Redemptor hominis 10

  Dimensione umana del mistero della Redenzione


10     L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore – come è stato già detto – rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso. Questa è – se così è lecito esprimersi – la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l’uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l’uomo diviene nuovamente “espresso” e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Ga 3,28). L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere – deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve “appropriarsi” ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del creatore se “ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore” (Missale Romanum, ex Praeconio Paschali), se “Dio ha dato il suo Figlio”, affinché egli, l’uomo, “non muoia, ma abbia la vita eterna” (cf. Jn 3,16).

          In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, “nel mondo contemporaneo”. Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza – che nella sua profonda radice è la certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell’umanesimo autentico – è strettamente collegato a Cristo. Esso determina anche il suo posto, il suo – se così si può dire – particolare diritto di cittadinanza nella storia dell’uomo e dell’umanità. La Chiesa, che non cessa di contemplare l’insieme del mistero di Cristo, sa, con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce e la morte conduce alla risurrezione.

          Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell’uomo, di indirizzare la coscienza e l’esperienza di tutta l’umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca anche la più profonda sfera dell’uomo, la sfera – intendiamo – dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane.

  Il mistero di Cristo alla base della missione della Chiesa e del cristianesimo


11     Il Concilio Vaticano II ha compiuto un lavoro immenso per formare quella piena ed universale coscienza della Chiesa, di cui scriveva Papa Paolo VI nella sua prima Enciclica. Tale coscienza – o piuttosto autocoscienza della Chiesa – si forma “nel dialogo”, il quale, prima di diventare colloquio, deve rivolgere la propria attenzione verso “l’altro”, cioè verso colui col quale vogliamo parlare. Il Concilio ecumenico ha dato un impulso fondamentale per formare l’autocoscienza della Chiesa, offrendoci, in modo tanto adeguato e competente, la visione dell’orbe terrestre come di una “mappa” di varie religioni. Inoltre, esso ha dimostrato come su questa mappa delle religioni del mondo si sovrapponga a strati – prima non mai conosciuti e caratteristici del nostro tempo – il fenomeno dell’ateismo nelle sue varie forme, a cominciare dall’ateismo programmato, organizzato e strutturato in un sistema politico.

          Quanto alla religione, si tratta, anzitutto, della religione come fenomeno universale, unito alla storia dell’uomo fin dall’inizio; poi, delle varie religioni non cristiane e, infine, dello stesso cristianesimo. Il documento del Concilio dedicato alle religioni non cristiane è, in particolare, pieno di profonda stima per i grandi valori spirituali, anzi, per il primato di ciò che è spirituale e trova nella vita dell’umanità la sua espressione nella religione e, inoltre, nella moralità, con diretti riflessi su tutta la cultura. Giustamente i Padri della Chiesa vedevano nelle diverse religioni quasi altrettanti riflessi di un’unica verità come “germi del Verbo” (cf. S. Giustino, I Apologia, 46,1-4; II Apologia; 7 [8],1-4; 10,1-3; 13,3-4: Florilegium Patristicum; II, Bonn 1911, 81, 125, 129, 133; Clemente Alessandrino, Stromata, I, 19,91.94: S. Ch. 30, pp. 117ss.;
AGD 11: AAS 58 [1966] 960; Lumen Gentium LG 17, AAS 57 [1957] 21), i quali testimoniano che, quantunque per diverse strade, è rivolta tuttavia in una unica direzione la più profonda aspirazione dello spirito umano, quale si esprime nella ricerca di Dio ed insieme nella ricerca, mediante la tensione verso Dio, della piena dimensione dell’umanità, ossia del pieno senso della vita umana. Il Concilio ha dedicato una particolare attenzione alla religione giudaica, ricordando il grande patrimonio spirituale, comune ai cristiani e agli ebrei, ed ha espresso la sua stima verso i credenti dell’Islam, la cui fede si riferisce anche ad Abramo (cf. NAE 3-4: AAS 58 [1966] 741-743).

          Per l’apertura fatta dal Concilio Vaticano II la Chiesa e tutti i cristiani hanno potuto raggiungere una coscienza più completa del mistero di Cristo, “mistero nascosto da secoli” (Col 1,26) in Dio, per esser rivelato nel tempo: nell’uomo Gesù Cristo, e per rivelarsi continuamente, in ogni tempo. In Cristo e per Cristo, Dio si è rivelato pienamente all’umanità e si è definitivamente avvicinato ad essa e, nello stesso tempo, in Cristo e per Cristo, l’uomo ha acquistato piena coscienza della sua dignità, della sua elevazione, del valore trascendente della propria umanità, del senso della sua esistenza.

          Occorre, quindi, che noi tutti – quanti siamo seguaci di Cristo – ci incontriamo e ci uniamo intorno a Lui stesso. Questa unione, nei diversi settori della vita, della tradizione, delle strutture e discipline delle singole Chiese o Comunità ecclesiali, non può attuarsi senza un valido lavoro, che tenda alla reciproca conoscenza ed alla rimozione degli ostacoli sulla strada di una perfetta unità. Tuttavia, possiamo e dobbiamo già fin d’ora raggiungere e manifestare al mondo la nostra unità: nell’annunciare il mistero di Cristo, nel rivelare la dimensione divina e insieme umana della Redenzione, nel lottare con instancabile perseveranza per la dignità che ogni uomo ha raggiunto e può raggiungere continuamente in Cristo. È questa la dignità della grazia dell’adozione divina ed insieme la dignità della verità interiore dell’umanità, la quale – se nella coscienza comune del mondo contemporaneo ha raggiunto un rilievo così fondamentale – ancora di più risulta per noi alla luce di quella realtà che è Lui: Gesù Cristo.

          Gesù Cristo è stabile principio e centro permanente della missione, che Dio stesso ha affidata all’uomo. A questa missione dobbiamo partecipare tutti, in essa dobbiamo concentrare tutte le nostre forze, essendo più che mai necessaria all’umanità del nostro tempo. E se tale missione sembra incontrare nella nostra epoca opposizioni più grandi che in qualunque altro tempo, tale circostanza dimostra pure che essa è nella nostra epoca ancor più necessaria e – nonostante le opposizioni – è più attesa che mai. Qui tocchiamo indirettamente quel mistero dell’economia divina, che ha unito la salvezza e la grazia con la croce. Non invano Cristo disse che “il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”(Mt 11,12); ed inoltre che “i figli di questo mondo [...] sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). Accettiamo volentieri questo rimprovero, per essere come quei “violenti di Dio” che abbiamo tante volte visto nella storia della Chiesa e che scorgiamo ancor oggi, per unirci consapevolmente nella grande missione, e cioè: rivelare Cristo al mondo, aiutare ciascun uomo perché ritrovi se stesso in Lui, aiutare le generazioni contemporanee dei nostri fratelli e sorelle, popoli, nazioni, stati, umanità, paesi non ancora sviluppati e paesi dell’opulenza, tutti insomma, a conoscere le “imperscrutabili ricchezze di Cristo” (Ep 3,8), perché queste sono per ogni uomo e costituiscono il bene di ciascuno.

  Missione della Chiesa e libertà dell’uomo


12     In questa unione nella missione, di cui decide soprattutto Cristo stesso, tutti i cristiani debbono scoprire ciò che già li unisce, ancor prima che si realizzi la loro piena comunione. Questa è l’unione apostolica e missionaria, missionaria e apostolica. Grazie a questa unione possiamo insieme avvicinarci al magnifico patrimonio dello spirito umano, che si è manifestato in tutte le religioni, come dice la Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra Aetate (cf. NAE 1ss.: AAS 58 [1966] 740ss.). Grazie ad essa, ci accostiamo in pari tempo a tutte le culture, a tutte le concezioni ideologiche, a tutti gli uomini di buona volontà. Ci avviciniamo con quella stima, rispetto e discernimento che, sin dai tempi degli Apostoli, contrassegnava l’atteggiamento missionario e del missionario. Basta ricordare San Paolo e, ad esempio, il suo discorso davanti all’Areopago di Atene (cf. Ac 17,22-31). L’atteggiamento missionario inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che “c’è in ogni uomo” (Jn 2,25), per ciò che egli stesso, nell’intimo del suo spirito, ha elaborato riguardo ai problemi più profondi e più importanti; si tratta di rispetto per tutto ciò che in lui ha operato lo Spirito, che “soffia dove vuole” (Jn 3,8). La missione non è mai una distruzione, ma è una riassunzione di valori e una nuova costruzione, anche se nella pratica non sempre vi è stata piena corrispondenza a un ideale così elevato. E la conversione, che da essa deve prendere inizio, sappiamo bene che è opera della grazia, nella quale l’uomo deve pienamente ritrovare se stesso.

          Perciò, la Chiesa del nostro tempo dà grande importanza a tutto ciò che il Concilio Vaticano II ha esposto nella “Dichiarazione sulla Libertà Religiosa”, sia nella prima che nella seconda parte del documento (cf. Dignitatis Humanae, AAS 58 [1966] 929-946). Sentiamo profondamente il carattere impegnativo della verità che Dio ci ha rivelato. Avvertiamo in particolare il grande senso di responsabilità per questa verità. La Chiesa, per istituzione di Cristo, ne è custode e maestra, essendo appunto dotata di una singolare assistenza dello Spirito Santo, perché possa fedelmente custodirla ed insegnarla nella sua più esatta integrità (cf. Jn 14,26). Adempiendo questa missione, guardiamo Cristo stesso, Colui che è il primo evangelizzatore (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 6: AAS 68 [1976] 9), e guardiamo anche i suoi Apostoli, Martiri e Confessori. La “Dichiarazione sulla Libertà Religiosa” ci manifesta, in modo convincente, come Cristo e, in seguito, i suoi Apostoli, nell’annunciare la verità che non proviene dagli uomini, ma da Dio (“la mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato” (Jn 7,16), cioè del Padre), pur agendo con tutta la forza dello spirito, conservino una profonda stima per l’uomo, per il suo intelletto, la sua volontà, la sua coscienza e la sua libertà (cf. Dignitatis Humanae, AAS 58 [1966] 936ss.). In tal modo, la stessa dignità della persona umana diventa contenuto di quell’annuncio, anche se privo di parole, mediante il comportamento nei suoi riguardi. Tale comportamento sembra corrispondere ai bisogni particolari dei nostri tempi. Siccome non in tutto quello che i vari sistemi ed anche singoli uomini vedono e propagano come libertà è la vera libertà dell’uomo, tanto più la Chiesa, in forza della sua divina missione, diventa custode di questa libertà, la quale è condizione e base della vera dignità della persona umana.

          Gesù Cristo va incontro all’uomo di ogni epoca, anche della nostra epoca, con le stesse parole: “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Jn 8,32). Queste parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme un ammonimento: l’esigenza di un rapporto onesto nei riguardi della verità, come condizione di un’autentica libertà; e l’ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni libertà superficiale e unilaterale, ogni libertà che non penetri tutta la verità sull’uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi come Colui che porta all’uomo la libertà basata sulla verità, come Colui che libera l’uomo da ciò che limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse, nell’anima dell’uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà. Quale stupenda conferma di ciò hanno dato e non cessano di dare coloro che, grazie a Cristo e in Cristo, hanno raggiunto la vera libertà e l’hanno manifestata perfino in condizioni di costrizione esteriore!

          E Gesù Cristo stesso, quando comparve prigioniero dinanzi al tribunale di Pilato e fu da lui interrogato circa l’accusa fattagli dai rappresentanti del Sinedrio, non rispose forse: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Jn 18,37)? Con queste parole pronunciate davanti al giudice, nel momento decisivo, era come se confermasse, ancora una volta, la frase già detta in precedenza: “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”. Nel corso di tanti secoli e di tante generazioni, cominciando dai tempi degli Apostoli, non è forse Gesù Cristo stesso che tante volte è comparso accanto ad uomini giudicati a causa della verità, e non è andato forse alla morte con uomini condannati a causa della verità (cf. Jn 4,23)? Cessa egli forse di essere continuamente portavoce e avvocato dell’uomo, che vive “in spirito e verità”? Proprio come non cessa di esserlo davanti al Padre, così lo è anche nei confronti della storia dell’uomo. E la Chiesa, a sua volta, nonostante tutte le debolezze che fanno parte della sua storia umana, non cessa di seguire Colui che ha detto; “È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Jn 4,23ss.).

  Cristo si è unito ad ogni uomo


13     Quando, attraverso l’esperienza della famiglia umana in continuo aumento a ritmo accelerato, penetriamo nel mistero di Gesù Cristo, comprendiamo con maggiore chiarezza che, alla base di tutte queste vie lungo le quali, conforme alla saggezza del Pontefice Paolo VI (cf. Paolo VI, Ecclesiam Suam: AAS 56 [1964] 609-659), deve proseguire la Chiesa dei nostri tempi, c’è un’unica via: è la via sperimentata da secoli, ed è, insieme, la via del futuro. Cristo signore ha indicato questa via, soprattutto quando – come insegna il Concilio – “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Gaudium et Spes GS 22, AAS 58 [1966] 1042). La Chiesa ravvisa, dunque, il suo compito fondamentale nel far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi. La Chiesa desidera servire quest’unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa irradia. Sullo sfondo dei sempre crescenti processi nella storia, che nella nostra epoca sembrano fruttificare in modo particolare nell’ambito di vari sistemi, concezioni ideologiche del mondo e regimi, Gesù Cristo diventa, in certo modo, nuovamente presente, malgrado tutte le apparenti sue assenze, malgrado tutte le limitazioni della presenza e dell’attività istituzionale della Chiesa. Gesù Cristo diventa presente con la potenza di quella verità e di quell’amore, che si sono espressi in Lui come pienezza unica e irripetibile, benché la sua vita in terra sia stata breve ed ancor più breve la sua attività pubblica.

          Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via “alla casa del Padre” (cf. Jn 14,1ss.), ed è anche la via a ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all’uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può essere fermata da nessuno. Questa è l’esigenza del bene temporale e del bene eterno dell’uomo. La Chiesa, per riguardo a Cristo ed in ragione di quel mistero che costituisce la vita della Chiesa stessa, non può rimanere insensibile a tutto ciò che serve al vero bene dell’uomo, così come non può rimanere indifferente a ciò che lo minaccia. Il Concilio Vaticano II, in diversi passi dei suoi documenti, ha espresso questa fondamentale sollecitudine della Chiesa, affinché “la vita nel mondo sia più conforme all’eminente dignità dell’uomo” (Gaudium et Spes GS 91, AAS 58 [1966] 1113) in tutti i suoi aspetti, per renderla “sempre più umana” (GS 38: loc. cit., 1056). Questa è la sollecitudine di Cristo stesso, il buon Pastore di tutti gli uomini. In nome di tale sollecitudine – come leggiamo nella Costituzione pastorale del Concilio – “la Chiesa, che in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana” (GS 76: loc. cit., 1099).

          Qui, dunque, si tratta dell’uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione. Non si tratta dell’uomo astratto, ma reale, dell’uomo concreto, storico. Si tratta di ciascun uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. Ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa. Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero ed è incentrata su di lui in modo del tutto particolare. L’oggetto di questa premura è l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso (cf. Gn 1,27). Il Concilio indica proprio questo, quando, parlando di tale somiglianza, ricorda che “l’uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” (Gaudium et Spes GS 24, AAS 58 (1966) 1045). L’uomo così com’è “voluto” da Dio, così come è stato da Lui eternamente “scelto”, chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio “ogni” uomo, l’uomo il più concreto, il più reale; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre.

  Tutte le vie della Chiesa conducono all’uomo


14     La Chiesa non può abbandonare l’uomo, la cui “sorte”, cioè la scelta, la chiamata, la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo così stretto e indissolubile unite al Cristo. E si tratta proprio di ogni uomo su questo pianeta, in questa terra che il Creatore ha dato al primo uomo, dicendo all’uomo e alla donna: “Soggiogatela (la terra) e dominatela” (Gn 1,28). Ogni uomo, in tutta la sua irripetibile realtà dell’essere e dell’agire, dell’intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore. L’uomo, nella sua singolare realtà (perché è “persona”), ha una propria storia della sua vita e, soprattutto, una propria storia della sua anima. L’uomo che, conformemente all’interiore apertura del suo spirito ed insieme a tanti e così diversi bisogni del suo corpo, della sua esistenza temporale, scrive questa sua storia personale mediante numerosi legami, contatti, situazioni, strutture sociali, che lo uniscono ad altri uomini, e ciò egli fa sin dal primo momento della sua esistenza sulla terra, dal momento del suo concepimento e della sua nascita. L’uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale – nell’ambito della propria famiglia, nell’ambito di società e di contesti tanto diversi, nell’ambito della propria nazione, o popolo (e, forse, ancora solo del clan, o tribù), nell’ambito di tutta l’umanità – quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione.

          Proprio quest’uomo in tutta la verità della sua vita, nella sua coscienza, nella sua continua inclinazione al peccato ed insieme nella sua continua aspirazione alla verità, al bene, al bello, alla giustizia, all’amore, proprio un tale uomo aveva davanti agli occhi il Concilio Vaticano II allorché, delineando la sua situazione nel mondo contemporaneo, si portava sempre dalle componenti esterne di questa situazione alla verità immanente della umanità: “È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti; dall’altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, egli è costretto sempre a sceglierne qualcuna ed a rinunciare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società” (Gaudium et Spes GS 10, AAS 58 [1966] 1032).

          Quest’uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché l’uomo – ogni uomo senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché con l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole: “Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo – ad ogni uomo e a tutti gli uomini – luce e forza... per rispondere alla suprema sua vocazione” (GS 10: loc. cit., 1033).

          Essendo quindi quest’uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della di lui “situazione”. Deve cioè essere consapevole delle sue possibilità, che prendono sempre nuovo orientamento e così si manifestano; la Chiesa deve, nello stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all’uomo. Deve essere consapevole, altresì, di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché “la vita umana divenga sempre più umana” (GS 38: loc. cit., 1056; Paolo VI, Populorum Progressio PP 21, AAS 59 [1967] 267ss.), perché tutto ciò che compone questa vita risponda alla vera dignità dell’uomo. In una parola, dev’essere consapevole di tutto ciò che è contrario a quel processo.

  Di che cosa ha paura l’uomo contemporaneo


15     Conservando quindi viva nella memoria l’immagine che in modo così perspicace e autorevole ha tracciato il Concilio Vaticano II, cercheranno ancora una volta di adattare questo quadro ai “segni dei tempi”, nonché alle esigenze della situazione, che continuamente cambia ed evolve in determinate direzioni.

          L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di “alienazione”, nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire. Deve nascere, quindi, un interrogativo: per quale ragione questo potere, dato sin dall’inizio all’uomo, potere per il quale egli doveva dominare la terra (
Gn 1,28), si rivolge contro lui stesso, provocando un comprensibile stato d’inquietudine, di cosciente e incosciente paura, di minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea e si manifesta sotto vari aspetti?

          Questo stato di minaccia per l’uomo, da parte dei suoi prodotti, ha varie direzioni e vari gradi di intensità. Sembra che siamo sempre più consapevoli del fatto che lo sfruttamento della terra, del pianeta su cui viviamo, esiga una razionale ed onesta pianificazione. Nello stesso tempo, tale sfruttamento per scopi non soltanto industriali, ma anche militari, lo sviluppo della tecnica non controllato né inquadrato in un piano a raggio universale ed autenticamente umanistico, portano spesso con sé la minaccia all’ambiente naturale dell’uomo, lo alienano nei suoi rapporti con la natura, lo distolgono da essa. L’uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo. Invece, era volontà del Creatore che l’uomo comunicasse con la natura come “padrone” e “custode” intelligente e nobile, e non come sfruttatore e distruttore senza alcun riguardo.

          Lo sviluppo della tecnica e lo sviluppo della civiltà del nostro tempo, che è contrassegnato dal dominio della tecnica stessa, esigono un proporzionale sviluppo della vita morale e dell’etica. Intanto quest’ultimo sembra, purtroppo, rimanere sempre arretrato. Perciò, quel progresso, peraltro tanto meraviglioso, in cui è difficile non scorgere anche autentici segni della grandezza dell’uomo, i quali, nei loro germi creativi, ci sono rivelati nelle pagine del Libro della Genesi, già nella descrizione della sua creazione (cf. Gn 1-2), non può non generare molteplici inquietudini. La prima inquietudine riguarda la questione essenziale e fondamentale: questo progresso, il cui autore e fautore è l’uomo, rende la vita umana sulla terra, in ogni suo aspetto, “più umana”? La rende più “degna dell’uomo”? Non ci può essere dubbio che, sotto vari aspetti, la renda tale. Quest’interrogativo, però, ritorna ostinatamente per quanto riguarda ciò che è essenziale in sommo grado: se l’uomo, come uomo, nel contesto di questo progresso, diventi veramente migliore, cioè più maturo spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e più deboli, più disponibile a dare e portare aiuto a tutti.

          Questa è la domanda che i cristiani debbono porsi, proprio perché Gesù Cristo li ha così universalmente sensibilizzati intorno al problema dell’uomo. E la stessa domanda debbono anche porsi tutti gli uomini, specialmente coloro che appartengono a quegli ambienti sociali, che si dedicano attivamente allo sviluppo ed al progresso nei nostri tempi. Osservando questi processi ed avendo parte in essi, non possiamo lasciarci prendere dall’euforia, né possiamo lasciarci trasportare da un unilaterale entusiasmo per le nostre conquiste, ma tutti dobbiamo porci, con assoluta lealtà, con obiettività e con senso di responsabilità morale, le domande essenziali che riguardano la situazione dell’uomo, oggi e nel futuro. Tutte le conquiste finora raggiunte, e quelle progettate dalla tecnica per il futuro, vanno d’accordo col progresso morale e spirituale dell’uomo? In questo contesto l’uomo, in quanto uomo, si sviluppa e progredisce, oppure regredisce e si degrada nella sua umanità? Prevale negli uomini, “nel mondo dell’uomo” – che in se stesso è un mondo di bene e di male morale – il bene sul male? Crescono davvero negli uomini, fra gli uomini, l’amore sociale, il rispetto dei diritti altrui – per ogni uomo, nazione, popolo – o, al contrario, crescono gli egoismi di varie dimensioni, i nazionalismi esagerati, al posto dell’autentico amore di patria, ed anche la tendenza a dominare gli altri al di là dei propri legittimi diritti e meriti, e la tendenza a sfruttare tutto il progresso materiale e tecnico-produttivo esclusivamente allo scopo di dominare sugli altri o in favore di tale o tal altro imperialismo?

          Ecco gli interrogativi essenziali, che la Chiesa non può non porsi, perché in modo più o meno esplicito se li pongono miliardi di uomini che vivono oggi nel mondo. Il tema dello sviluppo e del progresso è sulla bocca di tutti ed appare sulle colonne di tutti i giornali e pubblicazioni, in quasi tutte le lingue del mondo contemporaneo. Non dimentichiamo, però, che questo tema non contiene soltanto affermazioni e certezze, ma anche domande e angosciose inquietudini. Queste ultime non sono meno importanti delle prime. Esse rispondono alla natura della conoscenza umana, ed ancor più rispondono al bisogno fondamentale della sollecitudine dell’uomo per l’uomo, per la stessa sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra. La Chiesa, che è animata dalla fede escatologica, considera questa sollecitudine per l’uomo, per la sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra e, quindi, anche per l’orientamento di tutto lo sviluppo e del progresso, come un elemento essenziale della sua missione, indissolubilmente congiunto con essa. Ed il principio di questa sollecitudine essa lo trova in Gesù Cristo stesso, come testimoniano i Vangeli. Ed è per questo che desidera accrescerla continuamente in lui, rileggendo la situazione dell’uomo nel mondo contemporaneo, secondo i più importanti segni del nostro tempo.

  Progresso o minaccia?


16     Se, dunque, il nostro tempo, il tempo della nostra generazione, il tempo che si sta avvicinando alla fine del secondo Millennio della nostra era cristiana, si rivela a noi come tempo di grande progresso, esso appare, altresì, come tempo di multiforme minaccia per l’uomo, della quale la Chiesa deve parlare a tutti gli uomini di buona volontà, ed intorno alla quale deve sempre dialogare con loro. La situazione dell’uomo nel mondo contemporaneo, infatti, sembra lontana dalle esigenze oggettive dell’ordine morale, come dalle esigenze della giustizia e, ancora più, dell’amore sociale. Non si tratta qui che di ciò che ha trovato la sua espressione nel primo messaggio del Creatore, rivolto all’uomo nel momento in cui gli dava la terra, perché la “soggiogasse” (Gn 1,28); (cf. Inter Mirifica IM 6, AAS 56 [1964] 147; Gaudium et Spes GS 74 GS 78, AAS GS 58 [1966] 1095ss.; 1101ss.). Questo primo messaggio è stato riconfermato, nel mistero della Redenzione, da Cristo Signore. Ciò è espresso dal Concilio Vaticano II in quei bellissimi capitoli del suo insegnamento che riguardano la “regalità” dell’uomo, cioè la sua vocazione a partecipare all’ufficio regale di Cristo stesso (cf. Lumen Gentium LG 10 LG 36, AAS 57 [1965] 14ss.; 41ss.). Il senso essenziale di questa “regalità” e di questo “dominio” dell’uomo sul mondo visibile, a lui assegnato come compito dallo stesso creatore, consiste nella priorità dell’etica sulla tecnica, nel primato della persona sulle cose, nella superiorità dello spirito sulla materia.

          È per questo che bisogna seguire attentamente tutte le fasi del progresso odierno: bisogna, per così dire, fare la radiografia delle sue singole tappe proprio da questo punto di vista. Si tratta dello sviluppo delle persone e non soltanto della moltiplicazione delle cose, delle quali le persone possono servirsi. Si tratta – come ha detto un filosofo contemporaneo e come ha affermato il Concilio – non tanto di “avere di più”, quanto di “essere di più” (cf. Gaudium et Spes GS 35, AAS 58 [1966] 1053; Paolo VI, Allocutio ad Viros e Legatorum Coetu apud Sedem Apostolicam, 7 gennaio 1965: AAS 57 [1965] 232; Paolo VI, Populorum Progressio PP 14, AAS 59 [1967] 264). Infatti, esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale. L’uomo non può rinunciare a se stesso, né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico condanna l’uomo a tale schiavitù, pur se talvolta, indubbiamente, ciò avvenga contro le intenzioni e le premesse stesse dei suoi pionieri. Alle radici dell’attuale sollecitudine per l’uomo sta senz’altro questo problema. Non si tratta qui soltanto di dare una risposta astratta alla domanda: chi è l’uomo; ma si tratta di tutto il dinamismo della vita e della civiltà. Si tratta del senso delle varie iniziative della vita quotidiana e, nello stesso tempo, delle premesse per numerosi programmi di civilizzazione, programmi politici, economici, sociali, statali e molti altri.

          Se osiamo definire la situazione dell’uomo nel mondo contemporaneo come lontana dalle esigenze oggettive dell’ordine morale, lontana dalle esigenze della giustizia e, ancor più, dall’amore sociale, è perché ciò viene confermato dai ben noti fatti e dai raffronti, che più volte hanno già avuto diretta risonanza sulle pagine delle enunciazioni pontificie, conciliari, sinodali (cf Pio XII, Nuntius radiophonicus, quinquagesimo exacto anno a Litteris Encyclicis “Rerum Novarum” a Leone PP. XIII datis, 1 giugno 1941: AAS 33 [1941] 195-205; Nuntius radiophonicus in pervigilio Nativitatis D. N. Iesu Christi universo orbi datus, 24 dicembre 1941: AAS 34 [1942] 10-21; Nuntius radiophonicus in pervigilio Nativitatis D. N. Iesu Christi universo orbi datus, 24 dicembre 1942: AAS 35 [1943] 9-24; Nuntius radiophonicus in pervigilio Nativitatis D. N. Iesu Christi universo orbi datus, 24 dicembre 1943: AAS 36 [1944] 11-24; Nuntius radiophonicus in pervigilio Nativitatis D. N. Iesu Christi universo orbi datus, 24 dicembre 1944: AAS 37 [1945] 10-23; Sermo, astantibus PP. Cardinalibus, habitus, 24 dicembre 1945: AAS 38 [1946] 15-25; Allocutio, astantibus PP. Cardinalibus, habita, 24 dicembre 1946: AAS 39 [1947] 7-17; Nuntius radiophonicus in pervigilio Nativitatis D. N. Iesu Christi universo orbi datus, 24 dicembre 1947: AAS 40 [1948] 8-16; Giovanni XXIII, Mater et Magistra, AAS 53 [1961] 401-464; Pacem in Terris, AAS 55 [1963] 257-304; Paolo VI, Ecclesiam Suam: AAS 56 [1964] 609-659; Allocutio in Consilium Nationum Unitarum habita, 4 ottobre 1965: AAS 57 [1965] 877-885; Populorum Progressio, AAS 59 [1967] 257-299; Allocutio ad Columbianos agri cultores v. d. “campesinos” habita, 23 agosto 1968: AAS 60 [1968] 619-623; Allocutio ad Praesules ex Americae Latinae regionibus habita, 24 agosto 1968: AAS 60 [1968] 639-649; Allocutio Romae habita ad Consilium v. d. “Food and Agriculture Organization” [FAO], 16 novembre 1970: AAS 62 [1970] 830-838; Octogesima Adveniens: AAS 63 [1971] 401-441; Allocutio ad Sacri Collegii Patres habita, 23 giugno 1972: AAS 64 [1972] 496-505; Giovanni Paolo II, Allocutio ad III Coetum Generalem Episcoporum Americae Latinae, 28 gennaio 1979: AAS 71 [1979] 187ss.; Allocutio ad “Indios”, quos vulgari lingua appellant, in pago Cuilapan prope urbem Oaxacam, 29 gennaio 1979: AAS 71 [1979] 207ss.; Allocutio ad operarios in urbe Guadalajara habita, 30 gennaio 1979: AAS 71 [1979] 221ss.; Allocutio ad operarios in urbe Monterreyensi habita, 31 gennaio 1979: AAS 71 [1979] 240ss.; Dignitatis Humanae, AAS 58 [1966] 929-941; Gaudium et Spes, AAS 58 [1966] 1025-1115; Documenta Synodi Episcoporum, “De iustitia in mundo”: AAS 63 [1971] 923-941). La situazione dell’uomo nella nostra epoca non è certamente uniforme, ma differenziata in modo molteplice. Queste differenze hanno le loro cause storiche, ma hanno anche una loro forte risonanza etica. È, infatti, ben noto il quadro della civiltà consumistica, che consiste in un certo eccesso dei beni necessari all’uomo o alle società intere – e qui si tratta proprio delle società ricche e molto sviluppate –, mentre le rimanenti società, almeno larghi strati di esse, soffrono la fame, e molte persone muoiono ogni giorno di denutrizione e di inedia. Di pari passo va per gli uni un certo abuso della libertà, che è legato proprio ad un atteggiamento consumistico non controllato dall’etica, ed esso limita contemporaneamente la libertà degli altri, cioè di coloro che soffrono rilevanti deficienze e vengono spinti verso condizioni di ulteriore miseria ed indigenza.

          Questo raffronto, universalmente noto, e il contrasto al quale si sono richiamati, nei documenti del loro magistero, i Pontefici del nostro secolo, più recentemente Giovanni XXIII come anche Paolo VI (cf. Giovanni XXIII, Mater et Magistra, AAS 53 [1961] 418ss.; Giovanni XXIII, Pacem in Terris, AAS 55 [1963] 289ss.; Paolo VI, Populorum Progressio, AAS 59 [1967] 257-299), rappresentano come il gigantesco sviluppo della parabola biblica del ricco epulone e del povero Lazzaro (cf. Lc 16,19-31). L’ampiezza del fenomeno chiama in causa le strutture e i meccanismi finanziari, monetari, produttivi e commerciali, che, poggiando su diverse pressioni politiche, reggono l’economia mondiale: essi si rivelano quasi incapaci sia di riassorbire le ingiuste situazioni sociali, ereditate dal passato, sia di far fronte alle urgenti sfide ed alle esigenze etiche del presente. Sottoponendo l’uomo alle tensioni da lui stesso create, dilapidando ad un ritmo accelerato le risorse materiali ed energetiche, compromettendo l’ambiente geofisico, queste strutture fanno estendere incessantemente le zone di miseria e, con questa, l’angoscia, la frustrazione e l’amarezza (Giovanni Paolo II, Homilia habita Dominicopoli, n. 3, 25 gennaio 1979: AAS 71 [1979] 157ss.: Allocutio ad “Indios”, quos v. d., prope urbem Oaxacam, n. 2, 29 gennaio 1979: AAS 71 [1979] 207ss.; Allocutio ad operarios in urbe Monterreyensi habita, n. 4, 31 gennaio 1979: AAS 71 [1979] 241ss.).

          Ci troviamo qui dinanzi ad un grande dramma, che non può lasciare nessuno indifferente. Il soggetto che, da una parte, cerca di trarre il massimo profitto e quello che, dall’altra parte, paga il tributo dei danni e delle ingiurie, è sempre l’uomo. Il dramma viene ancor più esasperato dalla vicinanza con gli strati sociali privilegiati e con i paesi dell’opulenza, che accumulando i beni in grado eccessivo e la cui ricchezza diventa, molto spesso per abuso, causa di diversi malesseri. Si aggiungano la febbre dell’inflazione e la piaga della disoccupazione: ecco altri sintomi di questo disordine morale, che si fa notare nella situazione mondiale e che richiede, pertanto, risoluzioni audaci e creative, conformi all’autentica dignità dell’uomo (cf. Paolo VI, Octogesima Adveniens, 42: AAS 63 [1971] 431).

          Un tal compito non è impossibile da realizzare. Il principio di solidarietà, in senso largo, deve ispirare la ricerca efficace di istituzioni e di meccanismi appropriati – si tratti del settore degli scambi, dove bisogna lasciarsi guidare dalle leggi di una sana competizione, e si tratti anche del piano di una più ampia e più immediata ridistribuzione delle ricchezze e dei controlli su di esse – affinché i popoli che sono in via di sviluppo economico possano non soltanto appagare le loro esigenze essenziali, ma anche progredire gradualmente ed efficacemente.

          Su questa difficile strada – sulla strada dell’indispensabile trasformazione delle strutture della vita economica – non sarà facile avanzare se non interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del cuore. Il compito richiede l’impegno risoluto di uomini e di popoli liberi e solidali. Troppo spesso si confonde la libertà con l’istinto dell’interesse individuale o collettivo o, ancora, con l’istinto di lotta e di dominio, qualunque siano i colori ideologici con cui essi sono dipinti. È ovvio che tali istinti esistono ed operano, ma non sarà possibile alcuna economia veramente umana, se essi non vengono assunti, orientati e dominati dalle forze più profonde, che si trovano nell’uomo e che decidono della vera cultura dei popoli. Proprio da queste sorgenti deve nascere lo sforzo, in cui si esprimerà la vera libertà dell’uomo, e che sarà capace di assicurarla anche in campo economico. Lo sviluppo economico, con tutto ciò che fa parte del suo adeguato modo di funzionare, deve essere costantemente programmato e realizzato all’interno di una prospettiva di sviluppo universale e solidale dei singoli uomini e dei popoli, come ricordava in modo convincente il mio Predecessore Paolo VI nella Populorum Progressio.Senza di ciò, la sola categoria del “progresso economico” diventa una categoria superiore che subordina l’insieme dell’esistenza umana alle sue esigenze parziali, soffoca l’uomo, disgrega le società e finisce per avvilupparsi nelle proprie tensioni e negli stessi suoi eccessi.

          È possibile assumere questo dovere: lo testimoniano i fatti certi ed i risultati, che è difficile qui enumerare analiticamente. Una cosa, però, è certa: alla base di questo gigantesco campo bisogna stabilire, accettare ed approfondire il senso della responsabilità morale, che l’uomo deve far suo. Ancora e sempre: l’uomo. Per noi cristiani una tale responsabilità diventa particolarmente evidente, quando ricordiamo – e dobbiamo ricordare – la scena del giudizio finale, secondo le parole di Cristo riportate nel Vangelo di Matteo (cf. Mt 25,31-46).

          Questa scena escatologica dev’essere sempre “applicata” alla storia dell’uomo, dev’essere sempre fatta “metro” degli atti umani, come uno schema essenziale di un esame di coscienza per ciascuno e per tutti: “Ho avuto fame, e non mi avete dato da mangiare...; ero nudo e non mi avete vestito...; ero in carcere, e non mi avete visitato” (Mt 25,42-43). Queste parole acquistano una maggiore carica ammonitrice, se pensiamo che, invece del pane e dell’aiuto culturale ai nuovi stati e nazioni che si stanno destando alla vita indipendente, vengono offerti, talvolta in abbondanza, armi moderne e mezzi di distruzione, posti a servizio di conflitti armati e di guerre, che non sono tanto un’esigenza della difesa dei loro giusti diritti e della loro sovranità, quanto piuttosto una forma di sciovinismo, di imperialismo, di neocolonialismo di vario genere. Tutti sappiamo bene che le zone di miseria e di fame, che esistono sul nostro globo, avrebbero potuto essere “fertilizzate” in breve tempo, se i giganteschi investimenti per gli armamenti, che servono alla guerra e alla distruzione, fossero stati invece cambiati in investimenti per il nutrimento, che servono alla vita.

          Forse questa considerazione rimarrà parzialmente astratta; forse offrirà l’occasione all’una e all’altra “parte” per accusarsi reciprocamente, dimenticando ognuna le proprie colpe. Forse provocherà anche nuove accuse contro la Chiesa. Questa, però, non disponendo di altre armi che di quelle dello spirito, della parola e dell’amore, non può rinunciare ad annunziare “la parola... in ogni occasione opportuna e non opportuna” (2Tm 4,2). Per questo, non cessa di pregare ciascuna delle due parti, e di chiedere a tutti nel nome di Dio e nel nome dell’uomo: “Non uccidete! Non preparate agli uomini distruzioni e sterminio! Pensate ai vostri fratelli che soffrono fame e miseria! Rispettate la dignità e la libertà di ciascuno!”.


Redemptor hominis 10