Redemptor hominis 21

  Vocazione cristiana: servire e regnare


21     Il Concilio Vaticano II, costruendo dalle stesse fondamenta l’immagine della Chiesa come Popolo di Dio – mediante l’indicazione della triplice missione di Cristo stesso, partecipando alla quale noi diventiamo veramente Popolo di Dio – ha messo in rilievo anche questa caratteristica della vocazione cristiana, che si può definire “regale”. Per presentare tutta la ricchezza della dottrina conciliare, bisognerebbe far qui riferimento a numerosi capitoli e paragrafi della Costituzione Lumen Gentium ed ancora a molti altri documenti conciliari. In mezzo a tutta questa ricchezza, un elemento sembra però emergere; la partecipazione alla missione regale di Cristo, cioè il fatto di riscoprire in sé e negli altri quella particolare dignità della nostra vocazione, che si può definire “regalità”. Questa dignità si esprime nella disponibilità a servire, secondo l’esempio di Cristo, che “non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28). Se dunque alla luce di questo atteggiamento di Cristo si può veramente “regnare” soltanto “servendo”, in pari tempo il “servire” esige una tale maturità spirituale che bisogna proprio definirlo un “regnare”. Per poter degnamente ed efficacemente servire gli altri, bisogna saper dominare se stessi, bisogna possedere le virtù che rendono possibile questo dominio. La nostra partecipazione alla missione regale di Cristo – proprio al suo “ufficio regale” – è strettamente legata ad ogni sfera della morale, cristiana ed insieme umana.

          Il Concilio Vaticano II, presentando il quadro completo del Popolo di Dio, ricordando quale posto abbiano in esso non soltanto i sacerdoti, ma anche i laici, non soltanto i rappresentanti della Gerarchia, ma anche quelle e quelli degli Istituti di vita consacrata, non ha dedotto questa immagine solo da una premessa sociologica. La Chiesa, come società umana, può senz’altro essere anche esaminata e definita secondo le categorie, di cui si servono le scienze nei confronti di qualsiasi società umana. Ma queste categorie non sono sufficienti. Per tutta la comunità del Popolo di Dio e per ciascuno dei suoi membri, non si tratta soltanto di una specifica “appartenenza sociale”, ma piuttosto è essenziale, per ciascuno e per tutti, una particolare “vocazione”. La Chiesa, infatti, come Popolo di Dio – secondo l’insegnamento sopra citato di San Paolo e ricordato in modo mirabile da Pio XII – è anche “Corpo mistico di Cristo” (Pio XII, Mystici corporis: AAS 35 [1943] 193-248). L’appartenenza ad esso deriva da una chiamata particolare, unita all’azione salvifica della grazia. Se quindi vogliamo aver presente questa comunità del Popolo di Dio, così vasta ed estremamente differenziata, dobbiamo anzitutto vedere Cristo, che dice in un certo modo a ciascun membro di questa comunità: “Seguimi” (Jn 1,43). Questa è la comunità dei discepoli, ciascuno dei quali, in modo diverso, talvolta molto cosciente e coerente, talvolta poco consapevole e molto incoerente, segue Cristo. In questo si manifestano anche il profilo profondamente “personale” e la dimensione di questa società, la quale – nonostante tutte le deficienze della vita comunitaria, nel senso umano di questa parola – è una comunità proprio per il fatto che tutti la costituiscono insieme con Cristo stesso, se non altro perché portano nella loro anima il segno indelebile di chi è cristiano.

          Il medesimo Concilio Vaticano II ha usato un’attenzione del tutto particolare, per dimostrare in quale modo questa comunità ontologica dei discepoli e dei confessori debba diventare sempre più, anche “umanamente”, una comunità cosciente della propria vita ed attività. Le iniziative del Concilio in questo campo hanno trovato la loro continuità nelle numerose e ulteriori iniziative di carattere sinodale, apostolico e organizzativo. Dobbiamo, però, tener sempre presente la verità che ogni iniziativa in tanto serve al vero rinnovamento della Chiesa, e in tanto contribuisce ad apportare l’autentica “Luce che è Cristo” (cf. Lumen Gentium LG 1, AAS 57 [1965] 5), in quanto si basa sulla adeguata consapevolezza della vocazione e della responsabilità per questa grazia singolare, unica e irripetibile, mediante la quale ogni cristiano nella comunità del Popolo di Dio costruisce il Corpo di Cristo. Questo principio, che è la regola-chiave di tutta la prassi cristiana – prassi apostolica e pastorale, prassi della vita interiore e di quella sociale – deve essere applicato, in giusta proporzione, a tutti gli uomini e a ciascuno di essi. Anche il Papa, come pure ogni Vescovo, deve applicarlo a sé. A questo principio debbono essere fedeli i sacerdoti, i religiosi e le religiose. In base ad esso debbono costruire la loro vita gli sposi, i genitori, le donne e gli uomini di condizione e di professione diverse, iniziando da coloro che occupano nella società le più alte cariche e finendo con coloro che svolgono i lavori più semplici. Questo è appunto il principio di quel “servizio regale”, che impone a ciascuno di noi, seguendo l’esempio di Cristo, il dovere di esigere da se stessi esattamente quello a cui siamo chiamati, a cui – per rispondere alla vocazione – ci siamo personalmente obbligati, con la grazia di Dio. Tale fedeltà alla vocazione ottenuta da Dio, mediante Cristo, porta con sé quella solidale responsabilità per la Chiesa, alla quale il Concilio Vaticano II vuole educare tutti i cristiani. Nella Chiesa, infatti, come nella comunità del Popolo di Dio guidata dallo Spirito Santo, “ciascuno ha il proprio dono”, come insegna San Paolo (1Co 7,7 cf. 1Co 12,7 1Co 12,27 Rm 12,6 Ep 4,7). Questo “dono”, pur essendo una personale vocazione ed una forma di partecipazione all’opera salvifica della Chiesa, serve parimenti agli altri, costruisce la Chiesa e le comunità fraterne nelle varie sfere dell’esistenza umana sulla terra.

          La fedeltà alla vocazione – cioè la perseverante disponibilità al “servizio regale” – ha un particolare significato per questa molteplice costruzione, soprattutto per ciò che riguarda i compiti più impegnativi, che hanno maggiore influenza sulla vita del nostro prossimo e di tutta la società. Per la fedeltà alla propria vocazione debbono distinguersi gli sposi, come esige la natura indissolubile dell’istituzione sacramentale del matrimonio. Per una simile fedeltà alla propria vocazione debbono distinguersi i sacerdoti, atteso il carattere indelebile che il sacramento dell’Ordine imprime nelle loro anime. Ricevendo questo sacramento, noi nella Chiesa Latina ci impegniamo consapevolmente e liberamente a vivere nel celibato, e perciò ognuno di noi deve far tutto il possibile, con la grazia di Dio, per essere riconoscente per questo dono e fedele al vincolo accettato per sempre. Ciò non diversamente dagli sposi, che debbono con tutte le loro forze tendere a perseverare nell’unione matrimoniale, costruendo con questa testimonianza d’amore la comunità familiare ed educando nuove generazioni di uomini, capaci di consacrare anch’essi tutta la loro vita alla propria vocazione, cioè a quel “servizio regale” di cui l’esempio e il più bel modello ci sono offerti da Gesù Cristo. La sua Chiesa, che noi tutti formiamo, è “per gli uomini” nel senso che, basandoci sull’esempio di Cristo (cf. Lumen Gentium LG 36, AAS 57 [1965] 41ss.) e collaborando con la grazia che egli ci ha guadagnato, possiamo raggiungere quel “regnare”, e cioè realizzare una matura umanità in ciascuno di noi. Umanità matura significa pieno uso del dono della libertà, che abbiamo ottenuto dal Creatore, nel momento in cui egli ha chiamato all’esistenza l’uomo fatto “a sua immagine e somiglianza”. Questo dono trova la sua piena realizzazione nella donazione, senza riserve, di tutta la propria persona umana, in spirito di amore sponsale al Cristo e, con Cristo, a tutti coloro, ai quali egli invia uomini o donne, che a lui sono totalmente consacrati secondo i consigli evangelici. Ecco l’ideale della vita religiosa, assunto dagli Ordini e Congregazioni, sia antichi che recenti, e dagli Istituti secolari.

          Ai nostri tempi, si ritiene talvolta, erroneamente, che la libertà sia fine a se stessa, che ogni uomo sia libero quando ne usa come vuole, che a questo sia necessario tendere nella vita degli individui e delle società. La libertà, invece, è un grande dono soltanto quando sappiamo consapevolmente usarla per tutto ciò che è il vero bene. Cristo c’insegna che il miglior uso della libertà è la carità, che si realizza nel dono e nel servizio. Per tale “libertà Cristo ci ha liberati” (Ga 5,1 cf. Ga 5,13) e ci libera sempre. La Chiesa attinge qui l’incessante ispirazione, l’invito e l’impulso alla sua missione ed al suo servizio fra tutti gli uomini. La piena verità sulla libertà umana è profondamente incisa nel mistero della Redenzione. La Chiesa serve veramente l’umanità, quando tutela questa verità con instancabile attenzione, con amore fervente, con impegno maturo, e quando, in tutta la propria comunità, mediante la fedeltà alla vocazione di ciascun cristiano, la trasmette e la concretizza nella vita umana. In questo modo viene confermato ciò a cui abbiam fatto riferimento già in precedenza, e cioè che l’uomo è e diventa sempre la “via” della vita quotidiana della Chiesa.

  La Madre della nostra fiducia


22     Quando dunque all’inizio del nuovo pontificato rivolgo al Redentore dell’uomo il mio pensiero e il mio cuore, desidero in questo modo entrare e penetrare nel ritmo più profondo della vita della Chiesa. Se, infatti, la Chiesa vive la sua propria vita, ciò avviene perché la attinge da Cristo, il quale vuole sempre una cosa sola, cioè che abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza (cf. Jn 10,10). Questa pienezza di vita, che è in lui, è contemporaneamente per l’uomo. Perciò la Chiesa, unendosi a tutta la ricchezza del mistero della Redenzione, diventa Chiesa degli uomini viventi, viventi perché vivificati dall’interno per opera dello “Spirito di verità” (Jn 16,13), perché visitati dall’amore che lo Spirito Santo infonde nei nostri cuori (cf. Rm 5,5). Lo scopo di qualsiasi servizio nella Chiesa, sia esso apostolico, pastorale, sacerdotale, episcopale, è di mantenere questo legame dinamico del mistero della Redenzione con ogni uomo.

          Se siamo coscienti di questo compito, allora ci sembra di comprender meglio che cosa significhi dire che la Chiesa è madre (cf. Lumen Gentium LG 63-64, AAS 57 [1965] 64), ed ancora che cosa significhi che la Chiesa sempre, e particolarmente nei nostri tempi, ha bisogno di una Madre. Dobbiamo una speciale gratitudine ai Padri del Concilio Vaticano II, che hanno espresso questa verità nella Costituzione Lumen Gentium con la ricca dottrina mariologica in essa contenuta (cf. LG 52-69: loc. cit., 58-67). Poiché Paolo VI, ispirato da questa dottrina, ha proclamato la Madre di Cristo “Madre della Chiesa” (Paolo VI, Allocutio in Vaticana Basilica habita, tertia exacta Oecum. Concilii Vaticani II Sessione, 21 novembre 1964: AAS 56 [1964] 1015), e tale denominazione ha trovato una vasta risonanza, sia lecito anche al suo indegno Successore di rivolgersi a Maria, come Madre della Chiesa, alla fine delle presenti considerazioni, che era opportuno svolgere all’inizio del servizio pontificale. Maria è Madre della Chiesa, perché, in virtù dell’ineffabile elezione dello stesso eterno Padre (cf. Lumen Gentium LG 56, AAS 57 [1965] 60) e sotto la particolare azione dello Spirito d’amore (LG 56), ella ha dato la vita umana al Figlio di Dio, “per il quale e dal quale son tutte le cose” (He 2,10) e da cui tutto il Popolo di Dio assume la grazia e la dignità dell’elezione. Il suo proprio Figlio volle esplicitamente estendere la maternità di sua Madre – ed estenderla in modo facilmente accessibile a tutte le anime e ai cuori – additandoLe dall’alto della croce il suo discepolo prediletto come figlio (cf. Jn 19,26). Lo Spirito Santo Le suggerì di rimanere anche Lei, dopo l’Ascensione di nostro Signore, nel Cenacolo raccolta nella preghiera e nell’attesa, insieme con gli Apostoli fino al giorno della Pentecoste, in cui doveva visibilmente nascere la Chiesa, uscendo dall’oscurità (cf. Ac 1,14 Ac 2). E in seguito tutte le generazioni dei discepoli e quanti confessano ed amano Cristo – così come l’apostolo Giovanni – accolsero spiritualmente nella loro casa (cf. Jn 19,27) questa Madre, la quale in tal modo, sin dagli inizi stessi, cioè dal momento dell’annunciazione, è stata inserita nella storia della salvezza e nella missione della Chiesa. Noi tutti quindi, che formiamo la generazione odierna dei discepoli di Cristo, desideriamo unirci a Lei in modo particolare. Lo facciamo con tutto l’attaccamento alla tradizione antica e, in pari tempo, con pieno rispetto e amore per i membri di tutte le Comunità cristiane.

          Lo facciamo spinti dalla profonda necessità della fede, della speranza e della carità. Se, infatti, in questa difficile e responsabile fase della storia della Chiesa e dell’umanità avvertiamo uno speciale bisogno di rivolgerci a Cristo, che è Signore della sua Chiesa e Signore della storia dell’uomo in forza del mistero della Redenzione, noi crediamo che nessun altro sappia introdurci come Maria nella dimensione divina e umana di questo mistero. Nessuno come Maria è stato introdotto in esso da Dio stesso. In questo consiste l’eccezionale carattere della grazia della maternità divina. Non soltanto unica e irripetibile è la dignità di questa maternità nella storia del genere umano, ma unica anche per profondità e raggio d’azione è la partecipazione di Maria, in ragione della medesima maternità, al divino disegno della salvezza dell’uomo, attraverso il mistero della Redenzione,

          Questo mistero si è formato, possiamo dire, sotto il cuore della Vergine di Nazaret, quando ha pronunciato il suo “sì”. Da quel momento questo cuore verginale e insieme materno, sotto la particolare azione dello Spirito Santo, segue sempre l’opera del suo Figlio e va verso tutti coloro, che Cristo ha abbracciato e abbraccia continuamente nel suo inesauribile amore. E, perciò, questo cuore deve essere anche maternamente inesauribile. La caratteristica di questo amore materno, che la Madre di Dio immette nel mistero della Redenzione e nella vita della Chiesa, trova la sua espressione nella sua singolare vicinanza all’uomo ed a tutte le sue vicende. In questo consiste il mistero della Madre. La Chiesa, che La guarda con amore e speranza tutta particolare, desidera appropriarsi di questo mistero in maniera sempre più profonda. In ciò, infatti, la Chiesa riconosce anche la via della sua vita quotidiana, che è in ogni uomo.

          L’eterno amore del Padre, manifestatosi nella storia dell’umanità attraverso il Figlio che il Padre diede “perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Jn 3,16), un tale amore si avvicina ad ognuno di noi per mezzo di questa Madre ed acquista in tal modo segni più comprensibili ed accessibili a ciascun uomo. Di conseguenza, Maria deve trovarsi su tutte le vie della vita quotidiana della Chiesa. Mediante la sua materna presenza, la Chiesa prende certezza che vive veramente la vita del suo Maestro e Signore, che vive il mistero della Redenzione in tutta la sua vivificante profondità e pienezza. Parimenti la stessa Chiesa, che ha le sue radici in numerosi e svariati campi della vita di tutta l’umanità contemporanea, acquista anche la certezza e, si direbbe, l’esperienza di essere vicina all’uomo, ad ogni uomo, di essere la “sua” Chiesa: Chiesa del Popolo di Dio.

          Di fronte a tali compiti, che sorgono lungo le vie della Chiesa, lungo quelle vie, che il Papa Paolo VI ci ha chiaramente indicato nella prima Enciclica del suo Pontificato, noi, consapevoli dell’assoluta necessità di tutte queste vie e, nello stesso tempo, delle difficoltà che su esse si accumulano. tanto più sentiamo il bisogno di un profondo legame con Cristo. Risuonano in noi, come un’eco sonora, le parole che Egli disse: “Senza di me non potete far nulla” (Jn 15,5). Non solo sentiamo il bisogno, ma addirittura l’imperativo categorico per una grande, intensa, crescente preghiera di tutta la Chiesa. Solamente la preghiera può far sì che tutti questi grandi compiti e difficoltà che si susseguono non diventino fonte di crisi, ma occasione e quasi fondamento di conquiste sempre più mature sul cammino del Popolo di Dio verso la Terra Promessa, in questa tappa della storia che ci sta avvicinando alla fine del secondo Millennio. Pertanto, terminando questa meditazione con un caloroso ed umile invito alla preghiera, desidero che si perseveri in questa preghiera uniti con Maria, Madre di Gesù (cf. Ac 1,14), così come perseverarono gli Apostoli e i discepoli del Signore, dopo la sua Ascensione, nel Cenacolo di Gerusalemme (Ac 1,13). Supplico soprattutto Maria, la celeste Madre della Chiesa, affinché si degni in questa preghiera del nuovo Avvento dell’umanità di perseverare con noi, che formiamo la Chiesa, cioè il Corpo mistico del suo Figlio unigenito. Io spero che, grazie a tale preghiera, potremo ricevere lo Spirito Santo che scende su di noi (Ac 1,8) e divenire in questo modo testimoni di Cristo “fino agli estremi confini della terra” (Ac 1,8), come coloro che uscirono dal Cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste. Con la mia Benedizione Apostolica.

Roma, presso San Pietro, 4 marzo, prima domenica di Quaresima, dell’anno 1979, primo di Pontificato.

 

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