COME E' NATA LA PARROCCHIA

di Enrico Pepe

Parte I - La Parrocchia nella sua storia

 

Anche chi non ha molta simpatia per le cose di chiesa, presto o tardi s'imbatte con la parrocchia, magari per fare un favore ad un amico che lo invita al suo matrimonio o alla festa di battesimo di un bambino o al funerale di un parente. La parrocchia fa parte della nostra cultura e da quando è nata è sempre rimasta in piedi, perché è stata sempre vicina all'uomo comune, per rispondere non solo ai suoi bisogni strettamente religiosi, ma anche alle sue aspirazioni più profonde di comunione. Potremmo definirla come la chiesa fatta a misura d'uomo. Conoscerne pertanto la storia, può essere utile non solo per comprenderne la natura, ma anche per mettere le sue risorse a servizio dell'uomo moderno.

 

 

Nei primi secoli

 

È risaputo che nei primi secoli il cristianesimo si diffuse rapidamente in quasi tutte le principali città del mondo greco-romano, dando vita a comunità, a volte molto piccole, ma particolarmente attive. Vivevano la comunione non solo di fede, ma anche di beni materiali, avevano come responsabile un vescovo assistito da un consiglio di presbiteri e di diaconi, provvedevano alle necessità delle vedove e dei poveri con le proprie risorse, diffondevano con l'esempio e con la parola la dottrina degli Apostoli, e soprattutto coltivavano uno stile di vita che suscitava l'ammirazione dei pagani che dicevano: "Guarda come si amano". Le stesse persecuzioni non riuscirono a soffocare lo slancio e la diffusione della nuova fede.

Queste comunità godevano ciascuna di una piena indipendenza pur restando strettamente unite tra loro per la comune fede e, molte volte, aiutandosi anche materialmente. Si chiamavano semplicemente chiese: la chiesa di Roma, la chiesa di Cartagine, la chiesa di Smirne, ecc. In seguito apparve anche il nome di parrocchia per indicare appunto la chiesa locale pienamente costituita col suo vescovo. "pàroikos" nell'accezione civile era lo straniero, il forestiero, il non cittadino, che però viveva nella città con diritto di residenza e con tutto ciò che legalmente questo comporta. E i cristiani durante le persecuzioni si consideravano esattamente come degli stranieri in mezzo alle città ancora pagane, abitanti sì di questo mondo, ma in cammino verso la vera patria.

 

 

Dopo l'editto di Costantino

 

Nel 313 ci fu il famoso Editto di Costantino che segnò una svolta storica, perché il cristianesimo divenne la religione ufficiale dello stato e dalle città più importanti si diffuse rapidamente nelle città minori e poi nelle campagne.

Il numero dei cristiani aumentò in modo considerevole, molti locali di culto pagano ormai abbandonati vennero ripristinati e adattati al culto cristiano, altre chiese furono edificate dovunque dalla pietà dei fedeli o dallo zelo dei grandi proprietari terrieri che volevano così favorire la religiosità dei loro contadini. Conseguentemente si impose ai vescovi la necessita di provvedere alla formazione cristiana di questa massa sempre crescente di convertiti.

Pretendere che essi venissero sempre alla chiesa dove il vescovo aveva la sua sede era impossibile, creare nuove sedi episcopali nelle città minori o nelle campagne non sembrava opportuno e allora si mandava loro un presbitero che a nome del vescovo formava la comunità cristiana. Durante un certo periodo la sede episcopale si riservo il diritto di amministrare il battesimo, ma poi anche questo sacramento dell'iniziazione cristiana venne dato dai parroci in queste chiese filiali, che lentamente acquistarono autonomia costituendosi in vere e proprie parrocchie rette da un sacerdote, sempre legato al vescovo.

Per molto tempo il termine di parrocchia servì per indicare comunità della sede vescovile, sia le comunità con a capo un sacerdote, finché si arrivo alla distinzione attuale e tutto il territorio sotto la giurisdizione di un vescovo, composto da varie parrocchie, non si chiamò più parrocchia, ma diocesi.

Attorno alla parrocchia, già nel V secolo, si organizzarono opere di assistenza e di promozione umana a largo respiro, come avveniva attorno alla comunità cittadina retta direttamente dal vescovo. Fiorirono sempre di più le scuole da cui provenivano anche i futuri sacerdoti, ospedali per gli infermi, alloggi per i pellegrini e soprattutto un'opera capillare di assistenza per i poveri e le vedove, continuando l'antica tradizione apostolica.

A questo scopo e per la manutenzione degli edifici di culto e del clero servivano le offerte dei fedeli e i lasciti in beni immobili. Si dava inizio così a quel famoso beneficio ecclesiastico che tanti dolori di testa diede in seguito alla chiesa.

Quando poi i confini dell'impero romano non ressero più alle pressioni dei popoli nordici e slavi, molte parrocchie vennero distrutte. In seguito durante l'opera di ricostruzione, molti nobili, re e signori, edificarono sulle loro terre chiese personali, che consideravano come loro proprietà, trasmettendole in eredita di padre in figlio e riservandosi la scelta del sacerdote, lasciando al vescovo solo il compito liturgico dell'ordinazione.

 

 

La riforma di Carlo Magno

 

Arriviamo cosi all'epoca feudale, quando Carlo Magno volle dare un assetto più stabile al suo impero, prendendovi dentro anche la chiesa. Egli riaffermo l'autorità dei metropoliti sui vescovi suffraganei, l'autorità di questi sulle chiese parrocchiali, anche se di proprietà privata, e l'autorità dei parroci su tutte le chiese costruite nel loro territorio.

Dappertutto ci fu un rifiorire del culto e una migliore preparazione culturale e morale del clero che in molti luoghi adottò la vita comune. Purtroppo, però, non si riuscì a ricuperare il senso della comunione come nei primi secoli del cristianesimo. Vescovi e parroci erano più legati alla struttura feudale che a quella originaria della comunità ecclesiale. Il vescovo, per la somma dei beni ecclesiastici che doveva amministrare - anche se finalizzata sempre al bene del popolo - rassomigliava più ad un feudatario che ad un pastore. Anche la sua stessa nomina e per conseguenza quella dei parroci, non proveniva più dalla comunità dei fedeli col loro vescovo, ma obbediva a criteri più politici che pastorali, provocando ingerenze che molte volte non avevano nulla a che fare col bene dei fedeli.

Molti furono in questo periodo gli interventi di Concili e di Sinodi, ma le leggi, seppur frenavano, non riuscivano ad impedire lo slittamento verso la decadenza, che porto poi alla famosa lotta per le investiture tra il papato e l'impero.

 

 

Le varie riforme successive

 

Ci vorranno la riforma monastica di Cluny e quella gregoriana e in seguito il sorgere di movimenti riformisti non sempre ortodossi, per dare il via ad un grande rinnovamento religioso che pervase tutta la cristianità e fece sentire il suo influsso anche nelle parrocchie.

Con l'azione evangelizzatrice di San Domenico di Guzman e quella profetica di San Francesco d'Assisi si cominciò a dare più importanza alla conversione del cuore che al possesso e all'amministrazione dei beni ecclesiastici e si riscoprì il valore cristiano della fraternità. In seguito fiorirono le Confraternite esattamente per soddisfare nei fedeli questo bisogno di ritrovarsi come comunità, dove tutti si conoscono, si vogliono veramente bene e si aiutano concretamente. Fu certamente uno dei frutti più belli nella vita parrocchiale della predicazione degli Ordini mendicanti.

Dove questo spirito nuovo non riuscì a farsi sentire mancò una risposta vitale ai bisogni spirituali del popolo cristiano e si prepararono lentamente le basi che portarono alla Riforma protestante, nata appunto col desiderio di rispondere a questa sete di rinnovamento.

 

 

Il Concilio di Trento

 

Il Concilio di Trento fece un grande servizio alla parrocchia, facilitandone la vita e l'attività pastorale. Seppe organizzare la dottrina cattolica in maniera cosi semplice e coerente con i bisogni del tempo, che la teologia arrivo fino agli analfabeti attraverso il catechismo da tutti imparato a memoria; i sacramenti accompagnavano la vita del cristiano dalla nascita fino alla morte; la liturgia, sintonizzata col ciclo stagionale del mondo agricolo, faceva rivivere a tutti ogni anno la vita di Gesù dal Natale alla Pentecoste. E fece in modo che quasi non esistesse agglomerato umano senza un campanile e un sacerdote. A questo scopo si costruirono dovunque i seminari per i candidati al sacerdozio, impartendo loro una solida formazione umana e cristiana.

 

 

La parrocchia in cerca della sua identità

 

La parrocchia sembrava possedere ormai una stabilità incrollabile, ma poi vennero anche per essa gli scossoni, e molti, con le varie "rivoluzioni" dell'età moderna.

Oggi quella parrocchia tridentina, ben preparata per evangelizzare l'uomo nelle strutture di una società fondamentalmente agricola, si sente impotente dinanzi ad un quadro sociale così complesso, frantumato e mutevole, che - mollati gli ormeggi dell'era agricola e industriale - si evolve verso una ennesima "rivoluzione", quella della telematica.

Ma se la parrocchia riscopre e rivive la sua dimensione originaria di comunità cristiana, potrà assolvere anche oggi al suo compito. Non si può infatti negare la sete profonda di comunione nell'umanità del nostro tempo.

È compito di noi cristiani offrire un luogo concreto, fatto a misura d'uomo, dove questa comunione sia possibile, dove Dio diventi in certo modo tangibile all'uomo moderno, dove la civiltà dell'amore non sia una semplice speculazione, ma esperienza vissuta. E questo luogo è senza alcun dubbio la comunità. È questa la sfida che la parrocchia deve affrontare per ritrovare il suo vero volto di comunità cristiana.

 

 

 

Parte II - La Parrocchia oggi

 

La parrocchia e ancora all'altezza della sua missione o i suoi giorni sono ormai contati ed essa è paragonabile ad una scorta di magazzino in liquidazione fino all'esaurimento?

Karl Rahner, già nel 1966, aveva il coraggio di affermare che "il principio parrocchiale" è il più antico ed è degno del più profondo rispetto, perché la chiesa se ne serve per incarico stesso di Cristo. Egli infatti ha voluto che, per fare dell'uomo un cristiano, sia necessario considerarlo come appartenente ad una patria e ad un popolo. Penso che sia stata questa convinzione a suggerire tanti tentativi di rinnovamento in questa struttura secolare della chiesa.

Ma vediamo prima alcuni tratti della sua crisi, che trae l'origine dalla più ampia crisi della società moderna.

Fino agli inizi di questo secolo, e in alcuni luoghi anche fino agli anni 50, i villaggi e i quartieri urbani erano autentiche comunità umane, dove si nasceva, ci si sposava, si lavorava e si moriva. Tutta la vita si svolgeva in quel territorio ristretto e, in un certo senso, anche completo in se stesso. A Venezia come a Siena ogni quartiere aveva la sua piazza, la sua fonte o il suo pozzo, le sue associazioni, le sue feste e la sua chiesa.

In un simile ambiente il crollo familiare era molto raro, i vecchi invecchiavano in mezzo ai giovani e non avevano bisogno di un ricovero; se un nucleo familiare si dissociava per una qualsiasi disgrazia, i bambini non restavano sulla strada, ma erano accolti in casa di parenti o di amici; se qualche giovane commetteva una sciocchezza difficilmente si andava dalla polizia o dal giudice, ma si risolveva il caso tra amici. Lo stesso "idiota del villaggio" era felice tra la sua gente, nonostante gli scherzi di cui era bersaglio, e non lo si rinchiudeva fra le mura di un manicomio. La parrocchia era il luogo ideale dove ogni cittadino trovava la risposta non solo ai suoi bisogni strettamente spirituali, ma anche alla sua sete di umanità.

Con l'avvento dell'industrializzazione, alle comunità umane dei villaggi e dei quartieri si sono sostituite lentamente, ma inesorabilmente, le città anonime. E mentre nelle strutture abitazionali anteriori erano privilegiati i rapporti umani, nelle città moderne tutto quello che si riferisce all'affettività, ai rapporti interpersonali profondi tra le persone, come la famiglia, la chiesa, la scuola, tutto e subordinato alla legge inesorabile della produzione dei beni di consumo. In questi nuovi agglomerati umani l'amicizia e la solidarietà sembrano senza diritto di cittadinanza.

 

Questa nuova realtà sociale, che tocca la stragrande maggioranza della popolazione, ha messo a dura prova la vecchia struttura parrocchiale, provocandone una lenta trasformazione ancora in atto. E da questo travaglio sono emersi vari tipi di parrocchie, a seconda dell'ambiente in cui sono situate.

In Europa ci sono tanti piccoli villaggi di montagna che resistono ancora all'usura del tempo e che ritornano ad essere particolarmente vivaci durante le vacanze estive. Pur essendo più facile qui conservare le sane tradizioni, non vi troviamo più quelle comunità compatte attorno al campanile come una volta. Non bisogna illudersi: nessun villaggio oggi e una cittadella e se il cristianesimo non si fonda su una profonda esperienza di vita evangelica, non riuscirà a sopravvivere neanche in queste che a prima vista possono sembrare - nessuno sa fino a quando - delle oasi nel deserto.

Ma passiamo alla città dove si combatte la battaglia decisiva.

Qui ci può essere ancora la parrocchia concepita come "la grande famiglia", che, sulla scia della tradizione, cerca di mantenere buoni i suoi fedeli offrendo loro strutture umane, come scuole, attrezzature sportive, opere assistenziali, in modo da costruire dentro la grande città la "cittadella parrocchiale", dove i cristiani si possono rifugiare per formarsi e per difendersi dagli assalti del mondo.

C'è certamente qualcosa di positivo in questo tipo di parrocchia: al suo interno si salvano ancora i rapporti umani e si costruisce un certo spirito di famiglia. Ma fino a quanto potrà resistere? È poi una vera comunità cristiana, se resta chiusa nel suo castello senza andare verso la città degli uomini? Non alimenta una concezione piuttosto pessimista sulla società odierna? La gioventù infatti non si sente a suo agio in un tale ambiente e se ne allontana sempre più.

Nelle grandi metropoli è venuta in luce la parrocchia come "stazione di servizio". Ne ho voluto osservare una da vicino nella città di San Paolo in Brasile, portandomi in una di queste chiese del centro che vedevo particolarmente frequentata tutti i giorni della settimana. È un susseguirsi di messe tutte affollatissime con una liturgia ben preparata e molto partecipata. I confessionali sempre occupati, tanto che i sacerdoti si devono dare il turno durante il giorno. Diresti di trovarti davanti ad una comunità parrocchiale particolarmente viva. In realtà si tratta di bravi cristiani che dai vari quartieri convergono al centro della città per motivi di lavoro. Non potendo frequentare la loro parrocchia durante la settimana vanno a questa chiesa, dove trovano ad ogni ora un buon servizio religioso ed anche la possibilità di riposarsi un poco in mezzo al frastuono della megalopoli.

Certamente questa parrocchia presta un ottimo servizio e lo deve fare, ma non può esaurire qui la sua missione. Dove sono i parrocchiani di quel territorio? Chi si prende cura di loro? Può oggi una parrocchia ridursi solo all'amministrazione dei sacramenti?

Una evoluzione interessante ha avuto la parrocchia negli ambienti francesi e belgi. Nella prima meta del nostro secolo si era molto sviluppato un insieme di organizzazioni che fanno pensare alle "cittadelle parrocchiali". Poi ci si rese conto che la grande massa dei cittadini - in modo particolare gli operai - era molto più sensibile alle organizzazioni sindacali o di categoria che alle strutture offerte dalla parrocchia. Sorsero allora le varie specializzazioni dell'Azione Cattolica per penetrare nei diversi ambienti e nacquero persino i preti operai. Si avvertiva già il bisogno di un dialogo col mondo contemporaneo. "La parrocchia - si disse - deve essere missionaria": non può limitarsi ai buoni che vanno a messa e neanche a quelli che frequentano le associazioni. La chiesa di lingua francese si lanciò in questa avventura e visse un periodo molto attivo, turbato a volte da incomprensioni tra parroci e assistenti di Azione Cattolica, tra gerarchia e preti-operai, ma tutto servì per far scoprire quanto sia difficile rispondere alle domande dell'uomo d'oggi.

Poi è venuta la primavera del Concilio e tutta la chiesa ha riscoperto la sua natura comunitaria e si è posizionata a servizio dell'uomo. Anche la parrocchia ha respirato l'aria del Vaticano II, ma pur essendo riuscita ad attuarlo facilmente nel campo liturgico, fa ancora molta fatica a calarlo nelle sue strutture per fare della parrocchia una comunità in senso ecclesiale.

Contemporaneamente in questi ultimi decenni abbiamo assistito al sorgere di forze nuove, che nessun piano di pastorale aveva potuto prevedere: i Movimenti ecclesiali e le Comunità ecclesiali di base. Questo fenomeno ha qualcosa da dire alle parrocchie?

Se un Movimento è sorto per ispirazione divina ed è portatore di un autentico carisma, non può che essere di aiuto alla chiesa e quindi anche alla parrocchia. È necessario però che tutti - a cominciare dai responsabili dei Movimenti e delle chiese - trovino i modi concreti per un'azione coordinata, in modo che ogni Movimento, mettendo in opera il proprio carisma, dia il meglio di sé sia alla chiesa universale che a quella locale. La parrocchia ha bisogno dei carismi, perché tutta la chiesa ne ha bisogno.

Da parte loro anche i Movimenti ecclesiali se si chiudono in se stessi vanno contro la loro natura, senza dire che, per la forte spinta missionaria, operano tante conversioni, ma non possono accogliere nelle loro strutture tutti i convertiti, perché la maggioranza di questi vorranno essere dei semplici cristiani, inseriti in un contesto di comunità parrocchiale viva. Anche per questo è interesse dei Movimenti collaborare al rinnovamento delle parrocchie per poter offrire a questi fratelli una casa spirituale dove consolidare la propria conversione. E aggiungerei anche un terzo motivo. Dove nasce in genere la maggior parte delle vocazioni per i Movimenti, se non nelle parrocchie? Quanto più queste saranno vive, più numerose saranno le vocazioni, non solo per loro ma per tutta la chiesa.

È auspicabile quindi una stretta collaborazione tra i Movimenti e le parrocchie per il bene di ambedue queste realtà ecclesiali. E non a caso il Papa ha voluto fare questo augurio alla chiesa italiana durante il Convegno di Loreto.

Quanto alle comunità di base è necessaria una distinzione. In Europa esse sono sorte generalmente all'insegna della contestazione alle strutture della chiesa, ritenute troppo rigide. In tale clima di contrasto è stato difficile riconoscere loro la nota di ecclesialità. Ormai però questo clima di contestazione e di diffidenza sta scomparendo e la gerarchia non fa più fatica a prendere in considerazione quelle esigenze positive che si celavano sotto la protesta.

In America Latina l'esperienza e stata molto diversa. Le comunità di base si sono sviluppate in modo sorprendente in mezzo al popolo ed hanno subito ottenuto il riconoscimento della loro ecclesialità. Si tratta di piccole comunità dentro il territorio parrocchiale, molto collegate tra loro e con la parrocchia. Esse non solo non costituiscono un pericolo per la vita parrocchiale, ma ne fanno una "comunione di comunità" e sono considerate dall'episcopato una delle più belle speranze per il rinnovamento parrocchiale. Esperienze simili si stanno facendo adesso anche in Italia.

Ci sembra di poter concludere che questa lunga e laboriosa crisi ha portato la parrocchia a riscoprire la sua vera natura di comunità cristiana. È questa una meta abbastanza chiara per tutti ed è qui che si giuoca il futuro della chiesa, perché la parrocchia non è una struttura secondaria per la sua vita, ma la struttura di base indispensabile. Pensare ad una chiesa senza parrocchie è come pensare ad una società civile senza città.

Ma come si fa a trasformare le nostre parrocchie in comunità cristiane che abbiamo la genuinità dei primi secoli del cristianesimo e l'attualità che il nostro tempo esige?