Veritatis splendor 50

"Ma da principio non fu così"

(Mt 19,8)
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51. Il presunto conflitto tra la libertà e la natura si ripercuote anche sull'interpretazione di alcuni aspetti specifici della legge naturale, soprattutto sulla sua universalità e immutabilità. "Dove dunque sono iscritte queste regole - si chiedeva sant'Agostino - se non nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui, dunque, è dettata ogni legge giusta e si trasferisce retta nel cuore dell'uomo che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l'immagine passa dall'anello nella cera, ma senza abbandonare l'anello".

Proprio grazie a questa "verità" la legge naturale implica l'universalità. Essa, in quanto iscritta nella natura razionale della persona, si impone ad ogni essere dotato di ragione e vivente nella storia. Per perfezionarsi nel suo ordine specifico, la persona deve compiere il bene ed evitare il male, vegliare alla trasmissione e alla conservazione della vita, affinare e sviluppare le ricchezze del mondo sensibile, coltivare la vita sociale, cercare il vero, praticare il bene, contemplare la bellezza.

La scissione posta da alcuni tra la libertà degli individui e la natura comune a tutti, come emerge da alcune teorie filosofiche di grande risonanza nella cultura contemporanea, oscura la percezione dell'universalità della legge morale da parte della ragione. Ma, in quanto esprime la dignità della persona umana e pone la base dei suoi diritti e doveri fondamentali, la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini.

Questa universalità non prescinde dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all'unicità e all'irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa abbraccia in radice ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l'universalità del vero bene. Sottomettendosi alla legge comune, i nostri atti edificano la vera comunione delle persone e, con la grazia di Dio, esercitano la carità, "vincolo della perfezione" (
Col 3,14). Quando invece misconoscono o anche solo ignorano la legge, in maniera imputabile o no, i nostri atti feriscono la comunione delle persone, con pregiudizio di ciascuno.

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52. E' giusto e buono, sempre e per tutti, servire Dio, rendergli il culto dovuto ed onorare secondo verità i genitori. Simili precetti positivi, che prescrivono di compiere talune azioni e di coltivare certi atteggiamenti, obbligano universalmente; essi sono immutabili; uniscono nel medesimo bene comune tutti gli uomini di ogni epoca della storia, creati per "la stessa vocazione e lo stesso destino divino". Queste leggi universali e permanenti corrispondono a conoscenze della ragione pratica e vengono applicate agli atti particolari mediante il giudizio della coscienza. Il soggetto che agisce assimila personalmente la verità contenuta nella legge: egli si appropria, fa sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le relative virtù. I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. E' proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti.

D'altra parte, il fatto che solo i comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni circostanza, non significa che nella vita morale le proibizioni siano più importanti dell'impegno a fare il bene indicato dai comandamenti positivi. Il motivo è piuttosto il seguente: il comandamento dell'amore di Dio e del prossimo non ha nella sua dinamica positiva nessun limite superiore, bensi ha un limite inferiore, scendendo sotto il quale si viola il comandamento. Inoltre, ciò che si deve fare in una determinata situazione dipende dalle circostanze, che non si possono tutte quante prevedere in anticipo; al contrario ci sono comportamenti che non possono mai essere, in nessuna situazione, una risposta adeguata - ossia conforme alla dignità della persona. Infine, è sempre possibile che l'uomo, in seguito a costrizione o ad altre circostanze, sia impedito di portare a termine determinate buone azioni; mai pero può essere impedito di non fare determinate azioni, soprattutto se egli è disposto a morire piuttosto che a fare il male.

La Chiesa ha sempre insegnato che non si devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti morali, espressi in forma negativa nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l'inderogabilità di queste proibizioni: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti... non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso" (
Mt 19,17-18).

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53. La grande sensibilità che l'uomo contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura conduce taluni a dubitare dell'immutabilità della stessa legge naturale, e quindi dell'esistenza di "norme oggettive di moralità" valide per tutti gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato: è mai possibile affermare come valide universalmente per tutti e sempre permanenti certe determinazioni razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il progresso che l'umanità avrebbe fatto successivamente? Non si può negare che l'uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non si può negare che l'uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che nell'uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo "qualcosa" è precisamente la natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la condizione perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere. Mettere in discussione gli elementi strutturali permanenti dell'uomo, connessi anche con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in conflitto con l'esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al "principio", proprio là dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso originario e il ruolo di alcune norme morali (Cfr.
Mt 19,1-9). In tal senso "la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli". E' lui il "Principio" che, avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo.

Certamente occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente l'attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale - come quella del "deposito della fede" - si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate "eodem sensu eademque sententia" secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflessione teologica.

II. LA COSCIENZA E LA VERITA'

Il sacrario dell'uomo

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54. Il rapporto che esiste tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio ha la sua sede viva nel "cuore" della persona, ossia nella sua coscienza morale: "Nell'intimo della coscienza - scrive il Concilio Vaticano II - l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa' questo, fuggi quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (Cfr.
Rm 2,14-16)".

Per questo il modo secondo cui si concepisce il rapporto tra la libertà e la legge si collega intimamente con l'interpretazione che viene riservata alla coscienza morale. In tal senso le tendenze culturali sopra ricordate, che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà, conducono ad un'interpretazione "creativa" della coscienza morale, che si allontana dalla posizione della tradizione della Chiesa e del suo Magistero.

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55. Secondo l'opinione di diversi teologi la funzione della coscienza sarebbe stata ricondotta, almeno in un certo passato, ad una semplice applicazione di norme morali generali ai singoli casi di vita della persona. Ma simili norme - dicono - non possono essere in grado di accogliere e di rispettare l'intera irrepetibile specificità di tutti i singoli atti concreti delle persone; possono anche, in qualche modo, aiutare a una giusta valutazione della situazione, ma non possono sostituire le persone nel prendere una decisione personale su come comportarsi nei determinati casi particolari. Anzi, la predetta critica alla tradizionale interpretazione della natura umana e della sua importanza per la vita morale induce alcuni autori ad affermare che queste norme non sono tanto un criterio oggettivo vincolante per i giudizi della coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che aiuta in prima approssimazione l'uomo nel dare un'ordinata sistemazione alla sua vita personale e sociale. Essi, inoltre, rilevano la complessità tipica del fenomeno della coscienza: questa si rapporta profondamente con tutta la sfera psicologica ed affettiva e con i molteplici influssi dell'ambiente sociale e culturale della persona. D'altra parte, viene esaltato al massimo il valore della coscienza, che il Concilio stesso ha definito "il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria". Tale voce - si dice - induce l'uomo non tanto a una meticolosa osservanza delle norme universali, quanto a una creativa e responsabile assunzione dei compiti personali che Dio gli affida.

Volendo mettere in risalto il carattere "creativo" della coscienza, alcuni autori chiamano i suoi atti, non più con il nome di "giudizi", ma con quello di "decisioni": solo prendendo "auto- nomamente" queste decisioni l'uomo potrebbe raggiungere la sua maturità morale. Né manca chi ritiene che questo processo di maturazione sarebbe ostacolato dalla posizione troppo categorica che, in molte questioni morali, assume il Magistero della Chiesa, i cui interventi sarebbero causa, presso i fedeli, dell'insorgere di inutili conflitti di coscienza.

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56. Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l'originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta.

Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un'opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette "pastorali" contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un'ermeneutica "creatrice", secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare.

Non vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l'identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell'uomo e alla legge di Dio. Solo la chiarificazione precedentemente fatta sul rapporto tra libertà e legge fondato sulla verità rende possibile il discernimento circa questa interpretazione "creativa" della coscienza.


Il giudizio della coscienza

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57. Lo stesso testo della Lettera ai Romani, che ci ha fatto cogliere l'essenza della legge naturale, indica anche il senso biblico della coscienza, specialmente nel suo specifico legame con la legge: "Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono" (
Rm 2,14-15).

Secondo le parole di san Paolo, la coscienza, in un certo senso, pone l'uomo di fronte alla legge, diventando essa stessa "testimo- ne" per l'uomo: testimone della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge, ossia della sua essenziale rettitudine o malvagità morale. La coscienza è l'unico testimone: ciò che avviene nell'intimo della persona è coperto agli occhi di chiunque dall'esterno. Essa rivolge la sua testimonianza soltanto verso la persona stessa.

E, a sua volta, soltanto la persona conosce la propria risposta alla voce della coscienza.

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58. Non si apprezzerà mai adeguatamente l'importanza di questo intimo dialogo dell'uomo con se stesso. Ma, in realtà, questo è il dialogo dell'uomo con Dio, autore della legge, primo modello e fine ultimo dell'uomo. "La coscienza - scrive san Bonaventura - è come l'araldo di Dio e il messaggero, e ciò che dice non lo comanda da se stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando proclama l'editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza di obbligare".

Si può dire, dunque, che la coscienza dà la testimonianza della rettitudine o della malvagità dell'uomo all'uomo stesso, ma insieme, anzi prima ancora, essa è testimonianza di Dio stesso, la cui voce e il cui giudizio penetrano l'intimo dell'uomo fino alle radici della sua anima, chiamandolo fortiter et suaviter all'obbedienza: "La coscienza morale non chiude l'uomo dentro una invalicabile e impenetrabile solitudine, ma lo apre alla chiamata, alla voce di Dio. In questo, non in altro, sta tutto il mistero e la dignità della coscienza morale: nell'essere cioè il luogo, lo spazio santo nel quale Dio parla all'uomo".

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59. San Paolo non si limita a riconoscere che la coscienza fa da "testimone", ma rivela anche il modo con cui essa compie una simile funzione. Si tratta di "ragionamenti", che accusano o difendono i pagani in rapporto ai loro comportamenti (Cfr.
Rm 2,15). Il termine "ragionamenti" mette in luce il carattere proprio della coscienza, quello di essere un giudizio morale sull'uomo e sui suoi atti: è un giudizio di assoluzione o di condanna secondo che gli atti umani sono conformi o difformi dalla legge di Dio scritta nel cuore. E proprio del giudizio degli atti e, allo stesso tempo, del loro autore e del momento del suo definitivo compimento parla l'apostolo Paolo nello stesso

"così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio Vangelo" (Rm 2,16).

Il giudizio della coscienza è un giudizio pratico, ossia un giudizio che intima che cosa l'uomo deve fare o non fare, oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto. E' un giudizio che applica a una situazione concreta la convinzione razionale che si deve amare e fare il bene ed evitare il male. Questo primo principio della ragione pratica appartiene alla legge naturale, anzi ne costituisce il fondamento stesso, in quanto esprime quella luce originaria sul bene e sul male, riflesso della sapienza creatrice di Dio, che, come una scintilla indistruttibile (scintilla animae), brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre pero la legge naturale mette in luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la coscienza è l'applicazione della legge al caso particolare, la quale diventa così per l'uomo un interiore dettame, una chiamata a compiere nella concretezza della situazione il bene. La coscienza formula così l'obbligo morale alla luce dalla legge naturale: è l'obbligo di fare ciò che l'uomo, mediante l'atto della sua coscienza, conosce come un bene che gli è assegnato qui e ora. Il carattere universale della legge e dell'obbligazione non è cancellato, ma piuttosto riconosciuto, quando la ragione ne determina le applicazioni nell'attualità concreta. Il giudizio della coscienza afferma "ultimamente" la conformità di un certo comportamento concreto rispetto alla legge; esso formula la norma prossima della moralità di un atto volontario, realizzando "l'appli- cazione della legge oggettiva a un caso particolare".

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60. Come la stessa legge naturale e ogni conoscenza pratica, anche il giudizio della coscienza ha carattere imperativo: l'uomo deve agire in conformità ad esso.

Se l'uomo agisce contro tale giudizio, oppure, anche in mancanza di certezza circa la correttezza e la bontà di un determinato atto, lo compie, egli è condannato dalla sua stessa coscienza, norma prossima della moralità personale. La dignità di questa istanza razionale e l'autorità della sua voce e dei suoi giudizi derivano dalla verità sul bene e sul male morale, che essa è chiamata ad ascoltare e ad esprimere. Questa verità è indicata dalla "legge divina", norma universale e oggettiva della moralità. Il giudizio della coscienza non stabilisce la legge, ma attesta l'autorità della legge naturale e della ragione pratica in riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta l'attrattiva e accoglie i comandamenti: "La coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del comportamento umano".

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61. La verità circa il bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è riconosciuta praticamente e concretamente dal giudizio della coscienza, il quale porta ad assumere la responsabilità del bene compiuto e del male commesso: se l'uomo commette il male, il giusto giudizio della sua coscienza rimane in lui testimone della verità universale del bene, come della malizia della sua scelta particolare. Ma il verdetto della coscienza permane in lui anche come un pegno di speranza e di misericordia: mentre attesta il male commesso, ricorda anche il perdono da chiedere, il bene da praticare e la virtù da coltivare sempre, con la grazia di Dio.

Così nel giudizio pratico della coscienza, che impone alla persona l'obbligo di compiere un determinato atto, si rivela il vincolo della libertà con la verità. Proprio per questo la coscienza si esprime con atti di "giudizio" che riflettono la verità sul bene, e non come "decisioni" arbitrarie. E la maturità e la responsabilità di questi giudizi - e, in definitiva, dell'uomo, che ne è il soggetto - si misurano non con la liberazione della coscienza dalla verità oggettiva, in favore di una presunta autonomia delle proprie decisioni, ma, al contrario, con una pressante ricerca della verità e con il farsi guidare da essa nell'agire.


Cercare la verità e il bene

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62. La coscienza, come giudizio di un atto, non è esente dalla possibilità di errore. "Succede non di rado - scrive il Concilio - che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato". Con queste brevi parole il Concilio offre una sintesi della dottrina che la Chiesa nel corso dei secoli ha elaborato sulla coscienza erronea.

Certamente, per avere una "buona coscienza" (
1Tm 1,5), l'uomo deve cercare la verità e deve giudicare secondo questa stessa verità. Come dice l'apostolo Paolo, la coscienza deve essere illuminata dallo Spirito Santo (Cfr. Rm 9,1), deve essere "pura" (2Tm 1,3), non deve con astuzia falsare la parola di Dio ma manifestare chiaramente la verità (Cfr. 2Co 4,2). D'altra parte, lo stesso Apostolo ammonisce i cristiani dicendo: "Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2).

Il monito di Paolo ci sollecita alla vigilanza, avvertendoci che nei giudizi della nostra coscienza si annida sempre la possibilità dell'errore. Essa non è un giudice infallibile: può errare. Nondimeno l'errore della coscienza può essere il frutto di una ignoranza invincibile, cioè di un'ignoranza di cui il soggetto non è consapevole e da cui non può uscire da solo.

Nel caso in cui tale ignoranza invincibile non sia colpevole, ci ricorda il Concilio, la coscienza non perde la sua dignità, perché essa, pur orientandoci di fatto in modo difforme dall'ordine morale oggettivo, non cessa di parlare in nome di quella verità sul bene che il soggetto è chiamato a ricercare sinceramente.

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63. E' comunque sempre dalla verità che deriva la dignità della coscienza: nel caso della coscienza retta si tratta della verità oggettiva accolta dall'uomo; in quello della coscienza erronea si tratta di ciò che l'uomo sbagliando ritiene soggettivamente vero. Non è mai accettabile confondere un errore "soggettivo" sul bene morale con la verità "oggettiva", razionalmente proposta all'uomo in virtù del suo fine, né equiparare il valore morale dell'atto compiuto con coscienza vera e retta con quello compiuto seguendo il giudizio di una coscienza erronea. Il male commesso a causa di una ignoranza invincibile, o di un errore di giudizio non colpevole, può non essere imputabile alla persona che lo compie; ma anche in tal caso esso non cessa di essere un male, un disordine in relazione alla verità sul bene. Inoltre, il bene non riconosciuto non contribuisce alla crescita morale della persona che lo compie: esso non la perfeziona e non giova a disporla al bene supremo. così, prima di sentirci facilmente giustificati in nome della nostra coscienza, dovremmo meditare sulla parola del Salmo: "Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo" (Ps 18[19],13). Ci sono colpe che non riusciamo a vedere e che nondimeno rimangono colpe, perché ci siamo rifiutati di andare verso la luce (Cfr.
Jn 9,39-41).

La coscienza, come giudizio ultimo concreto, compromette la sua dignità quando è colpevolmente erronea, ossia "quando l'uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine al peccato". Ai pericoli della deformazione della coscienza allude Gesù, quando ammonisce: "La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tua tenebra!" (Mt 6,22-23).

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64. Nelle parole di Gesù sopra riferite troviamo anche l'appello a formare la coscienza, a renderla oggetto di continua conversione alla verità e al bene.

Analoga è l'esortazione dell'Apostolo a non conformarsi alla mentalità di questo mondo, ma a trasformarsi rinnovando la propria mente (Cfr.
Rm 12,2). E', in realtà, il "cuore" convertito al Signore e all'amore del bene la sorgente dei giudizi veri della coscienza. Infatti, "per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2) è si necessaria la conoscenza della legge di Dio in generale, ma questa non è sufficiente: è indispensabile una sorta di "connaturalità" tra l'uomo e il vero bene. Una simile connaturalità si radica e si sviluppa negli atteggiamenti virtuosi dell'uomo stesso: la prudenza e le altre virtù cardinali, e prima ancora le virtù teologali della fede, della speranza e della carità. In tal senso Gesù ha detto: "Chi opera la verità viene alla luce" (Jn 3,21).

Un grande aiuto per la formazione della coscienza i cristiani l'hanno nella Chiesa e nel suo Magistero, come afferma il Concilio: "I cristiani... nella formazione della loro coscienza devono considerare diligentemente la dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di annunziare e di insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi dell'ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana". Pertanto l'autorità della Chiesa, che si pronuncia sulle questioni morali, non intacca in nessun modo la libertà di coscienza dei cristiani: non solo perché la libertà della coscienza non è mai libertà "dalla" verità, ma sempre e solo "nella" verità; ma anche perché il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità ad essa estranee, bensi manifesta le verità che dovrebbe già possedere sviluppandole a partire dall'atto originario della fede. La Chiesa si pone solo e sempre al servizio della coscienza, aiutandola a non essere portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l'inganno degli uomini (Cfr. Ep 4,14), a non sviarsi dalla verità circa il bene dell'uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa.

III. LA SCELTA FONDAMENTALE E I COMPONENTI CONCRETI

"Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne" (Ga 5,13)
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65. L'interesse, oggi particolarmente acuto, per la libertà induce molti cultori di scienze sia umane che teologiche a sviluppare un'analisi più penetrante della sua natura e dei suoi dinamismi. Giustamente si rileva che la libertà non è solo la scelta per questa o per quest'altra azione particolare; ma è anche, dentro una simile scelta, decisione su di sé e disposizione della propria vita pro o contro il Bene, pro o contro la Verità, in ultima istanza pro o contro Dio. Giustamente si sottolinea l'importanza eminente di alcune scelte, che danno "forma" a tutta la vita morale di un uomo, configurandosi come l'alveo entro cui potranno trovare spazio e sviluppo anche altre scelte quotidiane particolari.

Alcuni autori, tuttavia, propongono una revisione ben più radicale del rapporto tra persona e atti. Essi parlano di una "libertà fondamentale", più profonda e diversa dalla libertà di scelta, senza la cui considerazione non si potrebbero né comprendere né valutare correttamente gli atti umani. Secondo tali autori, il ruolo chiave nella vita morale sarebbe da attribuire ad una "opzione fondamentale", attuata da quella libertà fondamentale mediante la quale la persona decide globalmente di se stessa, non attraverso una scelta determinata e consapevole a livello riflesso, ma in forma "trascen- dentale" e "atematica". Gli atti particolari derivanti da questa opzione costituirebbero soltanto dei tentativi parziali e mai risolutivi per esprimerla, sarebbero solamente "segni" o sintomi di essa. Oggetto immediato di questi atti - si dice - non è il Bene assoluto (di fronte al quale si esprimerebbe a livello trascendentale la libertà della persona), ma sono i beni particolari (detti anche "cate- goriali"). Ora, secondo l'opinione di alcuni teologi, nessuno di questi beni, per loro natura parziali, potrebbe determinare la libertà dell'uomo come persona nella sua totalità, anche se solamente mediante la loro realizzazione o il loro rifiuto l'uomo potrebbe esprimere la propria opzione fondamentale.

Si giunge così ad introdurre una distinzione tra l'opzione fondamentale e le scelte deliberate di un comportamento concreto, una distinzione che in alcuni autori assume la forma di una dissociazione, allorché essi riservano espressamente il "bene" e il "male" morale alla dimensione trascendentale propria dell'opzione fondamentale, qualificando come "giuste" o "sbagliate" le scelte di particolari comportamenti "intramondani", riguardanti cioè le relazioni dell'uomo con se stesso, con gli altri e con il mondo delle cose. Sembra così delinearsi all'interno dell'agire umano una scissione tra due livelli di moralità: l'ordine del bene e del male, dipendente dalla volontà, da una parte, e i comportamenti determinati, dall'altra, i quali vengono giudicati come moralmente giusti o sbagliati solo in dipendenza da un calcolo tecnico della proporzione tra beni e mali "premorali" o "fisici", che effettivamente seguono all'azione. E ciò fino al punto che un comportamento concreto, anche liberamente scelto, viene considerato come un processo semplicemente fisico, e non secondo i criteri propri di un atto umano. L'esito al quale si giunge è di riservare la qualifica propriamente morale della persona all'opzione fondamentale, sottraendola in tutto o in parte alla scelta degli atti particolari, dei comportamenti concreti.

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66. Non c'è dubbio che la dottrina morale cristiana, nelle sue stesse radici bibliche, riconosce la specifica importanza di una scelta fondamentale che qualifica la vita morale e che impegna la libertà a livello radicale di fronte a Dio. Si tratta della scelta della fede, dell'obbedienza della fede (Cfr.
Rm 16,26), "con la quale l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando "il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà"". Questa fede, che "opera mediante la carità" (Ga 5,6), proviene dal centro dell'uomo, dal suo "cuore" (Cfr. Rm 10,10), e da qui è chiamata a fruttificare nelle opere (Cfr. Mt 12,33-35 Lc 6,43-45 Rm 8,5-8 Ga 5,22). Nel Decalogo si trova, in capo ai diversi comandamenti, la clausola fondamentale: "Io sono il Signore, tuo Dio..." (Ex 20,2) che, imprimendo il senso originale alle molteplici e varie prescrizioni particolari, assicura alla morale dell'Alleanza una fisionomia di globalità, di unità e di profondità. La scelta fondamentale di Israele riguarda allora il comandamento fondamentale (Cfr. GS 24,14-25 Ex 19,3-8 Mi 6,8). Anche la morale della Nuova Alleanza è dominata dall'appello fondamentale di Gesù alla sua "sequela" - così anche al giovane egli dice: "Se vuoi essere perfetto... vieni e seguimi" (Mt 19,21) -: a tale appello il discepolo risponde con una decisione e scelta radicale. Le parabole evangeliche del tesoro e della perla preziosa, per la quale si vende tutto ciò che si possiede, sono immagini eloquenti ed efficaci del carattere radicale e incondizionato della scelta che il Regno di Dio esige. La radicalità della scelta di seguire Gesù è meravigliosamente espressa nelle sue parole: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà" (Mc 8,35).

L'appello di Gesù "vieni e seguimi" segna la massima esaltazione possibile della libertà dell'uomo e, nello stesso tempo, attesta la verità e l'obbligazione di atti di fede e di decisioni che si possono dire di opzione fondamentale. Analoga esaltazione della libertà umana troviamo nelle parole di san Paolo: "Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà" (Ga 5,13). Ma l'Apostolo immediatamente aggiunge un grave monito: "Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne". In questo monito riecheggiano le sue precedenti parole: "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (Ga 5,1).

L'apostolo Paolo ci invita alla vigilanza: la libertà è sempre insidiata dalla schiavitù. Ed è proprio questo il caso di un atto di fede - nel senso di un'opzione fondamentale - che viene dissociato dalla scelta degli atti particolari, secondo le tendenze sopra ricordate.

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67. Queste tendenze sono dunque contrarie allo stesso insegnamento biblico che concepisce l'opzione fondamentale come una vera e propria scelta della libertà e collega profondamente tale scelta con gli atti particolari. Mediante la scelta fondamentale l'uomo è capace di orientare la sua vita e di tendere, con l'aiuto della grazia, verso il suo fine, seguendo l'appello divino. Ma questa capacità si esercita di fatto nelle scelte particolari di atti determinati, mediante i quali l'uomo si conforma deliberatamente alla volontà, alla sapienza e alla legge di Dio. Va pertanto affermato che la cosiddetta opzione fondamentale, nella misura in cui si differenzia da un'intenzione generica e quindi non ancora determinatasi in una forma impegnativa della libertà, si attua sempre mediante scelte consapevoli e libere. Proprio per questo, essa viene revocata quando l'uomo impegna la sua libertà in scelte consapevoli di senso contrario, relative a materia morale grave.

Separare l'opzione fondamentale dai comportamenti concreti significa contraddire l'integrità sostanziale o l'unità personale dell'agente morale nel suo corpo e nella sua anima. Un'opzione fondamentale, intesa senza considerare esplicitamente le potenzialità che mette in atto e le determinazioni che la esprimono, non rende giustizia alla finalità razionale immanente all'agire dell'uomo e a ciascuna delle sue scelte deliberate. In realtà, la moralità degli atti umani non si evince solo dall'intenzione, dall'orientazione o opzione fondamentale, interpretata nel senso di un'intenzione vuota di contenuti impegnativi ben determinati o di un'intenzione alla quale non corrisponde uno sforzo fattivo nei diversi obblighi della vita morale. La moralità non può essere giudicata se si prescinde dalla conformità o dalla contrarietà della scelta deliberata di un comportamento concreto rispetto alla dignità e alla vocazione integrale della persona umana. Ogni scelta implica sempre un riferimento della volontà deliberata ai beni e ai mali, indicati dalla legge naturale come beni da perseguire e mali da evitare.

Nel caso dei precetti morali positivi, la prudenza ha sempre il compito di verificarne la pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo conto di altri doveri forse più importanti o urgenti. Ma i precetti morali negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o comportamenti concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima eccezione; essi non lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per la "creatività" di una qualche determinazione contraria. Una volta riconosciuta in concreto la specie morale di un'azione proibita da una regola universale, il solo atto moralmente buono è quello di obbedire alla legge morale e di astenersi dall'azione che essa proibisce.

68
68. Occorre aggiungere una importante considerazione pastorale. Nella logica delle posizioni sopra accennate, l'uomo potrebbe, in virtù di un'opzione fondamentale, restare fedele a Dio, indipendentemente dalla conformità o meno di alcune sue scelte e dei suoi atti determinati alle norme o regole morali specifiche. In ragione di un'opzione originaria per la carità, l'uomo potrebbe mantenersi moralmente buono, perseverare nella grazia di Dio, raggiungere la propria salvezza, anche se alcuni dei suoi comportamenti concreti fossero deliberatamente e gravemente contrari ai comandamenti di Dio, riproposti dalla Chiesa.

In realtà, l'uomo non si perde solo per l'infedeltà a quella opzione fondamentale, mediante la quale si è consegnato "tutto a Dio liberamente". Egli, con ogni peccato mortale commesso deliberatamente, offende Dio che ha donato la legge e pertanto si rende colpevole verso tutta la legge (Cfr.
Jc 2,8-11); pur conservandosi nella fede, egli perde la "grazia santificante", la "carità" e la "beatitudine eterna". "La grazia della giustificazione - insegna il Concilio di Trento -, una volta ricevuta, può essere perduta non solo per l'infedeltà, che fa perdere la stessa fede, ma anche per qualsiasi altro peccato mortale".


Veritatis splendor 50