Reconciliatio & paen. IT 18

  Perdita del senso del peccato

18     Dal Vangelo letto nella comunione ecclesiale la coscienza cristiana ha acquisito, lungo il corso delle generazioni, una fine sensibilità e un’acuta percezione dei fermenti di morte, che sono contenuti nel peccato. Sensibilità e capacità di percezione anche per individuare tali fermenti nelle mille forme assunte dal peccato, nei mille volti sotto i quali esso si presenta. È ciò che si suol chiamare il senso del peccato.

          Questo senso ha la sua radice nella coscienza morale dell’uomo e ne è come il termometro. È legato al senso di Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l’uomo ha con Dio come suo creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può cancellare completamente il senso di Dio né spegnere la coscienza, così non si cancella mai completamente il senso del peccato.

          Eppure, non di rado nella storia, per periodi di tempo più o meno lunghi e sotto l’influsso di molteplici fattori, succede che viene gravemente oscurata la coscienza morale in molti uomini. “Abbiamo noi un’idea giusta della coscienza”? – domandavo due anni fa in un colloquio con i fedeli –. “Non vive l’uomo contemporaneo sotto la minaccia di un’eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di un’"anestesia" delle coscienze?” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 861). Troppi segni indicano che nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto più inquietante, in quanto questa coscienza, definita dal Concilio “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo” (Gaudium et spes
GS 16), è “strettamente legata alla libertà dell’uomo (...). Per questo la coscienza in misura principale sta alla base della dignità interiore dell’uomo e, nello stesso tempo, del suo rapporto con Dio” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 860). È inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è strettamente connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il mio predecessore Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che “il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato” (Pio XII, Discorsi e radiomessaggi, VIII [1946] 288).

          Perché questo fenomeno nel nostro tempo? Uno sguardo a talune componenti della cultura contemporanea può aiutarci a capire il progressivo attenuarsi del senso del peccato, proprio a causa della crisi della coscienza e del senso di Dio, sopra rilevata.

          Il “secolarismo”, il quale, per la sua stessa natura e definizione, è un movimento di idee e di costumi che propugna un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto concentrato nel culto del fare e del produrre e travolto nell’ebbrezza del consumo e del piacere, senza preoccupazione per il pericolo di “perdere la propria anima”, non può non minare il senso del peccato. Quest’ultimo si ridurrà tutt’al più a ciò che offende l’uomo. Ma proprio qui si impone l’amara esperienza, a cui già accennavo nella mia prima enciclica, che cioè l’uomo può costruire un mondo senza Dio, ma questo mondo finirà per ritorcersi contro l’uomo (cf. Redemptor hominis RH 15). In realtà, Dio è la radice e il fine supremo dell’uomo, e questi porta in sé un germe divino (cf. Gaudium et spes GS 3); (cf. 1Jn 3,9). Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero dell’uomo. È vano, quindi, sperare che prenda consistenza un senso del peccato nei confronti dell’uomo e dei valori umani, se manca il senso dell’offesa commessa contro Dio, cioè il senso vero del peccato.

          Svanisce questo senso del peccato nella società contemporanea anche per gli equivoci in cui si cade nell’apprendere certi risultati delle scienze umane. Così in base a talune affermazioni della psicologia, la preoccupazione di non colpevolizzare o di non porre freni alla libertà, porta a non riconoscere mai una mancanza. Per un’indebita estrapolazione dei criteri della scienza sociologica si finisce – come ho già accennato – con lo scaricare sulla società tutte le colpe, di cui l’individuo vien dichiarato innocente. Anche una certa antropologia culturale, a sua volta a forza di ingrandire i pur innegabili condizionamenti e influssi ambientali e storici che agiscono sull’uomo, ne limita tanto la responsabilità da non riconoscergli la capacità di compiere veri atti umani e, quindi, la possibilità di peccare.

          Scade facilmente il senso del peccato anche in dipendenza di un’etica derivante da un certo relativismo storicistico. Essa può essere l’etica che relativizza la norma morale, negando il suo valore assoluto e incondizionato, e negando, di conseguenza, che possano esistere atti intrinsecamente illeciti, indipendentemente dalle circostanze in cui sono posti dal soggetto. Si tratta di un vero “rovesciamento e di una caduta di valori morali”, e “il problema non è tanto di ignoranza dell’etica cristiana”, ma “piuttosto è quello del senso, dei fondamenti e dei criteri dell’atteggiamento morale” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 1081). L’effetto di questo rovesciamento etico è sempre anche quello di attutire a tal punto la nozione di peccato, che si finisce quasi con l’affermare che il peccato c’è, ma non si sa chi lo commette.

          Svanisce, infine, il senso del peccato quando – come può avvenire nell’insegnamento ai giovani, nelle comunicazioni di massa, nella stessa educazione familiare – esso viene erroneamente identificato col sentimento morboso della colpa o con la semplice trasgressione di norme e precetti legali.

          La perdita del senso del peccato, dunque, è una forma o un frutto della negazione di Dio: non solo di quella ateistica, ma anche di quella secolaristica. Se il peccato è l’interruzione del rapporto filiale con Dio per portare la propria esistenza fuori dell’obbedienza a lui, allora peccare non è soltanto negare Dio; peccare è anche vivere come se egli non esistesse, è cancellarlo dal proprio quotidiano. Un modello di società mutilato o squilibrato nell’uno o nell’altro senso, quale è spesso sostenuto dai mezzi di comunicazione, favorisce non poco la progressiva perdita del senso del peccato. In tale situazione l’offuscamento o affievolimento del senso del peccato risulta sia dal rifiuto di ogni riferimento al trascendente in nome dell’aspirazione all’autonomia personale; sia dall’assoggettarsi a modelli etici imposti dal consenso e costume generale, anche se condannati dalla coscienza individuale; sia dalle drammatiche condizioni socio-economiche che opprimono tanta parte dell’umanità, generando la tendenza a vedere errori e colpe soltanto nell’ambito del sociale; sia, infine e soprattutto, dall’oscuramento dell’idea della paternità di Dio e del suo dominio sulla vita dell’uomo.

          Persino nel campo del pensiero e della vita ecclesiale alcune tendenze favoriscono inevitabilmente il declino del senso del peccato. Alcuni, ad esempio, tendono a sostituire esagerati atteggiamenti del passato con altre esagerazioni: essi passano dal vedere il peccato dappertutto al non scorgerlo da nessuna parte; dall’accentuare troppo il timore delle pene eterne al predicare un amore di Dio, che escluderebbe ogni pena meritata dal peccato; dalla severità nello sforzo per correggere le coscienze erronee a un presunto rispetto della coscienza, tale da sopprimere il dovere di dire la verità. E perché non aggiungere che la confusione, creata nella coscienza di numerosi fedeli dalle divergenze di opinioni e di insegnamenti nella teologia, nella predicazione, nella catechesi, nella direzione spirituale, circa questioni gravi e delicate della morale cristiana, finisce per far diminuire, fin quasi a cancellarlo, il vero senso del peccato? Né vanno taciuti alcuni difetti nella prassi della penitenza sacramentale: tale è la tendenza a offuscare il significato ecclesiale del peccato e della conversione, riducendoli a fatti meramente individuali, o viceversa, ad annullare la valenza personale del bene e del male per considerarne esclusivamente la dimensione comunitaria; tale è anche il pericolo, non mai totalmente scongiurato, del ritualismo abitudinario che toglie al sacramento il suo pieno significato e la sua efficacia formativa.

          Ristabilire il giusto senso del peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull’uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili principi di ragione e di fede, che la dottrina morale della Chiesa ha sempre sostenuto.

          È lecito sperare che soprattutto nel mondo cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del peccato. A ciò serviranno una buona catechesi, illuminata dalla teologia biblica dell’alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa accoglienza del magistero della Chiesa, che non cessa di offrire luce alle coscienze, e una prassi sempre più accurata del sacramento della penitenza.


  II. “Mysterium pietatis”

19     Per conoscere il peccato era necessario fissare lo sguardo sulla sua natura, quale ci è fatta conoscere dalla rivelazione dell’economia della salvezza; esso è “mysterium iniquitatis”. Ma in questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso contrasta come antagonista con un altro principio operante, che – usando una bella e suggestiva espressione di san Paolo – possiamo chiamare il “mysterium”, o “sacramentum pietatis”. Il peccato dell’uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura, sconfitto, se questo “mysterium pietatis” non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell’uomo.

          Troviamo questa espressione in una delle lettere pastorali di san Paolo, la prima a Timoteo. Essa balza improvvisa quasi per un’ispirazione irrompente. L’apostolo, infatti, in antecedenza ha consacrato lunghi paragrafi del suo messaggio al discepolo prediletto per spiegare il significato dell’ordinamento della comunità (quello liturgico e, legato ad esso, quello gerarchico), ha quindi parlato del ruolo dei capi della comunità, per riferirsi infine al comportamento dello stesso Timoteo nella “chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità”. Quindi, alla fine del brano, egli evoca quasi “ex abrupto”, ma con un intento profondo, ciò che dà significato a tutto quello che ha scritto: “È senza dubbio grande il mistero della pietà...” (
1Tm 3,15s.).

          Senza tradire minimamente il senso letterale del testo, noi possiamo allargare questa magnifica intuizione teologica dell’apostolo a una più completa visione del ruolo che la verità da lui annunciata ha nell’economia della salvezza. “È grande davvero – ripetiamo con lui – il mistero della pietà”, perché vince il peccato.

          Ma che cos’è nella concezione paolina questa “pietà”?


  È il Cristo stesso

20     È profondamente significativo che, per presentare questo “mysterium pietatis”, Paolo trascriva semplicemente, senza stabilire un legame grammaticale col testo precedente, tre righe di un inno cristologico, che – secondo la sentenza di autorevoli studiosi – era usato nelle comunità ellenico-cristiane. Con le parole di quell’inno, dense di contenuto teologico e ricche di nobile bellezza, quei credenti del primo secolo professavano la loro fede circa il mistero del Cristo, per il quale egli si è manifestato nella realtà della carne umana e dallo Spirito Santo è stato costituito quale giusto, che si offre per gli ingiusti; egli è apparso agli angeli, fatto più grande di essi, ed è stato predicato alle genti, portatore di salvezza; egli è stato creduto nel mondo, quale inviato del Padre, e dallo stesso Padre assunto in cielo, quale Signore.

          Il mistero o sacramento della pietà, pertanto, è il mistero stesso del Cristo. Esso è, in una sintesi pregnante, il mistero dell’incarnazione e della redenzione, della piena pasqua di Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria: mistero della sua passione e morte, della sua risurrezione e glorificazione. Ciò che san Paolo, riprendendo le frasi dell’inno, ha voluto ribadire è che questo mistero è il segreto principio vitale che fa della Chiesa la casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità. Nel solco dell’insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo mistero dell’infinita pietà di Dio verso di noi è capace di penetrare fino alle nascoste radici della nostra iniquità, per suscitare nell’anima un movimento di conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione.

          Riferendosi senza dubbio a questo mistero, anche san Giovanni, pur col suo caratteristico linguaggio, che è diverso da quello di san Paolo, poteva scrivere che “chiunque è nato da Dio, non pecca”: il Figlio di Dio lo salva e “il maligno non lo tocca” (
1Jn 5,18s.). In questa affermazione giovannea c’è un’indicazione di speranza, fondata sulle promesse divine: il cristiano ha ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non peccare. Non si tratta, dunque, di un’impeccabilità acquisita per virtù propria o, addirittura, insita nell’uomo, come pensavano gli gnostici. È un risultato dell’azione di Dio. Per non peccare il cristiano dispone della conoscenza di Dio, ricorda san Giovanni in questo stesso passo. Ma poco prima egli aveva scritto: “Chiunque è nato da Dio, non commette peccato, perché un seme divino dimora in lui” (1Jn 3,9). Se per questo “seme di Dio” intendiamo – come propongono alcuni commentatori – Gesù, il Figlio di Dio, allora possiamo dire che per non peccare – o per liberarsi dal peccato – il cristiano dispone della presenza in sé dello stesso Cristo e del mistero di Cristo, che è mistero di pietà.


  Lo sforzo del cristiano

21     Ma c’è nel “mysterium pietatis” un altro versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve aver corrispondenza nella pietà del cristiano verso Dio. In questa seconda accezione, la pietà (“eusébeia”) significa appunto il comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio risponde con la sua pietà filiale.

          Anche in questo senso possiamo affermare con san Paolo che “è grande il mistero della pietà”. Anche in questo senso la pietà, quale forza di conversione e di riconciliazione, affronta l’iniquità e il peccato. Anche in questo caso gli aspetti essenziali del mistero del Cristo sono oggetto della pietà nel senso che il cristiano accoglie il mistero, lo contempla, ne trae la forza spirituale necessaria per condurre la vita secondo il Vangelo. Anche qui si deve dire che “chi è nato da Dio, non commette peccato”; ma l’espressione ha un senso imperativo: sostenuto dal mistero del Cristo, come da un’interiore sorgente di energia spirituale, il cristiano è diffidato dal peccare e, anzi, riceve il comandamento di non peccare, ma di comportarsi degnamente “nella casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente” (
1Tm 3,15), essendo un figlio di Dio.


  Verso una vita riconciliata

22     Così la parola della Scrittura, nel rivelarci il mistero della pietà, apre l’intelligenza umana alla conversione e alla riconciliazione, intese non come alte astrazioni, ma come valori cristiani concreti da conquistare nella nostra quotidianità. Insidiati dalla perdita del senso del peccato, talora tentati da qualche illusione ben poco cristiana di impeccabilità, anche gli uomini d’oggi hanno bisogno di riascoltare, come diretto a ciascuno personalmente, l’ammonimento di san Giovanni: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1Jn 1,8), e anzi “tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1Jn 5,19). Ciascuno, dunque, è invitato dalla voce della verità divina a leggere realisticamente nella sua coscienza e a confessare che è stato generato nell’iniquità, come diciamo nel salmo Miserere (cf. Ps 51,7).

          Tuttavia, minacciati dalla paura e dalla disperazione, gli uomini d’oggi possono sentirsi sollevati dalla divina promessa, che li apre alla speranza della piena riconciliazione.

          Il mistero della pietà, da parte di Dio, è quella misericordia di cui il Signore e Padre nostro – lo ripeto ancora – è infinitamente ricco (cf. Ep 2,4). Come ho detto nell’enciclica dedicata al tema della divina misericordia (cf. Dives in misericordia DM 8 DM 15), essa è un amore più potente del peccato, più forte della morte. Quando ci accorgiamo che l’amore che Dio ha per noi non si arresta di fronte al nostro peccato, non indietreggia dinanzi alle nostre offese, ma si fa ancora più premuroso e generoso; quando ci rendiamo conto che questo amore è giunto fino a causare la passione e la morte del Verbo fatto carne, il quale ha accettato di redimerci pagando col suo sangue, allora prorompiamo nel riconoscimento: “Sì, il Signore è ricco di misericordia”, e diciamo perfino: “Il Signore è misericordia”. Il mistero della pietà è la via aperta dalla divina misericordia alla vita riconciliata.


  Terza parte

La pastorale della penitenza e della riconciliazione


Promozione della penitenza e della riconciliazione

23     Suscitare nel cuore dell’uomo la conversione e la penitenza e offrirgli il dono della riconciliazione è la connaturale missione della Chiesa, come continuatrice dell’opera redentrice del suo fondatore divino. È, questa, una missione che non si esaurisce in alcune affermazioni teoriche e nella proposta di un ideale etico non accompagnata da energie operative, ma tende ad esprimersi in precise funzioni ministeriali in ordine a una pratica concreta della penitenza e della riconciliazione.

          A questo ministero, fondato e illuminato dai principi di fede sopra illustrati, orientato verso obiettivi precisi e sostenuto da mezzi adeguati, possiamo dare il nome di pastorale della penitenza e della riconciliazione. Suo punto di partenza è la convinzione della Chiesa che l’uomo, al quale si rivolge ogni forma di pastorale, ma principalmente la pastorale della penitenza e della riconciliazione, è l’uomo segnato dal peccato, la cui immagine pregnante si può trovare nel re Davide. Rimproverato dal profeta Natan, egli accetta di confrontarsi con le proprie nefandezze e confessa: “Ho peccato contro il Signore” (
2S 12,13), e proclama: “Riconosco il mio delitto, il mio peccato mi sta sempre dinanzi” (Ps 51,5); ma prega anche: “Purificami, Signore, e sarò mondo; lavami, e sarò più bianco della neve” (Ps 51,9), ricevendo la risposta della divina misericordia: “Il Signore ha perdonato il tuo peccato: non morirai” (2S 12,13).

          La Chiesa si trova, dunque, di fronte all’uomo – ad un intero mondo umano – vulnerato dal peccato e da esso toccato in ciò che possiede di più intimo nella profondità del suo essere, ma al tempo stesso mosso verso un incoercibile desiderio di liberazione dal peccato e, specialmente se cristiano, consapevole che il mistero della pietà, Cristo Signore, già opera in lui e nel mondo con la forza della redenzione.

          La funzione riconciliatrice della Chiesa deve così svolgersi secondo quell’intimo nesso, che raccorda strettamente il perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo alla fondamentale e piena riconciliazione dell’umanità, avvenuta con la redenzione. Questo nesso ci fa capire che, essendo il peccato il principio attivo della divisione – divisione fra l’uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell’essere dell’uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l’uomo e la natura creata da Dio –, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione.

          Non c’è bisogno di ripetere quanto ho già detto circa l’importanza di questo “ministero della riconciliazione” (cf. 2Co 5,18), e della relativa pastorale che lo attua, nella coscienza e nella vita della Chiesa. Questa fallirebbe in un aspetto essenziale del suo essere e mancherebbe a una sua irrinunciabile funzione, se non pronunciasse con chiarezza e fermezza, a tempo e fuori tempo, la “parola della riconciliazione” (cf. 2Co 5,19) e non offrisse al mondo il dono della riconciliazione. Ma conviene ripetere che tale importanza del servizio ecclesiale di riconciliazione si estende, oltre i confini della Chiesa, al mondo intero.

          Parlare di pastorale della penitenza e della riconciliazione, dunque, vuol dire riferirsi all’insieme dei compiti che incombono alla Chiesa, a tutti i livelli, per la promozione di esse. Più concretamente, parlare di questa pastorale vuol dire evocare tutte le attività, mediante le quali la Chiesa, per il tramite di tutte e di ciascuna delle sue componenti – pastori e fedeli, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti – e con tutti i mezzi a sua disposizione – parola e azione, insegnamento e preghiera –, conduce gli uomini, singoli o in gruppo, alla vera penitenza e li introduce così nel cammino della piena riconciliazione.

          I padri del Sinodo, come rappresentanti dei loro confratelli vescovi, guide del popolo loro affidato, si sono occupati di questa pastorale nei suoi elementi più pratici e concreti. E io sono lieto di far loro eco, associandomi alle loro inquietudini e speranze, accogliendo i frutti delle loro ricerche ed esperienze, incoraggiandoli nei loro progetti e realizzazioni. Possano essi ritrovare in questa parte dell’esortazione apostolica l’apporto che hanno dato essi stessi al Sinodo, apporto la cui utilità intendo allargare, mediante queste pagine, alla Chiesa intera.

          Ritengo, pertanto, di mettere in luce l’essenziale della pastorale della penitenza e della riconciliazione rilevandone, con l’assemblea del Sinodo, i due punti seguenti: 1) i mezzi usati e le vie seguite dalla Chiesa per promuovere la penitenza e la riconciliazione; 2) il sacramento per eccellenza della penitenza e della riconciliazione.


  I. Mezzi e vie per la promozione della penitenza e della riconciliazione

24     Per promuovere la penitenza e la riconciliazione la Chiesa ha a disposizione principalmente due mezzi, che le sono stati affidati dal suo stesso fondatore: la catechesi e i sacramenti. Il loro impiego, sempre ritenuto dalla Chiesa come pienamente consono alle esigenze della sua missione salvifica e rispondente, nello stesso tempo, alle esigenze e ai bisogni spirituali degli uomini di tutti i tempi, può essere fatto in forme e modi antichi e nuovi, tra i quali sarà bene ricordare particolarmente quello che, seguendo il mio predecessore Paolo VI, possiamo chiamare il metodo del dialogo.


  Il dialogo

25     Il dialogo per la Chiesa è, in certo senso, un mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua azione nel mondo contemporaneo. Il Concilio Vaticano II, infatti, dopo aver proclamato che “la Chiesa, in virtù della missione che ha di illuminare tutto il mondo col messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini (...), diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo”, aggiunge che essa deve essere capace di “stabilire un dialogo sempre più fecondo fra tutti coloro che formano l’unico popolo di Dio” (Gaudium et spes GS 92), come anche di “stabilire un dialogo con l’umana società” (Christus Dominus CD 13 Gravissimum educationis GE 8 Ad gentes AGD 11-12)).

          Il mio predecessore Paolo VI ha dedicato al dialogo una parte notevole della sua prima enciclica Ecclesiam suam, in cui lo descrive e caratterizza significativamente quale dialogo della salvezza (Ecclesiam suam, III). La Chiesa, infatti, usa il metodo del dialogo per meglio condurre gli uomini – quelli che per il battesimo e la professione di fede si riconoscono membra della comunità cristiana e quelli che le sono estranei – alla conversione e alla penitenza, sulla via di un profondo rinnovamento della propria coscienza e della propria vita, alla luce del mistero della redenzione e della salvezza, operata da Cristo e affidata al ministero della sua Chiesa. L’autentico dialogo, quindi, è rivolto innanzitutto alla rigenerazione di ciascuno mediante la conversione interiore e la penitenza, sempre con profondo rispetto per le coscienze e con la pazienza e la gradualità indispensabili nelle condizioni degli uomini del nostro tempo.

          Il dialogo pastorale in vista della riconciliazione continua a essere oggi un impegno fondamentale della Chiesa in diversi ambiti e a vari livelli. Essa promuove, anzitutto, un dialogo ecumenico, cioè tra Chiese e comunità ecclesiali che si richiamano alla fede in Cristo, Figlio di Dio e unico salvatore, e un dialogo con le altre comunità di uomini che cercano Dio e vogliono avere un rapporto di comunione con lui.

          Alla base di tale dialogo con le altre Chiese e comunità ecclesiali e con le altre religioni, e quale condizione della sua credibilità ed efficacia, deve esserci un sincero sforzo di permanente e rinnovato dialogo all’interno della stessa Chiesa cattolica. Questa Chiesa è consapevole di essere, per sua natura, sacramento della comunione universale di carità (cf. Lumen gentium LG 1 LG 9 LG 13); ma è, altresì, consapevole delle tensioni esistenti al suo interno, che rischiano di diventare fattori di divisione.

          L’invito accorato e fermo, già rivolto dal mio predecessore in vista dell’anno santo 1975 (Paterna cum benevolentia), vale anche per il momento presente. Per ottenere il superamento dei conflitti e far sì che le normali tensioni non risultino dannose all’unità della Chiesa, occorre che tutti ci confrontiamo con la parola di Dio e, abbandonate le proprie vedute soggettive, cerchiamo la verità laddove essa si trova, cioè nella stessa divina Parola e nell’interpretazione autentica, che ne dà il magistero della Chiesa. A questa luce l’ascolto reciproco, il rispetto e l’astensione da ogni giudizio affrettato, la pazienza, la capacità di evitare che la fede, che unisce, sia subordinata alle opinioni, alle mode, alle scelte ideologiche, che dividono, sono tutte doti di un dialogo che all’interno della Chiesa deve essere assiduo, volenteroso, sincero. È chiaro che esso non sarebbe tale e non diventerebbe un fattore di riconciliazione, senza l’attenzione al magistero e l’accettazione di esso.

          Così impegnata fattivamente nella ricerca della propria comunione interna, la Chiesa cattolica può rivolgere l’appello alla riconciliazione – come ha già fatto da tempo – alle altre Chiese, con le quali non c’è piena comunione, nonché alle altre religioni e persino a chi cerca Dio con cuore sincero.

          Alla luce del Concilio e del magistero dei miei predecessori, la cui preziosa eredità ho ricevuto e mi sforzo di conservare e attuare, posso affermare che la Chiesa cattolica in tutte le sue componenti si impegna con lealtà nel dialogo ecumenico, senza facili ottimismi, ma anche senza sfiducia e senza esitazioni o ritardi. Le leggi fondamentali che essa cerca di seguire in tale dialogo sono, da una parte, la persuasione che soltanto un ecumenismo spirituale – cioè fondato nella preghiera comune e nella comune docilità all’unico Signore – permette di rispondere sinceramente e seriamente alle altre esigenze dell’azione ecumenica (cf. Unitatis redintegratio UR 7-8); dall’altra, la convinzione che un certo facile irenismo in materia dottrinale e, soprattutto, dogmatica potrebbe forse portare a una forma di convivenza superficiale e non durevole, ma non a quella comunione profonda e stabile che tutti noi auspichiamo. A questa comunione si giungerà nell’ora voluta dalla divina provvidenza; ma per giungervi la Chiesa cattolica, per quanto la concerne, sa di dover essere aperta e sensibile a tutti “i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati” (Ivi, UR 4), ma di dover parimenti porre alla base di un dialogo leale e costruttivo la chiarezza delle impostazioni, la fedeltà e la coerenza con la fede trasmessa e definita nel solco della tradizione perenne del suo magistero. Nonostante la minaccia, poi, di un certo disfattismo, e malgrado le inevitabili lentezze che l’avventatezza non potrà mai correggere, la Chiesa cattolica continua a cercare con tutti gli altri fratelli cristiani le vie dell’unità e con i seguaci delle altre religioni un dialogo sincero. Possa questo dialogo inter-religioso condurre al superamento di ogni atteggiamento di ostilità, di diffidenza, di mutua condanna e persino di mutua invettiva, condizione preliminare almeno all’incontro nella fede in un unico Dio e nella certezza della vita eterna per l’anima immortale. Voglia il Signore specialmente che il dialogo ecumenico conduca a una sincera riconciliazione intorno a tutto ciò che possiamo avere già in comune con le altre Chiese cristiane: la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, Salvatore e Signore, l’ascolto della Parola, lo studio della Rivelazione, il sacramento del battesimo.

          Nella misura in cui la Chiesa è capace di generare la concordia attiva – l’unità nella varietà – al suo proprio interno, e di offrirsi come testimone e umile operatrice di riconciliazione nei confronti delle altre Chiese e comunità ecclesiali e delle altre religioni, essa diventa, secondo l’espressiva definizione di sant’Agostino, “mondo riconciliato” (S. Agostino, Sermo 96, 8: PL 38, 588). Allora potrà essere segno di riconciliazione nel mondo e per il mondo.

          Nella consapevolezza della smisurata gravità della situazione creata dalle forze della divisione e della guerra, che costituisce oggi una pesante minaccia non soltanto per l’equilibrio e l’armonia delle nazioni, ma per la sopravvivenza stessa dell’umanità, la Chiesa sente di dover offrire e proporre la sua specifica collaborazione per il superamento dei conflitti e la ricomposizione della concordia.

          È un complesso e delicato dialogo di riconciliazione, in cui la Chiesa si impegna, anzitutto, con l’opera della Santa Sede e dei suoi diversi organismi. La Santa Sede si sforza sia di intervenire presso i governanti delle nazioni e i responsabili delle varie istanze internazionali, sia di associarsi ad essi, dialogando con essi o stimolandoli a dialogare fra di loro, a beneficio della riconciliazione in mezzo ai numerosi conflitti. Essa fa questo non per secondi fini o per interessi occulti – poiché non ne ha –, ma “per una preoccupazione umanitaria” (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI/1 [1983] 124s. 126s. 130), mettendo la sua struttura istituzionale e la sua autorità morale, del tutto singolari, a servizio della concordia e della pace. Essa fa questo convinta che come “nella guerra due parti insorgono l’una contro l’altra”, così “nella questione della pace sono pure sempre e necessariamente due parti che debbono sapersi impegnare”, e in ciò “si trova il vero senso del dialogo per la pace” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI/1 [1983] 7).

          Nel dialogo per la riconciliazione la Chiesa si impegna anche per mezzo dei vescovi secondo la competenza e responsabilità che è loro propria, sia individualmente nella direzione delle rispettive Chiese particolari, sia riuniti nelle conferenze episcopali, con la collaborazione dei presbiteri e di tutte le componenti delle comunità cristiane. Essi adempiono puntualmente i loro compiti, quando promuovono quell’indispensabile dialogo e proclamano le esigenze umane e cristiane di riconciliazione e di pace. In comunione con i loro pastori, i laici, i quali hanno come “campo proprio della loro attività evangelizzatrice il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia (...) della vita internazionale” (Evangelii nuntiandi, EN 70), sono chiamati ad impegnarsi direttamente nel dialogo o in favore del dialogo per la riconciliazione. Per loro tramite è ancora la Chiesa che svolge la sua azione riconciliatrice. La rigenerazione dei cuori mediante la conversione e la penitenza è, pertanto, il presupposto fondamentale e la base sicura per ogni rinnovamento sociale e per la pace tra le nazioni.

          Resta da ribadire che da parte della Chiesa e dei suoi membri il dialogo, in qualsiasi forma si svolga – e sono e possono essere molto diverse, sicché lo stesso concetto di dialogo ha un valore analogico – non potrà mai partire da un atteggiamento di indifferenza verso la verità, ma esserne, piuttosto, una presentazione fatta in modo sereno e rispettoso dell’intelligenza e della coscienza altrui. Il dialogo della riconciliazione non potrà mai sostituire o attenuare l’annuncio della verità evangelica, che ha come scopo preciso la conversione dal peccato e la comunione con Cristo e con la Chiesa, ma dovrà servire alla sua trasmissione e attuazione attraverso i mezzi lasciati da Cristo alla Chiesa per la pastorale della riconciliazione: la catechesi e la penitenza.



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