Reconciliatio & paen. IT



L’esortazione apostolica post-sinodale

  02/12/1984 Città del Vaticano (Roma) - LETTERA


  RIF. VOL. VII/2 (1984) 1352-1499

   

Proemio


Origine e significato del documento

1       Parlare di riconciliazione e penitenza è, per gli uomini e le donne del nostro tempo, un invito a ritrovare, tradotte nel loro linguaggio, le parole stesse con cui il nostro salvatore e maestro Gesù Cristo volle inaugurare la sua predicazione: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15), accogliete, cioè, la lieta novella dell’amore, dell’adozione a figli di Dio e, quindi, della fratellanza.

          Perché la Chiesa ripropone questo tema e questo invito? L’ansia di conoscere meglio e di comprendere l’uomo d’oggi e il mondo contemporaneo, di decifrarne l’enigma e di svelarne il mistero, di discernere i fermenti di bene o di male che vi si agitano, da non poco tempo ormai porta molti a rivolgere a questo uomo e a questo mondo uno sguardo interrogativo. È lo sguardo dello storico e del sociologo, del filosofo e del teologo, dello psicologo e dell’umanista, del poeta e del mistico: è, soprattutto, lo sguardo preoccupato, eppur carico di speranza, del pastore.

          Un tale sguardo si rivela in maniera esemplare in ciascuna pagina dell’importante costituzione pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, particolarmente nella sua ampia e penetrante introduzione. Esso si rivela, altresì, in taluni documenti emanati dalla sapienza e dalla carità pastorale dei miei venerati predecessori, i cui luminosi pontificati furono segnati dall’evento storico e profetico di quel Concilio ecumenico.

          Come gli altri sguardi, anche quello del pastore scorge, purtroppo, fra diverse caratteristiche del mondo e dell’umanità del nostro tempo, l’esistenza di numerose, profonde e dolorose divisioni.


  Un mondo frantumato

2       Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un’affannosa ricerca di egemonia. Alla radice delle rotture non è difficile individuare conflitti che, anziché risolversi mediante il dialogo, si acuiscono nel confronto e nel contrasto.

          Indagando sugli elementi generatori di divisione, attenti osservatori ne riscontrano i più svariati: dalla crescente sperequazione tra gruppi, classi sociali e paesi agli antagonismi ideologici tutt’altro che spenti; dalla contrapposizione degli interessi economici alle polarizzazioni politiche; dalle divergenze tribali alle discriminazioni per motivi socio-religiosi. Del resto, alcune realtà che sono sotto gli occhi di tutti costituiscono come il volto pietoso della divisione, di cui sono frutto, e ne fanno rilevare la gravità con inconfutabile concretezza. Si possono ricordare, fra tanti altri dolorosi fenomeni sociali del nostro tempo: 1) il calpestamento dei diritti fondamentali della persona umana, primo fra essi il diritto alla vita e a una degna qualità di vita; 2) il che è tanto più scandaloso, in quanto coesiste con una retorica non mai prima conosciuta circa gli stessi diritti; 3) le insidie e pressioni contro la libertà dei singoli e delle collettività, non esclusa, anzi più offesa e minacciata, la libertà di avere, di professare e di praticare la propria fede; 4) le varie forme di discriminazione: razziale, culturale, religiosa ecc.; 5) la violenza e il terrorismo; 6) l’uso della tortura e le forme ingiuste e illegittime di repressione; 7) l’accumulo delle armi convenzionali o atomiche, la corsa agli armamenti, con spese belliche che potrebbero servire a sollevare l’immeritata miseria di popoli socialmente ed economicamente depressi; 8) l’iniqua distribuzione delle risorse del mondo e dei beni della civiltà, che tocca il suo vertice in un tipo di organizzazione sociale, per cui la distanza fra le condizioni umane dei ricchi e dei poveri si accresce sempre di più (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 188-197). La potenza travolgente di questa divisione fa del mondo, in cui viviamo, un mondo frantumato fin nelle sue fondamenta.

          D’altra parte, poiché la Chiesa, senza identificarsi col mondo né essere del mondo, è inserita nel mondo ed è in dialogo col mondo (cf. Gaudium et spes
GS 43-44 Presbyterorum Ordinis PO 12 Ecclesiam suam), non è da meravigliarsi se si avvertono nella sua stessa compagine ripercussioni e segni della divisione che ferisce l’umana società. Oltre alle scissioni tra le comunioni cristiane che la affliggono da secoli, la Chiesa sperimenta oggi qua e là nel suo seno divisioni fra le sue stesse componenti, causate dalla diversità di vedute e di scelte nel campo dottrinale e pastorale. Anche queste divisioni possono a volte sembrare inguaribili.

          Per quanto tali lacerazioni già ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell’intimo dell’uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno porta dalla nascita come un’eredità ricevuta dai progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà.


  Nostalgia di riconciliazione

3       Eppure, lo stesso sguardo indagatore, se è sufficientemente acuto, coglie nel vivo della divisione un inconfondibile desiderio da parte degli uomini di buona volontà e dei veri cristiani di ricomporre le fratture, di rimarginare le lacerazioni, di instaurare, a tutti i livelli, un’essenziale unità. Tale desiderio comporta in molti una vera nostalgia di riconciliazione, pur se questa parola non è usata.

          Per taluni si tratta quasi di un’utopia, che potrebbe diventare la leva ideale per un vero mutamento della società; per altri, invece, è oggetto di un’ardua conquista e, quindi, un traguardo da raggiungere con un serio impegno di riflessione e di azione. In ogni caso, l’aspirazione a una riconciliazione sincera e consistente è, senza ombra di dubbio, un motivo fondamentale della nostra società, quasi riflesso di un’incoercibile volontà di pace; lo è – anche se ciò è paradossale – tanto vigorosamente, quanto pericolosi sono gli stessi fattori di divisione.

          Tuttavia, la riconciliazione non può essere meno profonda di quanto non sia la divisione. La nostalgia della riconciliazione e la riconciliazione stessa saranno piene ed efficaci nella misura in cui giungeranno – per guarirla – a quella lacerazione primigenia, che è radice di tutte le altre ed è il peccato.


  Lo sguardo del Sinodo

4 Pertanto, ogni istituzione o organizzazione, volta a servire l’uomo e interessata a salvarlo nelle sue dimensioni fondamentali, deve rivolgere uno sguardo penetrante alla riconciliazione, per approfondirne il significato e la piena portata e trarne le necessarie conseguenze operative.

          A questo sguardo non poteva rinunciare la Chiesa di Gesù Cristo. Con dedizione di madre e intelligenza di maestra, essa si applica, premurosa e attenta, a raccogliere dalla società, con i segni della divisione, anche quelli non meno eloquenti e significativi della ricerca di una riconciliazione. Essa, infatti, sa che specialmente a lei è stata data la possibilità e assegnata la missione di far conoscere il senso vero, profondamente religioso, e le dimensioni integrali della riconciliazione, contribuendo, già solo per questo, a chiarire i termini essenziali della questione dell’unità e della pace.

          I miei predecessori non hanno cessato di predicare la riconciliazione, di invitare ad essa l’intera umanità, nonché ogni ceto e ogni porzione della comunità umana che vedevano lacerata e divisa (cf. Pacem in terris). E io stesso, per un impulso interiore che obbediva a un tempo – ne son certo – all’ispirazione dall’alto e agli appelli dell’umanità, in due modi diversi, ambedue solenni e impegnativi, ho voluto mettere a fuoco il tema della riconciliazione: in primo luogo, convocando la VI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi; in secondo luogo, facendo della riconciliazione il centro dell’anno giubilare, indetto per celebrare il 1950° anniversario della redenzione (Aperite portas Redemptori, 3). Dovendo assegnare un tema al Sinodo, mi sono trovato pienamente consenziente con quello suggerito da numerosi miei fratelli nell’episcopato, cioè quello, tanto fecondo, della riconciliazione in stretto collegamento con quello della penitenza.

          Il termine e il concetto stesso di penitenza sono assai complessi. Se la colleghiamo alla metànoia, a cui si riferiscono i sinottici, allora la penitenza significa l’intimo cambiamento del cuore sotto l’influsso della parola di Dio e nella prospettiva del Regno (cf.
Mt 4,17 Mc 1,15). Ma penitenza vuol dire anche cambiare la vita in coerenza col cambiamento del cuore, e in questo senso il fare penitenza si completa col fare degni frutti di penitenza (cf. Lc 3,8): è tutta l’esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè a un continuo cammino verso il meglio. Fare penitenza, però, è qualcosa di autentico ed efficace soltanto se si traduce in atti e gesti di penitenza. In questo senso, penitenza significa, nel vocabolario cristiano teologico e spirituale, l’ascesi, vale a dire lo sforzo concreto e quotidiano dell’uomo, sorretto dalla grazia di Dio, per perdere la propria vita per Cristo, quale unico modo di guadagnarla (cf. Mt 16,24-26 Mc 8,34-36 Lc 9,23-25); per spogliarsi del vecchio uomo e rivestirsi del nuovo (cf. Ep 4,23-24); per superare in se stesso ciò che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale (cf. 1Co 3,1-20); per innalzarsi continuamente dalle cose di quaggiù a quelle di lassù, dove è Cristo (cf. Col 3,1-2). La penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano.

          In ciascuno di questi significati la penitenza è strettamente congiunta alla riconciliazione, poiché il riconciliarsi con Dio, con se stessi e con gli altri suppone che si sconfigga la rottura radicale, che è il peccato; il che si realizza soltanto attraverso la trasformazione interiore o conversione, che fruttifica nella vita mediante gli atti di penitenza.

          Il documento-base del Sinodo (chiamato anche “Lineamenta”), preparato all’unico scopo di presentare il tema accentuandone alcuni aspetti fondamentali, ha consentito alle comunità ecclesiali, ovunque esistenti nel mondo, di riflettere per quasi due anni su questi aspetti di una questione – quella della conversione e della riconciliazione – che interessa tutti, e di trarne, altresì, un rinnovato slancio per la vita e l’apostolato cristiano. La riflessione si è ulteriormente approfondita, in preparazione più immediata ai lavori sinodali, grazie all’“Instrumentum laboris”, inviato tempestivamente ai vescovi e ai loro collaboratori. Infine, per un mese intero, i padri sinodali, assistiti da quanti furono chiamati all’assise propriamente detta, hanno trattato con grande senso di responsabilità il tema stesso e le questioni, numerose e svariate, ad esso connesse. Dal dibattito, dallo studio comune, dall’assidua e accurata ricerca è scaturito un ampio e prezioso tesoro, che le “Propositiones” finali riassumono nella sua sostanza.

          Lo sguardo del Sinodo non ignora gli atti di riconciliazione (alcuni dei quali passano quasi inosservati nella loro quotidianità), che pur in varia misura servono a risolvere le tante tensioni, a superare i tanti conflitti e a vincere le piccole e grandi divisioni, rifacendo l’unità. Ma la preoccupazione principale del Sinodo era quella di trovare, nel profondo di questi atti sparsi, la radice nascosta, una riconciliazione, per così dire, “fontale”, operante nel cuore e nella coscienza dell’uomo.

          Il carisma e, nel contempo, l’originalità della Chiesa, per quanto riguarda la riconciliazione, a qualunque livello sia da effettuare, risiedono nel fatto che essa risale sempre a quella riconciliazione fontale. In forza, infatti, della sua missione essenziale, la Chiesa sente il dovere di giungere fino alle radici della lacerazione primigenia del peccato, per operarvi il risanamento e ristabilirvi, per così dire, una riconciliazione anch’essa primigenia, che sia principio efficace di ogni vera riconciliazione. Questo la Chiesa ha avuto in vista e ha proposto mediante il Sinodo.

          Di questa riconciliazione parla la Sacra Scrittura, invitandoci a fare per essa tutti gli sforzi (2Co 5,20); ma dice, altresì, che essa è, anzitutto, un dono misericordioso di Dio all’uomo (Rm 5,11 cf. Col 1,20). La storia della salvezza – quella dell’intera umanità, come quella di ciascun uomo, in qualsiasi tempo – è la storia mirabile di una riconciliazione: quella per cui Dio, che è Padre, nel sangue e nella croce del suo Figlio fatto uomo ha riconciliato con sé il mondo, facendo nascere così una nuova famiglia di riconciliati.

          La riconciliazione si fa necessaria, perché c’è stata la rottura del peccato, dalla quale sono derivate tutte le altre forme di rottura nell’intimo dell’uomo e intorno a lui. La riconciliazione, dunque, per essere piena, esige necessariamente la liberazione dal peccato, rifiutato nelle sue più profonde radici. Perciò, uno stretto legame interno unisce conversione e riconciliazione: è impossibile disgiungere le due realtà, o parlare dell’una tacendo dell’altra.

          Al tempo stesso, il Sinodo ha parlato della riconciliazione di tutta la famiglia umana e della conversione del cuore di ogni persona, del suo ritorno a Dio, volendo riconoscere e proclamare che l’unione degli uomini non può darsi senza un cambiamento interno di ciascuno. La conversione personale è la via necessaria alla concordia fra le persone (Gaudium et spes ). Quando la Chiesa proclama la lieta novella della riconciliazione, o propone di realizzarla attraverso i sacramenti, esercita un vero ruolo profetico, denunciando i mali dell’uomo nella loro sorgente contaminata, indicando la radice delle divisioni e infondendo la speranza di poter superare le tensioni e i conflitti per giungere alla fratellanza, alla concordia e alla pace a tutti i livelli e in tutti i ceti dell’umana società. Essa cambia una condizione storica di odio e di violenza in una civiltà di amore. Essa offre a tutti il principio evangelico e sacramentale di quella riconciliazione “fontale”, dalla quale scaturisce ogni altro gesto o atto di riconciliazione, anche a livello sociale.

          Di tale riconciliazione, frutto della conversione, tratta la presente esortazione. Infatti, come era accaduto al termine delle tre precedenti assemblee del Sinodo, gli stessi padri hanno voluto anche questa volta consegnare al vescovo di Roma, pastore universale della Chiesa e capo del collegio episcopale, nella sua qualità di presidente del Sinodo, le conclusioni del loro lavoro. Ho accettato, come un grave e grato dovere del mio ministero, il compito di attingere all’ingente dovizia del Sinodo per offrire al popolo di Dio, quale frutto del Sinodo stesso, un messaggio dottrinale e pastorale sul tema della penitenza e riconciliazione. Tratterò, pertanto, nella prima parte, della Chiesa nel compimento della sua missione riconciliatrice, nell’opera di conversione dei cuori per il rinnovato abbraccio fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e il suo fratello, fra l’uomo e tutto il creato. Nella seconda parte sarà indicata la causa radicale di ogni lacerazione o divisione fra gli uomini e, prima di tutto, nei confronti di Dio: il peccato. Infine, segnalerò quei mezzi che consentono alla Chiesa di promuovere e di suscitare la piena riconciliazione degli uomini con Dio e, di conseguenza, degli uomini fra di loro.

          Il documento, che ora consegno ai figli della Chiesa, ma anche a tutti coloro che, credenti o no, ad essa guardano con interesse e animo sincero, vuol essere una doverosa risposta a quanto il Sinodo mi ha chiesto. Ma è anche – tengo a dichiararlo per soddisfare un debito di verità e di giustizia – opera del medesimo Sinodo. Il contenuto di queste pagine, infatti, proviene da esso: dalla sua lontana o prossima preparazione, dall’“Instrumentum laboris”, dagli interventi nell’aula sinodale e nei “circuli minores” e, soprattutto, dalle sessantatré “Propositiones”. Si trova qui il frutto del lavoro congiunto dei padri, tra i quali non mancavano i rappresentanti delle Chiese orientali, il cui patrimonio teologico, spirituale e liturgico è così ricco e venerando anche in ordine alla materia che qui ci interessa. Inoltre, il consiglio della segreteria del Sinodo ha valutato in due importanti sedute i risultati e gli orientamenti dell’assise sinodale appena conclusa, ha messo in evidenza la dinamica delle suddette “Propositiones” e ha tracciato, poi, le linee ritenute più idonee per la stesura del presente documento. Sono grato a tutti coloro che hanno compiuto questo lavoro, mentre, fedele alla mia missione, voglio qui trasmettere ciò che, nel tesoro dottrinale e pastorale del Sinodo, mi appare provvidenziale per la vita di tanti uomini in quest’ora magnifica e difficile della storia.

          Giova farlo – e risulta quanto mai significativo – mentre è ancor vivo il ricordo dell’anno santo, interamente vissuto nel segno della penitenza, conversione e riconciliazione. Che questa mia esortazione, affidata ai fratelli nell’episcopato e ai loro collaboratori presbiteri e diaconi, ai religiosi e religiose, a tutti i fedeli, agli uomini e alle donne di retta coscienza, possa essere non soltanto uno strumento di purificazione, di arricchimento e approfondimento della propria fede personale, ma anche un lievito capace di far crescere nel cuore del mondo la pace e la fratellanza, la speranza e la gioia, valori che scaturiscono dal Vangelo accolto, meditato e vissuto giorno per giorno sull’esempio di Maria, madre del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale piacque a Dio riconciliare a sé tutte le cose (cf. Col 1,19-20).


  Prima parte

Conversione e riconciliazione compito e impegno della chiesa


I. Una parabola della riconciliazione

5       All’inizio di questa esortazione apostolica si presenta al mio spirito la straordinaria pagina di san Luca, che ho già cercato di illustrare in un precedente mio documento (cf. Dives in misericordia DM 5-6). Mi riferisco alla parabola del figlio prodigo (cf. Lc 15,11-32).

  Dal fratello che era perduto...

          “Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: "Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta"”, racconta Gesù nel mettere a fuoco la drammatica vicenda di quel giovane: l’avventurosa partenza dalla casa paterna, lo sperpero di tutti i suoi beni in una vita dissoluta e vuota, i giorni tenebrosi della lontananza e della fame, ma, più ancora, della dignità perduta, dell’umiliazione e della vergogna, e infine, la nostalgia della propria casa, il coraggio di ritornarvi, l’accoglienza del padre. Questi non aveva certo dimenticato il figlio, anzi gli aveva conservato intatti l’affetto e la stima. Così l’aveva sempre atteso e ora lo abbraccia, mentre dà il via alla grande festa del ritorno di “colui che era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato”.

          L’uomo – ogni uomo – è questo figlio prodigo: ammaliato dalla tentazione di separarsi dal Padre per vivere indipendentemente la propria esistenza; caduto nella tentazione; deluso dal nulla che, come miraggio, lo aveva affascinato; solo, disonorato, sfruttato allorché cerca di costruirsi un mondo tutto per sé; travagliato, anche nel fondo della propria miseria, dal desiderio di tornare alla comunione col Padre. Come il padre della parabola, Dio spia il ritorno del figlio, lo abbraccia al suo arrivo e imbandisce la tavola per il banchetto del nuovo incontro, col quale si festeggia la riconciliazione.

          Ciò che più spicca nella parabola è l’accoglienza festosa e amorosa del padre al figlio che ritorna: segno della misericordia di Dio, sempre pronto al perdono. Diciamolo subito: la riconciliazione è principalmente un dono del Padre celeste.


  ...al fratello rimasto a casa

6       Ma la parabola mette in scena anche il fratello maggiore, che rifiuta il suo posto nel banchetto. Egli rinfaccia al fratello più giovane i suoi sbandamenti e al padre l’accoglienza che gli ha riservato, mentre a lui, temperante e laborioso, fedele al padre e alla casa, non è stato mai concesso – dice – di far festa con gli amici. Segno che egli non capisce la bontà del padre. Fintantoché questo fratello, troppo sicuro di se stesso e dei propri meriti, geloso e sprezzante, colmo di amarezza e di rabbia, non si converte e non si riconcilia col padre e col fratello, il banchetto non è ancora pienamente la festa dell’incontro e del ritrovamento.

          L’uomo – ogni uomo – è anche questo fratello maggiore. L’egoismo lo rende geloso, gli indurisce il cuore, lo acceca e lo chiude agli altri e a Dio. La benignità e misericordia del padre lo irritano e indispettiscono; la felicità del fratello ritrovato ha per lui un sapore amaro. Anche sotto questo aspetto egli ha bisogno di convertirsi per riconciliarsi.

          La parabola del figlio prodigo è, anzitutto, l’ineffabile storia del grande amore di un Padre – Dio – che offre al figlio, tornato a lui, il dono della piena riconciliazione. Ma essa, nell’evocare, con la figura del fratello maggiore, l’egoismo che divide fra di loro i fratelli, diventa anche la storia della famiglia umana: segna la nostra situazione e indica la via da percorrere. Il figlio prodigo, nella sua ansia di conversione, di ritorno fra le braccia del padre e di perdono, raffigura coloro che avvertono nel fondo della propria coscienza la nostalgia di una riconciliazione a tutti i livelli e senza riserva, e intuiscono con intima certezza che questa è possibile soltanto se deriva da una prima e fondamentale riconciliazione: quella che porta l’uomo dalla lontananza all’amicizia filiale con Dio, del quale riconosce l’infinita misericordia. Letta però nella prospettiva dell’altro figlio, la parabola dipinge la situazione della famiglia umana divisa dagli egoismi, mette in luce la difficoltà di assecondare il desiderio e la nostalgia di una medesima famiglia riconciliata e unita; richiama, pertanto, la necessità di una profonda trasformazione dei cuori nella riscoperta della misericordia del Padre e nella vittoria sull’incomprensione e l’ostilità tra fratelli.

          Alla luce di questa inesauribile parabola della misericordia che cancella il peccato, la Chiesa, accogliendo l’appello in essa contenuto, comprende la sua missione di operare, sulle orme del Signore, per la conversione dei cuori e per la riconciliazione degli uomini con Dio e fra di loro, due realtà, queste, intimamente connesse.


  II. Alle fonti della riconciliazione


Nella luce di Cristo riconciliatore

7       Come si deduce dalla parabola del figlio prodigo, la riconciliazione è un dono di Dio e una sua iniziativa. Ma la nostra fede ci insegna che questa iniziativa si concretizza nel mistero di Cristo redentore, riconciliatore, liberatore dell’uomo dal peccato sotto tutte le sue forme. Lo stesso san Paolo non esita a riassumere in tale compito e funzione l’incomparabile missione di Gesù di Nazaret, Verbo e Figlio di Dio fatto uomo.

          Anche noi possiamo partire da questo mistero centrale dell’economia della salvezza, punto-chiave della cristologia dell’Apostolo. “Se mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, – egli scrive ai Romani – molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione” (
Rm 5,10-11 Col 1,20-22). Poiché dunque “Dio ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo”, Paolo si sente ispirato ad esortare i cristiani di Corinto: “Lasciatevi riconciliare con Dio” (2Co 5,18 2Co 5,20).

          Di tale missione riconciliatrice mediante la morte sulla croce, parlava in altri termini l’evangelista Giovanni nell’osservare che Cristo doveva morire “per riunire insieme i figli di Dio, che erano dispersi” (Jn 11,52).

          Ma ancora san Paolo ci consente di allargare la nostra visione dell’opera di Cristo a dimensioni cosmiche, quando scrive che in lui il Padre ha riconciliato con sé tutte le creature, quelle del cielo e quelle della terra (cf. Col 1,20). Giustamente si può dire di Cristo redentore che “nel tempo dell’ira è stato fatto riconciliazione” (cf. Si 44,17), e che, se egli è “la nostra pace” (Ep 2,14), è anche la nostra riconciliazione.

          Ben a ragione la sua passione e morte, sacramentalmente rinnovate nell’eucaristia, vengono chiamate dalla liturgia “sacrificio di riconciliazione” (“Prex Eucharistica III”): riconciliazione con Dio e con i fratelli, se Gesù stesso insegna che la riconciliazione fraterna deve operarsi prima del sacrificio (cf. Mt 5,23-24). È legittimo, dunque, partendo da questi e da altri significativi passi neo-testamentari, far convergere le riflessioni sull’intero mistero di Cristo intorno alla sua missione di riconciliatore. È pertanto da proclamare ancora una volta la fede della Chiesa nell’atto redentivo di Cristo, nel mistero pasquale della sua morte e risurrezione, come causa della riconciliazione dell’uomo, nel suo duplice aspetto di liberazione dal peccato e di comunione di grazia con Dio.

          E proprio dinanzi al quadro doloroso delle divisioni e delle difficoltà della riconciliazione fra gli uomini, invito a guardare al “mysterium crucis” come al più alto dramma, nel quale Cristo percepisce e soffre fino in fondo il dramma stesso della divisione dell’uomo da Dio, sì da gridare con le parole del salmista: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46 Mc 15,34 Ps 22,2), e attua, nello stesso tempo, la nostra riconciliazione. Lo sguardo fisso al mistero del Golgota deve farci ricordare sempre quella dimensione “verticale” della divisione e della riconciliazione riguardante il rapporto uomo-Dio, che in una visione di fede prevale sempre sulla dimensione “orizzontale”, cioè sulla realtà della divisione e sulla necessità della riconciliazione tra gli uomini. Noi sappiamo, infatti, che una tale riconciliazione tra loro non è e non può essere che il frutto dell’atto redentivo di Cristo, morto e risorto per sconfiggere il regno del peccato, ristabilire l’alleanza con Dio e abbattere così il muro di separazione (cf. Ep 2,14-16), che il peccato aveva innalzato tra gli uomini.


  La Chiesa riconciliatrice

8       Ma – come diceva san Leone Magno parlando della passione di Cristo – “tutto quello che il Figlio di Dio ha fatto e ha insegnato per la riconciliazione del mondo, non lo conosciamo soltanto dalla storia delle sue azioni passate, ma lo sentiamo anche nell’efficacia di ciò che egli compie al presente” (Leone Magno, Tractatus 63, 6: CCL 138/A, 386). Sentiamo la riconciliazione, operata nella sua umanità, nell’efficacia dei sacri misteri celebrati dalla sua Chiesa, per la quale egli ha dato se stesso e che ha costituito segno e insieme strumento di salvezza.

          Ciò afferma san Paolo, quando scrive che Dio ha dato agli apostoli di Cristo una partecipazione alla sua opera riconciliatrice. “Dio – egli dice – ci ha affidato il ministero della riconciliazione... e la parola della riconciliazione” (
2Co 5,18s).

          Nelle mani e sulla bocca degli apostoli, suoi messaggeri, il Padre ha posto misericordiosamente un ministero di riconciliazione, che essi adempiono in maniera singolare, in virtù del potere di agire “in persona Christi”. Ma anche a tutta la comunità dei credenti, all’intera compagine della Chiesa è affidata la parola di riconciliazione, il compito cioè di fare quanto è possibile per testimoniare la riconciliazione e per attuarla nel mondo.

          Si può dire che anche il Concilio Vaticano II, nel definire la Chiesa come “sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” e nel segnalare come sua funzione quella di ottenere la “piena unità in Cristo” per gli “uomini oggi più strettamente congiunti da vari vincoli” (Lumen gentium LG 1), riconosceva che essa deve tendere soprattutto a riportare gli uomini alla piena riconciliazione. In intima connessione con la missione di Cristo, si può dunque riassumere la missione, pur ricca e complessa, della Chiesa nel compito per lei centrale della riconciliazione dell’uomo: con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato; e questo in modo permanente, perché – come ho detto altra volta – “la Chiesa è per sua natura sempre riconciliante” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 [1982] 1992).

          Riconciliatrice è la Chiesa in quanto proclama il messaggio della riconciliazione, come ha sempre fatto nella sua storia dal Concilio apostolico di Gerusalemme (cf. Ac 15,2-33) fino all’ultimo Sinodo e al recente giubileo della redenzione. L’originalità di questa proclamazione sta nel fatto che per la Chiesa la riconciliazione è strettamente collegata alla conversione del cuore: questa è la via necessaria verso l’intesa fra gli esseri umani.

          Riconciliatrice è la Chiesa anche in quanto mostra all’uomo le vie e gli offre i mezzi per la suddetta quadruplice riconciliazione. Le vie sono, appunto, quelle della conversione del cuore e della vittoria sul peccato, sia questo l’egoismo, l’ingiustizia, la prepotenza o lo sfruttamento altrui, l’attaccamento ai beni materiali o la ricerca sfrenata del piacere. I mezzi sono quelli del fedele e amoroso ascolto della parola di Dio, della preghiera personale e comunitaria e, soprattutto, dei sacramenti, veri segni e strumenti di riconciliazione, tra i quali eccelle, proprio sotto questo aspetto, quello che con ragione usiamo chiamare il sacramento della riconciliazione, o della penitenza, sul quale ritornerò in seguito.


  La Chiesa riconciliata

9       Il mio venerato predecessore Paolo VI ha avuto il merito di mettere in chiaro che, per essere evangelizzatrice, la Chiesa deve cominciare col mostrarsi essa stessa evangelizzata, aperta cioè al pieno e integrale annuncio della buona novella di Gesù Cristo per ascoltarla e metterla in pratica (Evangelii nuntiandi, EN 13). Anch’io, raccogliendo in un documento organico le riflessioni della IV assemblea generale del Sinodo, ho parlato di una Chiesa che si catechizza nella misura in cui è operatrice di catechesi (Catechesi tradendae CTR 24).

          Non esito ora a riprendere qui il confronto, per quanto si applica al tema che sto trattando, per affermare che la Chiesa, per essere riconciliatrice, deve cominciare con l’essere una Chiesa riconciliata. Sotto questa semplice e lineare espressione soggiace la convinzione che la Chiesa, per annunciare e proporre sempre più efficacemente al mondo la riconciliazione, deve diventare sempre più una comunità (fosse anche il “piccolo gregge” dei primi tempi) di discepoli di Cristo, uniti nell’impegno di convertirsi continuamente al Signore e di vivere come uomini nuovi nello spirito e nella pratica della riconciliazione.

          Dinanzi ai nostri contemporanei, così sensibili alla prova delle concrete testimonianze di vita, la Chiesa è chiamata a dare l’esempio della riconciliazione anzitutto al suo interno; e per questo tutti dobbiamo operare per pacificare gli animi, moderare le tensioni, superare le divisioni, sanare le ferite eventualmente inferte tra fratelli, quando si acuisce il contrasto delle opzioni nel campo dell’opinabile, e cercare invece di essere uniti in ciò che è essenziale per la fede e la vita cristiana, secondo l’antica massima: “In dubiis libertas, in necessariis unitas, in omnibus caritas”.

          Secondo questo stesso criterio, la Chiesa deve attuare anche la sua dimensione ecumenica. Infatti, per essere interamente riconciliata, essa sa di dover proseguire nella ricerca dell’unità fra coloro che si onorano di chiamarsi cristiani, ma sono separati tra loro, anche come Chiese o Comunioni, e dalla Chiesa di Roma. Questa cerca un’unità che, per esser frutto ed espressione di vera riconciliazione, non intende fondarsi né sulla dissimulazione dei punti che dividono, né su compromessi tanto facili quanto superficiali e fragili. L’unità deve essere il risultato di una vera conversione di tutti, del perdono reciproco, del dialogo teologico e delle relazioni fraterne, della preghiera, della piena docilità all’azione dello Spirito Santo, che è anche Spirito di riconciliazione.

          Infine la Chiesa, per dirsi pienamente riconciliata, sente di doversi impegnare sempre di più nel portare il Vangelo a tutte le genti, promovendo il “dialogo della salvezza” (Ecclesiam suam), a quei vasti ambienti dell’umanità nel mondo contemporaneo che non condividono la sua fede e che addirittura, a causa di un crescente secolarismo, prendono le distanze nei suoi riguardi e le oppongono una fredda indifferenza, quando non la osteggiano e perseguitano. A tutti la Chiesa sente di dover ripetere con san Paolo: “Lasciatevi riconciliare con Dio” (2Co 5,20).

          In ogni caso, la Chiesa promuove una riconciliazione nella verità, sapendo bene che non sono possibili né la riconciliazione né l’unità fuori o contro la verità.


Reconciliatio & paen. IT