Regola pastorale 326

Come bisogna ammonire coloro a cui tutto, e coloro a cui nulla accade secondo la loro volontà

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Diverso è il modo di ammonire coloro che prosperano nei beni temporali, in tutto quanto desiderano, e coloro che, pure accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa. Infatti, i primi bisogna ammonirli a non trascurare di cercare colui che dà, dal momento che hanno tutto quanto basta al loro desiderio; e a non fissare il proprio animo nelle cose che sono loro date, così da amare il cammino verso la patria, invece che la patria stessa; a non mutare gli aiuti ricevuti per il viaggio in ostacoli al raggiungimento della meta e, dilettati dalla luce notturna della luna, a non rifuggire dalla vista luminosa del sole. Così, bisogna ammonirli a non credere che tutti quanti i beni che conseguono in questo mondo siano il premio di quel che hanno meritato, e non, invece, sollievo dalla sventura; levino la mente contro i favori del mondo, per non soccombere in essi col cuore tutto preso dal loro diletto. Infatti, chiunque nella considerazione del suo cuore non reprime la prosperità di cui gode con l’amore di una migliore vita, rende i vantaggi di una vita che passa occasione di una morte perpetua. È perciò infatti che coloro i quali si rallegrano dei successi di questo mondo vengono rimproverati, in persona degli Idumei che si lasciarono vincere dalla loro prosperità, quando è detto: Si presero la mia terra in eredità con gioia, con tutto il cuore, con tutta l’anima (
Ez 36,5). E da queste parole si può considerare che non è solamente perché godono, ma è perché godono con tutto il cuore e con tutta l’anima che vengono colpiti con un severo rimprovero. Perciò dice Salomone: Il rifiuto dei piccoli li ucciderà e la prosperità degli stolti li perderà (Pr 1,32). Perciò Paolo ammonisce dicendo: Chi compra come se non possedesse, chi usa di questo mondo come se non ne usasse (1Co 7,30). Ciò, per dire che quanto abbiamo in abbondanza deve servirci esteriormente così da non distoglierci l’animo dall’amore della gioia celeste. Le cose che ci offrono un aiuto, finché siamo nell’esilio, non indeboliscano in noi il lutto dell’intimo stato di pellegrini; e non godiamo, come gente felice, di beni passeggeri, noi che ora ci vediamo infelici, lontano da quelli eterni. È perciò infatti che la Chiesa dice, con la voce degli eletti: La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia (Ct 2,6). Dio ha posto la sua sinistra, cioè la prosperità della vita presente, sotto il capo, e la preme la tensione verso l’amore sommo; ma la destra di Dio l’abbraccia poiché la Chiesa nella offerta di sé è tutta contenuta nella sua eterna beatitudine. Perciò ancora è detto per mezzo di Salomone: Lunghezza di giorni nella sua destra, e nella sua sinistra le sue ricchezze e la sua gloria (Pr 3,16). E insegna, così, come si debbano usare ricchezze e gloria che egli pone nella mano sinistra. Perciò dice il salmista: La tua destra mi fa salvo (Ps 107,7). Infatti non dice mano, ma destra, evidentemente per indicare, dicendo destra, che era la salvezza eterna che egli cercava. Perciò ancora è scritto: La tua destra Signore ha infranto i nemici (Ex 15,6 Ex 15, ; infatti i nemici di Dio, quantunque nella sua sinistra si avvantaggino, dalla destra sono infranti, poiché per lo pin la vita presente innalza i malvagi, ma l’avvento della felicità eterna li condanna. Bisogna ammonire coloro che godono della prosperità in questo mondo, considerare accortamente che la prosperità di questa vita talvolta è data proprio per incitare una vita migliore altra volta invece per una più piena dannazione eterna. È perciò infatti che viene promessa al popolo israelita la terra di Canaan, perché prima o poi sia incitato alle speranze eterne. Né d’altra parte quel rozzo popolo avrebbe creduto alle promesse di Dio,. riguardanti il futuro, se non avesse ricevuto, da colui che le aveva fatte, qualcosa anche al presente. Dunque, per dare una più solida certezza alla [sua] fede nei beni eterni, non è solo con la speranza che lo si attira quei beni, ma è pure coi beni temporali che lo si conduce sperare. E ciò è chiaramente attestato dal salmista che dice: Diede ad essi i territori delle genti e possedettero il frutto delle fatiche di quei popoli, perché custodissero i suoi decreti e ricercassero la sua legge (Sal. 104, 44). Ma quando l’anima dell’uomo non corrisponde con le buone opere a Dio, che è largo verso di essa, proprio a causa di quei beni che si crede le siano alimento alla pietà, essa viene più giustamente condannata. Perciò, infatti, si dice ancora per mezzo del salmista: Li hai abbattuti mentre si consolavano (Sal. 72, 18). Poiché, quando i reprobi non corrispondono ai doni di Dio con opere di giustizia, quando abbandonano completamente se stessi in questa vita si lasciano andare alla sovrabbondanza del benessere, ciò per cui esteriormente hanno successo è la causa della loro caduta spirituale. Ed è perciò che al ricco tormentato nell’inferno si dice: Hai ricevuto beni nella tua vita (Lc. 16, 25). Infatti anche il cattivo riceve beni in questa vita, proprio per questo, cioè per ricevere più pienamente il male nell’altra; poiché qui non si è convertito neppure per mezzo di quei beni. Al contrario, coloro che pure accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa, bisogna ammonirli apprezzare con attenta considerazione, con quanta grazia il Creatore, che dispone tutto, vigila su di loro, non permettendo che si lascino andare ai loro desideri. Giacché, al malato senza speranza di guarigione, il medico concede di prendere tutto ciò che desidera, ma chi si crede possa guarire, si proibiscono molte cose di cui egli sente voglia. Inoltre, non diamo soldi in mano ai bambini, ai quali pure riserviamo tutto intero il patrimonio in quanto ne sono eredi. Perciò dunque, gioiscano della speranza della eredità eterna, coloro che sono umiliati dall’avversità della vita temporale, perché, se la dispensazione divina non li riguardasse come fatti per la salvezza eterna, non li frenerebbe sotto il governo della disciplina. Pertanto bisogna ammonire coloro che, accesi dal desiderio di beni temporali, durano la fatica di una pesante fortuna avversa, considerare con premura che spesso anche i giusti, quando la potenza mondana li esalta, sono afferrati come in un laccio dalla colpa. Così, come abbiamo già detto nella prima parte di quest’opera (I, par. 3), David amato da Dio fu più giusto nel periodo del suo servizio che quando giunse al regno. Infatti, da servo, per amore della giustizia, timore di colpire l’avversario che aveva nelle mani (cf. 1 Sam. 24, 18); da re, invece, indotto dalla lussuria, uccise un soldato devoto con studiata frode (cf. 2 Sam. 11, 7). Chi, dunque, potrà cercare senza danno ricchezze, potere gloria se queste cose furono dannose perfino colui che le ebbe senza averle cercate? Chi, in mezzo ad esse, potrà salvarsi senza correre la fatica di un grande pericolo, se colui che era stato preparato ad esse dalla scelta di Dio rimase turbato dalla colpa che vi si era insinuata? Bisogna ammonirli considerare come non si ricorda che Salomone — il quale viene descritto come chi nell’idolatria pur dopo aver ricevuto tanta sapienza (1 Re, 11, 4 ss.) — avesse avuto in questa vita alcuna avversità prima di cadere, ma dopo che gli fu concessa la sapienza, lasciò andare completamente il suo cuore, che nessuna tribolazione, neppure la più piccola, aveva custodito con la sua disciplina.



Come si devono ammonire i coniugati e i celibi

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Diverso è il modo di ammonire quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale. Bisogna ammonire i primi, quando pensano vicendevolmente l’uno all’altro, a studiarsi di piacere al coniuge in modo da non dispiacere al Creatore; e trattino le cose di questo mondo così: da non tralasciare di aspirare a quelle che sono di Dio; e godano dei beni presenti così da temere tuttavia, con viva attenzione, i mali eterni; e piangano i mali presenti in modo dà fissare però, con intatta consolazione, la loro speranza nei beni eterni, dal momento che sanno che ciò che fanno passa, e ciò cui aspirano resta; né i mali del mondo spezzino il loro cuore; poiché la speranza dei beni eterni lo conforta; né i beni della vita presente lo ingannino, poiché lo rattrista il timore dei mali del giudizio futuro. E così, l’animo degli sposi cristiani è insieme debole e fedele, tale che non è capace di disprezzare pienamente tutti i beni temporali, e tuttavia è capace di unirsi, nel desiderio, alle realtà eterne; e quantunque per ora giaccia nel piacere della carne, si rinvigorisce con l’alimento della speranza celeste. Dunque se nel viaggio usa delle cose del mondo, spera in quelle di Dio come frutto della meta raggiunta; e non si consegni interamente a ciò che fa per non cadere del tutto da ciò che avrebbe dovuto sperare con forza. Paolo esprime bene e brevemente ciò, dicendo: Chi ha moglie sia come se non l’avesse; e chi piange come se non piangesse; e chi gode come se non godesse (
1Co 7,29-30). Poiché ha moglie come se non l’avesse, colui che con lei usa della consolazione della carne, in modo che mai, tuttavia, per amore di lei, si piega, dalla rettitudine della migliore intenzione, ad azioni depravate. Ha moglie come se non l’avesse, colui che, vedendo come tutte le cose sono transitorie, tollera per necessità la cura della carne, ma lo spirito attende con tutto il desiderio le gioie eterne. Piangere non piangendo è piangere le avversità esteriori sapendo tuttavia godere della consolazione della speranza eterna. E, ancora, godere non godendo è innalzare tanto l’animo dalle bassezze, che esso non cessi mai di temere le realtà supreme. E qui, appropriatamente, poco dopo aggiunge pure: Passa, infatti, la figura di questo mondo (1Co 7,31). Come se dicesse apertamente: Non amate stabilmente il mondo, dal momento che ciò stesso che amate non può rimanere; vanamente fissate il cuore come se foste destinati a rimanere, mentre fugge colui stesso che amate. Bisogna ammonire i coniugi a tollerare a vicenda, con pazienza, ciò in cui talvolta l’uno dispiace all’altro; e a salvarsi esortandosi a vicenda. Infatti è scritto: Portate a vicenda i vostri pesi e così adempirete la legge di Cristo (Ga 6,2). E la legge di Cristo è la carità; poiché per essa egli ci ha donato largamente i suoi beni e con mitezza ha portato i nostri mali. Dunque, adempiremo la legge di Cristo come i suoi imitatori quando offriremo benignamente i nostri beni e sosterremo con spirito di pietà i mali del nostro prossimo. Bisogna ammonirli pure a badare, ciascuno di essi, non tanto a ciò che l’uno deve sopportare dall’altro quanto a ciò che l’altro deve sopportare di suo. Se infatti ciascuno considera i pesi che lui fa portare, porta a sua volta più leggermente i pesi altrui che deve sostenere. Bisogna ammonire gli sposi a ricordarsi che essi sono uniti allo scopo di avere figli, e quando, servendo ad una unione sfrenata, mutano il momento della propagazione in pratica del piacere, considerino che, anche se ciò non avviene al di fuori dell’unione matrimoniale, tuttavia nel matrimonio stesso essi oltrepassano i diritti del matrimonio. Per cui è necessario che, con frequenti orazioni, cancellino ciò che, per la mescolanza col piacere, macchia la bellezza dell’atto coniugale. È perciò infatti che l’Apostolo, esperto di medicina celeste, non ammaestrò tanto i sani, quanto mostrò i rimedi ai malati dicendo: Quanto a ciò che mi avete scritto: È bene per l’uomo non toccare donna; ma per rimedio alla fornicazione ciascuno abbia la propria moglie e ciascuna abbia il proprio marito (1Co 7,1-2). Ma se mise avanti il timore della fornicazione, certo non stabili il precetto per quelli che stanno saldi in piedi, bensì mostrò un letto a coloro che cadono perché non rovinassero in terra. Perciò ancora, ai vacillanti, aggiunse: Il marito dia alla moglie ciò che le deve e così la moglie al marito (1Co 7,3); ma, nel fare ad essi qualche concessione riguardo al piacere, nell’ambito di una onestissima unione, aggiunse: Ma questo lo dico per indulgenza, non per comando (1Co 7,6); e accenna evidentemente che si tratta di colpa; poiché parla di un oggetto di indulgenza, ma di colpa tale che tanto più presto è condonata in quanto con essa non si compie qualcosa di illecito in sé, ma piuttosto non si contiene, in un ambito di moderazione, ciò che di per sé è lecito. Ed è ciò che Lot esprime bene in se stesso quando fugge Sodoma in fiamme e tuttavia, trovando Segor, non sali subito la montagna (cf. Gen. Gn 19,30). Fuggire Sodoma in fiamme significa rinunciare agli incendi illeciti della carne, e l’altezza dei monti è la purezza delle persone continenti. Ora, sono certamente come chi sta sul monte perfino coloro che, pur aderendo all’unione carnale, tuttavia non si abbandonano ad alcun piacere della carne al di fuori di quell’atto compiuto per avere figli. Stare sul monte, cioè, significa non cercare nella carne se non il frutto della generazione. Stare sul monte significa non aderire carnalmente alla carne. Ma poiché ci sono molti che rinunciano ai peccati della carne e tuttavia, posti nello stato matrimoniale; non ne osservano solamente i diritti del suo debito uso, usci appunto Lot da Sodoma e tuttavia non giunse subito sui monti, a indicare che quando già è abbandonata la vita degna di condanna, l’altezza della continenza coniugale non è però ancora raggiunta in tutta la sua perfezione. Ma c’è nel mezzo la città di Segor, per salvare il debole che fugge, poiché naturalmente, quando i coniugi si uniscono a causa dell’incontinenza, fuggono la caduta del peccato e tuttavia si salvano per condiscendenza. È come se trovassero una piccola città che li difende dal fuoco, poiché una tale vita coniugale non è certo mirabile per la virtù e tuttavia è sicura dal castigo. Perciò il medesimo Lot dice all’angelo: C’è qui vicino una piccola città in cui posso rifugiarmi e mi salverò in essa. Non è forse modesta, e la mia anima vivrà in essa? (Gn 19,20). Dunque, è detta vicino e tuttavia è indicata come sicura per la salvezza, poiché la vita coniugale non è separata di molto dal mondo e tuttavia non è estranea alla gioia della salvezza. I coniugi però, in tale stato, custodiscono la loro vita come in una piccola città, quando intercedono per se stessi con suppliche assidue. Perciò viene detto anche al medesimo Lot, per mezzo dell’angelo: Ecco, ho ascoltato le tue preghiere anche in questo: non distruggerò la città in favore della quale hai parlato (Gn 19,21); poiché è chiaro che non è condannata quella vita matrimoniale in cui i coniugi si rivolgono a Dio con la supplica, riguardo alla quale anche Paolo ammonisce dicendo: Non privatevi l’uno dell’altro se non d’accordo e per un tempo stabilito, per essere liberi per la preghiera (1Co 7,5). Al contrario, coloro che non sono legati nel matrimonio bisogna ammonirli a servire tanto pin rettamente i comandamenti divini quanto meno li inclina alle cure del mondo il giogo dell’unione carnale; e poiché non sono gravati dal peso lecito del matrimonio, non gravi su di loro il peso illecito della preoccupazione terrena, ma l’ultimo giorno li trovi tanto più pronti quanto più leggeri; e poiché, liberi come sono, possono compiere opere tanto più meritorie, non le trascurino così da meritare, per questo, supplizi tanto più gravi. Ascoltino l’Apostolo, il quale, volendo formare alcuni alla grazia del celibato, non disprezzò il matrimonio, ma respinse le cure mondane che nascono da esso dicendo: Ciò lo dico per vostra utilità, non per gettarvi un laccio; ma per indicarvi ciò che è onesto e offre la possibilità di servire Dio senza impedimento (1Co 7,35). Dal matrimonio, dunque, procedono le preoccupazioni terrene, e perciò il maestro delle genti volle persuadere i suoi ascoltatori a cose migliori perché non si legassero alla preoccupazione terrena. Pertanto, il celibe, trattenuto dall’impedimento delle cure temporali, è uno che non si è sottoposto al matrimonio e tuttavia non è sfuggito ai suoi pesi. Bisogna ammonire i celibi a non pensare di potersi unire a donne di liberi costumi, senza incorrere nel giudizio di condanna. Infatti, quando Paolo inserì il vizio della fornicazione fra tanti peccati esecrabili, indicò la sua gravità dicendo: Né i fornicatori né gli idolatri né gli adulteri né gli effeminati né gli omosessuali né i ladri né gli avari né gli ubriachi né i maldicenti né i rapaci possiederanno il regno di Dio (1Co 6,9-10). E ancora: I fornicatori e gli adulteri li giudicherà Dio (He 13,4). Pertanto se sopportano le. tempeste delle tentazioni con pericolo della salvezza, bisogna ammonirli a cercare il porto del matrimonio, infatti è scritto: È meglio sposarsi che ardere (1Co 7,9). Non è colpa se si sposano, purché in precedenza non si siano impegnati con voti a uno stato di vita più perfetto. Infatti, chi si era proposto un bene maggiore, rende illecito il bene minore che prima gli sarebbe stato lecito. Perciò è scritto: Nessuno che mette la mano all’aratro e si volta a guardare indietro è adatto al regno dei cieli (Lc 9,62). Dunque, chi si era rivolto a un interesse più forte è convinto a guardare indietro se, abbandonati i beni maggiori, ripiega sui minimi.



Come bisogna ammonire quelli che hanno esperienza dei peccati della carne e quelli che non l’hanno

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Diverso è il modo di ammonire coloro che conoscono i peccati della carne e quelli che ne sono ignari. Quelli che ne hanno esperienza, bisogna ammonirli a temere il mare, almeno dopo il naufragio, e a guardarsi con orrore dai pericoli della loro perdizione che già conoscono; ed essi, che sono stati salvati dalla pietà di Dio dopo avere commesso il male, non debbano morire ripetendolo malvagiamente. Così, all’anima che pecca e non cessa mai dal peccare è detto: Sei divenuta sfrontata come una meretrice e non vuoi arrossire (
Jr 3,3). Pertanto bisogna ammonirli, se non hanno voluto conservare integri i beni naturali ricevuti, ad applicarsi, a riparare almeno quelli infranti. È assolutamente necessario, per loro, considerare quanti sono quelli che, in un così grande numero di fedeli, si custodiscono illibati e convertono gli altri dall’errore. Come pensano di difendersi costoro se, mentre altri restano saldi nella loro integrità, essi non rinsaviscono neppure dopo avere sentito il danno? Come pensano che potranno difendersi se, mentre molti conducono con sé altri al Regno, essi non riconducono neppure se stessi al Signore che li attende? Bisogna ammonirli a considerare i peccati passati e ad evitare i futuri. Perciò, il Signore, per mezzo del profeta, ricorda alle menti corrotte in questo mondo — rappresentate dalla Giudea — le colpe commesse, affinché arrossiscano di contaminarsi con colpe future, dicendo: Hanno fornicato in Egitto, hanno fornicato nella loro adolescenza; là fu compresso il loro petto e furono violati i loro seni verginali (Ez 23,3). In Egitto viene compresso il petto, quando la volontà del cuore dell’uomo soggiace al turpe desiderio di questo mondo. In Egitto vengono violati i seni verginali, quando i sensi naturali ancora integri in se stessi, restano viziati dalla corruzione della concupiscenza che preme. Bisogna ammonire coloro che hanno esperienza di peccati della carne a guardare con vigile cura, con, quanta benevolenza Dio ci allarghi il seno della sua pietà, quando dopo il peccato ritorniamo a Lui, là dove dice, per mezzo del profeta: Se un uomo avrà rimandato la moglie ed essa andandosene prenderà un altro marito, forse egli tornerà ancora da lei? Non sarà stata macchiata e contaminata quella donna? Ma tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia ritorna a me, dice il Signore (Jr 3,1). Ecco, una donna fornicatrice e per questo abbandonata è proposta come un esempio di giustizia; e a noi, se dopo la caduta ritorniamo, non viene offerta giustizia ma pietà. Da ciò possiamo renderci conto di quanto sia grande la iniquità con cui pecchiamo se non torniamo a lui dopo il peccato, mentre lui ci risparmia con tanta pietà quando ancora lo stiamo compiendo; o quale sarà l’indulgenza per gli iniqui, che egli non cessa di chiamare dopo la colpa. Questa misericordia della chiamata è ben espressa per mezzo del profeta quando si dice all’uomo che si è ribellato: E i tuoi occhi vedranno il tuo maestro e le tue orecchie udranno la parola di chi ti ammonisce dietro le spalle (Is 30,20). Poiché il Signore ammoni di fronte il genere umano, quando in paradiso, all’uomo appena creato, e ancor saldo nel suo libero arbitrio, stabili quello che avrebbe potuto fare e non fare. Ma l’uomo voltò le spalle di fronte a Dio, quando insuperbendo disprezzò i suoi ordini. E tuttavia il Signore non l’abbandonò nella superbia, lui che diede la legge per richiamarlo, mandò angeli ad esortarlo e apparve egli stesso nella nostra carne mortale. Dunque, stando dietro le nostre spalle, ci ammonisce, lui che anche disprezzato ci chiamò a riottenere la grazia. Ciò che dunque poté essere detto al profeta in generale per tutti gli uomini insieme, è necessario sentirlo in particolare dei singoli. Infatti, quando uno conosce i precetti della volontà di Dio, prima di commettere il peccato è come se ascoltasse le parole del suo ammonimento standogli di fronte. Ed è ancora stare davanti al suo volto, il non disprezzare Dio col peccato. Ma quando, abbandonato il bene dell’innocenza, l’uomo brama e sceglie l’iniquità, ha già voltato le spalle al suo volto. E tuttavia ancora, standogli dietro le spalle, il Signore lo segue e lo ammonisce e vuole persuaderlo, anche dopo la colpa, a ritornare a lui. Richiama chi si è rivolto indietro, non riguarda le colpe commesse, dilata il seno della sua misericordia a colui che ritorna. Ascoltiamo dunque la voce che ci ammonisce se, almeno dopo il peccato, ritorniamo al Signore che ci invita. Se non vogliamo temere la giustizia, dobbiamo arrossire della pietà di chi ci chiama perché è tanto più grave l’iniquità con cui egli è disprezzato, quanto più, pur disprezzato, egli non disdegna di chiamare ancora. Al contrario, bisogna ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a temere con tanta maggior cura di rovinare nel precipizio, quanto più in alto stanno. Bisogna ammonirli a sapere che quanto è più in vista il posto in cui sono collocati, tanto più frequenti sono le frecce con cui l’insidiatore li assale. Egli con tanto maggior ardore suole rialzarsi, quanta più è la forza da cui si vede vinto; e tanto più si indigna d’essere vinto, in quanto vede combattergli contro gli integri accampamenti della carne inferma. Bisogna ammonirli a non cessare di raccogliere i premi [della vittoria], e così, senza dubbio, calpesteranno volentieri le fatiche delle tentazioni che devono sopportare. Se infatti si mira alla felicità a cui si attinge eternamente, diviene lieve ciò che si fatica ed è però passeggero. Ascoltino ciò che è detto per mezzo del profeta: Queste cose dice il Signore agli eunuchi che hanno osservato i miei sabati, che hanno scelto ciò che io voglio e hanno mantenuto il mio patto: darò loro nella mia casa e nelle mie mura un luogo e un nome migliore che ai figli e alle figlie (Is 56,4-5). Sono eunuchi coloro che, trattenuti i moti della carne, tagliano in se stessi l’amore dell’opera iniqua. E quale sia il posto che essi hanno presso il Padre, è manifesto, poiché nella casa del Padre, cioè nella dimora eterna, essi sono preferiti anche ai figli. Ascoltino ciò che è detto per mezzo di Giovanni: Questi sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti sono vergini e seguono l’Agnello dovunque vada (Ap 14,4). E cantano quel cantico che nessuno può pronunciare se non quei centoquarantaquattromila. Cantare poi, loro soli, il canto all’Agnello è godere con lui in eterno, sopra tutti i fedeli, anche dell’incorruzione della carne. E che tuttavia gli altri eletti possano sentire il cantico, pur non potendo pronunciarlo, è perché la carità li fa lieti della eccelsa beatitudine di quelli, quantunque loro non possano raggiungerla. Ascoltino, gli ignari dei peccati della carne, ciò che la Verità stessa dice di questa integrità: Non tutti comprendono questa parola (Mt 19,11). Accenna alla sua grandezza negando che sia di tutti; e avvertendo che difficilmente è compresa, fa intendere a chi ascolta con quanta cautela, quando si sia compresa, debba essere conservata. Bisogna dunque ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a sapere che la verginità è superiore al matrimonio, e tuttavia a non esaltarsi nei confronti degli sposati affinché, scegliendo la verginità e posponendosi agli altri, non abbandonino ciò che stimano il meglio e si custodiscano dall’esaltarsi vanamente. Bisogna ammonirli a considerare che spesso la vita delle persone continenti deve arrossire del confronto con l’operosità di chi vive nel secolo, quando questi operano oltre ciò che è richiesto dalla loro situazione, e quelli non eccitano il loro cuore in corrispondenza al loro stato. Perciò è ben detto per mezzo del profeta: Arrossisci, Sidone, dice il mare (Is 23,4). Infatti, quando la vita di colui che appare ben difeso e, in un certo senso, stabile, viene riprovata nel confronto con quella di chi vive nel secolo, sbattuto dai flutti di questo mondo, è come se Sidone fosse indotta alla vergogna dalla voce del mare. Giacché spesso molti che, dopo aver commesso peccati della carne, ritornano al Signore, si prestano con tanto più ardore nelle buone opere, quanto più si vedono degni di condanna per quelle cattive. E d’altra parte, certuni che perseverano nell’integrità del corpo, vedendo di avere meno di che dolersi, pensano che sia pienamente sufficiente, quanto a loro, l’innocenza della propria vita e non infiammano il loro spirito con alcuno stimolo che ne ecciti il fervore. Così accade per lo più che sia più gradita a Dio una vita ardente d’amore dopo il peccato, che una innocenza giacente nel torpore della propria sicurezza. Perciò è detto per voce del Giudice: Le saranno rimessi i molti peccati perché ha molto amato (Lc 7,47); e: Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti per i quali non c’è bisogno di penitenza (Lc 15,7). E lo possiamo capire facilmente dalla stessa pratica se pensiamo a come giudichiamo noi con la nostra mente: infatti noi apprezziamo di più una terra che arata — dopo essere stata coperta di spine — produce ricchi frutti, di quella che non ha mai avuto spine e tuttavia, anche coltivata, produce messe sterile. Bisogna ammonire gli ignari del peccato carnale, a non preferirsi agli altri per via dell’eccellenza di uno stato superiore, quando ignorano quanto siano migliori le opere di quelli dello stato inferiore, poiché, nell’esame del giusto Giudice, la qualità delle azioni muta i meriti dello stato di vita. Chi infatti — per trarre esempi dalla realtà — non sa che nella natura delle gemme il carbonchio è più prezioso del giacinto? Ma tuttavia, il colore ceruleo del giacinto è preferito al pallido carbonchio, poiché ciò in cui quello è inferiore per lo stato naturale viene avvalorato dalla bellezza dell’aspetto, e questo, che per lo stato naturale è più prezioso, viene oscurato dalla qualità del colore. Così dunque fra gli uomini: alcuni, posti in uno stato superiore, sono peggiori: altri, posti in uno stato inferiore, sono migliori: perché questi, vivendo bene, vanno oltre la sorte della condizione più bassa; mentre quelli diminuiscono il merito della condizione superiore, perché non le corrispondono con i costumi.



Come bisogna ammonire coloro che piangono peccati di opere e coloro che piangono peccati solo di pensiero

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Diverso è il modo di ammonire coloro che piangono peccati di opere, e coloro che piangono peccati di pensiero. Bisogna ammonire i primi a lavare con un pianto perfetto i peccati compiuti, per non essere maggiormente stretti dal debito dell’azione commessa, ma diminuire col pianto la soddisfazione dovuta. Poiché è scritto: Ci ha dato da bere lacrime in misura (
Ps 79,6), per dire, cioè, che l’animo di ciascuno, nel suo pentimento, beva tante lacrime di compunzione, quanto ricorda di essersi inaridito lontano da Dio, nelle colpe. Bisogna ammonirli a ricondurre incessantemente davanti ai propri occhi i peccati commessi, e ad agire nella propria vita in modo che quelli non debbano più essere veduti dal severo Giudice. Perciò David, quando pregava dicendo: Distogli i tuoi occhi dai miei peccati (Ps 50,11), poco sopra aveva detto: Il mio delitto mi sta sempre davanti (Ps 50,5); come se dicesse: Chiedo di non guardare al mio peccato perché io stesso non cesso di guardarlo. Perciò anche, per mezzo del profeta, il Signore dice: E non mi ricorderò dei tuoi peccati, ma tu ricordateli (Is 43,25-26 Is 43, . Bisogna ammonirli considerare i peccati uno per uno, mentre per ciascuno piangono la sozzura del loro errore, con le lacrime purifichino insieme sé e quelli, interamente. Perciò è detto bene, per mezzo di Geremia, pensando ai singoli peccati della Giudea: Il mio occhio ha fatto scendere acque divise (Lam. 3, 48); poiché noi facciamo scendere dagli occhi corsi d’acqua divisi, quando spargiamo per ogni singolo peccato la sua parte di lacrime. Infatti l’animo non prova dolore nello stesso unico momento per tutti i peccati insieme, ma mentre la memoria è toccata più acutamente ora dall’uno ora dall’altro, commovendosi per ciascuno singolarmente, essa si purifica di tutti insieme. Bisogna ammonirli confidare con certezza nella misericordia che chiedono, per non morire sotto la forza di una eccessiva afflizione. Poiché infatti non sarebbe pietà, nel Signore, porre davanti agli occhi dei peccatori i peccati da piangere, se per parte sua volesse poi colpirli severamente. È evidente infatti, che egli ha voluto sottrarre al suo giudizio coloro che ha fatto giudici di se stessi, prevenendoli con la sua misericordia. Perciò infatti è scritto: Preveniamo il volto del Signore con la confessione (Sal. 94, 2). Perciò è detto per mezzo di Paolo: Se ci giudicassimo da noi stessi non verremmo giudicati (1 Cor. 11, 31). E ancora bisogna ammonirli avere così quella fiducia che viene dalla speranza, tuttavia non intorpidire in una incauta sicurezza. Spesso, infatti, l’astuto avversario, quando vede l’animo, che egli insidia col peccato, afflitto per la propria rovina, lo seduce con gli allettamenti di una pestifera sicurezza. Ciò è espresso in figura dove si ricorda l’episodio di Dina. È scritto: Dina usci per vedere le donne di quella regione; ma quando la vide Sichem, figlio di Emor eveo, principe di quel paese, si innamorò di lei la rapi dormi con lei violando la sua verginità la sua anima si uni con lei alleviò con le carezze la sua tristezza (Gen. 34, 1-3). E Dina esce per vedere le donne della regione straniera, ogni volta che un’anima, trascurando l’oggetto del suo proprio amore e curandosi di attività che le sono estranee, vaga al di fuori della sua condizione e del suo proprio stato. E allora Sichem, principe del paese, la viola, ovvero il diavolo, trovatala presa da occupazioni esterne, la corrompe; la sua anima si uni con lei, poiché la vede unita sé nell’iniquità. E quando l’anima, rientrata in sé dalla colpa, si accusa tenta di piangere il peccato commesso, allora il corruttore richiama ai suoi occhi le speranze e le sicurezze vane, per sottrarla alla utile tristezza; perciò giustamente si aggiunge: alleviò con le carezze la sua tristezza. Ora, infatti, le parla dei più gravi peccati di altri; ora le dice che quanto ha fatto non è niente ora che Dio è misericordioso ora le promette che ci sarà in seguito dell’altro tempo per fare penitenza, affinché l’anima condotta attraverso questi inganni tenga in sospeso l’intenzione del pentimento, e poiché, ora, nessun peccato la rattrista, non riceva, poi, alcun bene, e sia, allora, più pienamente sommersa dai supplizi, essa che, ora, gode perfino nei peccati. Bisogna, invece, ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare accuratamente tra le pieghe misteriose dell’animo, se hanno peccato solamente col piacere o anche col consenso. Spesso, infatti, il cuore è tentato trae piacere dalla malizia della carne, tuttavia contrasta con la ragione quella malizia; cosicché, nel segreto del pensiero, ciò che piace rattrista, e ciò che rattrista piace. Ma talvolta l’animo viene talmente assorbito nel baratro della tentazione da non resisterle affatto, , invece, da seguirla deliberatamente dove il piacere lo spinge; così che, se si offre la possibilità esteriore, è pronto consumare gli intimi desideri, attuandoli coi fatti. E ciò non è più colpa di pensiero, quando la colpisce la giusta punizione del severo Giudice, ma è peccato di opera, poiché quantunque la mancanza della possibilità di attuazione distolga esteriormente il peccato, nell’intimo, la volontà l’ha compiuto con l’opera del consenso. Nel progenitore abbiamo imparato che sono tre i modi con cui perfezioniamo la malizia di ogni colpa: la suggestione, il piacere, il consenso. La prima si compie attraverso il nemico, il secondo attraverso la carne, il terzo con lo spirito. Infatti, l’insidiatore suggerisce il male, la carne si sottopone al piacere , all’ultimo, lo spirito vinto consente esso. In effetti, il serpente suggerì il male, Eva, come carne, si sottomise al piacere; Adamo, come spirito, vinto dalla suggestione dal piacere, acconsenti (cf. Gen. 3, 1 ss.). E così, riconosciamo il peccato dalla suggestione, restiamo vinti dal piacere ci leghiamo col consenso. Pertanto, bisogna ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, considerare con cura l’entità della loro caduta nel peccato, affinché la misura del loro pianto corrisponda alla rovina interiore che essi avvertono in se stessi valga risollevarli, non siano indotti attuare, con le opere, quei cattivi pensieri che meno li affliggono. Ma soprattutto bisogna incutere timore in loro, non però in modo che ne restino, anche per poco, spezzati. Poiché spesso Dio misericordioso tanto più in fretta lava i peccati del cuore, in quanto non permette che essi sfocino nelle opere; il male solamente pensato è più rapidamente sciolto, poiché non si lega così strettamente all’effetto dell’opera. Perciò è detto bene per mezzo del salmista: Dissi: confesserò contro di me le mie iniquità al Signore e tu hai rimesso l’empietà (Sal. 31, 3) del mio cuore. Egli infatti ha sottoposto l’empietà del cuore, poiché ha indicato di voler confessare i peccati di pensiero. E mentre dice: Dissi: confesserò, subito aggiunse: E tu hai rimesso, mostra quanto sia facile su di essi il perdono: mentre ancora si ripromette di chiedere ha già ottenuto, perché, dato che la colpa non era pervenuta all’atto, la penitenza non dovesse giungere al grado del supplizio, ma l’afflizione del pensiero lavasse il cuore che solo la malizia del pensiero aveva macchiato.




Regola pastorale 326