzione dell’Eucaristia e la risurrezione di Cristo. Così, infatti, si impone un’ermeneutica filosofica che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza del Divino nella storia. L’assunzione di tale ermeneutica all’interno degli studi teologici introduce inevitabilmente un pesante dualismo tra l’esegesi, che si attesta unicamente sul primo livello, e la teologia, che si apre alla deriva di una spiritualizzazione del senso delle Scritture non rispettosa del carattere storico della Rivelazione.

Tutto ciò non può che risultare negativo anche per la vita spirituale e l’attività pastorale; «la conseguenza dell’assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e lectio divina. Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie».[112] Si deve inoltre segnalare che tale dualismo produce a volte incertezza e poca solidità nel cammino formativo intellettuale anche di alcuni candidati ai ministeri ecclesiali.[113] In definitiva, «dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento».[114] Pertanto è necessario tornare risolutamente a considerare con più attenzione le indicazioni date dalla Costituzione dogmatica Dei Verbum a questo proposito.

[109] Propositio 27.
[110] Benedetto XVI, Intervento nella XIV Congregazione Generale del Sinodo (14 ottobre 2008): Insegnamenti IV, 2 (2008), 493; cfr Propositio 26.
[111] Cfr ibidem.
[112] Ibidem.
[113] Cfr Propositio 27.
[114] Benedetto XVI, Intervento nella XIV Congregazione Generale del Sinodo (14 ottobre 2008): Insegnamenti IV, 2 (2008), 493-494.

Fede e ragione nell’approccio alla Scrittura


36 Credo possa costituire un contributo ad una più completa comprensione dell’esegesi e, dunque, del suo rapporto con l’intera teologia quanto scritto dal Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et ratio a questo riguardo. Infatti egli affermava che non è da sottovalutare «il pericolo insito nel voler derivare la verità della sacra Scrittura dall’applicazione di una sola metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più ampia che consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa, al senso pieno dei testi. Quanti si dedicano allo studio delle sacre Scritture devono sempre tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche hanno anch’esse alla base una concezione filosofica: occorre vagliarla con discernimento prima di applicarla ai testi sacri».[115]

Questa riflessione lungimirante ci permette di osservare come nell’approccio ermeneutico alla sacra Scrittura si giochi inevitabilmente il corretto rapporto tra fede e ragione. Infatti, l’ermeneutica secolarizzata della sacra Scrittura è posta in atto da una ragione che strutturalmente vuole precludersi la possibilità che Dio entri nella vita degli uomini e che parli agli uomini in parole umane. Anche in questo caso, pertanto, è necessario invitare ad allargare gli spazi della propria razionalità.[116] Per questo nell’utilizzazione dei metodi di analisi storica si dovrà evitare di assumere, là dove si presentano, criteri che pregiudizialmente si chiudono alla rivelazione di Dio nella vita degli uomini. L’unità dei due livelli del lavoro interpretativo della sacra Scrittura presuppone, in definitiva, un’armonia tra la fede e la ragione. Da una parte, occorre una fede che mantenendo un adeguato rapporto con la retta ragione non degeneri mai in fideismo, il quale nei confronti della Scrittura diverrebbe fautore di letture fondamentaliste. Dall’altra parte, è necessaria una ragione che indagando gli elementi storici presenti nella Bibbia si mostri aperta e non rifiuti aprioristicamente tutto ciò che eccede la propria misura. D’altronde, la religione del Logos incarnato non potrà che mostrarsi profondamente ragionevole all’uomo che sinceramente cerca la verità e il senso ultimo della propria vita e della storia.

[115] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998),
FR 55: AAS 91 (1999), 49-50.
[116] Cfr Benedetto XVI, Discorso al IV Convegno nazionale ecclesiale in Italia (19 ottobre 2006): AAS 98 (2006), 804-815.

Senso letterale e senso spirituale


37 Un significativo contributo al recupero di un’adeguata ermeneutica della Scrittura, come è stato affermato nell’Assemblea sinodale, proviene anche da un rinnovato ascolto dei Padri della Chiesa e del loro approccio esegetico.[117] In effetti, i Padri della Chiesa ci mostrano ancora oggi una teologia di grande valore perché nel suo centro sta lo studio della sacra Scrittura nella sua integralità. Infatti, i Padri sono in primo luogo ed essenzialmente dei «commentatori della sacra Scrittura».[118]Il loro esempio può «insegnare agli esegeti moderni un approccio veramente religioso della sacra Scrittura, come anche un’interpretazione che s’attiene costantemente al criterio di comunione con l’esperienza della Chiesa, la quale cammina attraverso la storia sotto la guida dello Spirito Santo».[119]

Pur non conoscendo, ovviamente, le risorse di ordine filologico e storico che sono a disposizione dell’esegesi moderna, la tradizione patristica e medioevale sapeva riconoscere i diversi sensi della Scrittura ad iniziare da quello letterale, quello, cioè, «significato dalle parole della Scrittura e trovato attraverso l’esegesi che segue le regole della retta interpretazione».[120] Ad esempio, san Tommaso d’Aquino afferma: «tutti i sensi della sacra Scrittura si basano su quello letterale».[121] Bisogna, però, ricordare che al tempo patristico e medioevale ogni forma di esegesi, anche quella letterale, veniva fatta sulla base della fede e non vi era necessariamente distinzione tra senso letterale e senso spirituale. Si ricordi a questo proposito il classico distico che rappresenta la relazione tra i diversi sensi della Scrittura:

«Littera gesta docet, quid credas allegoria,
Moralis quid agas, quo tendas anagogia.
La lettera insegna i fatti, l’allegoria che cosa credere,
Il senso morale che cosa fare, e l’anagogia dove tendere».[122]

Qui notiamo l’unità e l’articolazione tra senso letterale e senso spirituale, il quale a sua volta si suddivide in tre sensi, con cui vengono descritti i contenuti della fede, della morale e della tensione escatologica.

In definitiva, riconoscendo il valore e la necessità, pur con i suoi limiti, del metodo storico-critico, dall’esegesi patristica impariamo che «si è fedeli all’intenzionalità dei testi biblici solo nella misura in cui si cerca di ritrovare, nel cuore della loro formulazione, la realtà di fede che essi esprimono e se si collega questa realtà con l’esperienza credente del nostro mondo».[123] Solo in questa prospettiva si può riconoscere che la Parola di Dio è viva e si rivolge a ciascuno nel presente della nostra vita. In tal senso rimane pienamente valida l’affermazione della Pontificia Commissione Biblica che definisce il senso spirituale secondo la fede cristiana, come «il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l’influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. È perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito».[124]

[117] Cfr Propositio 6.
[118] Cfr S. Agostino, De libero arbitrio, III, XXI, 59: PL 32, 1300; De Trinitate, II, I, 2: PL 42, 845.
[119] Congregazione per l’Educazione Cattolica, Istr. Inspectis dierum (10 novembre 1989), 26:AAS 82 (1990), 618.
[120] Catechismo della Chiesa Cattolica,
CEC 116.
[121] Summa Theologiae, I 1,10, ad 1.
[122] Catechismo della Chiesa Cattolica, CEC 118.
[123] Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), II, A, 2: Ench. Vat. 13, n. 2987.
[124] Ibidem, II, B 2: Ench. Vat. 13, n. 3003.

Il necessario trascendimento della «lettera»


38 Nel recupero dell’articolazione tra i diversi sensi scritturistici diventa allora decisivo cogliere il passaggio tra lettera e spirito. Non si tratta di un passaggio automatico e spontaneo; occorre piuttosto un trascendimento della lettera: «la Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita».[125] Scopriamo così perché un processo interpretativo autentico non è mai solo intellettuale, ma anche vitale, in cui è richiesto il pieno coinvolgimento nella vita ecclesiale, quale vita «secondo lo Spirito» (Ga 5,16). In tal modo diventano più chiari i criteri messi in evidenza dal numero 12 della Costituzione dogmatica Dei Verbum: un tale trascendimento non può avvenire nel singolo frammento letterario se non in rapporto con la totalità della Scrittura. Infatti è un’unica Parola quella verso la quale siamo chiamati a trascendere. Tale processo possiede un’intima drammaticità, poiché, nel processo di trascendimento, il passaggio che avviene in forza dello Spirito ha inevitabilmente a che fare anche con la libertà di ciascuno. San Paolo ha vissuto pienamente nella propria esistenza questo passaggio. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo radicale nella frase: «la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2Co 3,6). San Paolo scopre che lo «Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2Co 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada».[126] Sappiamo come anche per sant’Agostino questo passaggio fu nello stesso tempo drammatico e liberante; egli credette alle Scritture, che gli apparivano in un primo tempo così differenziate in se stesse ed a volte piene di grossolanità, proprio per questo trascendimento che egli imparò da sant’Ambrogio mediante l’interpretazione tipologica, per cui tutto l’Antico Testamento è un cammino verso Gesù Cristo. Per sant’Agostino il trascendimento dalla lettera ha reso credibile la lettera stessa e gli ha permesso di trovare finalmente la risposta alle profonde inquietudini del proprio animo, assetato della verità.[127]

[125] Benedetto XVI, Discorso agli uomini di cultura al «Collège des Bernardins» di Parigi (12 settembre 2008): AAS 100 (2008), 726.
[126] Ibidem.
[127] Cfr Id., Udienza Generale (9 gennaio 2008): Insegnamenti IV, 1 (2008), 41-45.

L’unità intrinseca della Bibbia


39 Alla scuola della grande tradizione della Chiesa impariamo a cogliere nel passaggio dalla lettera allo spirito anche l’unità di tutta la Scrittura, poiché unica è la Parola di Dio che interpella la nostra vita chiamandola costantemente alla conversione.[128] Rimangono per noi una guida sicura le espressioni di Ugo di San Vittore: «Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento».[129] Certamente, la Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui composizione si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, generalmente non si usa il termine «la Scrittura» (cfr Rm 4,3 1P 2,6), ma «le Scritture» (cfr Mt 21,43 Jn 5,39 Rm 1,2 2P 3,16), che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi.[130] Con ciò appare chiaramente come sia la persona di Cristo a dare unità a tutte le «Scritture» in relazione all’unica «Parola». In tal modo si comprende quanto affermato nel numero 12 della Costituzione dogmatica Dei Verbum, indicando l’unità interna di tutta la Bibbia come criterio decisivo per una corretta ermeneutica della fede.

[128] Cfr Propositio 29.
[129] De arca Noe, 2, 8: PL 176, 642 C-D.
[130] Cfr Benedetto XVI, Discorso agli uomini di cultura al «Collège des Bernardins» di Parigi (12 settembre 2008): AAS 100 (2008), 725.



Verbum Domini IT 28