EUTANASIA

Dottore mi faccia morire

 

1.Premessa

2.La domanda

3.La sofferenza del malato

4.La morte

5.Una risposta affermativa?

6.Il medico può uccidere?

 

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Premessa

Esistono molte difficoltà a parlare di eutanasia e di accanimento medico.

L'argomento dell'eutanasia, indissolubilmente legato a quello dell'accanimento medico, è sempre più attuale ed è molto sentito dai cittadini tanto da comparire quasi quotidianamente nei media, e nelle più varie riviste scientifiche.

Ciò provoca quella pletora di informazioni, di dati e di numeri che invece di aiutare la riflessione ne riducono la profondità e confondono l'ascoltatore considerato anche l'uso di differenti linguaggi: il filosofico, il teologico, lo scientifico, lo psicologico, il sociologico, usati talvolta insieme in modo incoerente..

Affinché questo non accada, è necessario quindi scegliere un aspetto dell'argomento ed esplicitare il tipo di linguaggio prevalentemente usato.

L'aspetto privilegiato in questo caso è la domanda che il malato rivolge al medico: dottore mi faccia morire!

Non è un paziente qualsiasi a porre la domanda: affinché si possa procurare la morte, secondo la legge olandese, il soggetto che richiede esplicitamente e ripetutamente di morire, deve essere colpito da un male incurabile e provare dolori insopportabili.

Il discorso è rivolto ai medici, il linguaggio sarà preso in prestito dalla antropologia culturale e sarà mio dovere avvertirvi quando faremo qualche rapida incursione nel mondo teologico, psicologico e filosofico.

 

La domanda

Una domanda del genere è obbligante e significativa.

Ci obbliga a dare una risposta che sarà comunque significativa, nel senso che ne va della nostra vita professionale, che rivela noi stessi come uomini e richiede una decisione.

Anche una non decisione o una fuga: una pacca sulle spalle, oppure un "non dire idiozie che starai meglio" rivela tutto un mondo di atteggiamenti e di valori del medico.

Ma questa domanda, da parte del paziente è legittima? Può oggi legittimamente un soggetto, affetto da malattia inguaribile e sottoposto a gravi sofferenze, richiedere al proprio medico la morte?

L'avverbio legittimamente non qui alcun significato giuridico, ma antropologico e soggettivo.

Quel tipo di malato può soggettivamente richiedere l'eutanasia ed aspettarsi una risposta positiva da parte del medico?

Fino a qualche decennio fa la risposta era unica e chiara: no, ma oggi?

Per tentare di rispondere a quest'ultimo quesito dobbiamo percorrere un cammino in un terreno dove non vorremo mai avventurarci: quello della sofferenza e della morte.

D'altra parte capire ciò che vuol dire la sofferenza e la morte oggi è essenziale per la risposta

 

 

La sofferenza del malato

Non è possibile per l'uomo accedere pienamente al mistero del perché della sofferenza. È possibile però partire dall'esperienza del dolore per sottolinearne alcune caratteristiche. Innanzitutto il dolore è una esperienza radicale

Il dolore si conosce per esperienza, ma l'esperienza del dolore produce un modo del tutto nuovo di conoscenza, inaugurando una diversa visione del mondo e del comprendere l'accadere.

Sotto il segno del dolore il mondo appare trasformato, la sofferenza produce nel fluire monotono della vita una discontinuità sufficiente per gettare nuova luce ed essere insieme patimento-distruzione e rivelazione-percezione.

Nel senso di esperienza radicale la sofferenza è fatto personale e si caratterizza come separazione. Il dolore è soprattutto separazione tra sè e gli altri.

Il dolore delimita esprime l'individualità come principio e forma dell'esistere e del morire.

Si tratta di una doppia separazione: chi soffre è anomalo agli occhi degli altri e questi ultimi divengono eterogenei, irriconoscibili, lontani e vani.

Su lui piango, per la sua solitudine dagli uomini: lui che mano sanatrice mai non sfiora, o sguardo amico; lui dolente in abbandono lui malato d'ogni male.

(Filottene 169 sgg)

Inoltre il dolore è repellente per se stesso e rende repellente colui che affligge.

La mia carne è coperta di vermi e croste terrose, la mia pelle si raggrinzisce e si spacca; i mie giorni sono stati più veloci della spola e sono terminati per mancanza di filo

(Giobbe, 7 5-6)

Seppure individuale la sofferenza è anche evento cosmico

In ogni dolore individuale c'è un riverbero del dolore universale.

Ad ogni vivente è assegnato, sia pure a diverso titolo e con diverso peso, il dolore.

È questa l'esperienza di un lungo patire attraverso cui l'umanità ha preso cognizione di sè.

Nessuno dei mortali trascorrerà mai la vita incolume del tutto da pene, paga sempre alla vita ciascuno il suo prezzo

. (Eschilo Coef., vv1018-1019)

In questo senso e per questa via il dolore viene agganciato alla vita, viene ritenuto come prezzo da pagare e quindi diviene una determinazione locale del dolore del mondo.

Il dolore è subito, mai scelto

Il dolore non è una esperienza che si sceglie, della quale si può più o meno decidere di fare Il dolore colpisce

"a chi la tocca la tocca."

 

La sofferenza inchioda, colpisce e obbliga: è esperienza radicale in quanto inevitabile.

La sofferenza è prova Il dolore prova perché si prova e mette alla prova

Nel contempo apre le vie dell'attenzione e dell'intelligenza della comprensione del mondo del patire. Il dolore ci mette davanti allo specchio che rispecchia il nostro limite la nostra finitudine.

In questo senso è un anticipazione della morte che dissolve il nostro ridicolo comportamento da immortali.

Il dolore porta alla luce il lato oscuro della vita: la precarietà come dato essenziale della creaturalità.

Il linguaggio della sofferenza

La sofferenza sfugge al discorso: il sofferente tende al silenzio o al grido.

Talvolta i riti e le tradizioni sono in grado dare espressione al dolore e riescono a parlare del dolore.

Per lo più si crea un muro di silenzio che contribuisce alla separazione, al di là di ogni pietà con la consapevolezza acuta della impotenza della consolazione e della vanità delle parole.

Ne ho udito molto spesso di simili cose: consolatori molesti siete voi tutti. Avranno fine queste parole di vento?

(Giobbe 16, 2-3)

 

 

La morte

Non è possibile in questa sede trattare con una certa profondità l'atteggiamento che l'uomo ha avuto ed ha verso la morte.

È necessario, per gli scopi che ci siamo posti, indicare seppure per punti alcuni passaggi epocali trattati nel classico: Aries Storia della morte in occidente:

1. la morte addomesticata

Fino al basso medioevo l'uomo ha avuto una certa familiarità con la morte trattandola più come una fatalità per il destino che tutti ci accomuna che come terrore e angoscia.

Se di paura si vuol parlare era per la morte improvvisa che non avverte e fa morire soli.

Sino al XII secolo l'uomo sente la morte avvicinarsi o viene avvisato (è uno dei compiti istituzionali del medico) e prende le disposizioni in una cerimonia pubblica e organizzata dove il moribondo stesso è il protagonista assoluto.

2. La morte di Sè

Dal XII secolo l'uomo nello specchio della propria morte riscopre il segreto della sua individualità. L'uomo occidentale ricco e colto riconosce se stesso nella propria morte e scopre la morte di sè.

3. La morte dell'altro

A partire dal XVI s. c'è una passione nuova: la morte del proprio caro assume una grande emozione e si assiste ad una intolleranza nuova per la separazione: la sola idea della morte commuove il coniuge e la famiglia assume un nuovo significato.

4. La morte proibita

Già nella seconda metà del XIX s. al morente viene nascosta la gravità del suo stato: la verità comincia ad essere un problema.

La menzogna serve sia per proteggere il malato, ma soprattutto per evitare alla società il turbamento e l'emozione concreta dell'orrore dell'agonia e della semplice presenza della morte.

La morte si cancella e scompare diventando oggetto di vergogna e di divieto.

Ma cosa succede nel mondo della medicina?

Tra il 1930 e il 1950 c'è lo spostamento del luogo in cui si muore: non si muore più in casa, ma in ospedale e da soli.

L'ospedale passa da asilo dei miserevoli, a centro in cui si guarisce a luogo privilegiato della morte. Si muore in ospedale tanto da far diventare sconveniente morire a casa.

Tale situazione in questi ultimi anni sta modificandosi per le difficoltà degli ospedali di rispondere alle domande di ricovero dei pazienti, ma ciò non comporta, almeno fino ad ora un cambio di mentalità, anzi la famiglia e la società sono spesso impreparate e inadeguate a ciò che significa morire a casa.

La morte in ospedale comunque diviene un fenomeno tecnico ottenuto con le decisioni del medico e dell'équipe.

Il moribondo non presiede alla sua morte, l'iniziativa passa dalle sue mani a quella della medicina che scompone la morte la fraziona in un processo che può essere dilatato e contratto. I medici diventano i padroni della morte.

 

Una risposta affermativa?

Già a questo punto potremo rispondere affermativamente alla domanda iniziale: dal punto di vista del paziente che patisce la sofferenza che abbiamo descritto è del tutto pertinente rivolgersi ai signori della morte per richiedere ciò che rientra nel loro dominio.

Ma perché i medici, con la complicità di tutta la società, sono diventati i signori della morte?

Domanda complessa perché coinvolge di nuovo molte discipline; sicuramente per la nostra società la morte è un tabù: è una cosa della quale non si può parlare in termini seri, e quando tocca una famiglia si tenta di ridurre al minimo le inevitabili operazioni destinate a far sparire il corpo affinché la gente, soprattutto i bambini, si accorgano il meno possibile che la morte è passata.

Ecco allora che la morte accettabile del malato diviene quella che può essere tollerata dai superstiti, dagli stessi operatori sanitari e dalla società.

La bella morte è quella del paziente che non si è accorto fino all'ultimo e che non ha provocato problemi e sussulti al personale sanitario e ai familiari.

Un altro aspetto che vorrei sottolineare è il tentativo dell'uomo contemporaneo di trasportare tutto ciò che era considerato dominio della natura in un territorio a lui più congeniale: quello della cultura.

Questa potrebbe essere la chiave di lettura per interpretare il tentativo dei medici di controllare la morte, simbolo della vittoria della natura sulle illusioni di onnipotenza, decidendo quando somministrarla o procastinarla.

L'uomo nello sforzo di signorizzare il suo limite decide la sua fine.

Nella discussione sulla risposta alla richiesta di eutanasia del paziente entrano di diritto altri aspetti che sono fondamentali e che non possono essere sottaciuti:

In primo luogo la domanda interpella la concezione metafisica e teologica del soggetto: non è indifferente per il medico se crede all'esistenza di un Assoluto, o più specificatamente alla presenza di un Dio creatore che ama l'uomo e dona la vita.

È essenziale, e siamo ancora nel campo della filosofia e della teologia, esplicitare la propria categoria dei valori e di dare un significato, fosse pure un non senso, alla sofferenza.

È fondamentale scoprire il proprio rapporto con la morte, discorso serio e terribile che può essere affrontato con il linguaggio della psicoanalisi e della psicologia.

La reazione personale di guaritore ferito, non in grado di cicatrizzare la ferita narcisistica di fronte alla sconfitta provocata dalla morte del paziente, può interpretare sia l'atteggiamento dell'accanimento, sia il voler almeno determinare il momento della morte.

I medici possono anche uccidere?

Se la domanda di morte rivolta ai medici può essere considerata legittima, ci sono molti dubbi che sia autentica, che esprima quindi la reale volontà del paziente, che indichi consapevolmente la strada senza ritorno da seguire.

I dubbi fortissimi dipendono da due ordini di considerazioni:

a. la struttura della sofferenza

In preda alla sofferenza, la circostanza determina l'umore, la volontà non è più capace di trascendere l'istante verso l'unità del progetto.

Con quale diritto e con quale pretesa un consulto di medici, fossero anche psicologi e psichiatri, possono certificare l'autenticità del volere del malato, in preda all'esperienza radicale del soffrite, provato, accerchiato dal dolore che lo separa dagli altri che gli sottrae quotidianamente la vita?

L' autonomia dell'uomo che sta alla base della legittimità stessa dell'eutanasia, può ritorcersi contro se stessa quando diviene più facile assecondare il senso superficiale, letterale della domanda piuttosto che tentare di capirne i significati più profondi.

b. la paura e la struttura della morte

Perché il malato non ha paura di morire? La paura di morire è un predicato del vivere; il malato non ha paura di morire perché è già morto.

È già morto socialmente, fisicamente, moralmente, psicologicamente e spiritualmente.

È morto socialmente perché ormai è considerato un essere a sè, già condannato, da isolare dal resto degli umani, il cui compito è quello di mantenere un contegno socialmente accettabile senza evocare imbarazzi e complicazioni.

È morto fisicamente perché la sua morte è stata decretata, stabilita, certificata, il fisico è in sfacelo è in dissoluzione; è morto moralmente poiché la libertà è paralizzata dalla sofferenza; è morto psiclogicamente perché quando il dolore è immane stringe la sua morsa, annichilisce l'io, chiude il futuro e rende impossibile la speranza e quindi ogni immaginazione.

È morto spiritualmente perché tutta l'esistenza è schiacciata nell'immanenza è appiattita nella contingenza e non osa alzare il capo per guardare al di là.

Una persona in questa situazione esistenziale non può aver paura di morire, ma ciò che angoscia è il già e non ancora, ciò che è intollerabile è la lunghezza della morte decretata, ma dilazionata, dilatata nei tempi tecnici e frazionata da tanti attimi di sofferenza.

Se le cose stanno così la domanda di quel paziente rappresenta uno schiaffo per le nostre coscienze e uno degli argomenti più solidi e critici per la valutazione di una società in cui questa richiesta si è potuta formulare