Reconciliatio & paen. IT 32

  Le forme della celebrazione

32     Seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II, l’“Ordo paenitentiae” ha predisposto tre riti che, salvi sempre gli elementi essenziali, permettono di adattare la celebrazione del sacramento della penitenza a determinate circostanze pastorali. La prima forma – riconciliazione dei singoli penitenti – costituisce l’unico modo normale e ordinario della celebrazione sacramentale, e non può né deve essere lasciata cadere in disuso o essere trascurata. La seconda – riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale –, anche se negli atti preparatori permette di sottolineare di più gli aspetti comunitari del sacramento, raggiunge la prima forma nell’atto sacramentale culminante, che è la confessione e l’assoluzione individuale dei peccati, e perciò può essere equiparata alla prima forma per quanto riguarda la normalità del rito. La terza, invece – riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione generale – riveste un carattere di eccezionalità, e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un’apposita disciplina.

          La prima forma consente la valorizzazione degli aspetti più propriamente personali – ed essenziali – che son compresi nell’itinerario penitenziale. Il dialogo tra penitente e confessore, l’insieme stesso degli elementi utilizzati (i testi biblici, la scelta delle forme di “soddisfazione”, ecc.) sono elementi che rendono la celebrazione sacramentale più rispondente alla concreta situazione del penitente. Si scopre il valore di tali elementi, quando si pensa alle diverse ragioni che portano un cristiano alla penitenza sacramentale: un bisogno di personale riconciliazione e riammissione all’amicizia con Dio, riacquistando la grazia perduta a causa del peccato; un bisogno di verifica del cammino spirituale e, a volte, di un più puntuale discernimento vocazionale; tante altre volte un bisogno e un desiderio di uscire da uno stato di apatia spirituale e di crisi religiosa. Grazie, poi, alla sua indole individuale la prima forma di celebrazione permette di associare il sacramento della penitenza a qualcosa di diverso, ma ben conciliabile con esso: mi riferisco alla direzione spirituale. È certo, dunque, che la decisione e l’impegno personali sono chiaramente significati e promossi in questa prima forma.

          La seconda forma di celebrazione, proprio per il suo carattere comunitario e per la modalità che la distingue, dà risalto ad alcuni aspetti di grande importanza: la parola di Dio ascoltata in comune ha un singolare effetto rispetto alla sua lettura individuale, e sottolinea meglio il carattere ecclesiale della conversione e della riconciliazione. Essa risulta particolarmente significativa nei diversi tempi dell’anno liturgico e in connessione con avvenimenti di speciale rilevanza pastorale. Basti qui solo accennare che per tale celebrazione è opportuna la presenza di un numero sufficiente di confessori.

          È naturale, pertanto, che i criteri per stabilire a quale delle due forme di celebrazione si debba ricorrere vengano dettati non da motivazioni congiunturali e soggettive, ma dalla volontà di ottenere il vero bene spirituale dei fedeli, in obbedienza alla disciplina penitenziale della Chiesa.

          Sarà bene anche ricordare che, per un equilibrato orientamento spirituale e pastorale in merito, è necessario continuare ad attribuire grande valore ed educare i fedeli al ricorso al sacramento della penitenza anche solo per i peccati veniali, come attestano una tradizione dottrinale e una prassi ormai secolari.

          Pur sapendo e insegnando che i peccati veniali vengono perdonati anche in altri modi – si pensi agli atti di dolore, alle opere di carità, alla preghiera, ai riti penitenziali –, la Chiesa non cessa di ricordare a tutti la singolare ricchezza del momento sacramentale anche in riferimento a tali peccati. Il ricorso frequente al sacramento – a cui sono tenute alcune categorie di fedeli – rafforza la consapevolezza che anche i peccati minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua celebrazione diventa per loro “l’occasione e lo stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo e a rendersi più docili alla voce dello Spirito” (Ordo paenitentiae, 7b). Soprattutto è da sottolineare il fatto che la grazia propria della celebrazione sacramentale ha una grande virtù terapeutica e contribuisce a togliere le radici stesse del peccato.

          La cura dell’aspetto celebrativo (cf. Ivi, 17), con particolare riferimento all’importanza della parola di Dio, letta, richiamata e spiegata, quando sia possibile e opportuno, ai fedeli e con i fedeli, contribuirà a vivificare la pratica del sacramento e a impedire che scada in qualcosa di formalistico e abitudinario. Il penitente sarà piuttosto aiutato a scoprire che sta vivendo un evento di salvezza, capace di infondere un nuovo slancio di vita e una vera pace nel cuore. Questa cura per la celebrazione porterà, fra l’altro, a fissare nelle singole Chiese dei tempi appositi per la celebrazione del sacramento, e a educare i fedeli, specialmente i fanciulli e i giovani, ad attenervisi in via ordinaria, salvo i casi di necessità, nei quali il pastore d’anime dovrà sempre dimostrarsi pronto ad accogliere volentieri chi ricorre a lui.



  La celebrazione del sacramento con assoluzione generale

33     Nel nuovo ordinamento liturgico e, più recentemente, nel nuovo Codice di diritto canonico (CIC, cann. CIC 961-963), si precisano le condizioni che legittimano il ricorso al “rito della riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione generale”. Le norme e gli ordinamenti dati su questo punto, frutto di matura ed equilibrata considerazione, devono essere accolti e applicati evitando ogni tipo di interpretazione arbitraria.

          È opportuno riflettere in maniera più approfondita sulle motivazioni, che impongono la celebrazione della penitenza in una delle prime due forme e consentono il ricorso alla terza forma. Vi è, anzitutto, una motivazione di fedeltà alla volontà del Signore Gesù, trasmessa dalla dottrina della Chiesa, e di obbedienza, altresì, alle leggi della Chiesa; il Sinodo ha ribadito in una delle sue “Propositiones” l’immutato insegnamento, che la Chiesa ha attinto alla più antica tradizione, e la legge, con cui essa ha codificato l’antica prassi penitenziale: la confessione individuale e integra dei peccati con l’assoluzione egualmente individuale costituisce l’unico modo ordinario, con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa. Da questa riconferma dell’insegnamento della Chiesa risulta chiaramente che ogni peccato grave deve essere sempre dichiarato, con le sue circostanze determinanti, in una confessione individuale.

          Vi è, poi, una motivazione di ordine pastorale. Se è vero che, ricorrendo le condizioni richieste dalla disciplina canonica, si può fare uso della terza forma di celebrazione, non si deve però dimenticare che questa non può diventare una forma ordinaria, e che non può e non deve essere adoperata – lo ha ripetuto il Sinodo – se non “in casi di grave necessità”, fermo restando l’obbligo di confessare individualmente i peccati gravi prima di ricorrere di nuovo a un’altra assoluzione generale. Il vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell’ambito della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per l’uso della terza forma, darà questo giudizio con grave onere della sua coscienza, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto, altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati – sulla base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte – con gli altri membri della conferenza episcopale. Parimenti, sarà sempre un’autentica preoccupazione pastorale a porre e garantire le condizioni che rendono il ricorso alla terza forma capace di dare quei frutti spirituali, per i quali essa è prevista. Né l’uso eccezionale della terza forma di celebrazione dovrà mai condurre ad una minore considerazione, tanto meno all’abbandono, delle forme ordinarie, né a ritenere tale forma come alternativa delle altre due: non è, infatti, lasciato alla libertà dei pastori e dei fedeli di scegliere fra le menzionate forme di celebrazione quella ritenuta più opportuna. Ai pastori rimane l’obbligo di facilitare ai fedeli la pratica della confessione integra e individuale dei peccati, che costituisce per essi non solo un dovere, ma anche un diritto inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell’anima. Per i fedeli l’uso della terza forma di celebrazione comporta l’obbligo di attenersi a tutte le norme che ne regolano l’esercizio, compresa quella di non ricorrere di nuovo all’assoluzione generale prima di una regolare confessione integra e individuale dei peccati, che deve essere fatta non appena possibile. Di questa norma e dell’obbligo di osservarla i fedeli devono essere avvertiti e istruiti dal sacerdote prima dell’assoluzione.

          Con questo richiamo alla dottrina e alla legge della Chiesa intendo inculcare in tutti il vivo senso di responsabilità, che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le quali non sono di nostra proprietà, come i sacramenti, o hanno diritto a non essere lasciate nell’incertezza e nella confusione, come le coscienze. Cose sacre – ripeto – sono le une e le altre – i sacramenti e le coscienze –, ed esigono da parte nostra di essere servite nella verità.

          Questa è la ragione della legge della Chiesa.


  Alcuni casi più delicati

34     Ritengo di dover fare a questo punto un accenno, sia pur brevissimo, a un caso pastorale che il Sinodo ha voluto trattare – per quanto gli era possibile farlo –, contemplandolo anche in una delle “Propositiones”. Mi riferisco a certe situazioni, oggi non infrequenti, in cui vengono a trovarsi cristiani desiderosi di continuare la pratica religiosa sacramentale, ma che ne sono impediti dalla condizione personale in contrasto con gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa. Sono situazioni che appaiono particolarmente delicate e quasi inestricabili.

          Non pochi interventi nel corso del Sinodo, esprimendo il pensiero generale dei padri, hanno messo in luce la coesistenza e il mutuo influsso di due principi, egualmente importanti, in merito a questi casi. Il primo è il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa, continuatrice nella storia della presenza e dell’opera di Cristo, non volendo la morte del peccatore ma che si converta e viva (cf.
Ez 18,23), attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora (cf. Is 42,3 Mt 12,20), cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui. L’altro è il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta di chiamare bene il male e male il bene. Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste.

          Circa questa materia, che affligge profondamente anche il nostro cuore di pastori, è sembrato mio preciso dovere dire parole chiare nell’esortazione apostolica Familiaris consortio, per quanto riguarda il caso di divorziati risposati (cf. Familiaris consortio FC 84), o comunque di cristiani che convivono irregolarmente.

          Al tempo stesso, sento il vivo dovere di esortare, insieme col Sinodo, le comunità ecclesiali e, soprattutto, i vescovi a portare ogni aiuto possibile ai sacerdoti, che, venendo meno ai gravi impegni assunti nell’ordinazione si trovano in situazioni irregolari. Nessuno di questi fratelli deve sentirsi abbandonato dalla Chiesa. Per tutti coloro che non si trovano attualmente nelle condizioni oggettive richieste dal sacramento della penitenza, le dimostrazioni di materna bontà da parte della Chiesa, il sostegno di atti di pietà diversi da quelli sacramentali, lo sforzo sincero di mantenersi in contatto col Signore, la partecipazione alla santa messa, la ripetizione frequente di atti di fede, di speranza, di carità, di dolore il più possibile perfetti, potranno preparare il cammino per una piena riconciliazione nell’ora che solo la Provvidenza conosce.


  Auspicio conclusivo

35     Al termine di questo documento, sento echeggiare in me e desidero ripetere a voi tutti l’esortazione che il primo vescovo di Roma, in un’ora critica degli albori della Chiesa, volle indirizzare “ai fedeli nella diaspora (...), eletti secondo la prescienza di Dio Padre: siate tutti concordi, partecipi delle gioia e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili” (cf. 1P 1,1s 1P 3,8). L’apostolo raccomandava: “Siate tutti concordi...”; ma subito proseguiva col segnalare i peccati contro la concordia e la pace, che bisogna evitare: “Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo, poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione”. E concludeva con una parola di incoraggiamento e di speranza: “Chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?” (cf. 1P 3,9-13).

          Oso riallacciare la mia esortazione, in un’ora non meno critica della storia, a quella del principe degli apostoli, che per primo sedette su questa cattedra romana, come testimone di Cristo e pastore della Chiesa, e qui “presiedette alla carità” di fronte al mondo intero. Anch’io, in comunione con i vescovi successori degli apostoli, e confortato dalla riflessione collegiale che molti di essi, riuniti nel Sinodo, hanno dedicato ai temi e problemi della riconciliazione, ho voluto comunicarvi con lo stesso spirito del pescatore di Galilea quanto egli diceva ai nostri fratelli di fede, lontani nel tempo e così uniti nel cuore: “Siate tutti concordi (...), non rendete male per male (...), siate ferventi nel bene” (cf. 1P 3,8-9 1P 3,13). E aggiungeva: “È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene piuttosto che fare il male” (1P 3,17). Questa consegna è tutta pervasa da parole, che Pietro aveva ascoltato dallo stesso Gesù, e da concetti che facevano parte della sua “lieta novella”: il nuovo comandamento dell’amore vicendevole; l’anelito e l’impegno all’unità; le beatitudini della misericordia e della pazienza nella persecuzione per la giustizia; il ripagare il male col bene; il perdono delle offese; l’amore ai nemici. In tali parole e concetti è la sintesi originale e trascendente dell’etica cristiana o, meglio e più profondamente, della spiritualità dell’alleanza nuova in Gesù Cristo.

          Affido al Padre, ricco di misericordia, affido al Figlio di Dio, fatto uomo come nostro redentore e riconciliatore, affido allo Spirito Santo, sorgente di unità e di pace, questo mio appello di padre e di pastore alla penitenza e alla riconciliazione. Voglia la Trinità santissima e adorabile far germinare nella Chiesa e nel mondo il piccolo seme, che in quest’ora consegno alla terra generosa di tanti cuori umani.

          Perché ne provengano in un giorno non lontano copiosi frutti, vi invito tutti a rivolgervi con me al cuore di Cristo, segno eloquente della divina misericordia, “propiziazione per i nostri peccati”, “nostra pace e riconciliazione” (cf. 1Jn 2,2 Ep 2,14 Rm 3,25 Rm 5,11), per attingervi la spinta interiore verso la detestazione del peccato e la conversione a Dio, e trovarvi la benignità divina che risponde amorosamente al pentimento umano.

          Vi invito pure a rivolgervi con me al cuore immacolato di Maria, madre di Gesù, nella quale “si è operata la riconciliazione di Dio con l’umanità (...), si è compiuta l’opera della riconciliazione, perché ella ha ricevuto da Dio la pienezza della grazia in virtù del sacrificio redentore di Cristo” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI/1 [1984] 16-18). In verità, Maria è diventata “l’alleata di Dio”, in virtù della sua maternità divina, nell’opera della riconciliazione (cf. Ivi, VII/1 [1984] 16-18).

          Alle mani di questa Madre, il cui “fiat” segnò l’inizio di quella “pienezza dei tempi”, nella quale fu attuata da Cristo la riconciliazione dell’uomo con Dio, e al suo cuore immacolato – al quale abbiamo ripetutamente affidato l’intera umanità, turbata dal peccato e straziata da tante tensioni e conflitti – affido ora in special modo questa intenzione: che, per la sua intercessione, l’umanità stessa scopra e percorra la via della penitenza, l’unica che potrà condurla alla piena riconciliazione.

          A tutti voi, che con spirito di ecclesiale comunione nell’obbedienza e nella fede (cf. Rm 1,5 Rm 16,26), vorrete accogliere le indicazioni, i suggerimenti e le direttive contenute in questo documento, studiandovi di tradurle in vitale prassi pastorale, imparto ben volentieri la confortatrice benedizione apostolica.

          Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 dicembre, I domenica di avvento, dell’anno 1984, settimo del mio pontificato.





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