Regola pastorale 322

Come bisogna ammonire i litigiosi e i pacifici

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Diverso è il modo di ammonire i litigiosi e i pacifici. Infatti, i litigiosi bisogna ammonirli a sapere con assoluta certezza che, per quanto grandi siano le virtù di cui abbondano, non di meno non possono diventare spirituali, se trascurano di restare uniti al prossimo nella concordia. Poiché è scritto: Frutto, poi, dello spirito è carità, gioia, pace (
Ga 5,22). Dunque, chi non ha cura di conservare la pace, rifiuta di portare il frutto dello spirito. Perciò Paolo dice: Dal momento che ci sono fra voi gelosie e contese, non siete carnali? (1Co 3,3). Perciò di nuovo dice pure: Cercate la pace con tutti e una vita santa senza la quale nessuno vedrà Dio (He 12,14). Perciò ancora ammonisce dicendo: Solleciti a conservare l’unità dello spirito: nel vincolo della pace: un solo corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una sola speranza della vostra chiamata (Ep 4,3-4). Dunque, non si giunge all’unica speranza della chiamata se non si corre verso di essa con l’animo unito al prossimo. Ma spesso ci sono alcuni che, quanto più sono i doni particolari che ricevono, tanto più insuperbiscono perdendo il dono più grande che è quello della concordia; come sarebbe uno che soggioga la propria carne più degli altri, frenando la gola, e trascuri di andare d’accordo con coloro a cui è superiore nell’astinenza. Ma chi separa l’astinenza dalla concordia, consideri ciò che dice il salmista: Lodatelo col timpano e il coro (Ps 150,4). Infatti il timpano suona per la percussione di una pelle secca, invece nel coro le voci concordano tutte insieme; e così chi affligge il corpo ma abbandona la concordia, loda certo Dio col timpano, ma non lo loda col coro. Spesso, poi, una maggiore scienza, mentre innalza certuni, li divide dalla comunione con gli altri, e in un certo senso, quanto più sanno, tanto più diventano incapaci della virtù della concordia.

Dunque, costoro ascoltino che cosa dice la Verità in persona: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc 9,49). La sapienza, cioè, non è un dono di virtù, ma causa di condanna. Infatti, quanto più uno è sapiente, tanto più gravemente pecca, e perciò meriterà il supplizio senza possibilità di scusa, perché, se avesse voluto, con la sua prudenza avrebbe potuto evitare il peccato. A costoro è detto giustamente per mezzo di Giacomo: Che se avete zelo amaro e ci sono contese nel vostro cuore, non gloriatevi e non dite menzogne contro la verità. Questa non è sapienza che scende dall’alto, ma è sapienza terrena, animale, diabolica. Invece, la sapienza che è dall’alto, innanzitutto è pudica, quindi pacifica (Giac. 3, 14-15.17). Pudica, cioè, perché è casta nell’intendere, e pacifica perché non si separa affatto con l’esaltazione dalla comunione col prossimo. Bisogna ammonire i litigiosi a conoscere che non immolano alcun sacrificio di opere buone a Dio, per tutto il tempo in cui non concordano nella carità col prossimo. Infatti, è scritto: Se mentre offri il tuo dono all’altare ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia là il tuo dono e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi vieni a offrire il tuo dono (Mt 5,23-24). Da questo precetto, bisogna considerare di chi sia la offerta che viene respinta e quanto sia intollerabile la colpa che viene così indicata. Infatti, se tutti i peccati vengono cancellati per il bene compiuto in seguito, consideriamo quanto sia grande il peccato della discordia, che se non viene distrutto radicalmente non permette al bene di seguirlo. Bisogna ammonire i litigiosi, se distolgono gli orecchi dai precetti celesti, ad aprire gli occhi del cuore a considerare come si comportano le creature degli ordini più bassi; come gli uccelli di una stessa specie, volando tutti insieme non si lasciano, gli uni con gli altri; e come gli animali, che pure sono senza intelligenza, pascolano a gruppi. Poiché, se guardiamo con attenzione, la natura irrazionale nell’accordo con se stessa indica quanto sia grande il peccato che la natura razionale commette con la discordia; poiché questa, con l’applicazione della ragione, ha perduto ciò che quella custodisce per istinto naturale. Bisogna, al contrario, ammonire i pacifici, a non amare più del necessario la pace che possiedono, così da non aspirare a raggiungere quella eterna. Spesso infatti la tranquillità esteriore tenta più gravemente l’attenzione degli animi così che quanto meno moleste sono le condizioni in cui essi si trovano, tanto meno amabili divengono quelle cui sono chiamati; e quanto più dilettano le presenti, tanto meno si ricercano le eterne. Per cui, la Verità stessa, distinguendo la pace terrena da quella celeste e volendo eccitare i discepoli, dalla pace presente a quella eterna, dice: Lascio a voi la pace, vi do la mia pace (Jn 14,27). Lascio, cioè, la pace transitoria e do quella durevole. Se dunque il cuore si fissa in quella pace che è stata lasciata, non perviene mai a quella che deve essere data. Pertanto bisogna conservare la pace presente in modo da amarla e insieme disprezzarla, affinché, se la si ama smodatamente, l’animo dell’amante non sia colto in peccato. Perciò bisogna anche ammonire i pacifici, a non rinunciare a rimproverare i cattivi costumi degli uomini, per un eccessivo desiderio di assicurarsi una pace umana, così che, consentendo ai peccatori, non si distacchino dalla pace del loro Creatore; e mentre temono all’esterno gli improperi degli uomini, non siano colpiti dalla rottura dell’alleanza interiore. Che cos’è infatti una pace passeggera se non un’impronta della pace eterna? Che cosa ci può essere di più stolto che amare delle impronte sulla polvere e non amare la persona che ve le ha impresse? Perciò David, stringendosi tutto alla alleanza della pace interiore, afferma di non conservare la concordia coi malvagi dicendo: Non odio forse, Dio, quelli che ti odiano, e non mi struggo sopra i tuoi nemici? Li odio di un odio perfetto, sono divenuti miei nemici (Ps 138,21-22). Infatti, odiare i nemici di Dio con odio perfetto significa amare che essi esistano e rimproverare ciò che essi fanno; perseguire i costumi dei cattivi e giovare alla loro vita. Bisogna dunque considerare con quanta colpa si conserva la pace coi malvagi, se ci si acquieta nella rinuncia a riprenderli, dal momento che un profeta così grande offre come un sacrificio a Dio il fatto di avere eccitato contro di sé, per Dio, l’inimicizia degli empi. Perciò si dice che la tribù di Levi, impugnate le spade, percorrendo tutto l’accampamento, poiché non volle risparmiare i peccatori che meritavano di essere colpiti, consacrò la mano di Dio (cf. Es. Ex 32,27 ss.). Perciò Finees, disprezzando il favore di uomini peccatori, colpi coloro che si univano con le madianite e con la sua ira placò l’ira del Signore (cf. Num. 25, 9). Perciò la Verità stessa dice: Non pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace ma la spada (Mt 10,34). Infatti, quando incautamente stringiamo amicizia coi malvagi, ci leghiamo alle loro colpe. Perciò Giosafat che è esaltato con tanti elogi riguardo alla sua vita passata, quasi in punto di morte viene rimproverato per la sua amicizia col re Achab; a lui infatti è detto dal Signore, per mezzo del profeta: Hai portato aiuto all’empio e ti sei unito, per l’amicizia, con coloro che odiano il Signore; perciò meriteresti l’ira del Signore, ma in te sono state trovate opere buone perché hai tolto i boschi sacri dalla terra di Giuda (2Ch 19,2-3). Quanto più la nostra vita concorda per l’amicizia coi perversi tanto phi, solo per questo, essa si distingue ormai da colui che è sommamente giusto. Bisogna ammonire i pacifici di non temere di turbare la propria pace temporale, se ricorrono a parole di correzione. E ancora bisogna ammonirli a conservare interiormente con intatto amore la medesima pace che esteriormente si turba per la voce alzata nell’invettiva. David mostra di avere saggiamente conservato ambedue quando dice: Con coloro che odiano la pace ero pacifico, quando parlavo con loro mi facevano guerra senza motivo (Ps 119,7). Ecco, quando parlava gli facevano guerra; e tuttavia anche così era pacifico, perché né cessava di rimproverare coloro che infuriavano né tralasciava di amare coloro che rimproverava. Perciò anche Paolo dice: Se è possibile, per quanto sta in voi, abbiate pace con tutti gli uomini (Rm 12,18). Volendo esortare i discepoli ad avere pace con tutti, premise: Se è possibile, e aggiunse: per quanto sta in voi. Poiché era difficile che potessero essere in pace con tutti se avessero dovuto rimproverare delle cattive azioni. Ma quando, per il nostro rimprovero, la pace esteriore resta turbata nei cuori dei malvagi, è necessario che essa si conservi inviolata nel nostro cuore. Perciò dice giustamente: per quanto sta in voi, come se dicesse: Poiché la pace consiste nel consenso di due parti, se essa viene cacciata da coloro che sono rimproverati, sia conservata tuttavia integra nel cuore di voi che rimproverate. Perciò lo stesso, di nuovo, ammonisce i discepoli dicendo: Se qualcuno non ubbidisce a quanto diciamo con questa lettera, notatelo, e non mescolatevi con lui, affinché resti confuso (2Th 3,14). E subito aggiunge: E non consideratelo come nemico ma correggetelo come un fratello (2Th 3,15); come se dicesse: Sciogliete la pace esterna con lui, ma quella interiore riguardo a lui custoditela nel fondo del cuore, affinché il vostro dissenso ferisca il cuore del peccatore in modo che, tuttavia, non si allontani dai vostri cuori la pace che non avrete rinnegato.



Come si devono ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace

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Diverso è il modo di ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace. I primi bisogna ammonirli a riconoscere di chi sono seguaci, poiché è dell’angelo apostata che sta scritto, quando fu seminata la zizzania tra il buon seme: Un nemico ha fatto questo (
Mt 13,28). E di un suo membro è anche detto, per mezzo di Salomone: L’apostata, uomo inutile, avanza con volto maligno, fa cenno con gli occhi, stropiccia col piede, parla col dito, con cuore malvagio concepisce il male, e in ogni tempo semina discordie (Pr 6,12). Ecco, chiama prima apostata colui che vuole chiamare seminatore di discordie, perché, se per la perversione del cuore non fosse caduto prima, interiormente, dal cospetto del Creatore — allo stesso modo dell’angelo insuperbito — non sarebbe poi uscito a seminare discordie all’esterno, lui che bene viene descritto come chi fa cenno con gli occhi, parla con le dita e stropiccia col piede. Poiché è all’interno, la custodia che conserva l’ordinato comportamento esterno delle membra. Ma chi ha perduto l’equilibrio dell’animo si abbandona, al di fuori, a movimenti scomposti, e con la mobilità esteriore indica come nessuna radice lo tenga saldo interiormente. Ascoltino i seminatori di discordie ciò che è scritto: Beati gli operatori di pace poiché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9), e traggano da ciò, inversamente, la conclusione che, se saranno chiamati figli di Dio coloro che operano la pace, sono senza dubbio figli di Satana coloro che la turbano. Ma tutti coloro che, a causa della discordia, si separano dalla pianta verde dell’amore, inaridiscono. E quantunque essi producano frutti di buone opere nelle loro azioni, questi non valgono assolutamente nulla perché non nascono dall’unità della carità. Perciò considerino, i seminatori di discordie, in quanti molteplici modi peccano, loro che, nel commettere una sola azione malvagia, di fatto sradicano dai cuori umani tutte insieme le virtù. Ma poiché nulla è più prezioso per Dio della virtù dell’amore, niente è più desiderabile dal diavolo che la distruzione della carità. Dunque, chiunque seminando discordie uccide l’amore del prossimo, serve come familiare al nemico di Dio perché, sottraendo ai cuori feriti la virtù, per la cui perdita egli cadde, taglia ad essi la via dell’ascesi spirituale. Al contrario, bisogna ammonire gli operatori di pace a non trarre con leggerezza il peso di un’azione così importante, quando non conoscano le persone tra cui debbono stabilire la pace. Infatti, come è molto dannoso che non ci sia pace tra i buoni, cos’ è dannosissimo che ci sia pace tra i cattivi. Pertanto, se la malizia dei malvagi li unisce nella pace, certo la loro forza si accresce di cattive azioni, perché quanto più concordano nel male tanto più vigorosamente si buttano ad affliggere i buoni. Perciò infatti la voce divina parlando contro gli strumenti di quel dannato, cioè contro i predicatori dell’Anticristo, dice al beato Giobbe: Le membra della sua carne congiunte fra loro (Giob. 41, 14). Perciò dei suoi satelliti si dice, sotto l’immagine delle squame: Una si congiunge all’altra e neppure un soffio passa fra di esse (Giob. 41, 7). Poiché i seguaci di quello, quanto meno sono divisi tra di loro dall’ostilità, frutto della discordia, tanto più gravemente si uniscono per la strage dei buoni. Dunque, colui che unisce gli iniqui, facendo pace fra loro, dispensa forze all’iniquità, poiché perseguitando i buoni unanimemente, li affliggono ancor peggio. Perciò l’egregio predicatore, prigioniero per la grave persecuzione di Farisei e Sadducei, vedendoli pericolosamente uniti contro di sé, curò di dividerli fra di loro, quando gridò dicendo: Fratelli, io sono Fariseo figlio di Farisei e vengo giudicato riguardo alla speranza nella risurrezione dei morti (Atti, 23, 6). E poiché i Sadducei negavano la risurrezione dei morti e la speranza in essa, mentre i Farisei ci credevano, secondo i precetti della parola divina, si creò una divisione nell’unanimità dei persecutori, e per questa Paolo usci illeso da quella turba che prima, unita, lo aveva ferocemente stretto. Pertanto bisogna ammonire coloro che si applicano a ristabilire la pace, ad infondere innanzitutto nei cuori dei malvagi l’amore della pace interiore, perché poi la pace esteriore possa giovare a loro, così che il riceverla, mentre il loro cuore è intento alla esperienza della pace intima, valga a non trascinarli al male; e mentre guardano avanti, verso la pace celeste non si servano in alcun modo di quella terrena per divenire peggiori. Ma quando i malvagi sono tali che non sono capaci di nuocere ai buoni, anche se lo desiderano, è certo che tra costoro occorre stabilire la pace terrena anche prima che essi siano in grado di conoscere quella celeste, affinché coloro che la malizia della propria empietà esaspera contro l’amore di Dio, divengano mansueti almeno per l’amore del prossimo; e passino, come partendo da ciò che è vicino, a qualcosa di migliore, cioè ascendano a quella pace del Creatore che è loro lontana.



Come si devono ammonire gli ignoranti nella dottrina sacra e i dotti che però non sono umili

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Diverso è il modo di ammonire coloro che non intendono rettamente le parole della legge sacra e coloro che certo le intendono rettamente ma non ne parlano umilmente. I primi vanno ammoniti a considerare che essi mutano, per sé, un sanissimo bicchiere di vino in un bicchiere di veleno, e con un ferro da chirurgo, si feriscono con una ferita mortale, quando con esso uccidono ciò che in loro è sano, mentre avrebbero dovuto tagliare ciò che è malato. Bisogna ammonirli a considerare come la Sacra Scrittura sia per noi quale lampada posta nella notte della vita presente (cf. Sal.
Ps 118,105), ma se essi non intendono rettamente le sue parole è come se quelle si oscurassero perdendo la loro luce. Certo non sarebbe un errore intenzionale a trascinarli a una comprensione distorta, se prima non li avesse gonfiati la superbia. Infatti, considerandosi più sapienti degli altri, rifiutano con disprezzo di seguirli sulla via di una migliore comprensione, e per estorcere, all’autorità dell’opinione del volgo, il nome di scienza per il proprio insegnamento, si danno un gran daffare a demolire le rette interpretazioni di altri e a rafforzare i propri errori.

Perciò giustamente si dice per mezzo del profeta: Sventrarono le donne incinte in Galaad per allargare i loro territori (Am 1,13). Infatti con Galaad si intende il «cumulo della testimonianza», e poiché tutta insieme, la congregazione della Chiesa, attraverso la confessione [dei suoi membri], serve alla testimonianza della verità, non è senza senso che per Galaad si intenda la Chiesa che, per bocca di tutti i fedeli, attesta ciò che è vero riguardo a Dio. Per donne incinte si intendono le anime che in virtù dell’amore divino, concepiscono la comprensione della Parola e giungono al compimento del tempo sono pronte a partorire, con la manifestazione delle opere, quella comprensione che avevano concepita. E dilatare il proprio territorio significa estendere la fama della propria opinione. Dunque, sventrarono le donne incinte in Galaad per allargare il proprio territorio, poiché evidentemente gli eretici uccidono, con una predicazione perversa, i cuori dei fedeli che già avevano concepito una qualche comprensione della verità, e diffondono la fama di una loro scienza. Con la spada dell’errore squarciano i cuori dei piccoli, già gravidi della concezione della Parola, e creano, per il proprio errore, la opinione di dottrina. Dunque, quando ci sforziamo di istruire costoro perché non errino col pensiero, è necessario che prima li ammoniamo a non cercare una gloria vana. Infatti, se si strappa la radice dell’esaltazione, di conseguenza i rami della dottrina depravata inaridiscono. Bisogna ammonirli anche che, col generare errori e discordie, non mutino in sacrificio a Satana proprio quella legge di Dio data precisamente per impedire sacrifici a Satana. Perciò attraverso il profeta il Signore si lamenta dicendo: Ho dato loro frumento, vino e olio, e per loro ho moltiplicato argento e oro che hanno usato per Baal (Os 2,8).

Dunque, riceviamo frumento dal Signore quando in espressioni oscure, tolta la copertura della lettera, attraverso il midollo dello spirito, cogliamo l’intimo della legge. Il Signore poi ci offre il suo vino quando ci inebria con l’alta predicazione della sua Scrittura. E ci dà pure il suo olio quando, con precetti più aperti, dispone con dolce leggerezza la nostra vita. Moltiplica l’argento, quando ci amministra parole piene della luce della verità. E ci arricchisce pure d’oro quando irraggia il nostro cuore con la percezione del sommo fulgore. Tutte queste cose gli eretici le offrono a Baal, poiché, con la comprensione corrotta, pervertono ogni cosa nei cuori dei loro ascoltatori. E col frumento di Dio, col vino e l’olio e ugualmente l’argento e l’oro, immolano un sacrificio a Satana, poiché piegano parole di pace all’errore che genera discordia. Perciò bisogna ammonirli a considerare che quando, con animo perverso, creano discordia, per giusto giudizio di Dio, sono loro stessi a morire uccisi da parole di vita. Al contrario, bisogna ammonire coloro che intendono, certo rettamente, le parole della legge, ma non ne parlano umilmente, ad esaminare se stessi alla luce dei discorsi sacri, prima di proporli agli altri, perché non accada che nel perseguire le azioni altrui, trascurino se stessi; e mentre intendono rettamente ogni cosa della Sacra Scrittura non tralascino di fare attenzione solamente a ciò che in essa si dice contro coloro che si esaltano. Poiché è disonesto e ignorante, il medico che desidera curare la ferita altrui e ignora quella di cui egli stesso soffre. Pertanto, coloro che non predicano umilmente le parole di Dio, bisogna certamente ammonirli — quando si applicano a medicare i malati — a esaminare anzitutto il veleno della peste che portano addosso, affinché mentre curano gli altri non muoiano loro. Bisogna ammonirli a considerare che lo spirito con cui parlano non contrasti con la santità della Parola, e non accada che nella loro predicazione dicano una cosa e ne mostrino un’altra. Ascoltino dunque ciò che è scritto: Se uno parla, siano come discorsi di Dio (1P 4,11). Pertanto perché coloro che pronunciano parole che non sono loro proprie, se ne vantano come se fossero loro? Ascoltino ciò che sta scritto: Parliamo come da Dio, di fronte a Dio, in Cristo (2Co 2,17). Infatti parla da Dio, di fronte a Dio, colui che capisce di avere ricevuto da Dio la parola della predicazione e cerca, con essa, di piacere a Dio e non agli uomini. Ascoltino ciò che è scritto: È abominazione del Signore ogni arrogante (Pr 16,5). Poiché, evidentemente, mentre cerca la propria gloria nella parola di Dio, usurpa il diritto di colui che la dà, e non teme di posporre alla lode di sé colui dal quale ha ricevuto proprio ciò che viene lodato. Ascoltino ciò che viene detto al predicatore per mezzo di Salomone: Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che sgorga dal tuo pozzo; le tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze. Abbile tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te (Pr 5,15-17). Dunque, il predicatore beve acqua dalla sua cisterna, quando rientrando nel suo cuore ascolta, lui per primo, ciò che dice. Beve l’acqua che scorre dal suo pozzo, se viene irrigato dalla sua parola. Ed è ben detto ciò che si aggiunge: Le tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze (Pr 5,16); poiché è giusto che beva lui, prima, e poi predicando faccia rifluire sugli altri. Infatti, fare scorrere le fonti al di fuori significa infondere esteriormente agli altri la forza della predicazione. Dividere poi le acque nelle piazze corrisponde a dispensare il divino discorso ad un grande numero di ascoltatori a seconda della qualità di ciascuno. E poiché per lo più, mentre la parola di Dio si diffonde e giunge a conoscenza di molti, si insinua il desiderio di una gloria vana, dopo che è stato detto: Dividi le acque sulle piazze, giustamente si soggiunge: abbila tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te. Chiama cioè stranieri gli spiriti maligni dei quali, per mezzo del profeta si dice, con la voce di un uomo nella tentazione: Stranieri sono insorti contro di me e dei forti hanno cercato la mia vita (Ps 53,5). Dice dunque: Dividi le acque nelle piazze e tuttavia abbile tu solo; come se dicesse apertamente: È necessario che tu serva esteriormente la predicazione in modo da non unirti, attraverso l’esaltazione, agli spiriti iniqui e da non ammettere, nel ministero della parola divina, i tuoi nemici coane tuoi partecipi. Pertanto, dividiamo l’acqua nelle piazze e tuttavia la possediamo da soli, quando esteriormente diffondiamo ampiamente la predicazione e tuttavia non aspiriamo affatto ad ottenere la lode degli uomini attraverso di essa.



Come bisogna ammonire coloro che rifiutano l’ufficio della predicazione per eccessiva umiltà e coloro che se ne impadroniscono con fretta precipitosa

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Diverso è il modo di ammonire coloro che, pur essendo in grado di predicare degnamente, temono di farlo per eccessiva umiltà, e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo. Infatti, coloro che potrebbero predicare utilmente ma ne rifuggono per umiltà eccessiva bisogna ammonirli, a dedurre da esempi di minor conto, l’entità di quel che essi trascurano affatto in cose di maggior conto. Se infatti essi nascondessero, a dei prossimi bisognosi, del denaro in loro possesso, ne faciliterebbero senz’altro la rovina. Vedano allora con quale colpa si legano, dal momento che, sottraendo a dei fratelli peccatori la parola della predicazione, nascondono medicine di vita ad anime che stanno morendo. Perciò dice bene un sapiente: Sapienza nascosta e tesoro non visto, quale utilità in ambedue? (
Si 20,32). Se la fame sfinisse la popolazione ed essi custodissero nascosto del frumento, sarebbero senza dubbio autori di morte. Considerino dunque con che pena meritano di essere colpiti loro, che, mentre le anime muoiono di fame della Parola, non distribuiscono il pane della grazia ricevuta. Perciò bene è detto per mezzo di Salomone: Chi nasconde il grano sarà maledetto tra i popoli (Pr 11,26); poiché nascondere il grano significa trattenere presso di sé le parole della predicazione santa. Una tale persona viene maledetta tra i popoli perché per la ‘sola colpa del silenzio, viene condannata in proporzione a quella che sarà la pena di molti, che avrebbe potuto correggere.

Se ci fosse chi conosce bene l’arte medica e vedesse una ferita da incidere e tuttavia ricusasse di farlo, peccherebbe certamente come responsabile della morte del fratello solo per pigrizia. Vedano dunque quanto sia grande la colpa in cui si avvolgono, coloro che mentre riconoscono le ferite dei cuori trascurano di curarle col taglio delle parole. Perciò è anche ben detto per mezzo del profeta: Maledetto chi tiene lontano la sua spada dal sangue (Jr 48,10), poiché tener lontano la spada dal sangue corrisponde a trattenere la parola della predicazione dall’uccidere la vita carnale. E di questa spada di nuovo è detto: E la mia spada mangerà le carni (Dt 32,42). Costoro dunque, quando nascondono presso chi sé la parola della predicazione, ascoltino con terrore le divine. sentenze pronunciate contro di loro. Ascoltino che colui, il quale non volle commerciare il talento, lo perdette insieme con la sentenza di condanna (cf. Mt. Mt 25,24 ss.). Ascoltino come Paolo tanto più si considerò puro del sangue dei suoi prossimi, quanto più non li risparmiò dal colpire i loro vizi dicendo: Affermo davanti a voi, oggi, che sono puro del sangue di tutti: infatti non mi sottrassi dall’annunziarvi ogni consigliò di Dio (Atti, 20, 26-27). Ascoltino ciò che Giovanni ammonisce con voce angelica, quando è detto: Chi ascolta dica: Vieni (Ap 22,17); certo, perché colui nel quale si insinua una voce interiore chiami altri e trascini là, dove egli stesso è rapito, affinché non trovi le porte chiuse, nonostante sia stato invitato, se si avvicina a mani vuote a colui che lo chiama. Ascoltino Isaia, il quale, poiché aveva taciuto dal ministero della parola, illuminato dalla luce celeste, con grande voce di pentimento, rimprovera se stesso dicendo: Guai a me, perché ho taciuto (Is 5,5). Ascoltino ciò che è promesso per mezzo di Salomone, cioè che sarà moltiplicata la scienza della predicazione in colui che avendola già ottenuta non si trattiene da essa per il vizio della indolenza. Dice infatti: L’anima che benedice sarà impinguata e chi inebria è lui pure inebriato (Pr 11,25). Infatti, chi benedice esteriormente predicando, accoglie la pinguedine della crescita interiore; e mentre non cessa di inebriare l’animo degli ascoltatori col vino della Parola, cresce a sua volta inebriato dalla bevanda del dono così moltiplicato. Ascoltino ciò che David offri in dono a Dio, poiché non nascose la grazia della predicazione che aveva ricevuto, dicendo: Ecco, non terrò chiuse le mie labbra, Signore, tu lo sai: non ho nascosto nel mio cuore la tua giustizia, la tua verità e la tua salvezza ho proclamato (Ps 39,10-11). Ascoltino ciò che si dice nel colloquio dello sposo con la sposa: Tu che abiti nei giardini, gli amici [ti] ascoltano; fammi udire la tua voce (Ct 8,13). È la Chiesa che abita nei giardini, e conserva le pianticelle ben coltivate delle virtù per un rigoglio interiore. E gli amici che ascoltano la sua voce sono gli eletti e coloro che desiderano la parola della sua predicazione. Ed anche lo sposo desidera di udire quella voce, poiché anch’egli anela alla sua predicazione attraverso le anime dei suoi eletti. Ascoltino come Mosè, vedendo che Dio era adirato col popolo e ordinando di dare il via alla vendetta, con la spada, dichiarò che erano dalla parte di Dio coloro che senza esitazione avrebbero colpito il delitto dei peccatori, dicendo: Se uno è del Signore, si unisca a me; ponga ogni uomo la spada sulla sua coscia: andate e tornate da porta a porta attraversando l’accampamento nel mezzo e ciascuno uccida il fratello e l’amico e il suo prossimo (Ex 32,27). Porre la spada sulla coscia è anteporre l’amore della predicazione ai piaceri della carne, poiché, quando uno desidera di parlare di cose sante, bisogna che abbia cura di sottomettere le suggestioni illecite. Andare, poi, da una porta all’altra è passare col rimprovero da un vizio all’altro, poiché da essi entra la morte per l’anima. Attraversare il campo nel mezzo significa vivere nella Chiesa con tanto disinteresse che colui il quale rimprovera le colpe dei peccatori non si deve piegare a favorire alcuno. Perciò giustamente si aggiunge: L’uomo forte uccida il fratello, l’amico e il suo prossimo. Cioè, uccide il fratello, l’amico, il prossimo, colui che quando scopre qualcosa degno di punizione, non risparmia dalla spada del rimprovero neppure coloro che ama per legame di parentela. Se dunque è detto appartenente a Dio colui che è eccitato dallo zelo dell’amore divino a colpire i vizi, negano certamente di essere di Dio coloro che rifiutano di rimproverare, in quanto possono, la vita di uomini carnali. Al contrario, coloro ai quali, o una imperfezione naturale o l’età proibisce l’ufficio della predicazione e tuttavia vi sono spinti dall’irruenza, bisogna ammonirli a non tagliarsi la via di un miglioramento successivo coll’arrogarsi, nella loro irruenza, il peso di un ufficio così grave; e a non perdere anche ciò che avrebbero potuto compiere, prima o poi ma al tempo giusto, coll’impadronirsi, fuori tempo, di ciò di cui non sono capaci; e quindi di non mostrare di avere giustamente perduto questa scienza della predicazione, perché si sono sforzati a ostentarla impropriamente. Bisogna ammonirli a considerare che, se i piccoli degli uccelli vogliono volare prima di avere tutte le penne, dal luogo che abbandonano, nella brama di salire in alto, precipitano nel profondo. Bisogna ammonirli a considerare che, se si pone il peso di una travatura sopra strutture recenti e non ancora consolidate, non si fabbrica una abitazione ma un crollo. Bisogna ammonirli a considerare che se le donne partorissero i figli concepiti prima che fossero pienamente formati, non riempirebbero le case, ma le tombe. È perciò, infatti, che la Verità stessa, che pure avrebbe potuto dare subito una tale forza a chi voleva, per lasciare un esempio a quelli che sarebbero venuti in seguito, perché non avessero la presunzione di predicare quando non fossero ancora in grado di farlo, dopo avere pienamente istruito i discepoli sulla virtù della predicazione, aggiunse immediatamente: Voi però rimanete nella città finché siate rivestiti della virtù dall’alto (Lc 24,49). Dunque noi restiamo in città se ci chiudiamo nel chiostro del nostro animo per non andare vagando coi discorsi all’esterno; e usciamo invece fuori di noi stessi per istruire anche gli altri, solo allora quando ci siamo rivestiti pienamente della virtù divina. Perciò è detto per mezzo di un sapiente: Giovane, parla solo se ti è proprio necessario, e se sei interrogato due volte, allora incomincia a parlare (Si 32,10). È perciò che il medesimo nostro Redentore, pur essendo creatore e sempre, nella manifestazione della sua potenza, dottore degli angeli, nei cieli; in terra, non volle essere maestro degli uomini prima dei trent’anni; ciò evidentemente per infondere nei precipitosi la forza di un sanissimo timore, in quanto anch’egli stesso che non avrebbe potuto cadere, non predicava la grazia di una vita perfetta se non dopo avere compiuto l’età; poiché sta scritto: Quando ebbe dodici anni, il bambino Gesù rimase a Gerusalemme (Lc 2,42), e poco dopo si aggiunge di lui, il quale era stato ricercato dai genitori: Lo trovarono nel Tempio che sedeva in mezzo ai dottori, li ascoltava e interrogava (Lc 2,46). Dunque, bisogna considerare attentamente che, quando si parla di Gesù dodicenne che sedeva in mezzo ai dottori, si dice che viene trovato a interrogare, non a insegnare. Con questi esempi, evidentemente, si vuole dimostrare che nessuno, che non ne abbia la forza, deve osare insegnare, se quel bambino, con le sue domande, volle essere istruito; lui, che per la potenza della sua divinità aveva dispensato la parola della scienza ai suoi stessi dottori. Ma quando per mezzo di Paolo si dice al discepolo: Ordina queste cose e insegna; nessuno disprezzi la tua adolescenza (1Tm 4,11-12), dobbiamo intendere che, nel discorso sacro, talvolta la giovinezza è chiamata adolescenza. E ciò si dimostra subito citando ad esempio le parole di Salomone: Gioisci giovane, nella tua adolescenza (Qo 11,9). Infatti se non avesse inteso l’una e l’altra come una cosa sola, non avrebbe chiamato giovane colui che ammoniva nella sua adolescenza.




Regola pastorale 322