Redemptoris Missio 51

Le "comunità ecclesiali di base" forza di evangelizzazione

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51. Un fenomeno in rapida crescita nelle giovani Chiese, promosso dai vescovi e dalle loro Conferenze a volte come scelta prioritaria della pastorale, sono le comunità ecclesiali di base (conosciute anche con altri nomi), le quali stanno dando buona prova come centri di formazione cristiana e di irradiazione missionaria. Si tratta di gruppi di cristiani a livello familiare o di ambiente ristretto, i quali s'incontrano per la preghiera, la lettura della Scrittura, la catechesi, per la condivisione dei problemi umani ed ecclesiali in vista di un impegno comune. Esse sono un segno di vitalità della Chiesa, strumento di formazione e di evangelizzazione, valido punto di partenza per una nuova società fondata sulla "civiltà dell'amore".

Tali comunità decentrano e articolano la comunità parrocchiale, a cui rimangono sempre unite; si radicano in ambienti popolari e contadini, diventando fermento di vita cristiana, di attenzione per gli ultimi, di impegno per la trasformazione della società. In esse il singolo cristiano fa un'esperienza comunitaria, per cui anch'egli si sente un elemento attivo, stimolato a dare la sua collaborazione all'impegno di tutti. In tal modo esse sono strumento di evangelizzazione e di primo annunzio e fonte di nuovi ministeri, mentre, animate dalla carità di Cristo, offrono anche un'indicazione circa il modo di superare divisioni, tribalismi, razzismi.

Ogni comunità, infatti, per essere cristiana, deve fondarsi e vivere in Cristo, nell'ascolto della Parola di Dio, nella preghiera incentrata sull'eucaristia, nella comunione espressa in unità di cuore e di anima e nella condivisione secondo i bisogni dei suoi membri. Ogni comunità - ricordava Paolo VI - deve vivere in unità con la Chiesa particolare e universale, nella sincera comunione con i pastori e il magistero, impegnandosi nell'irradiazione missionaria ed evitando ogni chiusura e strumentalizzazione ideologica (EN 58). E il Sinodo dei vescovi ha affermato: "Poiché la Chiesa è comunione, le nuove comunità di base, se veramente vivono in unità con la Chiesa, sono una vera espressione di comunione e mezzo per costruire una comunione più profonda. perciò, sono motivo di grande speranza per la vita della Chiesa".


Incarnare il Vangelo nelle culture dei popoli

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52. Svolgendo l'attività missionaria tra le genti, la Chiesa incontra varie culture e viene coinvolta nel processo d'inculturazione. E', questa, un'esigenza che ne ha segnato tutto il cammino storico, ma oggi è particolarmente acuta e urgente. Il processo di inserimento della Chiesa nelle culture dei popoli richiede tempi lunghi: non si tratta di un puro adattamento esteriore, poiché l'inculturazione "significa l'intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l'integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture". E', dunque, un processo profondo e globale che investe sia il messaggio cristiano, sia la riflessione e la prassi della Chiesa.

Ma è pure un processo difficile, perché non deve in alcun modo compromettere la specificità e l'integrità della fede cristiana.

Per l'inculturazione la Chiesa incarna il Vangelo nelle diverse culture e, nello stesso tempo, introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità; trasmette ad esse i propri valori, assumendo ciò che di buono c'è in esse e rinnovandole dall'interno. Da parte sua, con l'inculturazione la Chiesa diventa segno più comprensibile di ciò che è e strumento più atto della missione.

Grazie a questa azione nelle Chiese locali, la stessa Chiesa universale si arricchisce di espressioni e valori nei vari settori della vita cristiana, quali l'evangelizzazione, il culto, la teologia, la carità; conosce ed esprime ancor meglio il mistero di Cristo, mentre viene stimolata a un continuo rinnovamento. Questi temi, presenti nel Concilio e nel magistero successivo, ho ripetutamente affrontato nelle mie visite pastorali alle giovani Chiese.

L'inculturazione è un cammino lento, che accompagna tutta la vita missionaria e chiama in causa i vari operatori della missione "ad gentes", le comunità cristiane man mano che si sviluppano, i pastori che hanno la responsabilità di discernere e stimolare la sua attuazione.

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53. I missionari, provenienti da altre Chiese e Paesi, devono inserirsi nel mondo socio-culturale di coloro ai quali sono mandati, superando i condizionamenti del proprio ambiente d'origine. così devono imparare la lingua della regione in cui lavorano, conoscere le espressioni più significative di quella cultura, scoprendone i valori per diretta esperienza. Soltanto con questa conoscenza essi potranno portare ai popoli in maniera credibile e fruttuosa la conoscenza del mistero nascosto. Per loro non si tratta certo di rinnegare la propria identità culturale, ma di comprendere, apprezzare, promuovere ed evangelizzare quella dell'ambiente in cui operano e, quindi, mettersi in grado di comunicare realmente con esso, assumendo uno stile di vita che sia segno di testimonianza evangelica e di solidarietà con la gente.

Le comunità ecclesiali in formazione, ispirate dal Vangelo, potranno esprimere progressivamente la propria esperienza cristiana in modi e forme originali, consone alle proprie tradizioni culturali, purché sempre in sintonia con le esigenze oggettive della stessa fede. A questo scopo, specie in ordine ai settori di inculturazione più delicati, le Chiese particolari del medesimo territorio dovranno operare in comunione fra di loro e con tutta la Chiesa, convinte che solo l'attenzione sia alla Chiesa universale che alle Chiese particolari le renderà capaci di tradurre il tesoro della fede nella legittima varietà delle sue espressioni. perciò, i gruppi evangelizzati offriranno gli elementi per una "traduzione" del messaggio evangelico, tenendo presenti gli apporti positivi che si sono avuti nei secoli grazie al contatto del cristianesimo con le varie culture, ma senza dimenticare i pericoli di alterazioni che si sono a volte verificati.

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54. In proposito, restano fondamentali alcune indicazioni. L'inculturazione nel suo retto processo dev'essere guidata da due principi: "La compatibilità col Vangelo e la comunione con la Chiesa universale". Custodi del "deposito della fede", i vescovi cureranno la fedeltà e, soprattutto, il discernimento, per il quale occorre un profondo equilibrio: c'è, infatti, il rischio di passare acriticamente da una specie di alienazione della cultura a una supervalutazione di essa, che è un prodotto dell'uomo, quindi è segnata dal peccato. Anch'essa dev'essere "purificata, elevata e perfezionata" (
LG 17).

Un tale processo ha bisogno di gradualità, in modo che sia veramente espressione dell'esperienza cristiana della comunità: "Occorrerà un'incubazione del mistero cristiano nel genio del vostro popolo - diceva Paolo VI a Kampala -, perché la sua voce nativa, più limpida e più franca, si innalzi armoniosa nel coro delle voci della Chiesa universale". Infine, l'inculturazione deve coinvolgere tutto il popolo di Dio, non solo alcuni esperti, poiché è noto che il popolo riflette quel genuino senso della fede che non bisogna mai perdere di vista. Essa va si guidata e stimolata, ma non forzata, per non suscitare reazioni negative nei cristiani: dev'essere espressione di vita comunitaria, cioè maturare in seno alla comunità, e non frutto esclusivo di ricerche erudite. La salvaguardia dei valori tradizionali è effetto di una fede matura.

Il dialogo con i fratelli di altre religioni

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55. Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione "ad gentes", anzi ha speciali legami con essa e ne è un'espressione. Tale missione, infatti, ha per destinatari gli uomini che non conoscono Cristo e il suo Vangelo, e in gran maggioranza appartengono ad altre religioni. Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo "lacune, insufficienze ed errori". Tutto ciò il Concilio e il successivo magistero hanno ampiamente sottolineato, mantenendo sempre fermo che la salvezza viene da Cristo e il dialogo non dispensa dall'evangelizzazione.

Alla luce dell'economia di salvezza, la Chiesa non vede un contrasto fra l'annuncio del Cristo e il dialogo interreligioso; sente, pero, la necessità di comporli nell'ambito della sua missione "ad gentes". Occorre, infatti, che questi due elementi mantengano il loro legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero intercambiabili.

Ho scritto recentemente ai vescovi dell'Asia: "Anche se la Chiesa riconosce volentieri quanto c'è di vero e di santo nelle tradizioni religiose del Buddhismo, dell'Induismo e dell'Islam - riflessi di quella verità che illumina tutti gli uomini -, ciò non diminuisce il suo dovere e la sua determinazione a proclamare senza esitazioni Gesù Cristo, che è "la via, la verità e la vita"... Il fatto che i seguaci di altre religioni possano ricevere la grazia di Dio ed essere salvati da Cristo indipendentemente dai mezzi ordinari che egli ha stabilito, non cancella affatto l'appello alla fede e al battesimo che Dio vuole per tutti i popoli" (23 giugno 1990). Cristo stesso, infatti, "inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo, ha confermato simultaneamente la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano mediante il battesimo come per una porta" (
LG 14). Il dialogo deve essere condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza.

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56. Il dialogo non nasce da tattica o da interesse, ma è un'attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell'uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole. Con esso la Chiesa intende scoprire i "germi del Verbo" (
AGD 11 AGD 15), i "raggi della verità che illumina tutti gli uomini" (NAE 2), germi e raggi che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell'umanità. Il dialogo si fonda sulla speranza e la carità e porterà frutti nello Spirito. Le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la Chiesa: la stimolano, infatti, sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell'azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l'integrità della rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti.

Deriva da qui lo spirito che deve animare tale dialogo nel contesto della missione. L'interlocutore dev'essere coerente con le proprie tradizioni e convinzioni religiose e aperto a comprendere quelle dell'altro, senza dissimulazioni o chiusure, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno. Non ci deve essere nessuna abdicazione né irenismo, ma la testimonianza reciproca per un comune progresso nel cammino di ricerca e di esperienza religiosa e, al tempo stesso, per il superamento di pregiudizi, intolleranze e malintesi. Il dialogo tende alla purificazione e conversione interiore che, se perseguita con docilità allo Spirito, sarà spiritualmente fruttuosa.

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57. Al dialogo si apre un vasto campo, potendo esso assumere molteplici forme ed espressioni: dagli scambi tra esperti delle tradizioni religiose o rappresentanti ufficiali di esse alla collaborazione per lo sviluppo integrale e la salvaguardia dei valori religiosi; dalla comunicazione delle rispettive esperienze spirituali al cosiddetto "dialogo di vita", per cui i credenti delle diverse religioni testimoniano gli uni agli altri nell'esistenza quotidiana i propri valori umani e spirituali e si aiutano a viverli per edificare una società più giusta e fraterna.

Tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo, anche se non nello stesso grado e forma. Per esso è indispensabile l'apporto dei laici, che "con l'esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni" (
CL 35) mentre alcuni di loro potranno pure dare un contributo di ricerca e di studio.

Sapendo che non pochi missionari e comunità cristiane trovano nella via difficile e spesso incompresa del dialogo l'unica maniera di rendere sincera testimonianza a Cristo e generoso servizio all'uomo, desidero incoraggiarli a perseverare con fede e carità, anche là dove i loro sforzi non trovano accoglienza e risposta. Il dialogo è una via verso il regno e darà sicuramente i suoi frutti, anche se tempi e momenti sono riservati al Padre.

Promuovere lo sviluppo educando le coscienze

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58. La missione "ad gentes" si svolge ancor oggi, per gran parte, in quelle regioni del Sud del mondo, dove è più urgente l'azione per lo sviluppo integrale e la liberazione da ogni oppressione. La Chiesa ha sempre saputo suscitare, nelle popolazioni che ha evangelizzato, la spinta verso il progresso, e oggi i missionari più che in passato sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi e esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi.

Nell'enciclica "Sollicitudo Rei Socialis" (
SRS 41) ho affermato che "la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al sottosviluppo in quanto tale", ma "dà il primo contributo alla soluzione dell'urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull'uomo, applicandola a una situazione concreta". La Conferenza dei vescovi latinoamericani a Puebla ha affermato che "il miglior servizio al fratello è l'evangelizzazione, che lo dispone a realizzarsi come figlio di Dio, lo libera dalle ingiustizie e lo promuove integralmente". La missione della Chiesa non è di operare direttamente sul piano economico o tecnico o politico o di dare un contributo materiale allo sviluppo, ma consiste essenzialmente nell'offrire ai popoli non un "avere di più", ma un "essere di più", risvegliando le coscienze col Vangelo. "L'autentico sviluppo umano deve affondare le sue radici in un'evangelizzazione sempre più profonda" (10 ottobre 1989).

La Chiesa e i missionari sono promotori di sviluppo anche con le loro scuole, ospedali, tipografie, università, fattorie agricole sperimentali. Ma lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensi dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. E' l'uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica. La Chiesa educa le coscienze rivelando ai popoli quel Dio che cercano, ma non conoscono, la grandezza dell'uomo creato a immagine di Dio e da lui amato, l'eguaglianza di tutti gli uomini come figli di Dio, il dominio sulla natura creata e posta a servizio dell'uomo, il dovere di impegnarsi per lo sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini.

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59. Col messaggio evangelico la Chiesa offre una forza liberante e fautrice di sviluppo proprio perché porta alla conversione del cuore e della mentalità, fa riconoscere la dignità di ciascuna persona, dispone alla solidarietà, all'impegno, al servizio dei fratelli, inserisce l'uomo nel progetto di Dio, che è la costruzione del regno di pace, di giustizia a partire già da questa vita. E' la prospettiva biblica dei "cieli nuovi e terra nuova", la quale ha inserito nella storia lo stimolo e la meta per l'avanzamento dell'umanità. Lo sviluppo dell'uomo viene da Dio, dal modello di Gesù uomo-Dio, e deve portare a Dio. Ecco perché tra annunzio evangelico e promozione dell'uomo c'è una stretta connessione. Il contributo della Chiesa e della sua opera evangelizzatrice per lo sviluppo dei popoli riguarda non soltanto il Sud del mondo, per combattervi la miseria materiale e il sottosviluppo, ma anche il Nord, che è esposto alla miseria morale e spirituale causata dal "supersviluppo". Certa modernità a-religiosa, dominante in alcune parti del mondo, si basa sull'idea che, per rendere l'uomo più uomo, basti arricchire e perseguire la crescita tecnico-economica. Ma uno sviluppo senza anima non può bastare all'uomo, e l'eccesso di opulenza gli è nocivo come l'eccesso di povertà. Il Nord del mondo ha costruito un tale "modello di sviluppo" e lo diffonde nel Sud, dove il senso di religiosità e i valori umani che vi sono presenti rischiano di esser travolti dall'ondata del consumismo.

"Contro la fame cambia la vita" è il motto nato in ambienti ecclesiali, che indica ai popoli ricchi la via per diventare fratelli dei poveri: bisogna ritornare a una vita più austera che favorisca un nuovo modello di sviluppo, attento ai valori etici e religiosi. L'attività missionaria apporta ai poveri la luce e lo stimolo per il vero sviluppo, mentre la nuova evangelizzazione deve, tra l'altro, creare nei ricchi la coscienza che è venuto il momento di farsi realmente fratelli dei poveri nella comune conversione allo sviluppo integrale, aperto all'Assoluto.


La carità fonte e criterio della missione

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60. "La Chiesa nel mondo intero - dissi durante la mia visita in Brasile (2 luglio 1980) - vuol essere la Chiesa dei poveri. Essa vuol estrarre tutta la verità contenuta nelle Beatitudini e soprattutto nella prima: "Beati i poveri in spirito"... Essa vuole insegnare questa verità e vuol metterla in pratica come Gesù, che venne a fare e ad insegnare". Le giovani Chiese, che per lo più vivono fra popoli afflitti da una povertà assai diffusa, esprimono spesso questa preoccupazione come parte integrante della loro missione. La Conferenza generale dell'episcopato latino-americano a Puebla, dopo aver ricordato l'esempio di Gesù, scrive che "i poveri meritano un'attenzione preferenziale, qualunque sia la condizione morale o personale in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, questa immagine è offuscata e persino oltraggiata.

perciò Dio prende le loro difese e li ama. Ne consegue che i primi destinatari della missione sono i poveri, e la loro evangelizzazione è per eccellenza segno e prova della missione di Gesù".

Fedele allo spirito delle beatitudini, la Chiesa è chiamata alla condivisione con i poveri e gli oppressi di ogni genere. Esorto, perciò, tutti i discepoli di Cristo e le comunità cristiane, dalle famiglie alle diocesi, dalle parrocchie agli istituti religiosi, a fare una sincera revisione della propria vita nel senso della solidarietà con i poveri. Nello stesso tempo, ringrazio i missionari che con la loro presenza amorosa e il loro umile servizio operano per lo sviluppo integrale della persona e della società mediante scuole, centri sanitari, lebbrosari, case di assistenza per handicappati e anziani, iniziative per la promozione della donna e simili. Ringrazio i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i laici per la loro dedizione, mentre incoraggio i volontari di Organizzazioni non governative, oggi sempre più numerosi, che si dedicano a queste opere di carità e di promozione umana.

Sono, infatti, queste opere che testimoniano l'anima di tutta l'attività missionaria: l'amore, che è e resta il movente della missione, ed è anche "l'unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato.

E' il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere.

Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono" (Isaac della Stella, "Sermo 31": PL 194, 1793).



Capitolo VI - Responsabili e operatori della Pastorale missionaria

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61. Non c'è testimonianza senza testimoni, come non c'è missione senza missionari.

Perché collaborino alla sua missione e continuino la sua opera salvifica, Gesù sceglie e invia delle persone come suoi testimoni e apostoli: "Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (
Ac 1,8).

I Dodici sono i primi operatori della missione universale: essi costituiscono un "soggetto collegiale" della missione, essendo stati scelti da Gesù per restare con lui ed essere inviati "alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 10,6). Questa collegialità non impedisce che nel gruppo si distinguano singole figure, come Giacomo, Giovanni e, più di tutti, Pietro, la cui persona ha tanto rilievo da giustificare l'espressione: "Pietro e gli altri apostoli". Grazie a lui si aprono gli orizzonti della missione universale, in cui successivamente eccellerà Paolo, che per volontà divina fu chiamato e inviato tra le genti.

Nell'espansione missionaria delle origini, accanto agli apostoli troviamo altri umili operatori che non si debbono dimenticare: sono persone, gruppi, comunità. Un tipico esempio di Chiesa locale è la comunità di Antiochia, che da evangelizzata si fa evangelizzatrice e invia i suoi missionari alle genti.

La Chiesa primitiva vive la missione come compito comunitario, pur riconoscendo nel suo seno degli "inviati speciali", o "missionari consacrati alle genti", come Paolo e Barnaba.

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62. Quanto fu fatto all'inizio del cristianesimo per la missione universale conserva la sua validità ed urgenza anche oggi. La Chiesa è missionaria per sua natura, poiché il mandato di Cristo non è qualcosa di contingente e di esteriore, ma raggiunge il cuore stesso della Chiesa. Ne deriva che tutta la Chiesa e ciascuna Chiesa è inviata alle genti. Le stesse Chiese più giovani, proprio "perché questo zelo missionario fiorisca nei membri della loro patria", debbono "partecipare quanto prima e di fatto alla missione universale della Chiesa, inviando anch'esse dei missionari a predicare dappertutto nel mondo il Vangelo, anche se soffrono di scarsezza di clero" (
AGD 20). Molte già fanno così, ed io le incoraggio vivamente a continuare.

In questo vincolo essenziale di comunione tra la Chiesa universale e le Chiese particolari si esercita l'autentica e piena missionarietà: "In un mondo che col crollare delle distanze si fa sempre più piccolo, le comunità ecclesiali devono collegarsi fra di loro, scambiarsi energie e mezzi, impegnarsi insieme nell'unica e comune missione di annunziare e vivere il Vangelo... Le Chiese cosiddette giovani... hanno bisogno della forza di quelle antiche, mentre queste hanno bisogno della testimonianza e della spinta delle più giovani, in modo che le singole Chiese attingano dalla ricchezza delle altre Chiese" (CL 35).

I primi responsabili dell'attività missionaria

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63. Come il Signore risorto conferi al collegio apostolico con a capo Pietro il mandato della missione universale, così questa responsabilità incombe innanzitutto sul collegio dei vescovi con a capo il successore di Pietro. Consapevole di questa responsabilità, negli incontri con i vescovi sento il dovere di condividerla in ordine sia alla nuova evangelizzazione che alla missione universale. Mi sono messo in cammino sulle vie del mondo, "per annunciare il Vangelo, per "confermare i fratelli" nella fede, per consolare la Chiesa, per incontrare l'uomo. Sono viaggi di fede... Sono altrettante occasioni di catechesi itinerante, di annuncio evangelico nel prolungamento, a tutte le latitudini, del Vangelo e del magistero apostolico, dilatato alle odierne sfere planetarie" (28 giugno 1980).

I fratelli vescovi sono con me direttamente responsabili dell'evangelizzazione del mondo, sia come membri del collegio episcopale, sia come pastori delle Chiese particolari. In proposito, il Concilio dichiara: "La cura di annunziare in ogni parte della terra il Vangelo appartiene al corpo dei pastori, ai quali in comune Cristo diede il mandato". Esso afferma anche che i vescovi "sono stati consacrati non soltanto per una diocesi, ma per la salvezza di tutto il mondo" (
LG 23 LG 38). Questa responsabilità collegiale ha conseguenze pratiche. Parimenti, "il Sinodo dei vescovi... tra gli affari d'importanza generale deve seguire con particolare sollecitudine l'attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa" (AGD 29).

La stessa responsabilità si riflette, in varia misura, nelle Conferenze episcopali e nei loro organismi a livello continentale, che perciò debbono offrire un proprio contributo all'impegno missionario.

Ampio è pure il dovere missionario di ciascun vescovo, come pastore di una Chiesa particolare. Spetta a lui "come capo e centro unitario dell'apostolato diocesano, promuovere, dirigere e coordinare l'attività missionaria... Provveda anche a che l'attività apostolica non resti limitata ai soli convertiti, ma che una giusta parte di missionari e di sussidi sia destinata all'evangelizzazione dei non cristiani" (AGD 30).

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64. Ogni Chiesa particolare deve aprirsi generosamente alle necessità delle altre.

La collaborazione fra le Chiese, in una reale reciprocità che le rende pronte a dare e a ricevere, è anche fonte di arricchimento per tutte e interessa i vari settori della vita ecclesiale. A questo riguardo, resta esemplare la dichiarazione dei vescovi a Puebla: "Finalmente è giunta l'ora per l'America Latina... di proiettarsi oltre le sue frontiere, "ad gentes". E' certo che noi stessi abbiamo ancora bisogno di missionari, ma dobbiamo dare della nostra povertà".

Con questo spirito invito i vescovi e le Conferenze episcopali ad attuare generosamente quanto è previsto nella Nota direttiva, che la Congregazione per il clero ha emanato per la collaborazione tra le Chiese particolari e, specialmente, per la migliore distribuzione del clero nel mondo.

La missione della Chiesa è più vasta della "comunione fra le Chiese": questa deve essere orientata, oltre che all'aiuto per la rievangelizzazione, anche e soprattutto nel senso della missionarietà specifica. Mi appello a tutte le Chiese, giovani e antiche, perché condividano con me questa preoccupazione, curando l'incremento delle vocazioni missionarie e superando le varie difficoltà.


Missionari e Istituti "ad gentes"

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65. Fra gli operatori della pastorale missionaria occupano tuttora, come in passato, un posto di fondamentale importanza quelle persone e istituzioni, a cui il decreto "Ad Gentes" dedica lo speciale capitolo dal titolo: "I missionari". Al riguardo, s'impone un'approfondita riflessione, anzitutto, per i missionari stessi, che dai cambiamenti della missione possono essere indotti a non capir più il senso della loro vocazione, a non saper più che cosa precisamente la Chiesa si attenda oggi da loro.

Punto di riferimento sono queste parole del Concilio: "Benché l'impegno di diffondere la fede ricada su qualsiasi discepolo di Cristo in proporzione delle sue possibilità, Cristo Signore chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che egli vuole, per averli con sé e per inviarli a predicare alle genti.

Perciò egli, per mezzo dello Spirito Santo, che distribuisce come vuole i suoi carismi per il bene delle anime, accende nel cuore dei singoli la vocazione missionaria e insieme suscita in seno alla Chiesa quelle istituzioni che si assumono come dovere specifico il compito dell'evangelizzazione, che riguarda tutta la Chiesa" (
AGD 23).

Si tratta, dunque, di una "vocazione speciale", modellata su quella degli apostoli. Essa si manifesta nella totalità dell'impegno per il servizio dell'evangelizzazione: è impegno che coinvolge tutta la persona e la vita del missionario, esigendo da lui una donazione senza limiti di forze e di tempo.

Coloro che sono dotati di tale vocazione, "inviati dalla legittima autorità, si portano per spirito di fede e di obbedienza verso coloro che sono lontani da Cristo, riservandosi esclusivamente per quell'opera per la quale, come ministri del Vangelo, sono stati assunti" (AGD 23). I missionari devono sempre meditare sulla corrispondenza che il dono da loro ricevuto richiede e aggiornare la loro formazione dottrinale e apostolica.

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66. Gli Istituti missionari, poi, devono impiegare tutte le risorse necessarie, mettendo a frutto la loro esperienza e creatività nella fedeltà al carisma originario, per preparare adeguatamente i candidati e assicurare il ricambio delle energie spirituali, morali e fisiche dei loro membri. Si sentano essi parte viva della comunità ecclesiale e operino in comunione con essa. Difatti, "ogni Istituto è nato per la Chiesa ed è tenuto ad arricchirla con le proprie caratteristiche secondo un particolare spirito e una missione speciale", e di una tale fedeltà al carisma originario gli stessi vescovi sono custodi ("Mutuae Relationes", 14 maggio 1978).

Gli Istituti missionari sono nati in genere dalle Chiese di antica cristianità e storicamente sono stati strumenti della Congregazione di Propaganda Fide per la diffusione della fede e la fondazione di nuove Chiese. Essi accolgono oggi in misura crescente candidati provenienti dalle giovani Chiese che hanno fondato, mentre nuovi Istituti sono sorti proprio nei Paesi che prima ricevevano solo missionari e che oggi li mandano. E' da lodare questa duplice tendenza, che dimostra la validità e l'attualità della specifica vocazione missionaria di questi Istituti, tuttora "assolutamente necessari" (
AGD 27), non solo per l'attività missionaria "ad gentes", com'è nella loro tradizione, ma anche per l'animazione missionaria sia nelle Chiese di antica cristianità, sia in quelle più giovani.

La vocazione speciale dei missionari "ad vitam" conserva tutta la sua validità: essa rappresenta il paradigma dell'impegno missionario della Chiesa, che ha sempre bisogno di donazioni radicali e totali, di impulsi nuovi e arditi. I missionari e le missionarie, che hanno consacrato tutta la vita per testimoniare fra le genti il Risorto, non si lascino, dunque, intimorire da dubbi, incomprensioni, rifiuti, persecuzioni. Risveglino la grazia del loro carisma specifico e riprendano con coraggio il loro cammino, preferendo - in spirito di fede, obbedienza e comunione con i propri pastori - i posti più umili e ardui.

Sacerdoti diocesani per la missione universale

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67. Collaboratori del vescovo, i presbiteri in forza del sacramento dell'Ordine sono chiamati a condividere la sollecitudine per la missione: "Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell'Ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensi a una vastissima e universale missione di salvezza, "fino agli estremi confini della terra", dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli" (
PO 10). Per questo motivo, la stessa formazione dei candidati al sacerdozio deve mirare a dar loro "quello spirito veramente cattolico che li abitui a guardare oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito, per andare incontro alle necessità della missione universale, pronti a predicare dappertutto il Vangelo" (OT 20). Tutti i sacerdoti debbono avere cuore e mentalità missionaria, essere aperti ai bisogni della Chiesa e del mondo, attenti ai più lontani e, soprattutto, ai gruppi non cristiani del proprio ambiente. Nella preghiera e, in particolare, nel sacrificio eucaristico sentano la sollecitudine di tutta la Chiesa per tutta l'umanità.

Specialmente i sacerdoti che si trovano in aree a minoranza cristiana debbono essere mossi da singolare zelo e impegno missionario: il Signore affida loro non solo la cura pastorale della comunità cristiana, ma anche e soprattutto l'evangelizzazione dei loro compatrioti che non fanno parte del suo gregge. Essi "non mancheranno di rendersi concretamente disponibili allo Spirito Santo e al vescovo, per essere mandati a predicare il Vangelo oltre i confini del loro paese.

Ciò richiederà in essi non solo maturità nella vocazione, ma pure una capacità non comune di distacco dalla propria patria, etnia e famiglia, e una particolare idoneità a inserirsi nelle altre culture con intelligenza e rispetto" (4 aprile 1989).

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68. Nell'enciclica "Fidei Donum" Pio XII con intuito profetico incoraggio i vescovi a offrire alcuni dei loro sacerdoti per un servizio temporaneo alle Chiese d'Africa, approvando le iniziative già esistenti in proposito. A 25 anni di distanza volli sottolineare la grande novità di quel Documento, "che ha fatto superare la dimensione territoriale del servizio presbiterale, per destinarlo a tutta la Chiesa". Oggi risultano confermate la validità e la fruttuosità di questa esperienza: infatti, i presbiteri detti "Fidei donum" evidenziano in modo singolare il vincolo di comunione tra le Chiese, danno un prezioso apporto alla crescita di comunità ecclesiali bisognose, mentre attingono da esse freschezza e vitalità di fede. Occorre certo che il servizio missionario del sacerdote diocesano risponda ad alcuni criteri e condizioni. Si devono inviare sacerdoti scelti tra i migliori, idonei e debitamente preparati al peculiare lavoro che li attende. Essi dovranno inserirsi nel nuovo ambiente della Chiesa che li accoglie con animo aperto e fraterno e costituiranno un unico presbiterio con i sacerdoti locali, sotto l'autorità del vescovo. Auspico che lo spirito di servizio aumenti in seno al presbiterio delle Chiese antiche e sia promosso in quello delle Chiese più recenti.



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