Dei Verbum

Costituzione Dogmatica

su La Divina Rivelazione

 

Le questioni riguardanti la Sacra Scrittura, il suo insegnamento e la sua diffusione si imposero fin dal principio all'attenzione del Concilio. Tra le proposte se ne trovano oltre un centinaio riguardanti questa materia.

Il senso di questa attenzione particolare la si riscontra fin dal Proemio di Dei Verbum, dove si legge: In religioso ascolto della parola di Dio il Sacro Sinodo, seguendo le orme del Tridentino e del Concilio Vaticano I, intende proporre la dottrina sulla Rivelazione e la sua trasmissione.

Il testo conciliare distingue, per ragioni di chiarezza e di sostanza la Rivelazione soprannaturale da quella naturale.

La prima è un atto proprio di Dio, per mezzo del quale Egli manifesta se stesso per aprire all'umanità la via della salvezza; la seconda è scolpita nello stesso ordine cosmico che, attraverso la bellezza, la grandezza e la varietà delle cose create, manifesta ed esalta la potenza e la sapienza del suo Creatore.

E' della prima - della Rivelazione soprannaturale - che il Concilio tratta in Dei Verbum. Gli elementi costitutivi sono, a un tempo stesso, le opere da Dio compiute nella storia della salvezza umana e le parole con cui Dio stesso vuole siano spiegate le opere.

Caratterizzano i primi due capitoli della Costituzione:

Un modo di dire positivo e perfuso di sapore biblico; l'indole cristiano-centrica della dottrina esposta, specialmente in rapporto al concetto aggiornato di Rivelazione; l'accurata enucleazione circa la natura, I'oggetto e l'importanza della Sacra Tradizione, che viene presentata non soltanto in senso concettualistico, ma anche reale, vivo e dinamico.

Se la Scrittura ci dice quello che la Chiesa crede, la Tradizione ci dice anche quello che la Chiesa è. Se la prima ci dà la notizia delle verità rivelate, la seconda dà anche le realtà divine che la Chiesa vive.

I tesori della Rivelazione

1. Uomini dell'Antica e Nuova Alleanza sono stati scelti dallo Spirito Santo che per i suoi fini arcani, può servirsi anche di umili circostanze concomitanti (ad esempio, l'invito rivolto a S. Marco dai fedeli di Roma -secondo Clemente Alessandrino - perché mettesse in iscritto la predicazione di S. Pietro). Sono stati da lui ispirati in modo che scrivessero fedelmente e senza errori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva trasmettere per la vita religiosa d'Israele, per la preparazione dell'età messianica, per la diffusione del messaggio recatoci da Cristo. venuto sulla terra in qualità di Figlio del Padre e di Redentore di tutti gli uomini.

Il testo conciliare nel dare le norme generali per una retta interpretazione, tiene pure d'occhio l'Enciclica *Divino Afflante Spiritu+ di Pio XII e i progressi degli studi biblici e perciò ribadisce che bisogna tener conto anche dei generi letterari.

In rapporto alla verità difatti altro è il genere storico, altro quello profetico, didascalico, poetico, ecc. Inoltre ogni popolo ha i suoi modi abituali i suoi idiomatismi, un patrimonio linguistico rispondente al suo genio alla sua cultura, alle differenti epoche della sua esistenza. Questa norma dei generi letterari, ormai divenuta classica, aiuta a superare non poche difficoltà esegetiche.

L'interprete cattolico infine dovrà riferirsi ugualmente alla Tradizione Apostolica e al Magistero della Chiesa, atteso il nesso interno che lega quella e questo alla Sacra Scrittura.

2. Un capitolo estremamente sintetico è quello dell'Antico Testamento, del quale si proclama il valore permanente, malgrado il carattere temporaneo di varie sue prescrizioni.

La sua ricchezza principale è costituita dalle Profezie annunciatrici del Cristo, dai tipi (avvenimenti e istituzioni) prefigurativi della persona e del regno di Cristo, da una stupenda esaltazione degli attributi divini, da una sapienza salutare per la vita dell'uomo, da mirabili tesori di preghiere, *nei quali è nascosto il mistero della nostra salvezza+. Dio autore principale di tutta la Sacra Scrittura, ha disposto che l'Antico Testamento diventasse chiaro nel Nuovo e che il Nuovo affondasse le sue radici nell'Antico, cui esplicita e sviluppa.

3. Premesso che la parola biblica manifesta la sua potenza salvifica preminentemente negli scritti neotestamentari il Concilio afferma, con vigore, l'origine apostolica e, *senza alcuna esitanza+, la storicità dei Vangeli.

In proposito, va tenuto conto di quanto oggi si è potuto investigare circa la loro formazione letteraria, come pure della finalità perseguita da ciascun evangelista, poiché è dalla medesima che ne vengono *determinati in larga misura il piano e la composizione+.

La selezione di alcune tra le molte cose tramandate da coloro * che sono stati testimoni oculari e son divenuti ministri della parola+ (Luca 1,2), la sintesi, la spiegazione di altre, la conservazione del carattere di predicazione non hanno impedito agli Evangelisti di *riferire sul Cristo con sincerità e verità+.

Gli altri scritti (Atti e Lettere) confermano quanto riguarda la vita del Signore, illustrano e applicano la sua dottrina autentica, predicano la virtù salvifica della sua opera, annunziano la sua parusia finale e narrano i primi passi della Chiesa nel mondo

4. L'ultimo capitolo, che si muove tutto su una linea pratica e pastorale, costituisce come la *magna carta+ sull'uso della Sacra Scrittura. Vi viene presentata (unitamente alla Sacra Tradizione) come sostanziale nutrimento delle anime, come la base di tutta la vita della Chiesa, l'anima della teologia, la risorsa impareggiabile della liturgia della catechesi, dell'omiletica e di ogni tipo di istruzione cristiana.

La Bibbia, venerata, studiata, letta diffusa tra il popolo di Dio e tra gli stessi non cristiani, con nuove iniziative è destinata a compiere la sua corsa nel mondo per riempire la mente e il cuore degli uomini di luce, di speranza e di amore a Dio Uno e Trino, e per suscitare potenti impulsi per una rinnovata vita spirituale.

*Che la parola di Dio corra e sia tenuta in onore+!

I capitoli di Dei Verbum, quanto sono concisi altrettanto sono densi di dottrina. Ci collocano davvero nel cuore stesso del mistero della Chiesa e all'epicentro dell'ecumenismo.

La Costituzione dogmatica Dei Verbum fu approvata da 2350 Padri il 18 novembre 1965 con 2344 voti a favore e 6 voti contrari.

 

Dei Verbum

A colloquio con p. Ignace de la Potterie s.j.

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Il 1995 è stato l'anno in cui si son viste alcune rievocazioni della chiusura del Concilio ecumenico Vaticano II, avvenuta 30 anni fa (8 dicembre 1965). Questo trentennio è stato segnato da periodici bilanci sul livello di ricezione all'interno della Chiesa dei documenti dell'ultimo Concilio, e in particolare delle quattro costituzioni conciliari: Sacrosanctum Concilium, sulla liturgia; Gaudium et spes, sui rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo; e le due costituzioni dogmatiche, Lumen Gentium, sulla Chiesa, e Dei Verbum, sulla divina Rivelazione.

Nel corso del trentennio, quale rilevanza è stata riservata alla Dei Verbum?

Proprio per questo documento, che era la sintesi della discussione conciliare intorno alla Rivelazione, alla Tradizione, alla Sacra Scrittura e all'esatto approccio ad essa, una cosa colpisce: nel passare degli anni, invece di diventare punto di riferimento della ricerca esegetica nel mondo cattolico, la Dei Verbum è rimasta più o meno lettera morta. Già nel 1970 il compianto cardinale domenicano Yves Congar scriveva al francescano padre Umberto Betti, uno dei collaboratori alla preparazione del testo conciliare, una lettera privata pubblicata di recente, per rammaricarsi: *Questo testo molto bello è purtroppo quasi dimenticato (...); la seconda costituzione dogmatica del Vaticano II è quasi passata sotto silenzio+.

Anche il Sinodo straordinario dei vescovi dell'85 ribadì la scarsa ricezione nella Chiesa della Dei Verbum. Un cambiamento venne col Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992. Nella sezione dedicata alla Sacra Scrittura, fa continuamente riferimento alla Dei Verbum come appare evidente fin dai titoli dei diversi paragrafi:

1. Cristo, parola unica della Sacra Scrittura;

2. Ispirazione e verità della Sacra Scrittura;

3. Lo Spirito Santo e l'interpretazione della Scrittura.

Il Catechismo ripropone anche il distico medievale sui quattro sensi della Scrittura, invitandoci quindi alla ricerca e alla proposta del senso spirituale: I'esegesi cristiana non può essere soltanto filologica, letteraria e storica; deve essere anche teologica, tenendo conto del fatto che la Sacra Scrittura di Dio ha come scopo di comunicare la Rivelazione e quindi di far vedere la trama del mistero a cui alludono i fatti narrati. Rincresce che un successivo documento della pontificia Commissione biblica L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (aprile 1993), non abbia fatto (o potuto fare?) nessun riferimento a quelle indicazioni del Catechismo. Indicazioni che comunque erano già contenute nella Dei Verbum: dunque si tratta di un'omissione voluta.

In tempi ancora più recenti, nel dicembre 1995, un volume intitolato La Dei Verbum trent'anni dopo è stato pubblicato a cura della Pontificia Università Lateranense. Si tratta di una miscellanea in onore di padre Umberto Betti, che oltre ad aver partecipato alla stesura del documento conciliare, è stato fino a pochi mesi fa rettore dell'Ateneo romano. Nel volume non mancano contributi interessanti sui temi dell'attività esegetica dopo il documento conciliare, ma nel complesso quest'opera conferma ulteriormente che oggi la Dei Verbum non è ancora stata recepita. Anche il volume della Lateranense, tre anni dopo il Catechismo, non ne cita mai la sezione dedicata alla Sacra Scrittura. E nessun contributo fa emergere quali erano gli aspetti di novità della Dei Verbum. Anzi, qualcuno affronta in maniera critica uno dei punti qualificanti della Costituzione, ossia l'affermazione tradizionale dell'unità dei due Testamenti (Dei Verbum, IV, 16), sostenendo che l'eccessiva sottolineatura del legame tra Antico e Nuovo Testamento andrebbe a scapito del valore autonomo dell'Antico Testamento.

Nonostante i numerosi lavori dedicati alla storia della Chiesa nel nostro tempo, vi è un argomento complesso e delicato, che non è stato ancora trattato nel suo insieme: la Chiesa e la Bibbia, dal modernismo sino ai nostri giorni. Forse è ancora troppo presto, oggi, a trent'anni dal Vaticano II, il misurare con esattezza l'incidenza della svolta che rappresenta il Concilio su questo argomento. Oggi sembra possibile presentare un primo bilancio sulla Costituzione dogmatica Dei Verbum, che è il grande documento conciliare sulla Bibbia?

Nel vedere le reazioni dei biblisti al riguardo della Costituzione, è il caso di dire che presso di loro domina un solo sentimento: cioè una viva soddisfazione per il fatto che il Concilio afferma oggi il *primato della Bibbia+ e che riconosce *la centralità della Parola di Dio+. Questa affermazione è certamente legittima, ma è troppo semplice. Deve essere completata da una riflessione teologica. Nel leggere un tale o tal altro studio, si ha l'impressione che alcuni restino ancora nell'euforia primaverile di prima del Concilio, che seguì alla pubblicazione dell'enciclica Divino afflante Spiritu (1943), come se il Concilio non avesse fatto altro che riprendere con accresciuta autorità le direttive dell'enciclica di Pio XII; ma dicendo solo questo, rimangono insensibili alle questioni nuove e agli urgenti problemi che ora sono sorti e di cui precisamente la Chiesa ha preso coscienza nel Concilio.

Crediamo che si debba dare ragione a quanto scriveva alcuni anni fa un teologo italiano, S. Dianich: *Ho la convinzione che in definitiva il cuore del Concilio consiste in questo: ha aperto di nuovo il problema dell'interpretazione della fede (...), ha rimesso in movimento il processo dell'esigenza ermeneutica+.

Questo vale in modo tutto particolare per l'esegesi. La questione non è più di sapere se è legittimo per i cattolici usare l'esegesi scientifica (è stata la lotta degli anni quaranta). Il problema di fondo oggi è quello dell'interpretazione, quello dell'ermeneutica, vale a dire il problema del significato della Scrittura per l'uomo di oggi, per i credenti, per la Chiesa.

Secondo l'affermazione fatta da J. Ratzinger, poco dopo il Concilio, una delle tre ragioni che avevano determinato la Chiesa a elaborare una Costituzione sulla divina Rivelazione, fu l'apparire sempre con maggiore evidenza di *quel problema teologico, derivante dall'applicazione dei metodi storici e critici per l'interpretazione della Scrittura+.

Questa frase descrive perfettamente tutto il percorso che è stato compiuto tra l'enciclica Divino afflante Spiritu e la Costituzione Dei Verbum.

Dopo l'accettazione dei metodi critici, la Chiesa ha incominciato a interrogarsi sul loro rapporto con la teologia. Non si tratta più soltanto di favorire nella Chiesa l'esegesi tecnica, ma di invitare a prolungarla in una esegesi teologica e di valutare il suo impatto sulla tradizione ecclesiale, sulla fede e sul pensiero religioso. La questione scottante oggigiorno, perciò, è quella della interpretazione cristiana della Scrittura, quella del legame tra la Scrittura e la Chiesa.

Ecco precisamente, a quanto sembra, il valore principale della Dei Verbum: il Concilio si è posto nettamente in questa ottica teologica.

Nella Costituzione conciliare, la Bibbia non è trattata in se stessa; la Sacra Scrittura è integrata in una prospettiva molto più vasta, quella della fede; è posta in un contesto direttamente teologico e dottrinale: quello della rivelazione divina.

A questo punto è bene ricordare che il titolo stesso Dei Verbum non indica affatto - come qualche volta si crede - la parola di Dio scritta, vale a dire la Bibbia, ma la Divina Rivelazione. Il Concilio afferma che essa (la Rivelazione) *risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione+ (cap. I, n. 1). Dopo il capitolo sulla Rivelazione (cap. I) e un altro sulla sua trasmissione, a mezzo della Tradizione e della Scrittura (cap. II), la Costituzione parla direttamente della Bibbia stessa nei quattro capitoli seguenti, ma ormai nella prospettiva molto più ampia aperta all'inizio, cioè quella della Rivelazione e della storia della salvezza.

Se si confronta questo modo di parlare della Scrittura con il linguaggio delle tre grandi Encicliche bibliche degli ultimi cento anni, quali differenze se ne rilevano?

La Bibbia era considerata allora sia in se stessa sia ancora nel suo rapporto dialettico con gli errori del tempo.

Nell'Enciclica Providentissimus Deus (1893), Leone XIII dedicava non più di poche frasi nell'introduzione al tema della rivelazione (EB 81), ma indicava fin da principio il suo fine preciso, quello di raccomandare lo studio della Sacra Scrittura soprattutto davanti al pericolo maggiore che era dato, a quel tempo, dal razionalismo (EB 100); la tonalità dell'insieme era di tipo apologetico. Spiritus Paraclitus (1920) di Benedetto XV era un'enciclica di carattere più pastorale, ma l'orientamento apologetico e polemico appariva anche qui al riguardo della posizione di coloro che volevano in qualche maniera limitare

l'inerranza biblica (EB 453-455). È un problema che verrà riaperto di nuovo nel Vaticano II, soprattutto all'inizio, e che susciterà aspre discussioni, come si dirà poi.

Infine l'Enciclica di Pio XII, Divino afflante Spiritu (1943), che di certo è più serena e dottrinale, ma anche più audace; la sua importanza, universalmente riconosciuta da tutti, consiste nel fatto che non solo permette, ma ufficialmente prescrive agli esegeti cattolici di usare i metodi critici nello studio della Bibbia. Ma la prospettiva teologica non è assente. Pio XII chiedeva agli esegeti di mettere soprattutto in luce, nella Scrittura, la theologica doctrina de rebus fidei et morum (la dottrina teologica riguardante le verità della fede e dei costumi) (EB 551). Sottolineiamo però l'uso caratteristico di parole astratte: doctrina, rebus, morum. Ma nello stesso tempo il Papa metteva in guardia gli esegeti contro *l'interpretazione che alcuni chiamano spirituale e mistica+ (EB 552), un avvertimento di cui, ben presto, si ritroverà l'eco nella Humani generis (1950), nella quale Pio XII, ancora una volta, invitava alla prudenza circa la *nuova esegesi+, che veniva chiamata *simbolica e spirituale+ (DS 3888; Doc. cath., 1950, 1160). Tali formulazioni, ai nostri giorni, hanno una risonanza un po' strana, quando si pensa a quella che era stata l'esegesi dei Padri (la ricerca del *senso spirituale+ della Scrittura), che proprio in quei giorni si stava riscoprendo con gli studi del P. de Lubac e di tanti altri.

Tuttavia lo stesso Pio XII, con certe riserve, invitava gli esegeti cattolici alla ricerca del senso spirituale (EB 553). Dinanzi a questa fluttuazione non è affatto da stupirsi se la controversia a riguardo dei *sensi+ della Scrittura raggiungerà il suo culmine, precisamente intorno agli anni cinquanta. L'Enciclica Divino afflante Spiritu però deve essere apprezzata nel suo giusto valore; essa rappresenta pressappoco il punto finale della crisi modernista. I suoi meriti sono da valutare sul piano accademico e metodologico dello studio critico della Bibbia. Ma - dettaglio molto significativo - salvo il titolo (la cui formulazione è ripetuta varie volte), l'Enciclica non parla affatto dello Spirito Santo e di quanto implica l'ispirazione per la interpretazione della Sacra Scrittura. Non vi si trova ancora quell'ampio orizzonte teologico che doveva aprirsi col Vaticano II, un Concilio che non ha più voluto affrontare gli errori del tempo, ma che ha cercato di approfondire serenamente la propria fede, nell'ottica della storia della salvezza.

Un'altra differenza tra il Vaticano II e i documenti del passato è strettamente legata alla precedente: cosa si può dire della maniera nuova di considerare i rapporti tra il Magistero e la Scrittura?

Sino a tempi recenti il Magistero si presentava come la guida e il giudice in materia di interpretazione della Bibbia. Questa dottrina di certo è teologicamente giusta, ma è incompleta. L'insistenza nel riaffermarla dalla Riforma in poi era evidente, più fortemente ancora dopo il Vaticano I e al tempo del modernismo. Le tre encicliche bibliche e altri documenti anteriori al Vaticano II ne portavano inevitabilmente l'impronta: già Providentissimus Deus (cf. EB 108, 109, 110), poi anche la Lettera Apostolica Vigilantine dello stesso Leone XIII (1902), che insisteva sul fatto che Dio non ha affatto affidato l'interpretazione delle Scritture *ai giudizi privati dei dottori+, ma *al Magistero della Chiesa+ (EB 141). Nella Enciclica Spiritus Paraclitus, Benedetto XV citava l'esempio di S. Girolamo, che si era mostrato costantemente obbediente alla Chiesa, *supremae per Romanos Pontifices magistrae+ (EB 461). Analoghe formulazioni ricorrono ancora nel 1950, nella Humani Generis di Pio XII (DS 3884).

Il medesimo insegnamento, è vero, sarà ripreso ancora nella Dei Verbum, ma con un altro spirito. Si legge al n. 10: *L'ufficio d'interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo+. Ma al n. 12, dopo aver descritto il dovere degli esegeti di interpretare in profondità la Sacra Scrittura, il testo precisa che il loro lavoro deve essere compiuto in modo che *si maturi il giudizio della Chiesa+. E il Concilio aggiunge: *Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, ecc.+

Notiamo questo avverbio *in ultima istanza+, che è importante: impedisce di pensare che il lungo e paziente lavoro degli esegeti sia pressoché inutile e potrebbe facilmente essere sostituito dalle decisioni del Magistero. D'altra parte ciò che è veramente nuovo, è l'affermazione che segue immediatamente a quella citata al n. 10, citato poc'anzi: *Questo Magistero però non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve (ministrat), insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso...; piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola+.

Questo testo è quasi un'eco della prima fase della Costituzione: *Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans, Sacrosancta Synodus verbis S. Joannis obsequitur dicentis...+.

Questi testi, nei quali la Chiesa e il Magistero si dichiarano religiosamente dipendenti dalla parola di Dio, danno un tono nuovo, molto evangelico; ciò è importantissimo, non solamente sul piano teologico ma ugualmente dal punto di vista ecumenico. Ed è facile comprendere come K. Barth abbia sottolineato queste affermazioni con soddisfazione.

Citiamo anche nel medesimo senso il bellissimo passaggio alla fine del capitolo II: *È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non poter indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l'azione dell'unico Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime+ (n. 10).

Ma vorremmo intanto esaminare più da vicino tre argomenti trattati nella Dei Verbum, dove l'orientamento teologico della riflessione sulla Bibbia è particolarmente rilevante: il rapporto tra la Bibbia e la teologia; la questione della *verità+ della Scrittura; e infine, soprattutto, l'interpretazione della Sacra Scrittura *nello Spirito+.

Nel capitolo VI, n. 24 della Costituzione Dei Verbum si legge: *La Sacra Teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, insieme con la Sacra Tradizione, e in quella vigorosamente si consolida e ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le Sacre Scritture contengono la parola di Dio, e, poiché ispirate, sono veramente parola di Dio; sia dunque lo studio della Sacra Pagina, come l'anima della Sacra Teologia+.

Tre immagini sono qui usate dal Concilio, e dall'una all'altra si scopre un movimento costante e regolare di interiorizzazione: la Parola di Dio deve essere per la teologia in primo luogo come un fondamento; in secondo luogo, una forza perenne di ringiovanimento, una vita; in terzo luogo, dovrebbe essere come l'anima della teologia.

L'immagine del fondamento sembra essere ispirata da S. Paolo. Riferendosi alle diverse correnti che si erano formate a Corinto, in particolare quella di Apollo, l'Apostolo richiama

quello che è il vero compito dei predicatori del Vangelo: *Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho gettato il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno sia attento a come costruisce: quanto al fondamento, infatti, nessuno può gettarne un altro diverso da quello già posto, che è Gesù Cristo+ (1 Cor 3,10-11). Per Paolo la parola di verità, il Vangelo della salvezza, ha come fondamento Gesù Cristo. Il Concilio si esprime in termini simili: *tutta la verità si trova racchiusa nel mistero di Cristo+. Il fondamento di un edificio è la base solida che lo sostiene, senza la quale la costruzione crolla. *Il lavoro teologico, dice A. Grillmoier, deve perciò iniziare dalla Scrittura e deve continuamente ritornare ad essa+ (p. 452); questo principio è contrario ad un certo tipo di dogmatismo post-tridentino, che si era sempre di più allontanato dal testo biblico.

Quando il Concilio afferma poi che la teologia ringiovanisce sempre a contatto con la parola di Dio, questo vuol dire che la Sacra Scrittura è come la vita della teologia?

Si può pensare qui all'immagine biblica, principalmente giovannea, della sorgente di acqua viva (Gv 4,10-14; 7, 38-39), che indica infatti la parola di Dio, la verità di Cristo interiorizzata e fecondata dallo Spirito. Ci sia permesso di illustrare questa idea con un bellissimo commento di Clemente Alessandrino sulla vita dei figli di Dio, che resta sempre giovane proprio per mezzo dell'acqua viva della verità: *Il nostro titolo di figli significa la primavera di tutta la nostra vita; la verità che è in noi non invecchia, e tutto il nostro modo di essere è irrigato da questa verità+. Se questo è vero per tutti i cristiani, lo dovrà essere anche e soprattutto per il teologo: l'acqua viva della parola di Dio dona al suo pensiero freschezza e giovinezza.

Questo è un principio, ricordato spesso dopo il Concilio, di cui il cardinale Ratzinger ha potuto scrivere, a suo tempo, che lo studio della Scrittura, anima della teologia. Non le sembra quasi rivoluzionaria questa affermazione? Da dove viene questo assunto? Quale è in concreto il suo significato?

La Costituzione Dei Verbum rinvia a questo punto, in nota, alle encicliche di Leone XIII e di Benedetto XV. Si legge effettivamente nella Providentissimus Deus (1893): *Ciò che è augurabile e necessario è che l'impiego della divina Scrittura influisca su tutta l'intera teologia e che ne sia come l'anima+ (EB 114). Ma, grazie ad uno studio recente di un gesuita spagnolo, il P. J.M. Lera, oggigiorno si può rintracciare la provenienza di questa formula e stabilirne la prima origine al secolo XVII. Ecco in poche parole le tappe principali dello svolgimento di questa storia.

La fonte immediata della frase di Leone XIII si trova nella prefazione dell'opera di R. Cornely, Historica et critica introductio in Utriusque Testamenti libros sacros, che è il volume d'introduzione generale al monumentale Cursus Scripturae Sacrae. Il P. Cornely era stato chiamato a Roma come professore di Sacra Scrittura nel 1879. Nel 1885, vale a dire otto anni prima dell'enciclica (1893), pubblicò la sua Introductio, e la dedicò a Leone XIII. Ora, nella prefazione egli scriveva che la teologia è la regina delle scienze, ma che l'anima della medesima teologia deve essere la conoscenza della Sacra Scrittura.

[*...Verae theologiae animam esse Scritturarum scientiam nemo negabit

qui illas esse praecipuum divinae revelationis fontem perpenderit+].

Le parole che a noi interessano sono citate in corsivo nel testo; e l'autore, in una nota, rinvia all'Institutum Societatis Iesu, e cioè alla XIII Congregazione generale (1687), decreto. Questo decreto faceva parte della nuova Ratio studiorum, che doveva regolare gli studi nella Compagnia. Le due Province belghe avevano inviato a Roma una richiesta perché si introducesse uno studio più approfondito della Bibbia, e ciò, come difesa contro i *novatores+; questo vocabolo a quel tempo si riferiva ai razionalisti: era l'epoca della critica biblica di Spinoza (1632-1677), seguìto presto da quella di R. Simon (1618-1712).

Osserviamo infine che due secoli dopo, la XXIII Congregazione generale (1883) riprese l'antica formulazione con parole equivalenti. Ora questo avveniva due anni prima della pubblicazione della Introductio del P. Cornely; e da lì la stessa espressione fu ripresa nella enciclica di Leone XIII. Dalla Providentissimus Deus, l'idea della *Scrittura anima della teologia+ passò poi nella Spiritus Paraclitus (EB 483), e finalmente nei testi del Vaticano II: la Costituzione Dei Verbum (24) e il Decreto Optatam totius (16).

Con il P. Lera facciamo un'ultima constatazione: tanto nel XVII secolo, come nel XIX, il motivo che fece introdurre la norma della *Scrittura anima della teologia+ fu da un lato l'insoddisfazione derivante dall'aridità delle speculazioni teologiche, e dall'altro lato la inquietudine crescente dinanzi al progresso più o meno razionalistico della critica biblica. Pensiamo di poter dire che una analoga situazione si trovava al tempo del modernismo, e forse anche al giorno d'oggi.

Da differenti angolazioni si denuncia oggigiorno la dissociazione tra l'esegesi e la fede, tra la scienza esegetica e la teologia, e si deplora l'opposizione tra il Magistero e l'esegesi. In quale maniera deve essere intesa la formula *Scrittura anima della teologia+? Quale tipo di interpretazione della Scrittura la Chiesa attende perciò dai biblisti?

I commentatori del capitolo VI della Dei Verbum fanno a gara nel sottolineare l'importanza della formula; però si fermano esitanti sul modo di intenderla. Il P. Grillmeier scrive *I teologi saranno spronati a domandarsi ciò che questa espressione, ormai autenticata dal Concilio, significhi concretamente. (...) essa fonda la preminenza della Sacra Scrittura in quanto che la Sacra Scrittura contiene la Parola di Dio, e in quanto essa è, come parola ispirata, la Parola di Dio autentica+ (p. 459 ss.). Senza alcun dubbio. Ma ciò rimane molto generico, e non contiene nessuna norma concreta per la metodologia teologica.

Lo stesso testo della Dei Verbum ci dà già una indicazione preziosa; alludiamo ad una parte della frase alla quale gli esegeti e anche i teologi hanno forse rivolto troppo poca attenzione: *scrutare alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo+. Questa richiesta, certo, è fatta in primo luogo ai teologi: sono invitati a considerare la Scrittura come il fondamento, la vita e l'anima della loro ricerca. Ma questo invito, per la medesima ragione, è rivolto ugualmente agli esegeti, nel loro studio della Sacra Scrittura. È necessario che anche loro si sforzino di *scrutare+ - nella Bibbia - sotto la luce della fede, *la verità che si trova racchiusa nel mistero di Cristo+. Solamente a questa condizione l'interpretazione esegetica della Bibbia potrà divenire *l'anima della teologia+, poiché l'esegeta e il teologo hanno poi, in ultima analisi, il medesimo oggetto formale: ricercare la verità di Cristo, quella che è al cuore della Scrittura e che dovrà poi divenire l'anima della teologia. In breve: poiché l'esegesi è l'interpretazione della Scrittura, l'esegeta vero non è solamente un filologo e uno storico; egli deve essere anche un credente e un teologo.

Con attenzione ancora più grande, ponderiamo i singoli termini di quella frase conciliare; ciò che finalmente si deve ricercare nella Scrittura *sotto la luce della fede+, è *ogni verità che è racchiusa nel mistero di Cristo+. Tutte le parole usate qui hanno un peso: *fede+, *verità+, *racchiuso+, *mistero+; mostrano che l'oggetto vero dell'interpretazione della Scrittura appartiene al livello del mistero della fede; non è perciò unicamente dell'ambito della ricerca storico-critica. Questa frase del Concilio ci orienta verso il modo patristico di leggere la Bibbia, nel ricercare lo Spirito nella lettera, il mistero nella storia. S. Gregorio, per esempio, dice che per comprendere veramente il senso di una frase biblica è necessario *elevarsi dalla storia al mistero+ .

Ricercare nella Scrittura, sotto la luce della fede, ogni verità che è racchiusa nel mistero di Cristo. Tema suggestivo! Che cosa indica in questo contesto il fonema verità, per altro già usato al cap. I, quando si parlava della Rivelazione (n. 2), e al cap. III per indicare il contenuto della Scrittura (n. 11, 2)?

La parola *verità+, che viene qui usata, non indica semplicemente la verità storica, ma la verità in senso biblico, la verità della rivelazione. La sua elaborazione al Concilio fu oggetto di discussione talvolta appassionata ed ha conosciuto molte modifiche significative. Appartiene al contesto in cui si tratta dell'ispirazione della Sacra Scrittura.

Ecco il testo: *Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono, è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, è da professare, di conseguenza, che i libri della Sacra Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere+.

È importante rendersi conto bene in quale punto questa frase differisce da quella, più apologetica, che era stata presentata nel 1962 dalla Commissione preparatoria.

Tutta l'accentuazione si concentrava sull'inerranza assoluta della Sacra Scrittura in qualsiasi materia religiosa o profana. Questo schema, sin dall'inizio, fu respinto in blocco dal Concilio. Ma anche il nuovo testo, elaborato dalla Commissione mista nel 1963, si esprimeva ancora in termini assai categorici. Una modificazione importante fu ottenuta l'anno seguente dalla Commissione dottrinale; questa sostituì il punto di vista negativo dello schema precedente con una indicazione positiva sul contenuto della Scrittura: *I libri della Scrittura, interamente, con tutte le loro parti, contengono la verità senza alcun errore+. Ma la svolta decisiva non fu presa che nel 1965, con l'aggiunta dell'aggettivo salutarem al sostantivo veritatem: *I libri interi della Scrittura, con tutte le loro parti, insegnano fermamente, fedelmente, integralmente e senza errore, la verità salutare+. Questa formula provocò forti reazioni: non si

rischiava forse di introdurre di nuovo la teoria pericolosa che restringeva l'ispirazione e l'inerranza ai soli argomenti religiosi e morali, quelli che riguardano la salvezza? Eppure la formula non era così ambigua. Usata già nel Concilio di Trento (DS 1501), era stata ripresa dallo stesso Vaticano II altrove nella Dei Verbum, dove affermava che il Vangelo è *la fonte di ogni verità salutare (salutaris veritatis) e di ogni regola morale+ (n. 7).

Ma per rispondere alle apprensioni dei Padri, la Commissione dottrinale spiegò che l'espressione veritas salutaris *non introduceva alcuna limitazione materiale alla verità della Scrittura+; né indicava *la specificazione formale+. Tuttavia, per togliere nel modo più assoluto qualsiasi ambiguità, sostituì finalmente l'aggettivo *salutarem+ con una proposizione relativa che ne esplicitava il senso: questa dice chiaramente che la verità della Scrittura esprime l'intenzione salvifica di Dio: *Veritatem quam Deus nostrae salutis causa Litteris Sacris consignari voluit+.

Che significa dunque nel testo definitivo, questa espressione: *la verità della Scrittura+, la verità *per la nostra salvezza+?

La tradizione concordista del sec. XIX, la cui mentalità si manifestava ancora nello schema preconciliare, era dominata quasi esclusivamente dal problema dell'inerranza assoluta della Bibbia. Attribuiva l'assenza di errore a tutte le asserzioni degli autori biblici. P. Grelot lo commenta molto bene: *Se (...) tutti gli elementi materialmente conglobati nelle frasi della Bibbia devono essere considerati come materialmente veri, si dovrebbe concludere che la cosmologia degli autori sacri, la loro geografia, la loro botanica, ecc. devono essere accolti come altrettante Parole di Dio+. Quella nozione di verità non aveva perciò niente di specificamente religioso; essa era usata nel senso greco e scolastico di conformità tra la parola (o il pensiero) e la realtà (aduequatio intellectus et rei); anche per questo si parlava volentieri delle *verità+ della fede al plurale, nel senso più concettuale di enunciazioni quasi dogmatiche.

Al contrario, nella Dei Verbum la parola veritas, usata tredici volte, si trova sempre al singolare. Questo del resto vale anche per tutti gli altri testi del Concilio. Il Vaticano II si è liberato dalla mentalità concettualistica che prevaleva nell'epoca precedente, ed ha saputo riscoprire la nozione biblica di verità, che era anche quella della più antica Tradizione. La stessa Commissione dottrinale, d'altronde, lo ha riconosciuto: la parola *verità+ in questo contesto, è da prendere nel senso biblico, non filosofico; ed essa dava come esempio due testi paolini; il primo è quello di Ef 1,13: *Dopo aver compreso la parola di verità, il Vangelo della vostra salvezza...+ la cui formulazione è stranamente vicina a quella del testo conciliare: *la verità... per la nostra salvezza+. Nella Scrittura, soprattutto in S. Paolo e S. Giovanni, la parola *verità+ significa fondamentalmente la rivelazione che Dio ci fa del suo disegno salvifico; questa rivelazione si è realizzata in modo definitivo nella persona di Gesù Cristo.

Quella dimensione cristologica della verità è particolarmente sottolineata nel quarto Vangelo: *la grazia della verità è venuta in Gesù Cristo+ (Gv 1,17); e lo stesso Gesù dichiara nell'ultima Cena: *Io sono la Via, la Verità e la Vita+ (Gv 14,6).

Nella Costituzione Dei Verbum, tutto è centrato su Cristo: la *profonda verità+ su Dio e sulla salvezza degli uomini *risplende a noi in Cristo, il quale esiste insieme come il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione+ (n. 2). Questa formulazione è molto vicina a quella del cap. VI analizzata precedentemente: *Ogni verità è racchiusa nel mistero di Cristo+ (n. 24).

In questi testi della Dei Verbum sulla verità della Scrittura, il Concilio si è quindi progressivamente liberato da una concezione strettamente apologetica, per innalzarsi al livello teologico dell'insieme della Costituzione, quello della divina Rivelazione. La formulazione finale di DV 11, è vero, fu raggiunta laboriosamente; ma il suo significato è ora molto chiaro. La Scrittura contiene la *verità+, non di certo nel senso scientifico che tutti gli avvenimenti storici in essa narrati offrono garanzie sufficienti di esattezza per lo storico, ma perché ci descrive quanto interessa la fede: lo svolgimento - nella storia - del disegno divino di salvezza, vale a dire la rivelazione. Citiamo ancora P. Grelot: *la rivelazione biblica fa conoscere i rapporti di questi avvenimenti (...) con il disegno della salvezza che vi prende corpo. Essa dunque li raggiunge ad un secondo livello di profondità per farne conoscere il significato+; precisiamo: quella rivelazione nella storia, questo significato degli eventi è quello che conta per la fede del popolo di Dio; scoprire questo significato è precisamente (o dovrebbe essere) l'oggetto della ricerca degli esegeti. Se ne tratterà all'inizio del paragrafo seguente (n. 12). Lì viene detto che il fine principale dell'interprete deve essere quello di *vedere chiaramente ciò che Dio stesso ha voluto comunicarci+. E un altro modo per indicare *la verità della Scrittura+, la rivelazione del disegno salvifico di Dio nella storia.

La Scrittura contiene la verità che Dio ci ha voluto comunicare per mezzo del testo ispirato; le asserzioni degli autori ispirati *devono essere prese per asserzioni dello Spirito Santo+ (n. 11,2)?

L'interpretazione autentica della Bibbia, per poter essere una ricerca della verità della Sacra Scrittura, dovrà essere fatta nello *Spirito+.

Questa affermazione forse meraviglierà alcuni; però, corrisponde ad una richiesta precisa del Concilio, all'inizio di un paragrafo della Dei Verbum (n. 12, 3). *Intanto, dovendo la Sacra Scrittura essere letta e interpretata nello stesso Spirito nel quale è stata scritta...+.

Questo principio non è stato studiato sufficientemente, durante questi trent'anni anni che ci separano dal Concilio.

Esso è importante per il nostro argomento.

Dopo una lunga frase d'introduzione, il n. 12 propone le norme dell'interpretazione della Scrittura, in due grandi paragrafi: il primo riprende in breve ciò che la Divino afflante Spiritu aveva già indicato più dettagliatamente sulle regole del metodo storico e critico nell'esegesi; il secondo indica a quali condizioni l'esegesi potrà essere teologica ed ecclesiale: è necessario che l'interprete ponga attenzione al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, alla viva Tradizione di tutta la Chiesa e all'analogia della fede. È così all'incirca che il testo già si presentava nella penultima redazione dello schema (1964). Ma l'inciso che stiamo analizzando, sulla lettura e interpretazione della Scrittura *nello Spirito nel quale fu scritta+, non fu aggiunto che alla fine dell'ultima sessione del Concilio, nell'ottobre 1965: fu posto all'inizio del paragrafo sulla esegesi cristiana ed ecclesiale, come principio generale di interpretazione teologica.

Non è questo il momento di narrare dettagliatamente per quale concorso di circostanze questo importante principio fu introdotto nel testo all'ultimo periodo. A questo proposito è sufficiente rendere un omaggio riconoscente ad un Vescovo orientale, Mons. N. Edelby, il cui intervento al Concilio nella terza sessione (5 novembre 1964), ebbe un ruolo determinante nella questione di cui stiamo trattando. A questo fine crediamo utile citarne le due frasi essenziali: *Non si può separare la missione dello Spirito Santo dalla missione del Verbo Incarnato. È questo il primo principio teologico di qualsiasi interpretazione della Sacra Scrittura. E non si può dimenticare che, oltre alle scienze ausiliari di ogni genere, il fine ultimo dell'esegesi cristiana è la comprensione spirituale della Sacra Scrittura alla luce di Cristo risuscitato+.

Tra la terza e la quarta sessione, parecchi Vescovi avevano richiesto l'inclusione di questo principio di interpretazione. La Commissione dottrinale aveva aderito, chiedendo semplicemente di aggiungere in nota due riferimenti: uno alla Spiritus Paraclitus di Benedetto XV (EB 469); l'altro a un testo importante di S. Girolamo (In Gal. 5,19-21: PL 26, 417 A), al quale già rinviava l'enciclica.

In che modo, con questo inciso sullo Spirito, vengono sfumate o approfondite le norme teologiche che si trovavano già nello schema precedente del testo della Costituzione?

Il richiamo a S. Girolamo, di cui abbiamo parlato, è importante. In effetti è proprio presso di lui che, nella tradizione occidentale, questo principio di interpretazione ha trovato la sua più chiara formulazione; dopo di lui però riapparirà sotto varie forme in tutta la patristica latina, nel Medio Evo e sino al Rinascimento. Ma S. Girolamo stesso l'aveva mutuato da Origene; e dopo il Maestro d'Alessandria, il principio conobbe uno sviluppo parallelo anche in Oriente. Dunque a giusto titolo il P. Congar poteva scrivere recentemente: *Nella Chiesa non si è mancato mai di affermare che nessuno può comprendere la Parola di Dio senza il medesimo Spirito che l'ha ispirata: sempre l'unità dell'oggetto con il soggetto+.

La formula è felice. Il *principio di Girolamo+ (lo chiamiamo così per brevità) comporta di fatto un aspetto soggettivo e uno oggettivo. Il primo significa che per comprendere veramente un testo della Sacra Scrittura, l'esegeta dovrà in un certo senso mettersi in comunione con la fede e con l'esperienza spirituale del suo autore. S. Gregorio scriveva nelle Moralia su Giobbe: *Le parole di Dio non possono essere affatto comprese senza la sua sapienza; perché se qualcuno non ha ricevuto lo Spirito di Dio, questi non può in alcun modo comprendere le parole di Dio+.

Il senso oggettivo del principio è un corollario immediato dell'ispirazione della Scrittura?

I Padri compresero ciò in un senso teologico e non psicologico. Secondo Origene, scrive il P. de Lubac, *lo Spirito Santo abita nella Scrittura. Egli - si può dire - ne costituisce il fondo+. Ne segue che la Scrittura contiene un senso più profondo del senso ovvio; è il senso voluto dallo Spirito Santo, il senso spirituale: *Le Scritture, scrive Origene nel De principiis, furono composte sotto l'azione dello Spirito di Dio; al di là del loro senso ovvio, posseggono un altro senso che sfugge ai più. Perché ciò che vi sta scritto è allo stesso tempo la figura di certi misteri e l'immagine delle realtà divine+.

Torniamo alla Costituzione Dei Verbum. Qui ugualmente il principio dell'interpretazione *nello Spirito+ è legato al dogma dell'ispirazione: si parla dello Spirito *nel quale è stata scritta la Sacra Scrittura+. Lungi dall'essere una parentesi che sarebbe stata inserita in un modo maldestro e che non avrebbe nessun particolare rilievo, l'inciso stabilisce al contrario, sia con le tre norme teologiche che seguono, sia con il contesto precedente, un collegamento stretto: l'interpretazione *nello Spinto+ è proprio quella che consente di comprendere *ciò che Egli stesso (Dio) ha voluto comunicarci+ (n. 12,1), essa fa scoprire *la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere+ (n. 11,1). Il tema che noi studiamo in questo momento si ricongiunge dunque esattamente con quello che abbiamo considerato poc'anzi, il tema della Verità salutare della Scrittura.

Potrebbe - in questo contesto - dire una parola su un altro punto di novità della Dei Verbum, e, cioè, dell'unità di tutta la Sacra Scrittura?

E' questo un aspetto ricordato anche dal cardinale Ratzinger nella sua grande conferenza sull'esegesi tenuta a New York nell'1989. *L'esegeta deve rendersi conto di non abitare una regione neutra al di sopra o al di fuori della storia della Chiesa. Pretendere che si possa accedere direttamente a ciò che è puramente storico non può che produrre un corto circuito. Il primo presupposto di ogni esegesi è di accettare la Bibbia come un unico libro. Facendo questo l'esegesi ha già scelto una posizione che non risulta di un approccio solo letterario. L'esegeta che fa questo ha compreso che questo testo letterario è prodotto da una storia che ha una coesione interna, e questa storia è un vero luogo di comprensione+.

Anche questo aspetto viene ripreso dal Catechismo, che nel paragrafo 134 cita un testo medievale di Ugo di San Vittore molto bello: *Omnis Scriptura divina unus liber est, et ille unus liber Christus est, quia omnis Scriptura divina de Christo loquitur, et omnis Scriptura divina in Christo impletur+. (Tutta la divina Scrittura è un libro solo e quest'unico libro è Cristo; infatti tutta la divina Scrittura parla di Cristo e in Cristo trova compimento).

Allora si capisce: poiché tutta la Scrittura è ispirata dallo stesso Spirito, il disegno di salvezza narrato dalla Bibbia unifica i Settanta autori del testo sacro in un libro solo, il cui contenuto ultimo, reale e attuale è Gesù Cristo.

Un altro aspetto della Dei Verbum troppo ignorato, è l'unità tra Sacra Scrittura e Tradizione:

Si legge nella Dei Verbum: *La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono tra loro strettamente congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine+ (DV 9). In questo senso, un recupero dello spirito, con cui i Padri della Chiesa si accostavano al testo sacro sarebbe salutare e fecondo anche per l'esegesi contemporanea, permettendo di leggere e interpretare la Sacra Scrittura *alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta+.

La grande intuizione dei Padri era che lo Spirito sta nella lettera. Se la lettera della Scrittura è ispirata, carica di Spirito, la lettura del testo biblico deve raggiungere il suo livello spirituale: testo e Spirito.

Per un'esegesi che sia insieme critica, rispettosa dei moderni metodi filologici, e aperta alla profondità contenuta nel testo stesso, secondo la grande analogia del Verbum caro factum est.

Per gli autori medievali, il Verbo incarnato era il Verbum abbreviatum, la sintesi di tutto ciò che Dio voleva dire agli uomini.

All'inizio di questa conversazione è stato detto che manca ancora una ricerca storica completa sulle diverse posizioni della Chiesa circa la Bibbia dalla fine del secolo XIX sino ai nostri giorni. Nel tentativo di strutturare questi cento anni in diversi periodi, seguendo i principali documenti del Magistero sulla Scrittura, quali grandi tappe si possono distinguere?

Tre tappe: e in ciascuna di queste si manifesta una preoccupazione differente; perciò è normale che vi si trovino ogni volta anche diverse raccomandazioni a coloro che devono fare l'esegesi nella Chiesa.

La prima tappa comprendeva un mezzo secolo: andava dalla prima alla terza delle grandi encicliche (Providentissimus Deus di Leone XIII, nel 1893; Divino afflante Spiritu di Pio XII, nel 1943); includeva perciò tutto il periodo della crisi modernista. Questo periodo era chiaramente dominato dalla preoccupazione apologetica di difesa della Scrittura contro gli *errori moderni+

La seconda tappa ha avuto inizio con l'enciclica di Pio XII. Riconoscendo la legittimità e la necessità di usare i metodi critici e scientifici nell'esegesi, metteva un punto finale dopo l'oscuro periodo del modernismo e dell'antimodernismo Questo nuovo orientamento era indispensabile; e rimane ormai irreversibile. Ma conteneva un equivoco.

L'enciclica Divino afflante Spiritu, nonostante il suo titolo, non parla quasi della Rivelazione e dello Spirito Santo La preoccupazione maggiore del documento infatti era quella di raccomandare lo studio letterario e storico della Bibbia, e non tanto quella di sottolineare le questioni dottrinali. L'enciclica era una vera liberazione sul piano dei metodi scientifici, ma non era affatto ispiratrice nel piano teologico Bisogna pur riconoscere che su questo punto l'accentuazione è differente da quella della tradizione antica: i Padri vedevano il Cristo come il centro di tutta la Scrittura, perché Egli, Egli solo, è *la Verità+ (cf Gv 14, 6) Perciò, secondo gli antichi, egli è la sorgente della Rivelazione, in Lui si trova il senso vero e ultimo di tutta la Scrittura. E nessuno la può comprendere bene se non nella luce dello *Spirito della verità+ (cf Gv 16, 13) e della Tradizione della Chiesa Questi differenti temi erano appena sfiorati nella Divino afflante Spiritu.

Nella Costituzione Dei Verbum del Vaticano II, invece, appaiono di nuovo. Si apre così una terza e nuova tappa, dove domina l'interesse ecclesiale e teologico. Come ha detto egregiamente H. de Lubac, *uno dei principali meriti (della Dei Verbum) è quello di aver riportato tutto all'unità Unità del Rivelatore e del Rivelato: Gesù Cristo, "autore e consumatore della nostra fede"; unità in lui dei due Testamenti, che a lui rendono testimonianza; unità della Scrittura e della Tradizione, che non si possono mai separare; unità, presentata nell'ultimo capitolo, del Verbo di Dio sotto le due forme con le quali Egli si rende presente tra noi: la Scrittura e l'Eucaristia+.

Avviandoci a conclusione si può ragionevolmente affermare che la Costituzione Dei Verbum è un documento di grande portata teologica?

La storia della salvezza di cui parla non è nel medesimo piano della storia profana. La Rivelazione, quella descritta nel cap. I, si attua senz'altro nella storia, ma non si identifica soltanto con gli eventi della storia. *Gli avvenimenti di cui parla la fede non sono semplicemente dei momenti storici+, scriveva alcuni anni fa J. Ladrière. La *verità+ della Scrittura dunque non è affatto unicamente la sua verità storica, più o meno bene riscontrata; ma è la verità della salvezza, *la verità racchiusa nel mistero di Cristo+ (24), quella che G. Sohngen chiama la *verità interiore del mistero+: è il valore di rivelazione che possiede la storia biblica per la fede cristiana. Questa *verità+ della Scrittura non può essere conseguita con il solo metodo storico-critico; essa non può essere compresa se non quando la Parola di Dio è letta *nello Spirito nel quale è stata scritta+. Citiamo ancora H. de Lubac: *La Scrittura interpretata nella Chiesa sotto l'illuminazione dello Spirito Santo, questa è l'asse portante di tutta l'economia tradizionale+.

È proprio ad una riscoperta di questa economia e di questa tradizione che la Dei Verbum ci invita.

Per concludere: ci si domanda molte volte in questi ultimi anni se e in quale misura ci sia stata una *ricezione+ del Vaticano II.

La risposta varia necessariamente secondo i documenti conciliari che vengono esaminati e l'argomento che si studia. Per ciò che concerne la Costituzione Dei Verbum e la sua dottrina sull'interpretazione della Scrittura, si deve riconoscere che la medesima non ha avuto una larga eco; in questo senso bisogna dire che non c'è stata ancora una sua *ricezione+. Ma l'appello che essa rivolge ai biblisti e ai teologi continua a risuonare; il programma che ci propone aspetta di essere realizzato nei prossimi anni.