Redemptor hominis



La prima Enciclica di Giovanni Paolo II

  15/03/1979 Città del Vaticano (Roma)ENCICLICA

  VOL. II/1 (1979) 550-609 (latino); 610-660 (italiano)

   

Al termine del secondo Millennio


1       Il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia. A Lui si rivolgono il mio pensiero ed il mio cuore in questa ora solenne, che la Chiesa e l’intera famiglia dell’umanità contemporanea stanno vivendo. Infatti questo tempo, nel quale Dio per un suo arcano disegno, dopo il prediletto Predecessore Giovanni Paolo I, mi ha affidato il servizio universale collegato con la Cattedra di San Pietro a Roma, è già molto vicino all’anno Duemila. È difficile dire, in questo momento, che cosa quell’anno segnerà sul quadrante della storia umana, e come esso sarà per i singoli popoli, nazioni, paesi e continenti, benché sin d’ora si tenti di prevedere taluni eventi. Per la Chiesa, per il Popolo di Dio, che si è esteso – sia pure in modo diseguale – fino ai più lontani confini della terra, quell’anno sarà l’anno di un gran giubileo. Ci stiamo ormai avvicinando a tale data che – pur rispettando tutte le correzioni dovute all’esattezza cronologica – ci ricorderà e in modo particolare rinnoverà la consapevolezza della verità-chiave della fede, espressa da San Giovanni agli inizi del suo Vangelo: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Jn 1,14), e altrove: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Jn 3,16).

          Siamo anche noi, in certo modo, nel tempo di un nuovo avvento, ch’è tempo di attesa. “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio...” (He 1,1ss.), per mezzo del Figlio-Verbo, che si è fatto uomo ed è nato dalla Vergine Maria. In questo atto redentivo la storia dell’uomo ha raggiunto nel disegno d’amore di Dio il suo vertice. Dio è entrato nella storia dell’umanità e, come uomo, è divenuto suo “soggetto”, uno dei miliardi e, in pari tempo, unico! Attraverso l’Incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione che intendeva dare all’uomo sin dal suo primo inizio, e l’ha data in maniera definitiva – in modo peculiare a Lui solo, secondo il suo eterno amore e la sua misericordia, con tutta la divina libertà – ed insieme con quella munificenza che, di fronte al peccato originale ed a tutta la storia dei peccati dell’umanità, di fronte agli errori dell’intelletto, della volontà e del cuore umano, ci permette di ripetere con stupore le parole della sacra Liturgia: “O felice colpa, che meritò di avere un tanto nobile e grande Redentore!” (Missale Romanum, ex Praeconio Paschali).

  Prime parole del nuovo Pontificato


2       A Cristo Redentore ho elevato i miei sentimenti e pensieri il 16 ottobre dello scorso anno, allorché, dopo l’elezione canonica, fu a me rivolta la domanda: “Accetti?”. Risposi allora: “Obbedendo nella fede a Cristo, mio signore, confidando nella Madre di Cristo e della Chiesa, nonostante le così grandi difficoltà, io accetto”. Quella mia risposta voglio oggi render nota pubblicamente a tutti, senza alcuna eccezione, manifestando così che alla prima e fondamentale verità dell’Incarnazione, già ricordata, è legato il ministero che, con l’accettazione dell’elezione a Vescovo di Roma ed a Successore dell’apostolo Pietro, è divenuto specifico mio dovere nella stessa sua cattedra.

          Scelsi gli stessi nomi, che aveva scelto il mio amatissimo Predecessore Giovanni Paolo I. Difatti, già il 26 agosto 1978 quando egli dichiarò al Sacro Collegio di volersi chiamare Giovanni Paolo – un binomio di questo genere era senza precedenti nella storia del papato – ravvisai in esso un chiaro auspicio della grazia sul nuovo pontificato. Dato che quel pontificato è durato appena 33 giorni, spetta a me non soltanto di continuarlo, ma, in certo modo, di riprenderlo dallo stesso punto di partenza. Questo precisamente è confermato dalla scelta, da me fatta, di quei due nomi. Scegliendoli, dopo l’esempio del venerato mio Predecessore, desidero come lui esprimere il mio amore per la singolare eredità lasciata alla Chiesa dai Pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI, ed insieme la personale mia disponibilità a svilupparla con l’aiuto di Dio.

          Attraverso questi due nomi e due pontificati mi riallaccio a tutta la tradizione di questa Sede Apostolica, con tutti i Predecessori nell’arco del ventesimo secolo e dei secoli precedenti, collegandomi via via, secondo le diverse età fino alle più remote, a quella linea della missione e del ministero, che conferisce alla sede di Pietro un posto del tutto particolare nella Chiesa. Giovanni XXIII e Paolo VI costituiscono una tappa, alla quale desidero riferirmi direttamente come a soglia, dalla quale intendo, in qualche modo insieme con Giovanni Paolo I, proseguire verso l’avvenire, lasciandomi guidare dalla fiducia illimitata e dall’obbedienza allo Spirito, che Cristo ha promesso ed inviato alla sua Chiesa. Egli diceva, infatti, agli Apostoli alla vigilia della sua passione: “È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma, quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (
Jn 16,7). “Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio” (Jn 15,26ss.). “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Jn 16,13).

  Fiducia nello Spirito di verità e di amore


3       Affidandomi pienamente allo Spirito di verità, entro, dunque, nella ricca eredità dei recenti pontificati. Questa eredità è fortemente radicata nella coscienza della Chiesa in modo del tutto nuovo, non mai prima conosciuto, grazie al Concilio Vaticano II, convocato e inaugurato da Giovanni XXIII e, in seguito felicemente concluso e con perseveranza attuato da Paolo VI, la cui attività ho potuto io stesso osservare da vicino. Fui sempre stupito dalla sua profonda saggezza e dal suo coraggio, come anche dalla sua costanza e pazienza nel difficile periodo postconciliare del suo pontificato. Come timoniere della Chiesa, barca di Pietro, egli sapeva conservare una tranquillità ed un equilibrio provvidenziali anche nei momenti più critici, quando sembrava che essa fosse scossa dal di dentro, sempre mantenendo un’incrollabile speranza nella sua compattezza. Infatti, ciò che lo Spirito disse alla Chiesa mediante il Concilio del nostro tempo, ciò che in questa Chiesa dice a tutte le Chiese (cf. Ap 2,7) non può – nonostante inquietudini momentanee – servire a nient’altro che ad un’ancor più matura compattezza di tutto il Popolo di Dio, consapevole della sua missione salvifica.

          Proprio di questa coscienza contemporanea della Chiesa, Paolo VI fece il primo tema della sua fondamentale Enciclica, che inizia con le parole Ecclesiam Suam, ed a questa Enciclica sia a me lecito, innanzitutto, di far riferimento e collegarmi in questo primo e, per così dire, inaugurale documento del presente pontificato. illuminata e sorretta dallo Spirito Santo, la Chiesa ha una coscienza sempre più approfondita sia riguardo al suo mistero divino, sia riguardo alla sua missione umana, sia finalmente riguardo alle stesse sue debolezze umane: ed è proprio questa coscienza che è, e deve rimanere, la prima sorgente dell’amore di questa Chiesa, così come l’amore, da parte sua, contribuisce a consolidare e ad approfondire la coscienza. Paolo VI ci ha lasciato la testimonianza di una tale coscienza, estremamente acuta, della Chiesa. Attraverso le molteplici e spesso sofferte componenti del suo pontificato, egli ci ha insegnato l’intrepido amore verso la Chiesa, la quale – come afferma il Concilio – è “sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium LG 1, AAS 57 [1965] 5).

  Riferimento alla prima Enciclica di Paolo VI


4       Proprio per tale ragione, la coscienza della Chiesa deve essere congiunta con un’apertura universale, affinché tutti possano trovare in essa “le imperscrutabili ricchezze di Cristo” (Ep 3,8), di cui parla l’Apostolo delle genti. Tale apertura, organicamente unita con la coscienza della propria natura, con la certezza della propria verità, di cui disse Cristo: “La mia parola non è mia, ma del Padre che mi ha mandato” (Jn 14,24), determina il dinamismo apostolico, cioè missionario, della Chiesa, la quale professa e proclama integralmente tutta quanta la verità trasmessa da Cristo. Essa deve, in pari tempo, condurre quel dialogo che Paolo VI nella sua Enciclica Ecclesiam Suam chiamò “dialogo della salvezza”, differenziando con precisione i singoli cerchi, nell’ambito dei quali esso dovrebbe esser condotto (cf. Paolo VI, Ecclesiam Suam: AAS 56 [1964] 650ss.). Mentre oggi mi riferisco a questo documento programmatico del pontificato di Paolo VI, non cesso di ringraziare Dio, perché questo mio grande Predecessore e insieme vero padre ha saputo – nonostante le diverse debolezze interne, di cui la Chiesa nel periodo postconciliare ha sofferto – manifestarne “al di fuori” l’autentico volto. In tal modo, anche gran parte della famiglia umana, nei diversi ambiti della sua molteplice esistenza, è diventata – secondo il mio parere – più cosciente di come sia ad essa veramente necessaria la Chiesa di Cristo, la sua missione e il suo servizio. Questa coscienza si è talvolta dimostrata più forte dei diversi atteggiamenti critici, che attaccavano “dal di dentro” la Chiesa, le sue istituzioni e strutture, gli uomini della Chiesa e la loro attività. Tale crescente critica ha avuto senz’altro diverse cause, e siamo certi, d’altra parte, che essa non è stata sempre priva di un vero amore alla Chiesa. Indubbiamente, si è manifestata in essa, fra l’altro, la tendenza a superare il cosiddetto trionfalismo, di cui spesso si discuteva durante il Concilio. Se è cosa giusta, però, che la Chiesa, seguendo l’esempio del suo Maestro che era “umile di cuore” (Mt 11,29), sia fondata anch’essa sull’umiltà, che abbia il senso critico rispetto a tutto ciò che costituisce il suo carattere e la sua attività umana, che sia sempre molto esigente con se stessa, parimenti anche lo spirito critico deve avere i suoi giusti limiti. In caso contrario, esso cessa di esser costruttivo, non rivela la verità, l’amore e la gratitudine per la grazia, di cui principalmente e pienamente diventiamo partecipi proprio nella Chiesa e mediante la Chiesa. Inoltre, esso non esprime l’atteggiamento di servizio, ma piuttosto la volontà di dirigere l’opinione altrui secondo la propria opinione, alle volte divulgata in modo troppo sconsiderato.

          Si deve gratitudine a Paolo 1 perché, rispettando ogni particella di verità contenuta nelle varie opinioni umane, ha conservato in pari tempo il provvidenziale equilibrio del timoniere della Barca (Sono qui da ricordare i principali documenti del Pontificato di Paolo VI, di alcuni dei quali egli stesso fece menzione, quando tenne l’omelia nella Messa per la Solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo nel 1978: Ecclesiam Suam: AAS 56 [1964] 609-659; Investigabiles divitias Christi: AAS 57 [1965] 298-301; Mysterium Fidei, AAS 57 [1965] 753-754; Sacerdotalis Caelibatus: AAS 59 [1967] 657-697; Sollemnis professio fidei: AAS 60 [1968] 433-445; Humanae Vitae, AAS 60 [1968] 481-503; Quinque paterna cum benevolentia: AAS 67 [1975] 5-23; Gaudete in Domino: AAS 67 [1975] 289-322; Evangelii Nuntiandi: AAS 68 [1976] 5-76). La Chiesa, che attraverso Giovanni Paolo I e quasi subito dopo di lui ho avuto affidata, non è certamente scevra da difficoltà e da tensioni interne. Nello stesso tempo, però, essa è interiormente più premunita contro gli eccessi dell’autocriticismo: si potrebbe dire che è più critica di fronte alle diverse sconsiderate critiche, è più resistente rispetto alle varie “novità”, più matura nello spirito di discernimento, più idonea ad estrarre dal suo perenne tesoro “cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52), più centrata sul proprio mistero, e, grazie a tutto ciò, più disponibile per la missione della salvezza di tutti: Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4).

  Collegialità e apostolato


5       Questa Chiesa è – contro tutte le apparenze – più unita nella comunione di servizio e nella coscienza dell’apostolato. Tale unione scaturisce da quel principio di collegialità, ricordato dal Concilio Vaticano II, che Cristo stesso innestò nel collegio apostolico dei Dodici con Pietro a capo, e che rinnova continuamente nel collegio dei Vescovi, il quale sempre più cresce su tutta la terra, rimanendo unito col Successore di San Pietro e sotto la sua guida. Il Concilio non ha soltanto ricordato questo principio di collegialità dei Vescovi, ma lo ha immensamente vivificato, fra l’altro auspicando l’istituzione di un Organo permanente che Paolo VI stabilì costituendo il Sinodo dei Vescovi, la cui attività non solo diede una nuova dimensione al suo pontificato, ma, in seguito, si è chiaramente riflessa, fin dai primi giorni, nel pontificato di Giovanni Paolo I ed in quello del suo indegno Successore.

          Il principio di collegialità si è dimostrato particolarmente attuale nel difficile periodo postconciliare, quando la comune ed unanime posizione del collegio dei Vescovi – che soprattutto mediante il Sinodo ha manifestato la sua unione col Successore di Pietro – contribuiva a dissipare i dubbi e indicava parimenti le giuste vie del rinnovamento della Chiesa, nella sua dimensione universale. Dal Sinodo, infatti, è scaturito fra l’altro quell’impulso essenziale all’evangelizzazione che ha trovato la sua espressione nell’Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi: AAS 68 [1976] 5-76), con tanta gioia accolta come programma del rinnovamento di carattere apostolico e insieme pastorale. La stessa linea è stata seguita anche nei lavori dell’ultima sessione ordinaria del Sinodo dei Vescovi, la quale ebbe luogo circa un anno prima della scomparsa del Pontefice Paolo VI, e fu dedicata – com’è noto – alla catechesi. I risultati di quei lavori richiedono ancora una sistemazione e una enunciazione da parte della Sede Apostolica.

          Poiché stiamo trattando dell’evidente sviluppo delle forme in cui si esprime la collegialità episcopale, occorre almeno ricordare il processo di consolidamento delle Conferenze Episcopali nazionali in tutta la Chiesa e di altre strutture collegiali a carattere internazionale o continentale. Riferendoci poi alla tradizione secolare della Chiesa, conviene sottolineare l’attività dei diversi Sinodi locali. Fu, infatti, idea del Concilio, coerentemente attuata da Paolo VI, che le strutture di questo genere, da secoli sperimentate dalla Chiesa, come anche le altre forme della collaborazione collegiale dei Vescovi, ad esempio la metropolia, per non parlare già di ogni singola diocesi, pulsassero in piena consapevolezza della propria identità ed insieme della propria originalità, nell’unità universale della Chiesa. Lo stesso spirito di collaborazione e di corresponsabilità si sta diffondendo anche tra i sacerdoti, e ciò viene confermato dai numerosi Consigli Presbiterali, che son sorti dopo il Concilio. Questo spirito si è esteso anche tra i laici, confermando non soltanto le organizzazioni dell’apostolato laicale già esistenti, ma creandone delle nuove, aventi spesso un profilo diverso ed una dinamica eccezionale. Inoltre, i laici, consapevoli della loro responsabilità dinanzi alla Chiesa, si sono impegnati volentieri nella collaborazione con i Pastori, con i rappresentanti degli Istituti di vita consacrata, nell’àmbito dei Sinodi diocesani o dei Consigli pastorali nelle parrocchie e nelle diocesi.

          È per me necessario avere in mente tutto questo agli inizi del mio pontificato, per ringraziare Dio, per esprimere un vivo incoraggiamento a tutti i Fratelli e Sorelle, e per ricordare, inoltre, con viva gratitudine l’opera del Concilio Vaticano II ed i miei grandi Predecessori, che hanno dato avvio a questa nuova “ondata” della vita della Chiesa, molto ben più potente dei sintomi di dubbio, di crollo e di crisi.


  Via all’unione dei cristiani


6       E che cosa dire di tutte le iniziative scaturite dal nuovo orientamento ecumenico? L’indimenticabile Papa Giovanni XXIII, con evangelica chiarezza, impostò il problema dell’unione dei cristiani, come semplice conseguenza della volontà dello stesso Gesù Cristo, nostro Maestro, affermata più volte ed espressa, in modo particolare, nella preghiera del Cenacolo, alla vigilia della sua morte: “Prego..., Padre..., perché tutti siano una cosa sola” (Jn 17,21 cf. Jn 17,11 Jn 17,22ss., Jn 10,16 Lc 9,49ss Lc 9,54). Il Concilio Vaticano II rispose a questa esigenza in forma concisa col decreto sull’ecumenismo. Il Papa Paolo VI, avvalendosi dell’attività del Segretariato per l’Unione dei Cristiani, iniziò i primi difficili passi sulla via del conseguimento di tale unione. Siamo andati lontano su questa strada? Senza voler dare una risposta particolareggiata, possiamo dire che abbiamo fatto dei veri ed importanti progressi. Ed una cosa è certa: abbiamo lavorato con perseveranza e coerenza, ed insieme con noi si sono impegnati anche i rappresentanti di altre Chiese e di altre Comunità cristiane, e di questo siamo loro sinceramente obbligati. È certo, inoltre, che, nella presente situazione storica della cristianità e del mondo, non appare altra possibilità di adempiere la missione universale della Chiesa, per quanto riguarda i problemi ecumenici, che quella di cercare lealmente, con perseveranza, con umiltà e anche con coraggio, le vie di avvicinamento e di unione così come ce ne ha dato il personale esempio Papa Paolo VI. Dobbiamo, pertanto, ricercare l’unione senza scoraggiarci di fronte alle difficoltà, che possono presentarsi o accumularsi lungo tale via; altrimenti, non saremmo fedeli alla parola di Cristo, non realizzeremmo il suo testamento. È lecito correre questo rischio?

          Vi sono persone che, trovandosi di fronte alle difficoltà, oppure giudicando negativi i risultati degli iniziali lavori ecumenici, avrebbero voluto indietreggiare. Alcuni esprimono perfino l’opinione che questi sforzi nuocciano alla causa del Vangelo, conducano ad un’ulteriore rottura della Chiesa, provochino confusione di idee nelle questioni della fede e della morale, approdino ad uno specifico indifferentismo. Sarà forse bene che i portavoce di tali opinioni esprimano i loro timori; tuttavia, anche a questo riguardo, bisogna mantenere i giusti limiti. È ovvio che questa nuova tappa della vita della Chiesa esiga da noi una fede particolarmente cosciente, approfondita e responsabile. La vera attività ecumenica significa apertura, avvicinamento, disponibilità al dialogo, comune ricerca della verità nel pieno senso evangelico e cristiano; ma essa non significa assolutamente né può significare rinunciare o recare in qualsiasi modo pregiudizio ai tesori della verità divina, costantemente confessata ed insegnata dalla Chiesa. A tutti coloro che, per qualsiasi motivo, vorrebbero dissuadere la Chiesa dalla ricerca dell’unità universale dei cristiani, bisogna ripetere ancora una volta: È lecito a noi il non farlo? Possiamo – nonostante tutta la debolezza umana e tutte le deficienze accumulatesi nei secoli passati – non aver fiducia nella grazia di Nostro Signore, quale si è rivelata, nell’ultimo tempo, mediante la parola dello Spirito Santo, che abbiamo sentito durante il Concilio? Facendo così negheremmo la verità che concerne noi stessi e che l’Apostolo ha espresso in modo tanto eloquente: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1Co 15,10).

          Pur se in altro modo e con le dovute differenze, bisogna applicare ciò che è stato detto all’attività che tende all’avvicinamento con i rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della religiosità umana, i quali – come ben sappiamo – non mancano neppure ai membri di queste religioni. Non avviene forse talvolta che la ferma credenza dei seguaci delle religioni non cristiane – effetto anche essa dello Spirito di verità, operante oltre i confini visibili del Corpo Mistico – possa quasi confondere i cristiani, spesso così disposti a dubitare, invece, nelle verità rivelate da Dio e annunziate dalla Chiesa, così propensi al rilassamento dei principi della morale e ad aprire la strada al permissivismo etico? È nobile esser predisposti a comprendere ciascun uomo, ad analizzare ogni sistema, a dare ragione a ciò che è giusto; ma questo non significa assolutamente perdere la certezza della propria fede (cf. Conc. Oecum. Vat. I Dei Filius, Canones, III: De fide, n. 6: Conciliorum Oecumenicorum Decreta; Ed. Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1973, p. 811), ovvero indebolire i principi della morale, la cui mancanza si farà risentire ben presto nella vita di intere società, determinando, fra l’altro, deplorevoli conseguenze.

  Nel Mistero di Cristo


7       Se le vie, sulle quali il Concilio del nostro secolo ha avviato la Chiesa, vie che ci ha indicato nella sua prima Enciclica il compianto Papa Paolo VI, rimarranno a lungo esattamente quelle che noi tutti dobbiamo seguire, al tempo stesso in questa nuova tappa possiamo giustamente chiederci: Come? In che modo occorre proseguire? Che cosa occorre fare, affinché questo nuovo Avvento della Chiesa, congiunto con l’ormai prossima fine del secondo Millennio, ci avvicini a Colui che la Sacra Scrittura chiama: “Padre per sempre”, “Padre del mondo che verrà” (Is 9,6)? Questa è la fondamentale domanda che il nuovo Pontefice deve porsi, quando, in spirito d’obbedienza di fede, accetta la chiamata secondo il comando da Cristo più volte rivolto a Pietro: “Pasci i miei agnelli” (Jn 21,15), che vuol dire: Sii pastore del mio ovile; e poi “... e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).

          È proprio qui, carissimi Fratelli, Figli e Figlie, che s’impone una risposta fondamentale ed essenziale, e cioè: l’unico orientamento dello spirito, l’unico indirizzo dell’intelletto, della volontà e del cuore è per noi questo: verso Cristo, Redentore dell’uomo; verso Cristo, Redentore del mondo, A Lui vogliamo guardare, perché solo in Lui, Figlio di Dio, c’è salvezza, rinnovando l’affermazione di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Jn 6,68 cf. Ac 4,8-12).

          Attraverso la coscienza della Chiesa, tanto sviluppata dal Concilio, attraverso tutti i gradi di questa coscienza, attraverso tutti i campi di attività in cui la Chiesa si esprime, si ritrova e si conferma, dobbiamo costantemente tendere a Colui “che è il capo” (cf. Ep 1,10 Ep 1,22 Ep 4,25 Col 1,18), a Colui “in virtù del quale esistono tutte le cose e noi siamo per lui” (1Co 8,6 cf. Col 1,17), a Colui il quale è insieme “la via, la verità” (Jn 14,6) e “la risurrezione e la vita” (Jn 11,25), a Colui vedendo il quale vediamo il Padre (cf. Jn 14,9), a Colui che doveva partirsene da noi (cf. Jn 16,7) – s’intende per la morte sulla Croce e poi per l’Ascensione al cielo – affinché il Consolatore venisse a noi e continuamente venga come Spirito di verità (cf. Jn 16,7 Jn 16,13). In Lui sono “tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2,3), e la Chiesa è il suo Corpo (cf. Rm 12,5 1Co 6,15 1Co 10,17 1Co 12,12 1Co 12,27 Ep 1,23 Ep 2,16 Ep 4,4 Col 1,24 Col 3,15). La Chiesa è “in Cristo come un sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium LG 1, AAS 57 [1965] 5), e di ciò è lui la sorgente! Lui stesso! Lui, il Redentore!

          La Chiesa non cessa di ascoltare le sue parole, le rilegge di continuo, ricostruisce con la massima devozione ogni particolare della sua vita. Queste parole sono ascoltate anche dai non cristiani. La vita di Cristo parla, in pari tempo, a tanti uomini che non sono ancora in grado di ripetere con Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Egli, Figlio del Dio vivente, parla agli uomini anche come Uomo: è la sua vita stessa che parla, la sua umanità, la sua fedeltà alla verità, il suo amore che abbraccia tutti. Parla, inoltre, la sua morte in Croce, cioè l’imperscrutabile profondità della sua sofferenza e dell’abbandono. La Chiesa non cessa mai di riviverne la morte in Croce e la Risurrezione, che costituiscono il contenuto della sua vita quotidiana. Difatti, è per mandato di Cristo stesso, suo Maestro, che la Chiesa celebra incessantemente l’Eucaristia, trovando in essa “la sorgente della vita e della santità” (cf. Litaniae SS. Cordis Iesu), il segno efficace della grazia e della riconciliazione con Dio, il pegno della vita eterna. La Chiesa vive il suo mistero, vi attinge senza stancarsi mai e ricerca continuamente le vie per avvicinare questo mistero del suo Maestro e Signore al genere umano: ai popoli, alle nazioni, alle generazioni che si susseguono, ad ogni uomo in particolare, come se ripetesse sempre secondo l’esempio dell’Apostolo: “Io ritenni infatti, di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Co 2,2). La Chiesa rimane nella sfera del mistero della Redenzione, che è appunto diventato il principio fondamentale della sua vita e della sua missione.

  Redenzione: rinnovata creazione


8       Redentore del mondo! In lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile la fondamentale verità sulla creazione, che il Libro della Genesi attesta quando ripete più volte: “Dio vide che era cosa buona” (cf. Gn 1). Il bene ha la sua sorgente nella Sapienza e nell’Amore. In Gesù Cristo il mondo visibile, creato da Dio per l’uomo (cf. Gn 1,26-30) – quel mondo che, essendovi entrato il peccato, “è stato sottomesso alla caducità” (Rm 8,20 Rm 8,19-22 Gaudium et Spes GS 2 GS 13, AAS 58 [1966] 1026; 1034ss.) – riacquista nuovamente il vincolo originario con la stessa sorgente divina della Sapienza e dell’Amore. Infatti, “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Jn 3,16). Come nell’uomo-Adamo questo vincolo è stato infranto, così nell’uomo-Cristo esso è stato di nuovo riallacciato (cf. Rm 5,12-21). Non ci convincono forse, noi uomini del ventesimo secolo, le parole dell’Apostolo delle genti, pronunciate con una travolgente eloquenza, circa la “creazione (che) geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (cf. Rm 8,22) ed “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (cf. Rm 8,19), circa la creazione che “è stata sottomessa alla caducità”? L’immenso progresso, non mai prima conosciuto, che si è verificato, particolarmente nel corso del nostro secolo, nel campo del dominio sul mondo da parte dell’uomo, non rivela forse esso stesso, e per di più in grado mai prima raggiunto, quella multiforme sottomissione “alla caducità”? Basta solo qui ricordare certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell’ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive di autodistruzione mediante l’uso delle armi atomiche, all’idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati. Il mondo della nuova epoca, il mondo dei voli cosmici, il mondo delle conquiste scientifiche e tecniche, non mai prima raggiunte, non è nello stesso tempo il mondo che “geme e soffre” (cf. Rm 8,22) ed “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (cf Rm 8,19)?

          Il Concilio Vaticano II, nella sua penetrante analisi “del mondo contemporaneo”, perveniva a quel punto che è il più importante del mondo visibile, l’uomo, scendendo – come Cristo – nel profondo delle coscienze umane, toccando il mistero interiore dell’uomo, che nel linguaggio biblico (ed anche non biblico) si esprime con la parola “cuore”. Cristo, Redentore del mondo, è Colui che è penetrato, in modo unico e irripetibile, nel mistero dell’uomo ed è entrato nel suo “cuore”. Giustamente, quindi, il Concilio Vaticano II insegna: “In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14), e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”. E poi ancora: “Egli è l’immagine dell’invisibile Iddio” (Col 1,15). Egli è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, già resa deforme fin dal primo peccato. Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche a nostro beneficio innalzata a una dignità sublime. Con la sua incarnazione, infatti, il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (Gaudium et Spes GS 22, AAS 58 [1966] 1042ss.). Egli, il Redentore dell’uomo!

  Dimensione divina del mistero della Redenzione


9       Riflettendo nuovamente su questo stupendo testo del Magistero conciliare, non dimentichiamo, neanche per un momento, che Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, è diventato la nostra riconciliazione presso il Padre (cf. Rm 5,11 Col 1,20). Proprio Lui, solo Lui ha soddisfatto all’eterno amore del Padre, a quella paternità che sin dal principio si è espressa nella creazione del mondo, nella donazione all’uomo di tutta la ricchezza del creato, nel farlo “poco meno degli angeli” (Ps 8,3), in quanto creato “ad immagine ed a somiglianza di Dio” (cf. Gn 1,26); e, egualmente, ha soddisfatto a quella paternità di Dio e a quell’amore, in un certo modo respinto dall’uomo con la rottura della prima Alleanza (Gn 3,6-13) e di quelle posteriori che Dio “molte volte ha offerto agli uomini” (cf. Missale Romanum; Prex Eucaristica IV). La redenzione del mondo – questo tremendo mistero dell’amore, in cui la creazione viene rinnovata (cf. Gaudium et Spes GS 37, AAS 58 [1966] 1054ss.; Lumen Gentium LG 48, AAS 57 [1965] 53ss.) – è, nella sua più profonda radice, la pienezza della giustizia in un cuore umano: nel cuore del figlio primogenito, perché essa possa diventare giustizia dei cuori di molti uomini, i quali proprio nel Figlio primogenito sono stati, fin dall’eternità, predestinati a divenire figli di Dio (cf. Rm 8,29ss. Ep 1,8) e chiamati alla grazia, chiamati all’amore. La croce sul Calvario, per mezzo della quale Gesù Cristo – uomo, figlio di Maria Vergine, figlio putativo di Giuseppe di Nazaret – “lascia” questo mondo, è al tempo stesso una nuova manifestazione dell’eterna paternità di Dio, il quale in lui si avvicina di nuovo all’umanità, ad ogni uomo, donandogli il tre volte santo “Spirito di verità” (cf. Jn 16,13).

          Con questa rivelazione del Padre ed effusione dello Spirito Santo, che stampano un sigillo indelebile sul mistero della Redenzione, si spiega il senso della croce e della morte di Cristo. Il Dio della creazione si rivela come Dio della redenzione, come Dio “fedele a se stesso” (cf. 1Th 5,24), fedele al suo amore verso l’uomo e verso il mondo, già rivelato nel giorno della creazione. E il suo è amore che non indietreggia davanti a nulla di ciò che in lui stesso esige la giustizia. E per questo il Figlio “che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2Co 5,21 cf. Ga 3,13). Se “trattò da peccato” Colui che era assolutamente senza alcun peccato, lo fece per rivelare l’amore che è sempre più grande di tutto il creato, l’amore che è lui stesso, perché “Dio è amore” (Jn 4,8 Jn 4,16). E soprattutto l’amore è più grande del peccato, della debolezza, della “caducità del creato” (cf. Rm 8,20), più forte della morte; è amore sempre pronto a sollevare e a perdonare, sempre pronto ad andare incontro al figliol prodigo (cf. Lc 15,11-32), sempre alla ricerca della “rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8,19), che sono chiamati alla gloria futura(cf. Rm 8,18). Questa rivelazione dell’amore viene anche definita misericordia (cf. S. Tommaso, Summa theologiae, III 46,1; ad 3), e tale rivelazione dell’amore e della misericordia ha nella storia dell’uomo una forma e un norme: si chiama Gesù Cristo.


Redemptor hominis