Christus Dominus

Decreto su l'Ufficio pastorale dei Vescovi

 

 

Uno dei tanti titoli di merito da attribuire al Concilio Vaticano II è senz'altro quello di aver saputo unire lo studio, la ricerca e l'approfondimento della Verità, alla volontà dichiarata e allo sforzo costante di applicare tale Verità alla vita quotidiana della Chiesa: Chiesa pellegrinante e operante in una realtà storica.

Fra i punti di dottrina che di proposito il Vaticano II si era proposto di studiare e approfondire maggiormente, un posto preminente l'ha avuta avuta la riflessione sul ministero dei Vescovi: *Il Santo Concilio... proseguendo nello stesso disegno (del Concilio Vaticano I), ha stabilito di professare e dichiarare pubblicamente la dottrina sul Vescovi, successori degli Apostoli, i quali C con il Successore di Pietro, Vicario di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa C reggono la casa del Dio vivente+ (LG 18). E il frutto di questo lavoro non è mancato: il capitolo II della Costituzione sulla Chiesa, presenta infatti in maniera completa, profonda e chiara la dottrina sui Vescovi.

Da queste premesse è, quindi, doveroso sottolineare che il Decreto Conciliare su *L'Ufficio Pastorale dei Vescovi nella Chiesa+, non si comprende appieno se non alla luce della Costituzione dogmatica Lumen Gentium.

Dal metodo conciliare di tradurre in norme pastorali i punti di dottrina precedentemente approfonditi deriva e scaturisce questo decreto, che potremmo chiamare il Direttorio pastorale per i vescovi e per tutti coloro che in vari modi e a vari gradi partecipano e collaborano al ministero episcopale.E' da questa teologia rinnovata dell'Episcopato che il Concilio vuole tracciare la figura del Vescovo d'oggi.

Ecco perché nessuno dovrebbe cedere alla tentazione di trascurare lo studio e la riflessione di questo documento conciliare. Ogni abitante della casa del Dio vivente dovrebbe conoscere quali sono i doveri e i diritti dei vescovi, nostri maestri e pastori.

Il modo d'esercitare più solennemente la cura episcopale al servizio della Chiesa universale resta certamente il Concilio Ecumenico. Del resto il Decreto contempla tra le istituzioni stabilite dalla Chiesa il *Sinodo dei Vescovi +, da Paolo VI: perché rappresenta, oggi, la testimonianza del ruolo assunto dall'assemblea dei Vescovi cattolici nella sollecitudine di tutta la Chiesa.

A questa prima concreta espressione della teologia dell'Episcopato manifestata al Concilio, si aggiunge un'altra affermazione capitale: il vescovo diocesano gode normalmente di tutti i poteri richiesti per l'esercizio del suo incarico, in dipendenza della sovrana autorità del Pontefice Romano, che può legittimamente, in nome del bene comune della Chiesa Universale, riservarsi alcune questioni.

Ma chi è il Vescovo diocesano?

E' il Pastore di una diocesi. Anche prima, di descrivere la figura del vescovo, il testo conciliare da una bellissima definizione della diocesi: *E' una porzione del Popolo di Dio, affidata a un vescovo, perché con l'aiuto del suo clero egli ne sia il Pastore. Anche la diocesi, unita al suo Pastore e per mezzo di lui unita nello Spirito Santo grazie al Vangelo e alla Eucarestia, costituisce una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e operosa la Chiesa del Cristo: una, santa, cattolica e apostolica.

Nella sua diocesi il vescovo è dunque testimone del Cristo davanti a tutti gli uomini, debitore a tutti dell'annunzio del Vangelo; e questa cura prevale su tutte le altre, per quanto importanti esse siano. Tra i suoi sacerdoti, come in mezzo ai religiosi e ai laici, egli è il perfector perché guida ciascuno sulle vie della santità, ma con l'impegno di darne lui stesso l'esempio con la sua carità, la sua umiltà, la sua semplicità di vita. Egli è il Padre e l'amico dei suoi sacerdoti pronto ad ascoltarli e a sostenerli in tutte le maniere. Egli è vicino ai suoi fedeli, attento alle loro condizioni di vita, facendosi tutto a tutti, sopratutto riguardo ai poveri e ai piccoli. Così non esiterà a rivedere il suo modo di vita per renderlo più conforme alle esigenze e alle circostanze attualidel nostro tempo.

Per compiere la sua missione, il vescovo non è solo; egli ha dei cooperatori nell'ordine sacerdotale, come dei collaboratori tra i laici. Per una migliore efficacia apostolica, il Decreto prevede delle nuove strutture meglio adatte alle esigenze ecclesili di questo tempo; per esempio: la scelta di un vicario episcopale, che potrà avre i poteri di vicario generale per un compito o un territorio determinato; l'organizzazione di un Consiglio pastorale, che riunirà attorno al vescovo sacerdoti, religiosi e laici.

Altri Decreti o Dichiarazioni conciliari trattano della vita sacerdotale, della vita religiosa o della responsabilità del laicato; qui le pagine del Decreto su *La Cura Pastorale dei Vescovi+ considerano essenzialmente il problema della collaborazione, di tutte le forze vive di una diocesi con il vescovo.

Una lunga parte di Christus Dominus è dedicata al clero diocesano. Si rileverà con soddisfazione l'esplicito riferimento al presbyterium, vera famiglia, di cui il vescovo è il Padre, e l'insistenza sull'unità di pensiero e di azione tra il vescovo e i suoi sacerdoti. E' vivamente raccomandato il dialogo, non meno del vicendevole aiuto spirituate e materiale. D'altra parte, è interessante notare che il capitolo II termina con alcune considerazioni sui rapporti del vescovo con i religiosi, che svolgono apostolato nella diocesi. Un principio li riassurne: il vescovo deve favorire la vita religiosa e rispettare il fine proprio delle Istituzioni; ma d'altra parte, i sacerdoti religiosi sono sottomessi all'autorità vescovile per l'esercizio dell'apostolato e, nei casi d'urgenza, possono essere richiesti sotto determinate condizioni.

Dopo aver trattato della collegialità uni versale, quindi della cura propria del vescovo diocesano, Christus Dominus precisa l'esercizio collettivo dell'ufficio episcopale: questo capitolo, molto breve, è centrato sul tema maggiore delle Conferenze episcopali.

Questo argomento - narrano gli storici - fu molto dibattuto nell'aula conciliare e ancor oggi non mancano occasioni di periodica riflessione. Sta di fatto che oggi le Conferenze episcopali sono una realtà universale.

Il Santo Padre le riceve anche in occasione della visita ad limina apostolorum, e rivolge loro messaggi di ampia portata pastorale e missionaria. E' un segno di comunione.

Il compito delle Conferenze episcopali supera, ovviamente, dei semplici incontri periodici, dove scambiarsi consigli e informazioni su problemi comuni, ma devono oreintarsi ad essre sempre più assemblee stabili di vescovi riuniti per esercitare insieme il loro ufficio pastorale. Questo ufficio, in realtà, non consiste solamente nello stabilire atti di governo nelle diocesi, ciò che spetta a ciascun vescovo; in un modo più vasto, un episcopato reca solidalmente la cura apostolica e missionaria verso tutti gli uomini che partecipano a una stessa comunità.

Il Decreto Christus Dominus fu approvato da 2322 Padri il 28 ottobre 1965 con 2319 votifavorevoli, 2 voti contrari e 1 voto nullo.

 

 

Christus Dominus

a colloquio con s.e. mons. Jorge M. Mejía

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Il Decreto Christus Dominus, per la natura della sua tematica come anche per il suo carattere redazionale, sembra essere il documento conciliare che meno ripercussioni ha avuto extra Ecclesiam, fuori dei limiti visibili della Chiesa cattolica; o se si vuole, nel mondo. E' così?

Infatti, sia il suo impianto dottrinale che le sue non poche determinazioni positive o canoniche, si riferiscono ad argomenti prettamente e squisitamente intra ecclesiali. L'episcopato è una struttura essenziale della Chiesa stessa e, nonostante i molti suoi riflessi esterni C che il decreto ribadisce più volte C rimane sempre tale, anche in ragione di una sua dimensione universale e quindi missionaria. Pertanto, il proposito di rinnovamento dell'esercizio di tale struttura, in sé e nelle varie sue articolazioni C che è la ragion d'essere del documento stesso C potrebbe non interessare che marginalmente l'opinione pubblica.

Questo va detto, all'inizio del presente sforzo di lettura. Tuttavia, più si cerca di approfondire la riflessione del documento e più si avvertono da una parte l'importanza del documento nell'impostazione generale del Concilio, e dall'altra le novità che lo caratterizzano; con le conseguenze che ne seguono (e ne sono seguite) per la vita della Chiesa fino ad oggi; e così anche per la sua presenza nel mondo. E vorrei aggiungere che neppure la piena valorizzazione e la fedele applicazione né di Lumen gentium né di Unitatis redintegratio e così via fino (e forse soprattutto) a Gaudium et spes potrebbero essere realizzate senza un'altrettanto piena e fedele valorizzazione nonché applicazione di Christus Dominus.

Si presenta però subito la questione assai decisiva della chiave di lettura del documento.

Qui si deve procedere per passi. Ovviamente, Christus Dominus si ispira a Lumen gentium, come si vede già dalle varie stesure fin dall'inizio del testo. Risulta così chiaro che s'intendeva mettere in pratica, nell'ordine delle disposizioni canoniche le grandi intuizioni che sull'episcopato, la sua natura e le sue funzioni, stanno alla base del capitolo III di questa Costituzione dogmatica. In un certo senso, se ne traggono le conseguenze, di cui il capitolo citato è gravido, in ordine alla vita e all'esercizio del ministero episcopale, ma altresì, per logica estensione, in ordine alla realtà della diocesi, dei suoi costitutivi, delle sue istituzioni; delle associazioni di diocesi e via dicendo. Quindi, Christus Dominus s'interpreta alla luce di Lumen gentium, e di quanto la Costituzione dogmatica sulla Chiesa ha generato, in un modo o nell'altro, nel corso dei lavori conciliari fino (come detto) a Gaudium et spes.

Ma vi erano anche le disposizioni canoniche vigenti, sulle stesse materie, al tempo del Concilio.

Certamente; e, cioè, il Codice di Diritto Canonico, cosiddetto pio-benedettino, del 1917. Tali disposizioni sono come il sipario di fondo sul quale si progettano molte delle considerazioni e disposizioni soprattutto dei capitoli II e III, come facilmente si avverte se lo si ha presente nella lettura, ma come non poteva non avvertirlo chi (ed è il caso del sottoscritto) era testimone dei vari interventi durante le Congregazioni generali, in cui si andava forgiando il decreto che oggi si chiama Christus Dominus. Anche questa costituisce una chiave di lettura, poiché aiuta a capire ciò che si può chiamare il Sitz im Leben del testo; cioè, il suo rapporto con la situazione canonica a parte ante.

A questo punto non si può nemmeno ignorare la reale situazione storica dei Vescovi intervenuti al Concilio....

Vescovi presenti con il loro carico di esperienze, difficoltà e desideri, che si confrontavano sia con le vigenti disposizioni canoniche, che con le nuove aperture già codificate in Lumen gentium. Per cui qui si può avvertire una sincera volontà di riforma, non soltanto C e neanche forse principalmente C della legge canonica, ma anzitutto di certi aspetti della propria vita e dell'esercizio del proprio ministero. Anche questo va tenuto presente.

Vi è poi il nuovo Codice di Diritto Canonico...

Certamente; il Codice del 1983 [di quello destinato alle Chiese Orientali, del 1990 si può fare a meno, per il momento]. E' il testo che definisce e statuisce la legge universale della Chiesa (latina), che si propone, ed esplicitamente, di riassumere e determinare, in forma di leggi, le riforme conciliari, e che ha, quindi, un rapporto stretto, alle volte anche letterale, con il presente documento, il quale, alla fine, nel suo Mandato generale "dispone" (decernit) che *nella revisione del Codice di Diritto canonico, siano definite adeguate leggi a norma dei principi stabiliti in questo decreto+ (44). L'uno va quindi letto alla luce dell'altro e in fecondo e illuminante interscambio, a cui si farà non di rado riferimento in ciò che diremo.

E' possibile approfondire, fin d'ora lo spirito sotteso ed espresso da tale Mandato generale?

Volentieri. Il testo latino originale adopera il verbo decernere, tradotto C come s'è visto C con dispone; ma più volte, nella seconda parte dello stesso Mandato, viene tradotto con il verbo prescrive, il che è molto più esatto. Ora, questo è ovviamente un termine giuridico, il quale manifesta la chiara volontà legislativa dei Padri conciliari e C in primis C del Papa, che promulga il documento. Lo stesso termine viene adoperato altre volte nel testo, quando la materia lo richiede e i Padri conciliari C con a capo il Papa C giudicano che si tratta di materia, appunto, sulla quale è opportuno (o necessario) legiferare. Non è il caso, in questa breve conversazione, di fare il completo elenco dell'uso dei termini che si possono qualificare come prescrittivi; ma l'uno o l'altro esempio servirà per illustrare questo punto. Così nel n. 22, quando si tratta della delimitazione delle diocesi, ci si esprime in questo modo: *Pertanto, in materia di circoscrizioni diocesane, il sacrosanto sinodo (= Concilio) dispone (decernit) ecc.+; e poi si enumerano i criteri da seguire per una revisione delle circoscrizioni delle diocesi. Ugualmente nel n. 31 sulla nomina dei parroci, si dice semplicemente *si aboliscano+ (supprimantur), *salvo il diritto dei religiosi, sia tutti i diritti di presentazione . . . sia, dove esiste, la legge del concorso...+. La formula adoperata è quindi prescrittiva.

Quando invece, come nel famoso n. 21 sulla dimissione dei Vescovi, non s'intende formulare un precetto, l'espressione adoperata è *enixe rogantur+ (si rivolge una calda preghiera), espressione C come è risaputo C ripresa nel non meno famoso can. 401 del CIC del 1983, dove però l'avverbio enixe viene soltanto conservato nel paragrafo 2, non nel primo. Altrettanto succede con l'invito rivolto nel precedente n. 20 alle *autorità civili+ di *rinunziare spontaneamente+ ai *diritti o privilegi di cui avrebbero goduto, per l'elezione, nomina, presentazione, o designazione alla carica episcopale+. Qui la dicitura preferita, poichè ci s'indirizza alle autorità, è *humanissime rogantur+ (rivolge vivissima preghiera).

Non sorprende nessuno che questo importante documento, nonostante il suo contenuto teologico pastorale C che affiora in ogni sua pagina C sia stato redatto e soprattutto promulgato come Decreto, terminologia che ci riporta subito ai Decreti di riforma del Concilio di Trento (il Vaticano I non li ha avuti, forse per mancanza di tempo).

La sua giusta interpretazione deve, quindi, tenere conto di questa natura, per così dire duplice, del documento Christus Dominus?

Infatti; da una parte si presenta come intensa e sentita esortazione ai Vescovi su come esercitare il loro ministero, certamente alla luce dell'antica tradizione della Chiesa, ma anzitutto della Costituzione dogmatica Lumen gentium, e dall'altra esprime una chiara volontà legislativa senza omettere, nel Mandato Generale conclusivo C come sopra detto C d'indicare in modo prescrittivo la strada che si deve seguire nella revisione del Codice: "ad normam principiorum (a norma dei principi) quae in hoc Decreto statuuntur", il che comprende sia gli orientamenti dottrinali che le determinazioni giuridiche. Se dunque il Codice del 1983 si è necessariamente ispirato, qualche volta anche ad pedem litterae, il precedente Directorium de ministero pastorali episcoporum (al momento in fase di revisione) ordinato dallo stesso Decreto, ne è ugualmente necessaria conseguenza.

L'impianto generale del Decreto è conosciuto. Converrà però farne una rapida descrizione per poi sottolineare ciò che, anche qui, può essere considerato una novità, se pur sempre nel solco della tradizione.

Dopo un breve ma sostanziale prologo o proemio teologico, che riprende temi del Vaticano I, di Lumen gentium, e aldilà dei testi Conciliari, del Nuovo Testamento, sull'identità dei Vescovi e la qualità, anche universale, della loro missione, il Decreto si presenta diviso in tre parti, in stretto rapporto con le formulazioni del prologo.

La prima parte è in se abbastanza nuova, nel senso che non esisteva ancora un simile sviluppo magisteriale; essa si riferisce ai rapporti dei Vescovi con la Chiesa universale. Ci si potrebbe chiedere come mai questo capitolo precede gli altri, e soprattutto il secondo, stante il fatto che i Vescovi hanno sì un rapporto con la Chiesa universale, ma in quanto responsabili di una Chiesa particolare, e non viceversa. Sembra però assai chiara l'intenzione del Concilio d'insistere appunto sulla dimensione universale della missione episcopale, rimasta forse prima alquanto nell'ombra. E poi vi è l'esperienza conciliare che è l'atto supremo di questa missione universale, ovviamente cum et sub Petro, come ricorda il n. 4. Ed è in questo luogo che viene inscritto il riferimento alla responsabilità missionaria di ogni Vescovo, che la giusta sollecitudine per la sua diocesi (se pur essa stessa missionaria) non deve far mai mancare.

Il capitolo II, tratta dei rapporti dei Vescovi con le loro Chiese particolari. Qui ci si muove su un terreno più familiare e quindi vi si trovano gli sviluppi attendibili sulla triplice funzione episcopale, come elaborata ampiamente in Lumen gentium al capitolo III, ma con speciali, notevoli insistenze, di cui giova notare l'importanza concessa alla dottrina sociale (nel n. 12) e (non senza rapporto con quest'ultima) ai mezzi di ricerca sociologica nonché alla cosiddetta sociologia pastorale (16 e 17).

La grande novità di questo ampio capitolo consiste senza dubbio nel n. 11 con la sua definizione della diocesi....

.... che non sembra eccessivo chiamare storica, ripresa ad litteram dal can. 365 del CIC e destinata a ispirare e animare tutto il resto del capitolo (come anche le norme del Codice sullo stesso soggetto). La definizione è assai conosciuta e il tema è stato trattato da più di uno studio specifico. Non sembra quindi indispensabile farne un commento esteso. Converrà comunque accentuare anche qui il suo carattere teologico, con il triplice riferimento al pastore che la riunisce a sé (*congregata ... pastori suo adherens+) mediante il Vangelo, cioè la parola di Dio e l'Eucaristia nello Spirito Santo. Il che mette il rapporto pastore-popolo a livello delle realtà che abbiamo ricevuto del Signore, e che costituiscono la sua vera eredità, di cui il pastore è appunto custode (non padrone) a nome dello stesso Signore. Ed è questo che fa sì che in una tale porzione del popolo di Dio, affidata al pastore col suo presbiterio *sia veramente presente e agisca la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica+ (11). La primaria responsabilità del Vescovo può essere quindi specificata come il dovere di rendere *presente e operante+ nella sua Chiesa particolare, la Chiesa fondata da Cristo e trasmessa nei secoli. Così si vede chiaramente come la sua duplice responsabilità, verso la sua Chiesa e verso la Chiesa universale, si articolano e si sostengono mutuamente. A partire da questa concezione si costruisce tutto il documento e in particolare il presente capitolo secondo.

Se la prima sezione del capitolo in parola è dedicata ai Vescovi diocesani, la seconda tratta della delimitazione delle diocesi (cui si è già accennato sopra) e la terza dei cooperatori del Vescovo diocesano nell'esercizio del suo ministero.

Alcune delle novità più salienti di queste due sezioni, più canoniche che teologiche, ma ugualmente ispirate a un profondo senso pastorale, le considereremo più avanti.

Si arriva così al terzo capitolo, che costituisce anch'esso una novità in sé, dato che ha come argomento la cooperazione dei Vescovi in favore di più diocesi. Non mi risulta che neppure questo tema sia stato prima oggetto di uno specifico testo magisteriale, specialmente per quanto riguarda le Conferenze episcopali. Il Concilio dichiara che "summopere expedire censet" (ritiene che sia sommamente utile) e che si costituiscano in una forma o in altra; e a questo scopo si elencano poi le relative norme fondamentali. È inutile insistere sul seguito che questa dichiarazione ha avuto sia sul piano teorico che su quello pratico, e le Conferenze episcopali attualmente esistenti dappertutto nel mondo (anche in quelle regioni dove predominano i Sinodi) con la loro visibile indispensabile operosità, ne sono insieme prova e testimonianza.

Una seconda sezione dello stesso capitolo viene dedicata alle province e regioni ecclesiastiche, mentre la terza e ultima, a mò di appendice, parla dei Vescovi (non davvero molti) con incarichi sopra-diocesani.

Ma anche in questa sezione è doveroso notare che un intero paragrafo (43) riafferma l'importanza e la necessità dei Vicariati castrensi, con la viva raccomandazione che non si manchi di costituirli "pro viribus", dove ancora non esistessero.

E' risaputo (ma non è inutile ribadire) che è stata questa disposizione di Christus Dominus a mettere in moto lo sviluppo sbocciato nel 1986 nella Costituzione Apostolica *Spirituali militum curae+ (le stesse parole con cui inizia il n. 43), che trasforma i Vicariati castrensi in Ordinariati militari, cioè in vere e proprie Chiese particolari non territoriali.

Sembra utile C a questo punto C segnalare, sia pur brevemente, le principali novità che spiccano nel Decreto Christus Dominus, sia nei confronti della normativa precedente che, per certi argomenti, riguardo alle più usitate formulazioni.

L'elenco non intende essere esaustivo e se ne son già notati alcuni nuovi aspetti più salienti nelle riflessioni precedenti, quando ciò sembrava richiesto dalla presentazione dell'impianto generale del documento. Alcune novità inoltre, soprattutto della seconda categoria, consistono alle volte nell'accentuazione, anche forte di alcuni precisi aspetti dell'identità o del ministero episcopale.

Per incominciare da queste ultime, non si può non registrare l'insistenza, in almeno tre istanze, sulla reale specifica identità dei Vescovi come veri pastori. Così al n. 2 (e cioè fin dall'inizio) essi sono definiti: *veri e autentici maestri della fede, pontefici e pastori+; in 11: *pastori propri, ordinari e immediati+ (si premette *sotto l'autorità del Sommo Pontefice+); in 16: *veri padri+ (bella qualifica, poi scelta da alcuni Vescovi come la loro denominazione preferita). Orbene, queste affermazioni appartengono senza dubbio alla più antica tradizione della Chiesa, come si può vedere già nelle lettere di S. Ignazio di Antiochia. Si è sentito però il bisogno di ripeterle in tempi recenti, e questo non soltanto perché il Vaticano I ha dovuto lasciare incompiuta la sua opera, proprio quando si proponeva di trattare dell'episcopato. Ed è stato appunto Pio IX a proclamare in tempi recenti la stessa verità.

Ma certe tendenze che mirano a sbiadire la figura del Vescovo diocesano, a profitto di un *corporativismo ecclesiale+ non del tutto chiaro, esigono anche oggi che se ne riaffermi il valore.

Ancora sul piano del linguaggio, non deve passare inosservato che il n. 16 definisce i Vescovi *testimoni (di Cristo) davanti a tutti+, proprio quando raccomanda loro di *avere a cuore anche i non battezzati+. E il n. 15, a proposito del munus sanctificandi, li designa con l'antica espressione, oggi quasi dimenticata, di perfectores, che la versione dell'Enchiridion Vaticanum (p. 345) traduce con una perifrasi: *come incaricati di condurre alla perfezione+. L'espressione italiana, se pur alquanto diffusa, è abbastanza esatta, poiché si riferisce al dovere dei Vescovi, non secondario, di *fare avanzare nella via della santità+ (ib.) tutti i loro fedeli. O più semplicemente, conforme al latino originale, di *promuovere la loro santità+, come prima e fondamentale comune vocazione cristiana, secondo la personale chiamata di ciascuno. Il termine perfectores, originariamente greco, risale a Dionisio lo Pseudo-areopagita, e ha profonde risonanze mistiche, oltre che teologiche. Sarà opportuno rifletterci sopra.

Se adesso rivolgiamo la nostra attenzione alle novità nell'ordine piuttosto della normativa o almeno degli orientamenti o suggerimenti destinati in qualche modo ad essere messi in pratica, colpisce già dall'inizio il desiderio espresso che i Dicasteri della Curia Romana vengano resi più internazionali (*i loro membri, officiali e consultori, come pure i legati del Romano Pontefice+), e che negli stessi Dicasteri vengano assunti, come membri, *alcuni Vescovi, specialmente diocesani+ (10), né si può passare sotto silenzio che nello stesso paragrafo si raccomanda che C sempre nei Dicasteri C si *sentano di più i laici+. Piace costatare che questo desiderio è stato accolto e ampiamente realizzato già dai primi anni dopo il Concilio, a incominciare dal Motu proprio di Paolo VI, che inizia con le parole Pro comperto sane (6.8.1967).

La Curia Romana è oggi un organismo pienamente internazionale...

... il che favorisce, come auspicava appunto il Concilio, un ricco *interscambio di doni+, secondo la felice espressione del presente Pontefice, al punto che la formula un tempo usitata *il centro e la periferia+ non ha più alcun senso. Si può anche notare, e questo rimane sempre importante anzi decisivo, che i Padri conciliari riconoscono (nel 1965) che la Curia Romana e i suoi Dicasteri *compiono il loro incarico, nel nome e nell'autorità (del Romano Pontefice), a vantaggio (in bonum) delle Chiese e al servizio dei sacri pastori+ (9). Il che non è altro che il principio costitutivo della Curia stessa.

A livello più pratico, e già all'interno delle Chiese particolari, si avverte la raccomandazione di far tendere tutta l'azione pastorale *a un'azione concorde, dalla quale...sia resa più palese l'unità della diocesi+ (clarius eluceat). Tale raccomandazione s'ispira certamente ai saggi, già in quel tempo in fase di elaborazione, di ciò che viene adesso chiamata la pianificazione pastorale o la pastorale d'insieme, la quale acquistava, in questo modo, una certa dignità conciliare, che sarà d'uopo non trascurare. Né manca anche il riferimento, diventato pastoralmente prioritario, specie nelle Chiese dell'America Latina, soprattutto a partire della Seconda Conferenza dell'Episcopato Latino-americano a Medellín (1968), alla *particolare premura (per) i poveri e più deboli+ (13), dove si può ben vedere l'origine conciliare della formula C dopo resasi celebre C dell'*opzione preferenziale per i poveri+, oggi non di rado esplicitata, a scanso d'equivoci, da due altri aggettivi: né esclusiva né escludente.

L'affermazione della necessaria libertà e indipendenza dei Vescovi nell'esercizio del loro ministero è oggetto di più di una enfatica dichiarazione.

Senza dubbio perché si aveva ben presente la difficile situazione degli stessi Vescovi nei paesi allora sottomessi al giogo dei vari regimi marxisti, alcuni dei quali assenti anche dal Concilio. Ma vi era pure una questione di principio, sempre ribadita nella Chiesa. Conviene leggere in questo senso i paragrafi 19 e 28, dove, in particolare nell'ultimo paragrafo citato, la libertà del Vescovo viene difesa anche da altri interventi che potrebbero limitarla nel suo diritto-dovere di conferire gli uffici ecclesiastici ai più idonei.

Della libertà della Santa Sede per la nomina dei Vescovi si è già detto. È doveroso riconoscere che, una dopo l'altra, tutte le nazioni che, o avevano dei privilegi in questo campo, o si vantavano di averli senza ragione, hanno nel frattempo rinunciato a essi mediante la stesura di nuovi accordi bilaterali con la Santa Sede.

Possiamo tornare al tema relativo alla situazione dei confini diocesani?

Il Decreto, sempre nella sua parte dispositiva, non dimentica la situazione alle volte problematica dei confini diocesani, di cui ordina la ricognizione *ove ciò sia richiesto dal bene delle anime+, senza concedere in materia alcuna dilazione; e in particolare, si preoccupa delle *grandi città+ (oggi si direbbe megalopoli, cresciute mostruosamente in questi trent'anni), disponendo per esse *una nuova regolamentazione interna+ (22), a cui si è cercato di venire incontro con l'istituzione, in tali città, di vicari zonali.

Ma la vera novità, in questo campo C che non è possibile disattendere quando si tratta della divisione, accorpamento o creazione di nuove diocesi C sono i criteri sempre validi esposti nel n. 23. A questi criteri si debbono ispirare ovviamente (e se ne ispirano) tutte le istanze interessate, tra le quali, il Decreto cita espressamente le Conferenze episcopali (24). Di essi vorrei soltanto qui segnalare il primo, che dice così: *il territorio di ciascuna diocesi deve sempre intendersi ininterrotto+ (nonnisi continuum pateat), il che come si sa, non sempre succede.

È interessante costatare che i consigli pastorali, diventati oggi di ordinaria amministrazione, trovano la sua fonte nel Decreto Christus Dominus (27) che così raccoglie l'esperienza precedente, ancora incipiente.

Su di essi legifera il CIC nel c. 511, con l'aggiunta *quatenus pastoralia adiuncta id suadeant+, il che ovviamente non è che un commento al *valde optandum+ del testo conciliare. Pianificazione pastorale (cui si è accennato prima) e consiglio pastorale sono indubbiamente associati nella mente dei Padri conciliari, oltre che nella lettura del Decreto.

Sempre in ambito della necessaria unità e coordinamento della Chiesa particolare, spicca la dichiarazione del n. 28 sull'unico presbiterio.

Leggiamo, infatti: *Tutti i sacerdoti sia diocesani che religiosi in unione col Vescovo partecipano all'unico sacrificio di Cristo ... essi costituiscono un solo presbiterio e una sola famiglia, di cui il Vescovo è il padre+; cui fa eco quest'altra affermazione: *(i sacerdoti religiosi) sono da considerarsi in certo qual vero modo come appartenenti al clero della diocesi+ (34) nonché i principi che si enumerano a continuazione sull'apostolato dei religiosi in seno alla diocesi (35), dei quali merita speciale sottolineatura per la sua concisione lapidaria il seguente: *quando sono legittimamente incaricati di attività apostoliche+ ... *adsint et subsint+ (al Vescovo), concisione che si perde alquanto nella versione italiana. E a questo fine, si continua, *(le Costituzioni degli ordini e congregazioni) se necessario, siano adeguate, tenendo presenti i principi (qui esposti)+; e l'esenzione poi non vi pone ostacolo (ib) .

Del paragrafo sulla nomina dei Vescovi al loro ministero diocesano si è detto già sopra. Noto soltanto che la distinzione tra l'età *troppo avanzata+ (ingravescentem aetatem) e le *altre gravi ragioni+, presenti nel n. 21, è diventata, com'è saputo C nel dettato codiciale C una duplice causale, con anche l'indicazione, per la prima causale, di un limite massimo: i 75 anni (cfr. can. 401, 1 e 2).

Le disposizioni sulle Conferenze Episcopali, riprese dal CIC (can. 447-459) con alcune modifiche, che sarebbe interessante notare, ma andrebbero ben oltre i limiti di questa riflessione, hanno indubbiamente aggiunto nuovi decisivi tratti al volto della Chiesa in questa fine del secondo millennio. Conviene però avere sempre presente che anche di questo si è anzitutto debitori al Concilio Vaticano II; e in particolare, al Decreto Christus Dominus.

Ci stiamo avviando a conclusione; quale riflessione di sintesi potrebbe essere fatta in ordine al nostro testo conciliare ?

Il Decreto su cui abbiamo riflettuto, almeno per summa capita, segna una tappa decisiva nella vita della Chiesa. E in quanto tale è sempre, e deve essere, un punto di riferimento decisivo; anzi, un criterio della nostra fedeltà alla Spirito Santo, che guida la Chiesa e che era in esso all'opera, attraverso le menti e le volontà dei Padri conciliari (e forse alle volte superandole), con la garanzia del Pastore Supremo. La storia però non si è fermata al Concilio: tanto meno quando si tratta di documenti come il nostro, che intendono emanare disposizioni pratiche, le quali in un certo qual modo, sono (come anche sopra si è cercato di far vedere) in rapporto con le circostanze del tempo. Nessuno quindi deve, di conseguenza meravigliarsi, se gli sviluppi posteriori hanno portato all'introduzione di talune modifiche nella parte dispositiva, a condizione però che esse vengano fatte "eodem sensu eademque sententia", come stabilisce le vecchia formula di Vincenzo di Lérins. Anzi, è responsabilità di tutti noi, ma molto di più specialmente dei Vescovi e anzitutto del Romano Pontefice, vegliare, da una parte perché le leggi e in genere le disposizioni normative tanto più i semplici orientamenti C per quanto un tempo validissimi C non perdano il loro rapporto con le circostanze storiche in cui si esercita il nostro ministero, e quindi, dall'altra, che l'eredità di Cristo, possa raggiungere tutti, immutata e immutabile in quanto tale, ma sempre resa accessibile alle persone concrete nella loro reale situazione, affinché tutti possano conoscere e seguire la via del Signore.

Cosicché la Chiesa, in questo tramonto di un millennio e all'inizio di un'altro, sia sempre (come nel "Pastore" di Erma) al contempo anziana, venerabile , giovane e splendida.