Regola pastorale 111

Com’è colui che non deve accostarsi al ministero

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Ciascuno dunque misuri saggiamente se stesso, perché non osi assumere la funzione di governo a sua condanna se in lui regna ancora il vizio; e non aspiri a divenire intercessore per le colpe degli altri colui in cui permane la depravazione del suo peccato. Perciò viene detto a Mosè dalla voce celeste: Parla ad Aronne: chiunque appartenente a famiglie della tua discendenza avrà un difetto, non offrirà pani al Signore Dio suo né si accosterà per servirlo (
Lv 21,17). Poi prosegue immediatamente: Se sarà cieco, zoppo, col naso troppo piccolo o troppo grande e storto, con una frattura a un piede o a una mano, sia gobbo o cisposo, con albugine nell’occhio, la scabbia, l’erpete nel corpo, l’ernia (Lv 21,18). È cieco chi non conosce la luce della contemplazione celeste, e avvolto dalle tenebre della vita presente, incapace di guardare con amore alla luce che deve venire, non sa dove dirigere i passi del suo operare. Perciò è detto nella profezia di Anna: Custodirà i passi dei suoi santi, e gli empi taceranno nelle tenebre (1S 2,9). Zoppo, invece, è colui che vede con certezza dove deve dirigersi, ma per debolezza d’animo non sa mantenersi perfettamente sulla via della vita, che pure vede; e ciò perché i passi del suo operare non seguono efficacemente gli sforzi del suo desiderio, là dove esso mira, cioè a una condizione virtuosa a cui non sa innalzarsi la sua molle consuetudine di vita. Perciò infatti Paolo dice: Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie per i vostri passi, perché qualcuno zoppicando non erri ma piuttosto sia guarito (cf. Ebr. He 12,12-13). Ha il naso piccolo colui che non è adatto a osservare la misura della discrezione. In effetti, col naso distinguiamo odori gradevoli e sgradevoli, dunque è giusto rappresentare col naso la discrezione con la quale scegliamo le virtù e riproviamo i peccati. È perciò che si dice, in lode della sposa: Il tuo naso è come torre sul Libano (Ct 7,4), poiché è evidentemente con la discrezione che la Santa Chiesa scorge quali tentazioni procedono da singole cause e, come chi osserva dall’alto, riconosce le guerre dei vizi che stanno per sopravvenire. Ma ci sono alcuni che per non essere stimati troppo poco intelligenti si impegnano spesso più del necessario in certe analisi ricercate in cui poi falliscono per l’eccessiva sottigliezza. Perciò è detto anche: o col naso grande e storto. Questo infatti rappresenta la sottigliezza eccessiva del discernimento che, per essere cresciuto oltre il conveniente, confonde da se stesso il retto procedere della sua attività. Ha il piede o la mano fratturata colui che non sa percorrere in alcun modo la via di Dio ed è completamente escluso dalle buone opere, perché non ne partecipa neppure imperfettamente come lo zoppo, ma è del tutto estraneo ad esse. Gobbo, poi, è colui cui il peso delle sollecitudini terrene fa abbassare il capo affinché non si volga mai a guardare verso l’alto, ma sia attento solamente a ciò che viene calpestato nei luoghi più bassi. E se qualche volta gli avviene di sentire parlare dei beni della patria celeste, gravato com’è dal peso di una consuetudine perversa, non volge ad essi gli occhi del cuore, poiché colui che è tenuto curvo a terra dalla consuetudine delle cure terrene, non è capace di drizzare verso l’alto la sua meditazione. È di costoro che il salmista dice: Sono incurvato e umiliato in ogni tempo (Ps 37,7). Anche la Verità in persona rimprovera la loro colpa, dicendo: Il seme caduto fra le spine sono coloro che dopo avere udito la parola, se ne vanno e vengono soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita e non portano frutto (Lc 8,14).

Il cisposo è colui il cui ingegno è lucido e acuto per la conoscenza della verità, e tuttavia le sue azioni carnali lo oscurano. In effetti, negli occhi cisposi le pupille sono sane, ma le palpebre, malate per la continua secrezione di umore si gonfiano, e per la frequenza di questo deflusso si indeboliscono così che anche la acutezza della pupilla ne resta menomata. E ci sono alcuni la cui sensibilità resta ferita da una vita dedita ad attività carnali: la sottigliezza d’ingegno consentirebbe loro di scorgere ciò che è retto, ma essi sono oscurati dalla pratica di un agire depravato. Così è cisposo colui a cui la natura ha fatto acuta la sensibilità ma il suo comportamento corrotto la confonde. Ben vien detto loro, per mezzo dell’angelo: Ungi col collirio i tuoi occhi per vedere (Ap 3,18). Allora ungiamoci gli occhi col collirio per vedere e aiutiamo con la medicina di un buon operare l’acutezza del nostro intelletto, per conoscere lo splendore della vera luce. Ha l’albugine nell’occhio colui al quale l’accecamento, prodotto dalla sua presunzione di sapienza e di giustizia, non permette di vedere la luce della verità. Infatti, se la pupilla dell’occhio è nera, vede, ma se porta una macchia bianca, non vede nulla. Poiché è chiaro che, se l’uomo nella sua meditazione si riconosce stolto e peccatore, giunge all’esperienza della chiarezza interiore. Se invece egli si attribuisce la candida lucentezza della sapienza e della giustizia, si esclude da sé dalla conoscenza della luce divina; e tanto meno riesce a penetrare la chiarezza della vera luce, quanto più per la sua presunzione si esalta ai propri occhi. Come è detto di certuni: Dicendo di essere sapienti sono divenuti stolti (Rm 1,22). È poi affetto da scabbia persistente colui che è dominato da una incessante richiesta della carne. Infatti, nella scabbia è come se l’ardore delle viscere affiorasse sulla pelle, e con essa giustamente si designa la lussuria poiché se la tentazione del cuore si affretta a esprimersi negli atti, è appunto un ardore intimo che prorompe come scabbia della pelle, e ormai esteriormente copre il corpo di piaghe; poiché il piacere che non si sa reprimere nel pensiero, domina poi anche nell’azione. E Paolo si preoccupava di come togliere il prurito dalla pelle quando diceva: Non vi colga alcuna tentazione se non umana (1Co 10,13); come a dire: è certamente umano che il cuore sopporti una tentazione, ma è demoniaco, nella lotta con la tentazione, lasciarsi vincere da essa mettendola in opera. Similmente è come chi ha l’erpete nel corpo chiunque ha l’animo devastato dall’avidità, che se non è contenuta nelle piccole cose è inevitabile che si espanda oltre misura. L’erpete in effetti ricopre il corpo in modo indolore e, senza alcun fastidio di colui che ne è colpito, si ingrandisce deturpando il decoro delle membra; allo stesso modo l’avidità, mentre dà quasi l’impressione di procurare piacere a colui che ne è preso, di fatto gli piaga l’anima e mentre gli rappresenta al pensiero quanto può ancora giungere a possedere, lo accende alla discordia senza provocargli però dolore alla ferita, perché promette, all’animo che arde per essi, abbondanza di beni derivanti dalla colpa stessa. Ma il decoro deturpato delle membra significa che la bellezza delle altre virtù è corrotta a causa dell’avidità, e come l’erpete devasta tutto il corpo, così l’avidità distrugge l’animo con tutti gli altri vizi, secondo l’insegnamento di Paolo che dice: La cupidigia è radice di tutti i mali (cf. 1Tm 6,10). E il malato di ernia è chi non pratica il vizio e tuttavia ne ha la mente gravata dal pensiero continuo e smodato; e se di fatto non è trascinato fino all’atto del peccato, tuttavia il suo animo gode del piacere della lussuria senza alcuno stimolo a resistergli. Si ha, come è noto, la malattia dell’ernia quando l’umore viscerale scende nelle parti virili che si gonfiano in modo certo molesto e indecoroso. Pertanto, con malato d’ernia, si intende colui che trascorrendo alla lascivia con ogni suo pensiero, porta nel cuore un peso vergognoso, e quantunque non esprima nell’atto questa depravazione, non riesce però a strapparsene con la mente; e non è capace di innalzarsi decisamente alla pratica delle buone opere perché è gravato di nascosto da questo peso turpe. Perciò, a chiunque sia gravato di qualcuno di questi vizi è proibito offrire pani al Signore, perché non possa in alcun modo sciogliere i peccati degli altri lui che è ancora preda dei propri. Dunque, poiché abbiamo indicato in breve in qual modo uno può accostarsi degnamente al magistero pastorale, e come lo debba temere chi ne è indegno, ora intendiamo mostrare in che modo, colui che vi sia pervenuto in modo degno, debba vivere in esso.








PARTE SECONDA



LA VITA DEL PASTORE





Come si deve mostrare nell’esercizio del governo delle anime colui che vi sia giunto legittimamente

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Il comportamento del presule deve essere di tanto superiore a quello del popolo, quanto la vita del pastore differisce, ordinariamente, da quella del gregge. Infatti è opportuno che egli si dia cura di misurare con sollecitudine quale necessità lo costringa ad una rigorosa rettitudine, perché è per lui che il popolo è chiamato gregge. Bisogna allora che egli sia puro nel pensiero, esemplare nell’agire, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola; sia vicino a ciascuno con la sua compassione e sia, più di tutti, dedito alla contemplazione; sia umile alleato di chi fa il bene, ma per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore. Ma ora vogliamo riprendere in una trattazione più estesa queste qualità che abbiamo ristrette brevemente nell’enunciazione.



La guida delle anime sia pura nel pensiero

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La guida delle anime sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna immondezza contamini colui che ha assunto questo ufficio ed egli sia in grado di lavare anche i cuori altrui dalle macchie dell’impurità; perché bisogna che abbia cura di essere pulita la mano che si adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda ancora più sporco ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto per mezzo del profeta: Purificatevi voi, che portate i vasi del Signore (
Is 52,12). Infatti portano i vasi del Signore coloro che si assumono di condurre le anime ai santuari eterni, con la fedeltà della propria condotta di vita. Dunque, vedano in se stessi quanto debbano essere purificati, quelli che dentro la promessa che hanno fatto di sé portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò viene prescritto dalla parola divina che sul petto di Aronne aderisca, legato con nastri, il razionale del giudizio (cf. Es. Ex 28,15), affinché il cuore del sacerdote non sia posseduto da pensieri oscillanti ma sia tenuto stretto solo dalla sapienza dello spirito: e non pensi a nulla di incerto o di inutile colui che, stabilito come esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con l’austerità della vita, quanta sapienza abbia nel cuore. E si ha cura di aggiungere che in questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi; infatti, portare di continuo i padri scritti sul petto significa meditare senza interruzione la vita degli antichi, e il sacerdote procede in modo irreprensibile quando fissa il suo sguardo senza posa sugli esempi dei padri che l’hanno preceduto, considera incessantemente le orme dei santi e reprime pensieri illeciti per non oltrepassare il limite di un agire ordinato. Ed è anche appropriato il nome di razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve sempre discernere con esame sottile e retto il bene e il male e studiare attentamente come si accordino gli oggetti e i mezzi, il tempo e il modo; e non cercare mai nulla per sé ma considerare vantaggio proprio il bene altrui. Perciò là è scritto: Porrai sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore, e porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti al Signore, sempre (Ex 28,30). Per il sacerdote, portare il giudizio dei figli di Israele sul petto davanti al Signore, significa trattare le cause dei sudditi avendo di mira solo la volontà del Giudice interiore, perché ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli dispensa come rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca l’ardore della correzione. E quando si mostra pieno di zelo contro i vizi altrui, persegua innanzitutto i propri perché una invidia nascosta non contamini la pacatezza del giudizio, o non la turbi un’ira precipitosa. Ma considerando il sacro terrore che si deve a colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo Giudice, non si devono governare i sudditi senza grande timore: quel timore che mentre umilia l’animo di chi governa lo purifica, perché la presunzione spirituale non lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo oscurino sconvenienti pensieri terrestri, frutto della cupidigia di cose mondane. Tutte queste tentazioni non possono non assalire l’anima di chi governa, ma è necessario affrettarsi a lottare contro di esse per vincerle affinché, per il fatto che l’anima tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la sottometta con la mollezza del piacere e non la uccida con la spada del consenso.



La guida delle anime sia sempre esemplare nel suo agire

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La guida delle anime sia esemplare nel suo agire per potere annunciare ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il gregge che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con l’aiuto dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per dovere indeclinabile del suo ministero è tenuto a dire cose elevate, dal medesimo dovere è costretto a mostrare cose elevate nei fatti; giacché il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla, il quale con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò è detto per mezzo del profeta: Sali su un monte eccelso, tu che evangelizzi Sion (
Is 40,9). Cioè, chi pratica la divina predicazione deve mostrare che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi verso il meglio, quanto è con il merito della sua vita che egli grida le verità celesti. Per questo, per la legge divina, nel sacrificio il sacerdote riceve la spalla destra separata dal resto (cf. Es. Ex 29,22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli superi per le virtù della sua vita anche i sudditi che operano il bene come è superiore a loro, per la dignità dell’Ordine. A lui, poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte tenera del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal sacrificio impari ad immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non deve solamente meditare retti pensieri nel suo petto, ma invitare quanti lo osservano ad azioni elevate, indicate dalle spalle: non aspiri alla prosperità della vita presente, non tema le avversità, disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di terrore, ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al conforto della dolcezza interiore. E per questo la parola divina ordina pure che le spalle del sacerdote siano avvolte dal velo omerale (cf. Es. Ex 29,5), perché egli sia sempre difeso dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la prosperità affinché, secondo la parola di Paolo, avanzando con le armi della giustizia a destra e a sinistra (cf. 2Co 6,7) e indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori, non pieghi né da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere.

Non lo esalti la prosperità, non l’abbatta l’avversità, nessuna lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere; l’asprezza delle difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che alcuna passione trascini verso il basso la tensione del suo spirito, egli possa mostrare di quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue spalle. Ed è anche giustamente prescritto che il velo omerale sia d’oro, di violaceo, di porpora, di scarlatto tinto due volte e di bisso ritorto (cf. Es. Ex 28,8), per dimostrare di quante virtù debba risplendere il sacerdote. Ora, nell’abito del sacerdote, soprattutto rifulge l’oro poiché in lui deve brillare principalmente una intelligenza sapiente. Ad esso si aggiunge il violaceo che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma si innalzi all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre si lascia prendere incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte, resti privo proprio dell’intelligenza della verità. All’oro e al violaceo si mescola pure la porpora, per indicare cioè che il cuore sacerdotale, mentre spera le cose somme che predica, deve reprimere anche in se stesso le suggestioni dei vizi e contraddire ad essi come in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere sempre di mira la nobiltà di una continua intima rigenerazione e difendere, coi suoi costumi, l’abito del regno celeste. Di questa nobiltà dello spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale (1P 2,9). E anche riguardo a questo potere di sottomettere i vizi, siamo confortati dalla parola di Giovanni che dice: Ma a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio (Jn 1,12). Ed è considerando la dignità di questa potenza che il salmista dice: Per me sono stati molto onorati i tuoi amici, o Dio, quanto è stato rafforzato il loro principato (Ps 138,17).

Poiché è certo che l’animo dei santi si leva verso le più grandi altezze principalmente quando, all’esterno, essi sono visibilmente sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro, al violaceo e alla porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a significare che agli occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve adornarsi della carità, e tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla presenza del Giudice occulto deve essere acceso dalla fiamma dell’amore intimo. Ed è evidente che la carità, in quanto ama Dio e il prossimo, rifulge quasi di una doppia tintura. Pertanto, colui che anela alla bellezza del Creatore, ma trascura di occuparsi del prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido nell’amore di Dio, per avere trascurato uno di questi due precetti, non sa portare lo scarlatto tinto due volte, sul velo omerale. Resta ancora però, senza dubbio, che quando lo spirito è teso verso i comandamenti della carità, la carne deve macerarsi nell’astinenza. Perciò si aggiunge allo scarlatto il bisso ritorto. Infatti il bisso nasce dalla terra con un aspetto splendente, e che cosa può essere designata dal bisso se non la castità luminosa per la dignità di un corpo puro? Ed essa si intreccia, ritorta, alla bellezza del velo omerale perché la castità è portata al candore perfetto della purezza quando la carne si affatica nell’astinenza. E quando, tra le altre virtù progredisce anche il merito di una carne umiliata, è come bisso ritorto che risplende nella varia bellezza del velo omerale.



La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio, utile con la sua parola

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La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati. Infatti, spesso, guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv.
Jn 10,13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo del lupo. Per questo infatti, per mezzo del profeta, il Signore li rimprovera dicendo: Cani muti che non sanno abbaiare (Is 56,10). Per questo ancora, si lamenta dicendo: Non siete saliti contro, non avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele, per stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez 13,5). Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio? Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al popolo che pecca: I tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti manifestavano la tua iniquità per spingerti alla penitenza (Lm 2,14). È noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano quelle che stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera costoro di vedere cose false, perché mentre temono di scagliarsi contro le colpe, invano blandiscono i peccatori con promesse di sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori perché si astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti le parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha compiuta ignora.

Perciò Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana dottrina e di confutare i contraddittori (Tt 1,9). Perciò viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca, perché è angelo del Signore degli eserciti (Ml 2,7).

Perciò per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non cessare, leva la tua voce come una tromba (Is 58,1). E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume l’ufficio del banditore perché, prima dell’avvento del Giudice che lo segue con terribile aspetto, egli lo preceda col suo grido. Se dunque il sacerdote non sa predicare, quale sarà il grido di un banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito Santo, la prima volta, si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha riempiti. Perciò viene ordinato a Mosè che il sommo sacerdote entrando nel tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le parole della predicazione, per non andare con un colpevole silenzio incontro al giudizio di colui che lo osserva dall’alto. È scritto infatti: Perché si oda il suono quando entra e quando esce dal santuario in cospetto del Signore, e non muoia (Ex 28,35). Così il sacerdote, che entra o che esce, muore se da lui non si ode suono, poiché attira su di sé l’ira del Giudice occulto se cammina senza il suono della predicazione. Inoltre, quei campanelli sono descritti come opportunamente inseriti nelle sue vesti, perché le vesti del sacerdote non dobbiamo intenderle altrimenti che come le sue buone opere, per testimonianza del profeta che dice: I tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia (Ps 131,9). Pertanto, i campanelli sono inseriti nelle sue vesti, perché insieme al suono della parola, anche le opere stesse del sacerdote proclamino la via della vita. Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente non spezzi stoltamente la compagine dell’unità. Perciò infatti la Verità dice: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc 9,49). Col sale è indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi si sforza di parlare sapientemente, tema molto che il suo discorso non confonda l’unità degli ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non sapienti più di quanto è opportuno, ma sapienti nei limiti della sobrietà (Rm 12,3). Perciò nella veste del sacerdote, secondo la parola divina, ai campanelli si uniscono le melagrane (Ex 28,34). E che cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede? Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi discepoli: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi, come se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a conservare con attenta considerazione l’unità della fede. Inoltre, le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna. Questa medesima loquacità, poi, che è certamente incapace di servire utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui che la esercita. Per cui è ben detto per mezzo di Mosè: L’uomo che soffre di flusso di seme, sarà immondo (Lv 15,2). Di fatto, la qualità del discorso udito è seme di quel pensiero che gli terrà dietro nella mente degli ascoltatori, poiché la parola, ricevuta attraverso l’orecchio, nella mente genera il pensiero. È per questo che, dai sapienti di questo mondo, il bravo predicatore è chiamato seminatore di parole (cf. Atti, 17, 18). Dunque, chi patisce flusso di seme è dichiarato impuro, perché chi è soggetto a una eccessiva loquacità si macchia con quel seme da cui — se l’avesse effuso in modo ordinato — avrebbe potuto generare nei cuori degli ascoltatori la prole del retto pensiero; ma se lo sparge con una loquacità inconsiderata, è come chi emette il seme, non al fine di generare ma per l’impurità. Perciò anche Paolo, quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione dicendo: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i morti, per il suo avvento e il suo regno, predica la parola, insisti opportunamente, importunamente (2Tm 4,1-2); prima di dire importunamente premise opportunamente, perché è chiaro che nella considerazione di chi ascolta, l’importunità appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in modo opportuno.



La guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla contemplazione

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La guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue viscere di misericordia, la debolezza degli altri, e insieme, per andare oltre se stesso nell’aspirazione delle realtà invisibili, con l’altezza della contemplazione. E così, se guarda con desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del prossimo o se viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto. Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti del terzo cielo (cf.
2Co 12,2 ss.), e tuttavia, pur assorto in quella contemplazione delle cose invisibili, richiama l’acutezza della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa della fornicazione, ciascun uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio marito. Il marito dia alla moglie quanto le deve; e similmente, la moglie al marito (1Co 7,2). E poco dopo: Non privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e d’accordo, per attendere alla preghiera, e di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1Co 7,5). Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti e tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il letto dell’unione carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già innalzato, rivolge alle cose invisibili lo piega pieno di compassione verso i segreti di creature inferme. Oltrepassa il cielo con la contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua sollecitudine, di occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo abbraccio della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto per virtù del suo spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza del suo animo, si fa debole negli altri. Perciò infatti dice: Chi è debole e io non sono debole? Chi patisce scandalo e io non brucio? (2Co 11,29). E perciò ancora dice: Con i Giudei sono divenuto come Giudeo (1Co 9,20). Evidentemente mostrava ciò non con la perdita della fede, bensì con l’estendere la sua misericordia, così che trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse imparare da se stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare a loro il bene che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente voluto fosse fatto a lui. E di nuovo perciò dice: Se usciamo di mente è per Dio; se siamo sobri è per voi (2Co 5,13), poiché nella contemplazione egli sapeva salire oltre se stesso, ma sapeva ugualmente moderare se stesso per condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra, vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. Gn 28,12): a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra. Ugualmente Mosè entra ed esce tanto frequentemente dal Tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure, quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e davanti all’arca del testamento consulta il Signore: certo per offrire un esempio alle guide delle anime perché, quando nelle decisioni di carattere esterno si trovano nell’incertezza, ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà come se fossero davanti all’arca del testamento a consultare il Signore, se riguardo a ciò per cui dentro di sé sono in dubbio, ricercheranno nel loro intimo le pagine della parola sacra. Perciò la Verità stessa che ci si è mostrata nell’assunzione della nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città opera i miracoli (cf. Lc. Lc 6,12): evidentemente per appianare la via dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche sono già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano tuttavia mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme. Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto maggior benevolenza si piega verso le infermità tanto più potentemente risale verso l’alto. Coloro che presiedono si mostrino tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella lotta contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come al seno di una madre; e col sollievo della sua esortazione e le lacrime della sua preghiera lavino le impurità della colpa che preme e minaccia di contaminarli. Per questo davanti alla porta del tempio c’è il mare di bronzo, cioè il bacino per la purificazione delle mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i quali sporgono con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1R 7,23-25). Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine dei Pastori, dei quali, secondo il commento che ne fa Paolo, la Scrittura dice: Non mettere la museruola al bue che trebbia (1Co 9,9)? Di essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che li attende nella segreta retribuzione del severo Giudice. Tuttavia quando essi con la loro paziente accondiscendenza dispongono il prossimo alla confessione purificatrice è come se portassero su di sé il bacino davanti alle porte del tempio, affinché chiunque si sforza di entrare per la porta dell’eternità, manifesti al cuore del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo pensiero e le sue azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che il Pastore nell’ascoltare benevolmente le tentazioni altrui ne diviene vittima egli stesso come senza dubbio resta inquinata quella medesima acqua del bacino, nella quale si purifica la moltitudine del popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di coloro che si lavano, l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma non si deve temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a tutto con cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più facilmente quanto maggiore è la misericordia con cui egli si carica della tentazione altrui.




Regola pastorale 111