Spe salvi IT


LETTERA ENCICLICA

SPE SALVI

DEL SOMMO PONTEFICE

BENEDETTO XVI

AI VESCOVI

AI PRESBITERI E AI DIACONI

ALLE PERSONE CONSACRATE

E A TUTTI I FEDELI LAICI

SULLA SPERANZA CRISTIANA

Introduzione

1 « SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La « redenzione », la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l'affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c'è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?


La fede è speranza

2 Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite, dobbiamo ascoltare ancora un po' più attentamente la testimonianza della Bibbia sulla speranza. « Speranza », di fatto, è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole « fede » e « speranza » sembrano interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla « pienezza della fede » (He 10,22) la « immutabile professione della speranza » (He 10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 1P 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede ». Quanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto l'esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero « senza speranza e senza Dio nel mondo » (Ep 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i loro dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli dèi, essi erano « senza Dio » e conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. « In nihil ab nihilo quam cito recidimus » (Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) [1] dice un epitaffio di quell'epoca – parole nelle quali appare senza mezzi termini ciò a cui Paolo accenna. Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete « affliggervi come gli altri che non hanno speranza » (1Th 4,13). Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una « buona notizia » – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo « informativo », ma « performativo ». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova.

[1] Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. VI, n. 26003.


3 Ora, però, si impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza che, come speranza, è « redenzione »? Bene: il nucleo della risposta è dato nel brano della Lettera agli Efesini citato poc'anzi: gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano « senza Dio nel mondo ». Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile. L'esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. Penso all'africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All'età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, tornò in Italia. Qui, dopo « padroni » così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un « padrone » totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava « paron » il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un « paron » al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal « Paron » supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava « alla destra di Dio Padre ». Ora lei aveva « speranza » – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei era « redenta », non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo – senza speranza perché senza Dio. Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era disposta a farsi di nuovo separare dal suo « Paron ». Il 9 gennaio 1890, fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. L'8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò i voti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora – accanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Gesù Cristo, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l'aveva « redenta », non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.


Il concetto di speranza basata sulla fede nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva

4 Prima di affrontare la domanda se l'incontro con quel Dio che in Cristo ci ha mostrato il suo Volto e aperto il suo Cuore possa essere anche per noi non solo « informativo », ma anche « performativo », vale a dire se possa trasformare la nostra vita così da farci sentire redenti mediante la speranza che esso esprime, torniamo ancora alla Chiesa primitiva. Non è difficile rendersi conto che l'esperienza della piccola schiava africana Bakhita è stata anche l'esperienza di molte persone picchiate e condannate alla schiavitù nell'epoca del cristianesimo nascente. Il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito. Gesù non era Spartaco, non era un combattente per una liberazione politica, come Barabba o Bar-Kochba. Ciò che Gesù, Egli stesso morto in croce, aveva portato era qualcosa di totalmente diverso: l'incontro col Signore di tutti i signori, l'incontro con il Dio vivente e così l'incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo. Ciò che di nuovo era avvenuto appare con massima evidenza nella Lettera di san Paolo a Filemone. Si tratta di una lettera molto personale, che Paolo scrive nel carcere e affida allo schiavo fuggitivo Onesimo per il suo padrone – appunto Filemone. Sì, Paolo rimanda lo schiavo al suo padrone da cui era fuggito, e lo fa non ordinando, ma pregando: « Ti supplico per il mio figlio che ho generato in catene [...] Te l'ho rimandato, lui, il mio cuore [...] Forse per questo è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo » (Phm 1,10-16). Gli uomini che, secondo il loro stato civile, si rapportano tra loro come padroni e schiavi, in quanto membri dell'unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e sorelle – così i cristiani si chiamavano a vicenda. In virtù del Battesimo erano stati rigenerati, si erano abbeverati dello stesso Spirito e ricevevano insieme, uno accanto all'altro, il Corpo del Signore. Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo cambiava la società dal di dentro. Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggiù non hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr He 11,13-16 Ph 3,20), ciò è tutt'altro che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene riconosciuta dai cristiani come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata.


5 Dobbiamo aggiungere ancora un altro punto di vista. La Prima Lettera ai Corinzi (1Co 1,18-31) ci mostra che una grande parte dei primi cristiani apparteneva ai ceti sociali bassi e, proprio per questo, era disponibile all'esperienza della nuova speranza, come l'abbiamo incontrata nell'esempio di Bakhita. Tuttavia fin dall'inizio c'erano anche conversioni nei ceti aristocratici e colti. Poiché proprio anche loro vivevano « senza speranza e senza Dio nel mondo ». Il mito aveva perso la sua credibilità; la religione di Stato romana si era sclerotizzata in semplice cerimoniale, che veniva eseguito scrupolosamente, ma ridotto ormai appunto solo ad una « religione politica ». Il razionalismo filosofico aveva confinato gli dèi nel campo dell'irreale. Il Divino veniva visto in vari modi nelle forze cosmiche, ma un Dio che si potesse pregare non esisteva. Paolo illustra la problematica essenziale della religione di allora in modo assolutamente appropriato, quando contrappone alla vita « secondo Cristo » una vita sotto la signoria degli « elementi del cosmo » (Col 2,8). In questa prospettiva un testo di san Gregorio Nazianzeno può essere illuminante. Egli dice che nel momento in cui i magi guidati dalla stella adorarono il nuovo re Cristo, giunse la fine dell'astrologia, perché ormai le stelle girano secondo l'orbita determinata da Cristo [2]. Di fatto, in questa scena è capovolta la concezione del mondo di allora che, in modo diverso, è nuovamente in auge anche oggi. Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l'universo; non le leggi della materia e dell'evoluzione sono l'ultima istanza, ma ragione, volontà, amore – una Persona. E se conosciamo questa Persona e Lei conosce noi, allora veramente l'inesorabile potere degli elementi materiali non è più l'ultima istanza; allora non siamo schiavi dell'universo e delle sue leggi, allora siamo liberi. Una tale consapevolezza ha determinato nell'antichità gli spiriti schietti in ricerca. Il cielo non è vuoto. La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore [3].

[2] Cfr Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429.
[3] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. CEC 1817-1821.


6 I sarcofaghi degli inizi del cristianesimo illustrano visivamente questa concezione – al cospetto della morte, di fronte alla quale la questione circa il significato della vita si rende inevitabile. La figura di Cristo viene interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella del filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere, non si intendeva una difficile disciplina accademica, come essa si presenta oggi. Il filosofo era piuttosto colui che sapeva insegnare l'arte essenziale: l'arte di essere uomo in modo retto – l'arte di vivere e di morire. Certamente gli uomini già da tempo si erano resi conto che gran parte di coloro che andavano in giro come filosofi, come maestri di vita, erano soltanto dei ciarlatani che con le loro parole si procuravano denaro, mentre sulla vera vita non avevano niente da dire. Tanto più si cercava il vero filosofo che sapesse veramente indicare la via della vita. Verso la fine del terzo secolo incontriamo per la prima volta a Roma, sul sarcofago di un bambino, nel contesto della risurrezione di Lazzaro, la figura di Cristo come del vero filosofo che in una mano tiene il Vangelo e nell'altra il bastone da viandante, proprio del filosofo. Con questo suo bastone Egli vince la morte; il Vangelo porta la verità che i filosofi peregrinanti avevano cercato invano. In questa immagine, che poi per un lungo periodo permaneva nell'arte dei sarcofaghi, si rende evidente ciò che le persone colte come le semplici trovavano in Cristo: Egli ci dice chi in realtà è l'uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo. Egli ci indica la via e questa via è la verità. Egli stesso è tanto l'una quanto l'altra, e perciò è anche la vita della quale siamo tutti alla ricerca. Egli indica anche la via oltre la morte; solo chi è in grado di fare questo, è un vero maestro di vita. La stessa cosa si rende visibile nell'immagine del pastore. Come nella rappresentazione del filosofo, anche per la figura del pastore la Chiesa primitiva poteva riallacciarsi a modelli esistenti dell'arte romana. Lì il pastore era in genere espressione del sogno di una vita serena e semplice, di cui la gente nella confusione della grande città aveva nostalgia. Ora l'immagine veniva letta all'interno di uno scenario nuovo che le conferiva un contenuto più profondo: « Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla ... Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me ... » (Ps 23,1 Ps 23,4 [22]). Il vero pastore è Colui che conosce anche la via che passa per la valle della morte; Colui che anche sulla strada dell'ultima solitudine, nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina con me guidandomi per attraversarla: Egli stesso ha percorso questa strada, è disceso nel regno della morte, l'ha vinta ed è tornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con Lui, un passaggio lo si trova. La consapevolezza che esiste Colui che anche nella morte mi accompagna e con il suo « bastone e il suo vincastro mi dà sicurezza », cosicché « non devo temere alcun male » (cfr Ps 23,4 [22],4) – era questa la nuova « speranza » che sorgeva sopra la vita dei credenti.


7 Dobbiamo ancora una volta tornare al Nuovo Testamento. Nell'undicesimo capitolo della Lettera agli Ebrei (He 11,1) si trova una sorta di definizione della fede che intreccia strettamente questa virtù con la speranza. Intorno alla parola centrale di questa frase si è creata fin dalla Riforma una disputa tra gli esegeti, nella quale sembra riaprirsi oggi la via per una interpretazione comune. Per il momento lascio questa parola centrale non tradotta. La frase dunque suona così: « La fede è hypostasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono ». Per i Padri e per i teologi del Medioevo era chiaro che la parola greca hypostasis era da tradurre in latino con il termine substantia.La traduzione latina del testo, nata nella Chiesa antica, dice quindi: « Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium » – la fede è la « sostanza » delle cose che si sperano; la prova delle cose che non si vedono. Tommaso d'Aquino [4], utilizzando la terminologia della tradizione filosofica nella quale si trova, spiega questo così: la fede è un « habitus », cioè una costante disposizione dell'animo, grazie a cui la vita eterna prende inizio in noi e la ragione è portata a consentire a ciò che essa non vede. Il concetto di « sostanza » è quindi modificato nel senso che per la fede, in modo iniziale, potremmo dire « in germe » – quindi secondo la « sostanza » – sono già presenti in noi le cose che si sperano: il tutto, la vita vera. E proprio perché la cosa stessa è già presente, questa presenza di ciò che verrà crea anche certezza: questa « cosa » che deve venire non è ancora visibile nel mondo esterno (non « appare »), ma a causa del fatto che, come realtà iniziale e dinamica, la portiamo dentro di noi, nasce già ora una qualche percezione di essa. A Lutero, al quale la Lettera agli Ebrei non era in se stessa molto simpatica, il concetto di « sostanza », nel contesto della sua visione della fede, non diceva niente. Per questo intese il termine ipostasi/sostanza non nel senso oggettivo (di realtà presente in noi), ma in quello soggettivo, come espressione di un atteggiamento interiore e, di conseguenza, dovette naturalmente comprendere anche il termine argumentum come una disposizione del soggetto. Questa interpretazione nel XX secolo si è affermata – almeno in Germania – anche nell'esegesi cattolica, cosicché la traduzione ecumenica in lingua tedesca del Nuovo Testamento, approvata dai Vescovi, dice: « Glaube aber ist: Feststehen in dem, was man erhofft, Überzeugtsein von dem, was man nicht sieht » (fede è: stare saldi in ciò che si spera, essere convinti di ciò che non si vede). Questo in se stesso non è erroneo; non è però il senso del testo, perché il termine greco usato (elenchos) non ha il valore soggettivo di « convinzione », ma quello oggettivo di « prova ». Giustamente pertanto la recente esegesi protestante ha raggiunto una convinzione diversa: « Ora però non può più essere messo in dubbio che questa interpretazione protestante, divenuta classica, è insostenibile » [5]. La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una « prova » delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro « non-ancora ». Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future.

[4] Summa Theologiae, II-II 4,1.
[5] H. Köster: ThWNT, VIII (1969) 585.


8 Questa spiegazione viene ulteriormente rafforzata e rapportata alla vita concreta, se consideriamo il versetto 34 del decimo capitolo della Lettera agli Ebrei che, sotto l'aspetto linguistico e contenutistico, è collegato con questa definizione di una fede permeata di speranza e la prepara. Qui l'autore parla ai credenti che hanno subito l'esperienza della persecuzione e dice loro: « Avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze (hyparchonton – Vg: bonorum), sapendo di possedere beni migliori (hyparxin – Vg: substantiam) e più duraturi » He 10,34). Hyparchonta sono le proprietà, ciò che nella vita terrena costituisce il sostentamento, appunto la base, la « sostanza » per la vita sulla quale si conta. Questa « sostanza » He 10,34), la normale sicurezza per la vita, è stata tolta ai cristiani nel corso della persecuzione. L'hanno sopportato, perché comunque ritenevano questa sostanza materiale trascurabile. Potevano abbandonarla, perché avevano trovato una « base » migliore per la loro esistenza – una base che rimane e che nessuno può togliere. Non si può non vedere il collegamento che intercorre tra queste due specie di « sostanza », tra sostentamento o base materiale e l'affermazione della fede come « base », come « sostanza » che permane. La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l'uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l'affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova « sostanza » che ci è stata donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo strapotere dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell'antichità fino a Francesco d'Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell'anima. Lì la nuova « sostanza » si è comprovata realmente come « sostanza », dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente « sostanza » ed è una « sostanza » che suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una « prova » che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza: Egli è veramente il « filosofo » e il « pastore » che ci indica che cosa è e dove sta la vita.


9 Per comprendere più nel profondo questa riflessione sulle due specie di sostanze – hypostasis ehyparchonta – e sui due modi di vita espressi con esse, dobbiamo riflettere ancora brevemente su due parole attinenti l'argomento, che si trovano nel decimo capitolo della Lettera agli Ebrei. Si tratta delle parole hypomone (He 10,36) e hypostole (He 10,39). Hypomone si traduce normalmente con « pazienza » – perseveranza, costanza. Questo saper aspettare sopportando pazientemente le prove è necessario al credente per poter « ottenere le cose promesse » (cfr He 10,36). Nella religiosità dell'antico giudaismo questa parola veniva usata espressamente per l'attesa di Dio caratteristica di Israele: per questo perseverare nella fedeltà a Dio, sulla base della certezza dell'Alleanza, in un mondo che contraddice Dio. Così la parola indica una speranza vissuta, una vita basata sulla certezza della speranza. Nel Nuovo Testamento questa attesa di Dio, questo stare dalla parte di Dio assume un nuovo significato: in Cristo Dio si è mostrato. Ci ha ormai comunicato la « sostanza » He 10,34) delle cose future, e così l'attesa di Dio ottiene una nuova certezza. È attesa delle cose future a partire da un presente già donato. È attesa, alla presenza di Cristo, col Cristo presente, del completarsi del suo Corpo, in vista della sua venuta definitiva. Con hypostole He 10,39) invece è espresso il sottrarsi di chi non osa dire apertamente e con franchezza la verità forse pericolosa. Questo nascondersi davanti agli uomini per spirito di timore nei loro confronti conduce alla « perdizione » (He 10,39). « Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza » – così invece la Seconda Lettera a Timoteo (2Tm 1,7) caratterizza con una bella espressione l'atteggiamento di fondo del cristiano.


La vita eterna – che cos'è?

10 Abbiamo finora parlato della fede e della speranza nel Nuovo Testamento e agli inizi del cristianesimo; è stato però anche sempre evidente che non discorriamo solo del passato; l'intera riflessione interessa il vivere e morire dell'uomo in genere e quindi interessa anche noi qui ed ora. Tuttavia dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita? È essa per noi « performativa » – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto « informazione » che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l'accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: « Che cosa chiedi alla Chiesa? » Risposta: « La fede ». « E che cosa ti dona la fede? » « La vita eterna ». Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l'accesso alla fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per « la vita eterna ». Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: « È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L'immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia » [6]. Già prima Ambrogio aveva detto: « Non dev'essere pianta la morte, perché è causa di salvezza... » [7].

[6] De excessu fratris sui Satyri, II, 47: CSEL 73, 274.
[7] Ibid, II, 46: CSEL 73, 273.


11 Qualunque cosa sant'Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole – è vero che l'eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l'umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio. Ovviamente c'è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall'altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la « vita »? E che cosa significa veramente « eternità »? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all'improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la « vita » vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo « vita », in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – « la vita beata », la vita che è semplicemente vita, semplicemente « felicità ». Non c'è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient'altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. « Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare », egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. « C'è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza » (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa « vera vita »; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti [8].

[8] Cfr Ep. 130 Ad Probam 14, 25-15, 28: CSEL 44, 68-73.


12 Penso che Agostino descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale dell'uomo, la situazione da cui provengono tutte le sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo [9].

[9] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
CEC 1025.



Spe salvi IT