Orientalium Ecclesiarum

Decreto sulle Chiese Orientali Cattoliche

 

Fra le gemme del Concilio Ecumenico Vaticano II spicca di una sua propria luce quella trilogia ecclesiologica costituita dai tre documenti conciliari: Costituzione dogmatica sulla Chiesa, decreto sulle Chiese Orientali Cattoliche e il decreto sull'Ecumenismo. E' apparsa al mondo in una provvidenziale simultaneità il 21 novembre 1964, per una convergenza di intenti, di sforzi, di pensieri e correnti, che all'inizio del Concilio nessuno poteva prevedere, eccetto forse quella grande anima di Papa Giovanni XXIII, che per la sua provvidenziale intuizione creò tre gruppi di lavoro, dando a ciascuno una generica visione di intenti e imprimendo un impulso coordinatore tra la diversità di propositi.

A testimonianza di ciò è lo stesso *iter+ di questa trilogia. Introdotta dagli Orientali la questione * De unitate Ecclesiae: Ut omnes unum sint (1962), essa ebbe influsso sul ridimensionamento dello schema iniziale *de Ecclesia+, delineò le linee principali del decreto * de Oecumenismo+ (1963), influendo decisamente sulla composizione del decreto finale sulle Chiese Orientali Cattoliche (1964).

Dalla connessione dei propositi e sforzi comuni, appare anche l'unicità del risultato, sebbene convenientemente articolato. Il frutto lo colse la Chiesa sotto il pontificato di Paolo VI, diventando depositaria di una ecclesiologia nuova per i tempi nuovi.

A Concilio compiuto, questa gemma triangolare ecclesiologica ricevtte un nuovo splendore e la sua provvidenziale triangolazione emise nuovi riflessi, che rispecchiandosi a vicenda diventano una potente luce che illumina tutto il patrimonio dottrinale del Vaticano II. Come un fatto compiuto e perciò irrevocabile e storico, questa trilogia ecclesiologica non è più scindibile; non è neanche più pensabile una separazione o astrazione di questa unità senza un danno a tutti i tre documenti, che a vicenda si arricchiscono, si spiegano e si illustrano, rendendo possibile una più profonda conoscenza e intrepretazione di ciascuno.

Il decreto sulle Chiese orientali proviene da un fatto storico e da un fatto ecclesiologico, messo insieme dalla sollecitudine dei Pastori della Chiesa. L'esistenza delle Chiese Orientali è una realtà che non poteva sfuggire all'attenzione di un Concilio pastorale. Il problema dell'unità della Chiesa è una verità che non poteva non essere considerata dai Dottori della Chiesa; testimonio n'è il decreto sull'Ecumenismo; come il decreto sulle Chiese Orientali Cattoliche ne prova la consapevolezza dei Padri dell'altra, cioè della realtà differenziata della Chiesa. L'unità e la realtà sono alla base della elaborazione del nostro decreto, come fatto pastorale e dottrinale insieme, toccando da una parte la dottrina, dall'altra la prassi pastorale. Perciò il contenuto del decreto orientale è dottrinale e completa la costituzione sulla Chiesa; dall'altra parte è disciplinare, e serve all'esemplificazione del decreto sull'Ecumenismo.

Senza correre rischio di ripetere il testo del decreto, c'è poco da dire sul suo contenuto. Sì, è breve, ma mira lontano per le conclusioni possibili e previste; è ristretto per i suoi destinatari attuati, ma è estensivo nel futuro non delimitato; è conciso nelle parole, ma largo nelle cose sottintese; è una manciata di grano, ma promettente di una messe ricca; indulge nel passato, ma tutto rivolto verso il futuro; ha ben precise forme cattoliche, ma sullo sfondo ecumenico; è generico, ma risolve molte strettoie pratiche; è disciplinare, ma dà indirizzi dottrinali; è chiuso nelle sue formulazioni conciliari, ma apre le porte ad una larga azione sinodale orientale; è pienamente valido per la Chiesa d'oggi, ma è riformabile per la propria volontà nella Chiesa e realtà di domani. Ecco, qualche aspetto generale del decreto nostro.

E con quale carico di insegnamenti di soluzioni pastorali, di provvedimenti ecumenici si presenta il decreto alla Chiesa universale, alle Chiese Orientali, al foro ecumenico? Il Concilio ha coraggiosamente risolto la varietà e diversità nell'unità, dicendo una parola definitiva nelle incertezze umane e equivoci storiosofici (nn. 2-3); ha posto fine alle discriminazioni culturali nella Chiesa (n. 3J, pareggiando davanti la Chiesa i sentimenti, le menti, i costumi (n. 37, i diritti e obblighi (n. 3); regolò la convivenza inter rituale (n. 4); affermò la validità storica e attuale delle discipline ecclesiastiche (n.5); inculcò la mutua comprensione sulla base di una profonda conoscenza e sincera collaborazione (n.6); rivalutò l'istituto patriarcale (n. 7-8), e sinodale (n. 1-9), lo sviluppò (n. 9), lo raccomandò (n. 11); lo rese attuale ed operativo (nn. 9, 19, 20, 23). Sebbene è tutto quanto pervaso da un aspetto ecumenico delle Chiese Orientali Cattoliche attuali (nn. 24-30), stabilì la posizione dei singoli Orientali, sia cattolici sia non cattolici, netta realtà della Chiesa Cattolica (nn. 4, 21, 25, 27, 28); aggiornò alle esigenze attuati ed ecumeniche la disciplina sacramentaria: cresima (nn. 134), Eucarestia (n. 15), Penitenza (n. 16), Matrimoni misti (n. 18), Diaconato (n. 17), introducendo mitigazioni, chiarificazioni, aggiornamenti alle esigenze della vita attuale degli Orientali. Per espresse esigenze pastorali e nello spirito ecumenico il decreto diede importanti norme in materia del culto divino, come sono le feste (n. 19), Pasqua comune (n. 20), preghiera comunitaria delta Chiesa (m 72), lingua liturgica (n. 23), dando un valido impulso all'aggiornamento più profondo ed esteso dette Chiese Orientali, esprimendo i criteri (n. 6) e designando gli artefici di un proficuo lavoro: Patriarchi, Arcivescovi, Sinodi, Supreme Autorità delle singole Chiese.

Ma forse un più incisivo intervento del Concilio si nota nella materia della convivenza sacramentale tra gli Orientati: cattolici e separati. Stabilita e confermata la validità dei Sacramenti presso gli Orientali non cattolici (n. 25), stabilite te norme ed esigenze di diritto divino nell'amministrazione dei Sacramenti, riconosciuta l'esistenza della sincerità cristiana ed ecumenica (n. 26), il Concilio apre le chiuse canoniche erette per le esigenze storicamente giustificate per permettere più abbondante e spedito flusso della grazia sacramentale nelle anime che ne hanno bisogno (nn. 27-28): la grazia della Penitenza, dell'Eucarestia, della preghiera della Chiesa che accompagna questi che si avvicinano al Signore, è di tutti i credenti sinceramente in Cristo che non pongono osta coli e la Chiesa come unica amministratrice ne profonde ad abbondanza, aiutando tutti e non danneggiando nessuno (n. 29), dimostrando la sua carità ecumenica (n. 28).

Faticosamente e liberamente elaborato e concordato dagli Orientali stessi, ottenuto il consenso plebiscitario della Chiesa, fondato sulle verità ecclesiologiche della costituzione sulla Chiesa, penetrato interamente dalla carità ecumenica del decreto sull'Ecumenismo, il decreto sulle Chiese Orientali Cattoliche entra nella vita della Chiesa e di tutta la cristianità con la speranza e con la persuasione di aver fatto un passo pratico ed importante sulla via ut omnes unum sint.

Il Decreto Orientalium Ecclesiarum fu votato da 2149 Padri il 21 novembre 1964 con 2110 voti favorevoli e 39 voti contrari.

 

 

Orientalium Ecclesiarum

A colloquio con p. Edward G. Farrugia s.j.

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Leggendo il decreto Orientalium Ecclesiarum a distanza di oltre 30 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, la luce che ne proviene sembra impallidire, come cosa un po' fuori moda.

L'impressione, almeno in parte, corrisponde al vero. Un giudizio equilibrato dipende da come si affronta un documento. Situandosi nel tempo in cui fu emanato (1964) c'è da restare sorpresi del balzo in avanti rispetto alla separazione tra Oriente e Occidente. Ma considerandolo dal momento attuale, allora il documento sembrerà un po' antiquato. Questa impressione è dovuta in gran parte al progresso accelerato prodotto dal Vaticano II, e quindi rientra anche un poco nei meriti del decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum. Se il miglior insegnante è colui che si rende superfluo perché riesce a trasmettere ai discepoli la sua scienza, lo stesso vale per un documento programmatico come lo è un documento conciliare: non si può esprimergli complimento più grande del riconoscergli che la sua lezione è stata appresa e praticata.

Ma possiamo essere così idealisti quando le difficoltà nei rapporti tra Chiese orientali non cattoliche e Chiesa di Roma sono all'ordine del giorno?

Certamente no! La situazione attuale è allo stesso tempo segnata da conflitti e da speranze, da una parte dallo stallo ecumenico, dall'altra dalle aperture ereditate dal Concilio e, miracolosamente, non ancora tramontate. Quando, cento anni fa, il vescovo di Bosnia e Sirmio, Josip J. Strossmayer, riferiva a Leone XIII che il grande filosofo russo Vladimir Solov'ëv (1853-1900) formulava piani per l'unione fra Chiesa Ortodossa e Cattolica, il Papa era vivamente interessato. Ma alla fine considerò irrealizzabile il progetto di unire il cristianesimo sotto il papa, come capo spirituale, e sotto lo zar come capo temporale. A distanza di un secolo, dobbiamo distinguere nel pensiero di Solov'ëv ciò che ha un futuro da quanto era condizionato dal suo tempo. Se oggi ci imbattiamo in mille difficoltà, talvolta imprevedibili, almeno cerchiamone onestamente una soluzione, invece di rompere definitivamente le trattative, frutto del nuovo clima creato col Vaticano II.

 

Non dobbiamo però esagerare trincerandoci dietro il Vaticano II. Uno specifico decreto conciliare potrebbe cantare "extra chorum" e cioè essere meno buono dell'insieme; potrebbe essere uno dei documenti meno riusciti.

Penso che anche allora bisogna individuare la difficoltà.

Mi pare, per esempio, che lo stesso titolo del decreto, Orientalium Ecclesiarum, non sia senza difetto. Sembra adoperare la designazione di Chiesa solo per una parte di quelle che nel linguaggio post-conciliare sono dette Chiese. Voglio dire le Chiese sorelle.

Con la prospettiva di oggi, erede dello stesso concilio, le Chiese orientali sono considerate Chiese sorelle (UR 14; cf UR 3, LG 8, 15). Abitualmente si citano i decreti con le prime due parole, l'incipit, in questo caso Orientalium Ecclesiarum. Ma il documento è di fatto intitolato Decretum de ecclesiis orientalibus catholicis, che toglie ogni ambiguità (cf anche OE 30). A un esame approfondito, quindi, l'obiezione non tiene. Con l'espressione Chiese sorelle si intende, concretamente, Chiesa Cattolica e Chiese ortodosse, e non Chiese cattoliche orientali, le quali sono già incluse nella Chiesa cattolica. Una critica più giusta sarebbe che il linguaggio di OE non corrisponde sempre a quello sull'ecumenismo, Unitatis Redintegratio, approvato e promulgato lo stesso giorno (21.11.64).

 

Veniamo anzitutto alla storia del decreto Orientalium Ecclesiarum.

Se lasciamo da parte per semplificare la fase pre-conciliare, limitiamoci allora a constatare che il primo abbozzo, o schema, s'intitolava, Ut unum sint. Fu presentato il 26 novembre 1962 quando il Concilio era ancora agli inizi. Dalla discussione di quattro giorni, ma anche dallo stesso titolo, è chiaro che il testo mirava all'unione con gli Ortodossi. Così facendo, lo schema si collocò sulla linea di documenti precedenti che consideravano l'Oriente globalmente, senza le dovute differenziazioni, come un problema dal punto di vista cattolico, anziché restituirgli una sua autonomia, indipendentemente dal trattare dell'unione. Non sorprende quindi che i primi sondaggi non piacessero neppure agli stessi Orientali in comunione con Roma, perché la proposta era troppo "vecchia scuola". A nessuno piace essere considerato un problema! Gli orientali cattolici sono di casa, vogliono gli stessi diritti dei cattolici Latini. E quando ci sono problemi con loro, bisogna sistemarli prima di pensare agli Orientali non cattolici.

Qui devo segnalare la figura straordinaria del Patriarca dei Melchiti Massimo IV Saigh di Antiochia (+1967), a cui il patriarca di Costantinopoli Atenagora disse in occasione dello storico incontro con il papa a Gerusalemme il 5 gennaio 1964: *E' stato Lei il portavoce dell'Oriente al concilio e attraverso Lei si è sentita la nostra voce!+ E' dovuto all'insistenza di Massimo IV se certe frasi paternalistiche siano state tolte dal preambolo del decreto (OE 1). Ma, come dico, l'abbozzo non fu approvato e fu suggerito invece che facesse parte del decreto sull'ecumenismo. Da questi tentativi è nato un nuovo schema, De Ecclesiis Orientalibus, presentato nuovamente ai Padri il 15 ottobre 1964. Anche questa volta c'erano proteste, specie contro tendenze latinizzanti ancora percepibili, tanto che furono espresse 1,920 riserve a carico del testo presentato. Quando, finalmente, il testo fu ripresentato con emendamenti, il 21 novembre, fu approvato a larga maggioranza, con 2110 voti a favore e 39 contrarie; ma nel frattempo il testo era andato modificandosi fino a divenire un testo sulle Chiese orientali in comunione con Roma. Erano stati fatti così grandi progressi. Intanto, la distinzione tra Chiese Orientali cattoliche e non cattoliche, che lo stesso titolo presuppone, ha funzionato da catalizzatore della consapevolezza che le Chiese Orientali non unite a Roma non sono Chiese in una vaga accezione del termine, ma Chiese sorelle. Il tentativo di estendere questa dicitura di Chiese sorelle anche ad altre comunità ecclesiali, come a quella anglicana (cf UR 13), purtroppo fallì.

 

Ma, se c'era già accordo sulla sostanza, come si spiega il titolo?

Forse il titolo si capisce meglio sullo sfondo della discussione precedente. La discussione previa doveva risolvere la questione se integrare il decreto nella costituzione sulla Chiesa, per non dare l'impressione che le Chiese orientali ne siano fuori. Tale suggerimento arrivò tardi: si sarebbero dovuti includere più membri nella Commissione sulla Chiesa. Poi, questa stessa via ha prevalso, anche quanto alla promulgazione del Codice dei canoni per le Chiese orientali (18.10.1990). Tale soluzione, considerata da alcuni come male minore, aveva se non altro il vantaggio che le Chiese orientali ricevessero maggiore attenzione. Era uno sviluppo provvidenziale, se si pensa che per secoli le stesse Chiese orientali cattoliche erano tollerate, piuttosto che pienamente accettate.

 

Già Leone XIII aveva insistito, un secolo prima, sulla uguale dignità delle Chiese Orientali.

Difatti, nel 1894, il papa scrive la sua Lettera apostolica Orientalium Dignitas, in cui mostra grande premura per le Chiese cattoliche orientali, sottolineando la sua ammirazione del prezioso patrimonio cristiano di cui sono custodi. Il Papa scrive un anno dopo il Congresso eucaristico di Gerusalemme (1893), i cui suggerimenti sono alle origini di un dicastero per gli Orientali, separato da Propaganda Fide, per l'appunto la Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale, al singolare al momento della fondazione (1.5.1917), e dell'annesso Pontificio Istituto Orientale (15.10.1917). Solo, nel 1967, con Paolo VI, il nome cambia in Sacra Congregatio pro Ecclesiis Orientalibus. Prima invece gli Orientali, dipendenti dal 1861 da una sezione interna a Propaganda Fide, erano equiparati a soggetti di missione. Nella ricorrenza di quel centenario (1994) è uscita un'altra Lettera apostolica, Orientale Lumen, in cui Giovanni Paolo II ribadisce quanto il patrimonio orientale faccia parte integrante della cattolicità della Chiesa (OL 1, 21, 28). Queste due date 1894 e 1994 forniscono un'eccellente cornice per OE, in quanto ne sono, rispettivamente, punto di partenza e di arrivo.

 

Ma stiamo già entrando nei particolari. Meglio dare prima uno sguardo d'insieme.

Il decreto Orientalium Ecclesiarum comprende 30 articoli, suddivisi in sei parti. Dopo una introduzione (OE 1), segue:

C (A) una presentazione delle Chiese particolari o riti (OE 2-4), suddivisa in (a) una descrizione dei tratti essenziali dei riti (OE 2), (b) nel loro rapporto vicendevole, con il Sommo Pontefice (OE 3) e (c) la necessaria loro promozione e sviluppo (OE 4).

C (B) La seconda parte tratta del patrimonio spirituale delle Chiese orientali (OE 5-6), che ha bisogno, per essere preservato, non solo di autonomia di governo (OE 5), ma anche di continuità con la propria tradizione liturgico-canonica, introducendovi solo cambiamenti organici, che evitino gli errori del passato, come la latinizzazione forzata di testi e costumi orientali (OE 6).

C (C) Dei patriarcati orientali si occupa la terza parte (OE 7-11), incominciando con (a) una definizione di patriarca e patriarcato, dell'ordine di precedenza di onore relativo ai patriarchi (OE 7-8), (b) dell'autorità del patriarca (OE 9) come anche di un arcivescovo maggiore (OE 10), che gode tutti i diritti di un patriarca, tranne il titolo e alcuni privilegi; e delle condizioni per stabilire nuovi patriarcati (OE 11).

C La disciplina dei sacramenti forma la quarta parte (D: OE 12-18), con i temi seguenti: necessità di preservare e, se necessario, ripristinare l'antica disciplina sacramentale orientale (OE 12); possibilità per sacerdoti orientali (OE 13) e occidentali (OE 14) di essere ministri della cresima; normative per l'adempimento del precetto domenicale e festivo (OE 15); estensione della facoltà quanto al sacramento di riconciliazione (OE 16); diaconato permanente (OE 17); forma canonica per la celebrazione dei matrimoni misti tra cattolici e acattolici orientali battezzati (OE 18).

C La quinta parte (E) va oltre la prassi e discute la cosa più cara ad un orientale, il culto divino (OE 19-23). Tratta di feste (OE 19), della data di Pasqua (OE 20), dell'adattamento rituale per individui fuori del proprio territorio (OE 21), della liturgia delle ore (OE 22) e delle lingue liturgiche (OE 23).

C La sesta e ultima parte (F) discute i rapporti con i fratelli separati: Chiese orientali ed ecumenismo (OE 24), che fare con membri di Chiese orientali non-cattoliche che vogliano passare alla Chiesa cattolica (OE 25), principî per la comunicazione in cose sacre (OE 26), applicazione pastorale della communicatio in sacris, (OE 27-29);

C Conclusione (OE 30).

 

Se entriamo nei particolari, i riti o le Chiese particolari sono espressioni che forse non si capiscono a prima vista.

Infatti, lo schema preliminare del 1963, De Ecclesiis orientalibus, aveva deciso di bandire il termine rito a causa della sua indeterminatezza, rovesciando così l'uso stabilito dal Codex Iuris Canonici del 1917, ma questo divieto non prevalse (cf CCEO 28, 40, 82, 403).

Mentre un uso diffuso del termine rito lo restringe alla liturgia, con le sue cerimonie e con i suoi simboli, il decreto usa il termine rito come sinonimo di Chiesa particolare (OE 2-4). Significa infatti tutta la struttura ecclesiale, che include liturgia, disciplina e spiritualità (OE 3). Il canone 28 '1 del CCEO, apportando ulteriore precisazione a OE 3, lo esprime sinteticamente: *Il rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è propria di ciascuna Chiesa sui iuris.+ Al contempo, OE 3 ribadisce l'uguaglianza di tutte queste Chiese, che sono allo stesso modo affidate al governo pastorale del Papa.

 

Vogliamo dire una parola sul significato di Chiesa sui iuris?

Chiesa sui iuris non è espressione di OE, ma del CCEO. Per evitare l'equivoco con il CIC, dove Chiesa particolare vuol dire anzitutto "diocesi" (CIC 368; cf anche CD 11), il CCEO adopera Chiesa sui iuris. Questo termine è sinonimo di Chiesa particolare (OE 2-3), oppure di Chiesa locale. Si tratta di ogni raggruppamento di fedeli cristiani sotto una gerarchia, riconosciuto espressamente, o almeno tacitamente, a norma del diritto, dalla suprema autorità della Chiesa, come sui iuris (CCEO 27). I riti hanno il diritto di esistere in tutto il mondo (OE 4); correlativamente, c'è l'obbligo di assicurare che clero e laici siano ben istruiti sui riti e i loro rapporti.

 

C'è contraddizione tra ciò che asseriscono esperti moderni delle liturgie orientali e ciò che afferma il CCEO? OE non specifica quali siano i riti. I primi parlano di sette riti, mentre il codice sembra enumerarne cinque.

Secondo il CCEO, i riti traggono la loro origine dalle tradizioni Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana (can. 28 '2), quindi da cinque tradizioni. Però, i liturgisti comunemente parlano di sette riti orientali: Armeno, Bizantino, Siro-orientale (chiamato anche Caldeo), Copto, Etiopico, Siro-occidentale e Maronita. La prima è una designazione di origine, parla quindi di tradizioni da cui provengono i riti, la seconda invece specifa quei riti orientali, tuttora esistenti, che, nella loro forma attuale, non possono essere ridotti l'uno all'altro. Non sussiste quindi alcuna contraddizione.

 

A questo punto può essere interessante formulare un elenco di sintesi di quante e quali sono le Chiese orientali cattoliche?

Sono ventuno, non elencate in OE, ma suddividise nel CCEO in quattro categorie a seconda del loro status canonico:

C 6 Chiese patriarcali (can.55-150): 1. Chiesa Copta; 2. Chiesa Melchita; 3. Chiesa Sira; 4. Chiesa Maronita; 5. Chiesa Caldea; 6. Chiesa Armena.

C 2 Chiese arcivescovili maggiori (can.151-154): 7. l'Ucraina e 8. la Malabarese;

C 4 Chiese metropolitane sui iuris (can.155-173): 9. Chiesa Etiope; 10. Chiesa Malankarese; 11. Chiesa Romena; 12. Chiesa Rutena degli Stati Uniti di America; (più una quinta, che però, non avendo metropolita, non è ancora costituita come tale: 13. la Chiesa Italo-Albanese).

C 8 altre Chiese sui iuris (can.174-176): 14. Chiesa Bielorussa; 15. Chiesa Bulgara; 16. Chiesa Greca; 17. Chiesa di Krizevci (dell'antica Jugoslavia); 18. Chiesa Slovacca; 19. Chiesa Ungherese; 20. Chiesa Albanese; e 21. Chiesa Russa.

In ossequio alla chiarezza e alla completezza, qual'è il significato e il ministero eccelsiale del patriarca?

Il patriarca è un vescovo che, a norma del diritto, ha giurisdizione su tutti i vescovi, inclusi i metropoliti (CEEO 133), cioè sui vescovi con giurisdizione su provincie del patriarcato suddivise in eparchie (diocesi), su clero e popolo del territorio o rito (OE 7). Con il suo sinodo costituisce la somma autorità del patriarcato, con diritto di nominare vescovi e stabilire nuove eparchie, senza pregiudizio peraltro del diritto della Santa Sede d'intervenire in casi particolari (OE 9). Tutti i patriarchi sono considerati uguali quanto a dignità, anche se i patriarcati sono nati in epoca diversa ed esiste una precedenza d'onore da rispettare (OE 8): la Chiesa di Costantinopoli, la Chiesa di Alessandria, la Chiesa di Antiochia e la Chiesa di Gerusalemme (cf. cost. 5 del Laterano V, 1215). Può essere auspicabile l'erezione di nuovi patriarcati, ma è riservata ai Concili ecumenici e alla Santa Sede. C'è chi lo ha suggerito per gli Ucraini e per i Malabaresi, la prima e la seconda Chiesa orientale per numero e vastità! Mentre, al contrario, c'è chi ha suggerito di abolire del tutto i patriarcati, specie quelli titolari.

 

E il significato e il ministero eccelsiale di un arcivescovo maggiore?

Un arcivescovo maggiore è un prelato che presiede a tutta una Chiesa particolare o rito (OE 10), senza portare il titolo di patriarca. Ciò che vale dei patriarchi vale anche per lui, tranne alcuni privilegi e il titolo. Di recente (16.12.1992), è stato nominato un arcivescovo maggiore, S.E. il card. Antony Padiyara di Ernakulam-Angamaly dei Siro-Malabaresi. Dal 23.12.1963 esiste un altro arcivescovo maggiore, attualmente S.E. il card. Myroslav Ivan Lubachivsky di Lviv degli Ucraini.

 

Quale rapporto esiste tra i patriarcati orientali cattolici attuali e quelli antichi?

Ai tempi del concilio di Calcedonia (451) c'erano quattro patriarcati orientali: Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. I sei patriarcati orientali cattolici che esistono tuttora si riallacciano a questi quattro antichi. Il patriarcato Copto fu stabilito nel 1824 e ri-stabilito nel 1895, con sede ad Alessandria, mentre i patriarcati cattolici Melchita, stabilito nel 1724, Siro, stabilito nel 1662 e di nuovo nel 1782, Maronita, stabilito al più tardi nel 1182, ma forse anche prima (R. Hiestand), portano il titolo Antiochenus. Nel 1553 fu eretto il patriarcato Caldeo e, nel 1742, il patriarcato cattolico Armeno.

 

Si dice talvolta che la struttura patriarcale della Chiesa potrebbe fornire la soluzione ecumenica al problema del primato del Papa.

La teoria secondo cui la Chiesa deve reggersi sui cinque patriarcati antichi, Roma inclusa, si chiama pentarchia. Nel Secondo Concilio di Nicea (787), come requisito dell'ecumenicità di un'assemblea fu richiesto non solo l'accordo del Papa, ma anche quello dei 4 patriarcati orientali. Durante il dibattito conciliare su OE l'Abbate Johannes Hoeck, OSB, presidente della Congregazione benedittina bavarese, ha tenuto, il 19.10.64, un discorso che ha avuto grande eco nell'aula conciliare. Egli individuò una possibile soluzione nella struttura patriarcale della Chiesa. In tale senso, il discorso ha avuto una vasta risonanza positiva presso gli Ortodossi, e.g. Prof. Theodoros Nikolaos. Però, il suggerimento ha degli inconvenienti: lascia fuori quegli Orientali non-cattolici, pre-Calcedonesi e Nestoriani, che non riconoscendo Costantinopoli, si sono organizzati in patriarcati fuori dell'impero bizantino, anche se idee analoghe si riscontrano presso questi gruppi (F.R. Gahbauer, OSB). Poi, il discorso rimane vago finché non si specifichi l'esatto significato di pentarchia. L'ecclesiologia ortodossa è di solito allergica a strutture giuridiche sovrapposte, il che combacia con la ricerca recente (W. de Vries, SJ; A. Garuti) che sottolinea come la pentarchia è struttura di comunione e non una specie di senato governativo, in realtà mai esistito.

Cosa pensa Lei del suggerimento della pentarchia come governo della Chiesa?

La domanda di Giovanni Paolo II, nell'enciclica Ut unum sint (n. 95 e n. 96), di essere aiutato nella gestione concreta del primato, merita la maggiore attenzione. Il suggerimento s'inquadra in questa cornice. La pentarchia come tale non è menzionata nell'OE, ma è una espressione della struttura patriarcale della Chiesa. Però, quando si tratta di prelevare concetti di altri tempi e applicarli ai nostri, bisogna guardarsi dal prendere parole per cose. Come hanno mostrato W. de Vries, SJ, J. Meyendorff, teologo e storico ortodosso, e A. de Halleux, OFM, il patriarca in Oriente e in Occidente significava, e significa tuttora, cose diverse. Secondo Hoeck, anche la Chiesa latina dovrebbe dividersi in patriarcati. A questo proposito, Hoeck è stato preceduto dall'ecumenista dom Lambert Beauduin, OSB, che, nel contesto delle Conversazioni di Malines condotte dal Cardinale D.J. Mercier con i vescovi anglicani, parlò (1926) di una specie di patriarcato per gli Anglicani nel caso di unione con Roma. Però, se la pentarchia come senato che governasse la Chiesa universale non è mai esistita, al contrario, l'idea di vari patriarcati potrebbe avere un futuro se vista in termini di una ecclesiologia di comunione.

Basta pensare quanto abbia avuto successo, non solo tra gli ortodossi, la ecclesiologia eucaristica, cioè di un'eucaristia che costituisce la Chiesa. Senza discuterla qui, il suo grande influsso mostra quanto resta viva la sensibilità sacramentale nell'ecclesiologia orientale, cui le altre strutture non-sacramentali vengono subordinate.

Non basta quindi ricorrere al primo millennio. Un tale ricorso, obbligatorio per ogni ecumenismo tra Oriente e Occidente, ripropone il problema: come tradurre in strutture pratiche ciò che c'era di comune? Andare indietro non si può, è antistorico; ma pretendere di andare avanti senza la storia, è come incamminarsi su una via senza sbocco.

 

Quindi l'ecclesiologia eucaristica può servire da piattaforma per un'eventuale unione?

Certo, l'ecclesiologia incentrata sull'eucaristia serve come piattaforma nei dialoghi ecumenici. Ma è contestata fra gli stessi ortodossi, e, se non controbilanciata dal battesimo, resta insufficiente. Direi che la ecclesiologia di comunione, di cui l'ecclesiologia eucaristica è una delle forme, deve servire da chiave.

 

Stiamo parlando a livello di Chiese. Talvolta si ha l'impressione che certi documenti ufficiali siano incontri al vertice, solo per gerarchi, trascurando i laici. I laici ricambiano con la stessa moneta ignorandone le conclusioni.

In realtà, OE è uno dei documenti conciliari che entrano capillarmente nella vita quotidiana. Si può incominciare dai sacramenti. Qui si auspica una vera e propria riforma del quotidiano. Il Concilio approva e, dove è il caso, promuove il ripristino della antica disciplina dei sacramenti (OE 12), quindi con le particolarità proprie dell'Oriente. Così, anche un semplice presbitero può conferire la cresima (OE 13). In occidente, la prassi contraria, che la riserva al vescovo, adesso gestita con più liberalità, vuole sottolineare che il vescovo è il vero ministro ordinario dei sacramenti. Orientalium Ecclesiarum ribadisce che ogni prete orientale può conferire validamente la cresima a membri di qualsiasi rito, incluso il latino, anche non immediatamente dopo il battesimo (OE 14; cf CCEO 696); per la liceità bisogna adeguarsi al diritto particolare e universale. Nella quarta assemblea del dialogo ecumenico tra Chiese ortodossa e cattolica, a Bari, il 31 maggio 1986, fu inaugurata la prassi di conferire, nella Chiesa latina, tutti e tre i sacramenti dell'iniziazione (battesimo, cresima, comunione) in una sola ceremonia, almeno nel caso degli adulti (cf CIC 842 '2). Quanto all'eucaristia (OE 15), l'obbligo di assistere alla liturgia eucaristica le domeniche e le feste può essere soddisfatto con la partecipazione alla liturgia delle ore, secondo la prassi di almeno una Chiesa particolare, anche perché in Oriente una sola liturgia eucaristica può essere celebrata in un determinato luogo, data la sua lunga durata. Un prete che ha la facoltà di confessare nel suo rito può confessare in tutto il territorio, anche C vera novità C fedeli di altri riti (OE 16).

 

La reintroduzione del diaconato permanente, auspicata dal decreto, non è così sensazionale come al tempo del Concilio.

In effetti, il ristabilimento del diaconato permanente faceva più sensazione in Occidente, dove era caduto in disuso, che in Oriente. OE 17 parla del ripristino in Oriente del diaconato là dove non esiste più, ma nella maggioranza delle Chiese esisteva (cf CEEO 354, 760). La questione del celibato è regolata prima dell'ordinazione diaconale.

 

Ma proprio riguardo al matrimonio in genere sembra che le difficoltà rimangano.

Nonostante le difficoltà dovute al fatto che la Chiesa Ortodossa non riconosce i sacramenti cattolici, se non per le esigenze della cosiddetta oikonomia, o comprensione pastorale applicata puntualmente in alcuni casi, le difficoltà non sono tutte risolte. Il problema più scottante riguarda i matrimoni misti, tra cattolici orientali e acattolici orientali battezzati; in Oriente si segue di solito il rito del coniuge di sesso maschile. Per la validità basta che sia presente il sacro ministro e che si osservino gli altri punti del diritto. Siccome ora la forma del matrimonio è richiesta solo per la liceità, e non per la validità (OE 18), un grande passo avanti è stato compiuto; prima, molti erano ipso facto scomunicati per non aver osservato la forma prevista. L'esempio ha fatto scuola nell'ecumenismo. Si è potuto ampliare l'accordo, come mostra l'intesa (1981) raggiunta tra il Cardinale U. Medeiros, arcivescovo dell'arcidiocesi cattolica di Boston e il suo collega Antimo, vescovo della diocesi ortodossa greca di Boston e New England. Secondo questo accordo, un matrimonio misto, benedetto in una chiesa cattolica, può essere benedetto anche nella chiesa ortodossa, senza che il partner cattolico comprometta la sua posizione ecclesiale nella Chiesa cattolica (cf CCEO 813-816).

 

Come tutti sanno, il culto divino è di estrema importanza per l'Oriente.

Gli articoli 19-23 del decreto toccano il culto divino. OE 19 dà ai Sinodi patriarcali o arcivescovili il diritto di stabilire le feste per la loro Chiesa. Lo stesso vale (OE 20) per concordare, in una regione, una data comune per la Pasqua. Questo suggerimento ha riscosso qualche successo, per esempio una volta in quattro anni in Grecia, ma resta ancora molto per una effettiva adeguata unificazione. Al contrario, secondo OE 21, i fedeli Orientali in diaspora rituale, cioè fuori del loro territorio, possono adeguarsi ai costumi dei luoghi. E nei matrimoni misti, quanto al rito, gli sposi possono seguire uno dei riti, ma allora costantemente. Tentativi di regolare la prassi del digiuno si è mostrata troppo complicata per attuarsi. OE 22 raccomanda anche ai laici la liturgia delle ore, obbligatoria per i chierici. Ma in Oriente l'obbligo tocca di per sé la comunità, non l'individuo; per questo un libro come il breviario non si può sempre supporre. Secondo OE 23 spetta al patriarca insieme al sinodo stabilire la lingua liturgica, se necessario anche facendo tradurre i testi liturgici nella lingua vernacolare, approvandoli dopo intesa con la Santa Sede (cf SC 36; CCEO 657 '3).

 

Dove si manifestano i maggiori cambiamenti?

In Oriente il culto divino è sempre il miglior barometro per giudicare se i cambiamenti siano autentici. Come risultato della crescente importanza della Chiesa particolare d'ora in poi *spetta al solo Concilio Ecumenico o alla Santa Sede stabilire, trasferire o sopprimere giorni festivi comuni a tutte le Chiese Orientali+ (OE 19), mentre le singole Chiese particolari possono stabilire le loro feste previo accordo con gli interessati, non solo nel caso della Pasqua (OE 20; CCEO 880), ma anche delle sacre tempora, per cui i cristiani di un rito possono adeguarsi alla legge del luogo in cui abitano (OE 21).

 

Ci sono aspetti in cui resta ancora molto da progredire?

Si va ripetendo che le Chiese orientali cattoliche siano una pietra d'inciampo! Ogni qualvolta nei giornali si legge di accuse di proselitismo, si tocca questo tasto: che le Chiese orientali cattoliche sarebbero traditrici della identità orientale solo cercando di fare proseliti su terra altrui. Ma anche in Occidente si sono formate Chiese orientali acattoliche che non hanno trovato opposizione. Il rispetto per la coscienza è valore intoccabile per il cristiano. Il decreto stesso parla dello speciale ufficio, delle chiese orientali, *di promuovere l'unità di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo i principi del decreto "sull'Ecumenismo"+ (OE 24). Ma siccome la stessa esistenza delle Chiese orientali è considerata un'ingerenza, questa funzione ha potuto anche suonare come proselitismo. Non si deve dimenticare, d'altronde, che non tutte le Chiese orientali cattoliche provengono da Chiese ortodosse; non c'è nessun riscontro, per esempio, per la Chiesa maronita, oppure per quella italo-albanese. In realtà, il discorso di speciale ufficio significa quanto possa essere grande la comunanza, l'unità nella differenza, tra Oriente e Occidente. Da coloro che divengono cattolici non si esige altro che la fede cattolica, senza abiure e senza assoluzioni da scomuniche; il battesimo, il sacerdozio e gli altri sacramenti sono riconosciuti. Che ci sia progresso si può dedurre dal giudizio di un autorevole ortodosso, A. Schmemann, secondo il quale le Chiese orientali cattoliche, da surrogati dell'Ortodossia com'erano considerate, ne sono diventate rappresentanti!

Si può individuare la causa del disagio ortodosso?

L'auspicato promuovere dell'ecumenismo da parte dei Cattolici Orientali è stato male compreso; per questo OE ha ricevuto da parte ortodossa molte critiche. Ma l'auspicio resta. Il monastero di Chevetogne, in Belgio, con i suoi monaci cattolici di rito latino e di rito bizantino, fondato da dom Lambert Beauduin, gode di buona fama, anche presso gli Ortodossi, proprio per il suo irradiamento ecumenico. E' vero che OE 24 parla di conversioni individuali, ma non in senso proselitista; purtroppo fu talvolta male interpretato. Preso insieme con OE 4, comunque, OE 24 vuol arginare la latinizzazione, in quanto un singolo convertito alla Chiesa cattolica deve mantenere il suo rito, e non assumere automaticamente il rito latino.

La colpa ricade un po' nello stesso decreto, perché parla degli Ortodossi come di fratelli separati (OE 24-29), invece che di Chiese sorelle. Ma è un problema di terminologia, non di principio. OE 24 rimanda al decreto sull'ecumenismo, per ricordare che i due documenti hanno gli stessi fondamenti. Il recente dialogo tra Chiesa cattolica e ortodossa a Balamand, nel Libano (1993), proprio sul problema dell'uniatismo, come si soleva designare il fenomeno delle Chiese unite con Roma, ha dato un contributo notevole per evitare qualsiasi parvenza di proselitismo.

 

Si sente tanto parlare di communicatio in sacris!

Il decreto distingue tra quella forma di communicatio che offende l'unità, quindi crea scandalo ed è da evitare, e quella richiesta da esigenze pastorali (OE 26). La penitenza, l'eucaristia e l'unzione degli Infermi sono accessibili ai membri delle Chiese orientali acattoliche; e i cattolici possono richiederli a queste Chiese quando la prudenza pastorale lo suggerisce (OE 27; cf CIC 844 '2; CCEO 671 '2). D'altra parte, il problema è complicato a causa della cautela degli Ortodossi nel riconoscere i nostri sacramenti (che loro preferiscono chiamare misteri). Comunque, la Chiesa cattolica riconosce i sacramenti degli Ortodossi, il che facilita il caso di necessità da parte dei cattolici, anche se sarebbe meglio ci fosse, rileva J. Hoeck nel suo Commento, l'aggiunta come *in quanto i loro superiori lo consentono+. A certi Padri questo sembrò insufficiente: volevano dare libero accesso addirittura a tutti i sacramenti, eccetto l'ordinazione. Ma ci sono difficoltà notevoli, perchè il battesimo, ad esempio, designa la Chiesa d'appartenenza. Il partecipare a liturgie che non conferiscono un sacramento è incoraggiato, come pure alla liturgia divina senza comunione. Per evitare confusioni, la prassi della communicatio in sacris è lasciata al vescovo (OE 29), poi precisata e ampliata in due successivi direttorii ecumenici.

 

E la conclusione?

La conclusione (OE 30) parla di collaborazione fruttuosa tra Chiese cattoliche d'Oriente e d'Occidente, auspicio che si è in parte compiuto, dato che i cattolici orientali ricevono più attenzione di prima. Si noti quante Lettere il Papa attuale, primo slavo sul trono di Pietro, ha indirizzato agli Orientali e come i santi Cirillo e Metodio, con la Lettera apostolica Egregiae virtutis (31.12.1980), siano diventati patroni d'Europa! Un altro esempio è la partecipazione di membri delle Chiese Orientali cattoliche, insieme ai membri latini, al dialogo ufficiale, cosa non minima quando si pensa alle relative difficoltà. Intanto, quando il decreto conciliare aggiunge che le decisioni giuridiche valgono soltanto finché non ci sia unione tra Chiese cattolica e ortodossa, allora si aprono spiragli di speranza.

 

E' possibile una valutazione complessiva del decreto?

Il decreto, letto oggi, può sembrare di minore entità. Ma, come già detto, si deve evitare una prospettiva anacronistica; e, in questo senso, il decreto è degno del Concilio.

D'altro canto, alcune critiche sono più che giustificate. Queste deficienze trovano la loro spiegazione nella composizione della commissione preparatoria, stabilita subito dopo l'inizio del Concilio. Tale commissione, comprendendo tutti i patriarchi, poté riunirsi due volte soltanto. Tanto più che trovandosi tutte le Chiese orientali cattoliche insieme, appaiono punti di vista ben diversi l'uno dall'altro; in altre parole, anche tra loro c'è pluralismo, talvolta assai grande, se non maggiore, di quello esistente tra Chiesa latina e Chiese orientali.

Poi, il decreto è stato votato da un'assemblea prevalentemente latina quando in Occidente si cominciava appena a scoprire la ricchezza dell'Oriente cristiano. In questo senso, il documento non rispecchia come dovrebbe le ricchezze della teologia orientale.

Inoltre, può sembrare che cose migliori di quelle del decreto si dicano sull'Oriente nel decreto sull'ecumenismo e nella costituzione sulla Chiesa, per esempio riguardo alla ecclesiologia eucaristica (cf LG 3, 7, 11) cara a tutta una tendenza moderna tra ortodossi, come per esempio a Nikolaj Afanas'ev (+1966), osservatore nell'ultima sessione del Concilio, e a Yannis Zizioulas, che ha lasciato un'impronta in quasi tutti i dialoghi tra le Chiese. Non è giusto però considerare il decreto da solo. Si deve farlo nel contesto globale del Concilio con tutti i suoi documenti e atti. Non è puro caso se LG e UR sono stati promulgati lo stesso giorno di OE! Ulteriore motivo perché i tre documenti debbano essere letti insieme. Come hanno notato S. Manna, OP e G. Distante, OP, la miglior chiave di lettura di tutto il concilio, quindi anche di OE, è LG. Dal punto di vista della situazione interna della Chiesa cattolica, Orientalium Ecclesiarum riprende le linee programmatiche di Leone XIII e comporta un vero progresso.

Che il decreto sulle Chiese cattoliche orientali non sia lettera morta lo si vede dal fatto che ha dato luogo a vivacissime discussioni, e anche tensioni, proprio riguardo alla necessità di non limitarsi a preservare la liturgia, ma di aggiornarla dove occorra (OE 6).

Finalmente, il decreto finisce con un auspicio di unità (OE 30). Oggi si concluderebbe con un esame di coscienza storico e con il chiedere scusa. C'è da chiedere perdono di molte carenze, da parte dei Latini nei confronti delle Chiese orientali cattoliche!

 

Quale può essere un esempio di notevole cambiamento nella prassi istaurata con l'Orientalium Ecclesiarum?

Più che altro è la nuova atmosfera che costituisce il più grande cambio. Orientalium Ecclesiarum ha canonizzato la dignità delle Chiese orientali. Che quelle cattoliche siano prese in considerazione per prima, era da aspettare. Ma in effetti, la promozione di queste Chiese ha messo in miglior luce le altre Chiese orientali acattoliche. Intanto, nella Chiesa cattolica, è cresciuta la consapevolezza che Chiesa cattolica non equivale affatto a Chiesa latina. Lo si constata anche nell'esser arrivati a due codici di diritto canonico, uno per la Chiesa latina (1983) e uno per le Chiese orientali (1990), che, insieme con la Costituzione apostolica Pastor Bonus (28.6.1988) sulla riforma della Curia Romana, compongono il Corpus Iuris Canonici della Chiesa cattolica. E' un passo in avanti ed ogni aggiornamento futuro deve rifarsi a questo riconoscimento senza precedenti dell'autonomia delle Chiese orientali. Questa parità di diritto riscoperta ha avuto anche delle risonanze pratiche. Per esempio, l'affermazione che una Chiesa particolare può intraprendere missioni estere nel suo rito (OE 3) è relativa al divieto che ne era fatto, prima del decreto conciliare, alla Chiesa malabarese. Come dice p. Ivan ðuñek, SJ, segretario della commissione per il codice orientale, dobbiamo abituarci a parlare di 22 chiese sui iuris, inclusa la Chiesa latina. Si introdurrebbero così, nella ecclesiologia occidentale, nuove matrici orientali. E' una verità che Giovanni Paolo II ama ribadire attraverso un'immagine presa a prestito da un grande poeta russo, Vjaeslav Ivanov (+1949), docente al Pontificio Istituto Orientale: Oriente e Occidente sono i due polmoni, con cui la Chiesa deve respirare.