RITI UMANI E SACRAMENTI

NELLA FEDE

RIFLESSIONE TEOLOGICA

DI SIMON KNOEBEL

 

 

 

Articolerò la mia esposizione in quattro punti:

1.I riti nella comunicazione umana;

2.I sacramenti ed il linguaggio della fede;

3.I sacramenti, percorsi verso l’uomo;

4.I sacramenti fra dono di Dio e integrazione ecclesiale.

 

1.I riti nella comunicazione umana

E’ stato detto sovente che accanto all’homo sapiens e all’homo faber, cioè accanto alla razionalità e all’azione, ci sono l’homo religiosus e l’homo ritualis. L’homo religiosus esprime giustamente la sua identità nel comportamento rituale, che gli permette di simbolizzare l’altro, cioè di farlo esistere per sé, di creare una relazione con lui.

In mezzo alle speranze ed alle preoccupazioni cito alcune espressioni , come ad esempio: prendere tempo per l’accoglienza; creare dei percorsi di relazione; essere attenti alle situazioni individuali; permettere un nuovo accesso alla fede ed alla chiesa, ecc.

Si è parlato anche del "linguaggio dell’amicizia e della prossimità", oppure del rispetto dei cammini individuali. C’è chi insiste sulla personalizzazione dell’accoglienza, perché non si dia l’immagine di una chiesa istituzione. Infine si insiste che la liturgia deve essere un momento privilegiato

Dopo un periodo di disconoscimento del rito, per effetto della razionalità, dell’efficacia e della mentalità tecnica, si assiste in effetti oggi ad una riscoperta e ad una valorizzazione del rito.

Come in effetti immaginare una società umana senza quell’espressione privilegiata del vissuto umano che è il rito? In ogni comunità umana gli avvenimenti di qualche importanza sono sempre segnati e marcati da un rito. Questo è vero per le società tradizionali come per la nostra società scientifica e tecnica.

Ora il rito mette in gioco il corpo, il gesto e ogni espressione non verbale. Ha scritto A. Vergote: "E’ soprattutto nel rito che l’uomo prende coscienza di quello che Dio è per lui. Egli raggiunge Dio non alla periferia del suo essere, ma a partire da quello che ha di più intimo e di più centrale nel suo essere: i significati che parlano attraverso il suo corpo espressivo e attraverso il linguaggio che metaforizza le cose."

Non si tratta qui del corpo anatomico, né del corpo "attrezzo", né del corpo supporto dell’intelligenza o dell’anima, ma del corpo come luogo del nostro rapporto con l’alterità e con il mondo: l’inconscio e l’emozionale vi giocano un ruolo decisivo e vincono la fredda ragione.

Facciamo un esempio: che serve discutere dei cambiamenti dei riti nella chiesa, del cambiamento di lingua, dei canti, di sistemazione degli spazi e via dicendo? Il dibattito sfugge molto presto a ogni presa razionale; la nostra percezione si mostra immediatamente più vasta e più forte di quello che noi potremmo dire. La ragione e la percezione cosciente cedono il posto a motivazioni più profonde e più inafferrabili.

Il ritorno attuale del simbolo nella nostra cultura risponde perfettamente a questa nuova sensibilità: là dove la ragione s’incaglia nell’abbracciare il reale nel suo insieme, il simbolo invece lo designa e lo fa esistere; il simbolo rende presente l’invisibile e l’indimostrabile, riempie la distanza che mi separa dall’altro e da Dio; il simbolo lavora nelle mie regioni oscure e mi apre sul mondo non chiuso dove nascono senza interruzione dei sensi sempre nuovi e possibili.

Così non è sbalorditivo che la Bibbia usi la maniera privilegiata dei simboli per dire Dio: il soffio, il vento, il fuoco, la nuvola… Ogni agire rituale è anche un agire simbolico, perché i mezzi attraverso i quali l’uomo si esprime ordinariamente – oggetti, gesti, rappresentazioni – sono la messa in opera di una relazione di alleanza delle persone e dei gruppi. Così la bandiera di un paese o la bandiera d’Europa, portata o issata, prende l’intero suo senso solo quando quelli che la circondano si riconoscono partecipi della stessa alleanza e parte della stessa identità.

La messa in evidenza dell’importanza del simbolo trascina nella sua scia altre scoperte che gli sono intrinsecamente legate, come ad esempio la festa e la comunità.

L’idea di festa conosce oggi una sensibilità rinnovata, ben rappresentata ad esempio nel 1979 dall’opera di H. Cox, "La festa dei folli": questo tema fu poi ripreso in molte maniere.

Nel giorno della festa - ha scritto Cox - si realizza un’attività specificamente umana. La festa è "intervallo di tempo particolare, durante il quale le abitudini lavorative quotidiane sono messe da parte, affinché l’uomo possa celebrare qualche avvenimento, affermare la pura bontà di quello che è, o conservare memoria del Dio o dell’eroe."

La festa ritma le preoccupazioni quotidiane con dei momenti esclusivi necessari. La sua doppia funzione, ricreativa e religiosa, ne fa, per la chiesa, un’occasione privilegiata per richiamare i gesti d’amore di Dio verso gli uomini.

Ma i simboli e le feste non trovano la loro realizzazione se non in seno ad una comunità. Al di là delle difficoltà che si ha nel dare una definizione operativa di questo termine, diciamo soltanto che la comunità è una dimensione essenziale della vita di ognuno. Rompendo con l’individualismo dei tempi passati, noi ci scopriamo nuovamente membri di un gruppo nel quale la nostra umanità si realizza. Nello stesso tempo è essenziale, per il credente, partecipare ad una comunità di fede scandita da riunioni, da riti, da simboli, da tempi forti e da feste. Questa comunità di fede suppone la messa in opera del linguaggio della fede.

 

2.I sacramenti ed il linguaggio della fede

La dinamica della nostra riflessione comune ci rende attenti ai rapporti fra i riti ed il linguaggio. A questo proposito puntualizziamo molto propriamente l’essenziale di tante questioni attuali, come la distanza fra il linguaggio rituale ed il linguaggio di tutti i giorni, come le proprietà del linguaggio religioso, per dire il Vangelo, e la liberazione che esso provoca, oppure la maniera di chiamare la gente alla conversione.

Qui ancora siamo messi di fronte a riflessioni molto interessanti, che io vorrei soltanto sviluppare e prolungare ancora un po’.

Il linguaggio che noi utilizziamo realizza sempre due registri differenti: c’è la sua utilizzazione come strumento di comunicazione, e c’è la sua capacità di simbolizzare il mondo. Nel nostro pensiero spontaneo noi riteniamo di essere in contatto diretto con il mondo, con gli altri, con noi stessi. Noi pensiamo che gli oggetti esterni vengano a imprimersi nel nostro spirito sotto forma di immagini e di rappresentazioni. Pensiamo poi che in un secondo tempo il linguaggio o la parola vengano a restituire fedelmente quello che era stato fissato dentro di noi.

Ma le cose non vanno propriamente così; il linguaggio non è affatto un modo di restituire il mondo come uno specchio: il reale non vi è riflesso in maniera immediata, ma viene costruito.

Come accade tutto questo? Il simbolo mette immediatamente il reale a distanza, e questo ha come effetto di strutturare il soggetto umano come un essere capace di distanziarsi dal mondo e dagli altri, un essere che intrattiene con essi dei rapporti attraverso la mediazione del linguaggio e della cultura. L’uomo diventa così un "essere del linguaggio", che realizza il proprio statuto di soggetto soltanto e soprattutto parlando. Il linguaggio non è uno strumento per rappresentare il mondo, ma una mediazione. L’uomo non preesiste dunque al linguaggio: è piuttosto posseduto dal linguaggio.

Che cosa sarebbe, per esempio, un desiderio senza il linguaggio per esprimerlo, se non una reazione istintiva, bruta o un godimento psicotico? Il linguaggio ci precede ed è costitutivo di tutta l’esperienza umana.

Se il reale non è direttamente presente, allora bisogna che lo nominiamo, e questo significa richiamarlo in presenza, renderlo presente: l’albero, il fiore, l’acqua, la fontana non sono mai dei puri oggetti naturali; recuperati dentro la parola corrente o poetica, essi diventano dei significanti del mio desiderio.

Sembra evidente che le nostre liturgie, intessute da ogni sorta di parole, ammonizioni, inviti del celebrante, preghiere, letture, acclamazioni, ecc., sono direttamente connesse con questa interpretazione filosofica della parola: l’invocazione di Dio è già nella struttura linguistica delle parole che la enunciano, il suo invito a casa nostra, solo (?) la sua convocazione in mezzo alle nostre assemblee, in mezzo alla nostra mensa.

Ci sarebbe qui molta materia di riflessione per la teologia dello Spirito Santo, colui che non è prima di tutto, né soltanto uno che interviene dall’esterno sull’uomo, che opera l’incontro fra Dio ed i fedeli: è anche un soffio della voce e della parola che è data all’uomo per stabilire la sua relazione con gli altri e con Dio.

 

3.I sacramenti, percorsi verso l’uomo

I sacramenti sono dei percorsi o dei sentieri tracciati verso l’uomo.

Ci si può rallegrare per il fatto di trovare della gente particolarmente sensibile alla dimensione umana dei sacramenti, perché essi sono degli intermediari di salvezza (media salutis): essi piantano in effetti le loro radici nelle dimensioni profondamente umane della ritualità.

La ritualità umana è infatti composta di gesti, di posture del corpo e di comportamenti che sono dei supporti di una relazione che, nello stesso tempo in cui viene confessata e proclamata, viene anche trascesa. La dimensione relazionale interviene appena, attraverso i gesti e le posture, una relazione si crea: relazione in cui l’iniziativa è suddivisa fra Dio e l’uomo.

L’uomo, come creatura, accoglie la mano che si tende verso di lui: Dio, come creatore, tende questa mano, una mano creatrice, salvifica e indicatrice di una finalità da attendere, cioè la resurrezione e la vita eterna.

Dio è innanzitutto Salvatore, e l’insieme di questa esperienza di salvezza ci è dato attraverso la ritualità sacramentale. Quest’ultima è dunque la matrice di ogni parola umana o divina; essa è l’esperienza iniziale e ultima del cristiano. La parola da sola non sostiene nulla, a sostenere è l’insieme della parola e del gesto. La parola creatrice e salvatrice è così già sacramentale, nel senso dell’arcisacramentalità citata da Karl Rahner (Ursakrament), nel senso della parola del Cristo e della chiesa.

Questa arcisacramentalità è dell’ordine della struttura teologica della rivelazione. Essa è anche la struttura dell’esperienza del credente, come della sua esistenza personale: è l’esperienza del credente quando Paolo dice che noi siamo identificati al Cristo (Rm 6, 3-5); dell’esistenza personale, nel senso che parlare, agire, fare la storia e fare la chiesa derivano da un impulso che viene dalla parola biblica.

La ritualità cristiana è strutturata dal mistero del Verbo fatto carne: essa non è dunque più un tentativo di catturare Dio, ma è il luogo dove Dio ha preso corpo.

I riti rappresentano così una struttura che ha preso forma attraverso l’incarnazione; Dio vi prende corpo e vi prende parola. I sacramenti formano allora la struttura della manifestazione divina. Questa struttura, rituale e sacramentale, rinvia sempre all’arcistruttura della manifestazione di Dio attraverso la sua incarnazione. Secondo questa arcistruttura, trascendente e immanente non si oppongono più, ma sono interni l’uno all’altro. Essi formano la stessa struttura teandrica, divina e umana, perché Dio abita l’uomo fin dentro il simbolico, dentro cioè quel sistema relazionale fra uomini e fra uomini e Lui.

Questo simbolico può anche essere la sofferenza in tutte le sue forme; può essere anche la prospettiva di una malattia, come anche il nostro essere per la morte. Il simbolico è infine anche una solitudine assunta e iscritta dentro una relazione, in rapporto ad una comunità d’accoglienza, in rapporto alla famiglia da cui si proviene, alla struttura e all’istituzione dove si vive e si lavora. Il simbolico raccoglie tutto il ribollire emozionale interno per iscriverlo in una relazione ordinata a sé e agli altri.

Quando l’emozione fa vacillare la razionalità, come nel caso delle lacrime, del grido di dolore o della prostrazione, il simbolico è momentaneamente perduto, fatto a pezzi, in attesa di ricomporsi. Molti salmi esprimono tutto questo attraverso una successione di crisi di disperazione e di parole di ringraziamento.

Quando il simbolico è così disordinato, la ritualità vacilla anch’essa, e non presenta più la coerenza che fa di essa la matrice dell’ordine simbolico; perché l’ordine simbolico è proprio un ordine e questo vuol dire che l’uomo lo abita per esistere personalmente e socialmente, e che Dio entra in rapporto con noi attraverso il simbolo.

L’esperienza dell’uomo della Bibbia è qui determinante: "Tu mi abbandoni e nello stesso tempo Tu mi sostieni"; questa esperienza non è soltanto accoglimento della parola: essa è anche una coabitazione reciproca fra l’uomo e Dio, la cui matrice, il cui contenitore simbolico è la ritualità.

In questo senso la parola biblica è necessariamente liturgica: essa non può essere accolta che dentro quella struttura umana che è la ritualità. La parola biblica passa attraverso la ritualità: è lì la sua incarnazione che annuncia l’incarnazione del Figlio.

Ecco così la ragione della presenza del Logos presso Dio al momento della creazione del mondo, al momento della sua irruzione nella storia di Israele e al momento dei suoi interventi attraverso i profeti. In forza della sua incarnazione, il Logos non è affatto esterno alla ritualità individuale: preghiere, sacrifici, impegni etici e politici. Entrando in rapporto con Dio, il credente entra anche nello spazio simbolico: mentre restituisce ordine alla vita, il simbolico è il luogo dove per il credente Dio tende la mano all’uomo, che tende a sua volta la mano agli altri. Queste due mani tese rappresentano la manifestazione di fondo dell’amore divino, la sua esteriorizzazione.

Ci sono in effetti due livelli dell’amore in Dio: quello che si spoglia fino all’estremo della sofferenza e della morte umana di Gesù, suo Figlio; questo amore include la negatività, la passione e la morte del Figlio. Ma c’è anche il fondo senza fondo dell’amore divino, che è - come lo ricordano per esempio Eckhart e Von Balthasar - stabile e permanente. Esso è la riserva dell’amore divino che sempre dà e si dona.

Nessuno né nulla possono cadere fuori dall’attenzione dell’amore divino. La vita di Gesù, il suo Vangelo e la morte e resurrezione del Signore, liberano un messaggio di universalità senza equivoco.

 

4.I sacramenti, fra dono di Dio e integrazione ecclesiale

 

 

 

 

Ogni sacramento integra nella Chiesa e mette in gioco il corpo, il simbolo, la festa, la comunità.

I sacramenti non possono vivere se non si riscopre il loro agire rituale come un agire simbolico.

Nel sacramento, come in ogni rito, parola e gesto sono uniti per dire quello che viene fatto e per fare quello che viene detto, perché, in materia sacramentale, dire è fare. Si pensi a dei segni sacramentali come il pane ed il vino nell’Eucaristia e l’acqua del Battesimo: ebbene, ridotti al loro minimum indispensabile, essi perdono l’essenziale del loro significato.

E’ soprattutto Dio che ha l’iniziativa dell’iniziazione, come di ogni sacramento: con la sua parola egli è presente e attivo nel mondo e nel cuore del credente.

L’iniziazione comincia sempre dall’accoglienza della Parola: questa è trasmessa da una comunità e da un mistero ecclesiale. Essa è nutrita dalla preghiera di domanda e dall’azione di grazia. La Parola è relazione fra Dio ed il credente: essa individualizza quest’ultimo e lo raggiunge in profondità. Essa dice qualcosa sull’uomo, ma innanzi tutto gli parla e questo atto di parlare, allo stesso modo della parola biblica (dabar), è un dire come un fare. La Parola di Dio è così allo stesso tempo azione di Dio, intervento efficace nella vita del credente.

Questo è il senso della prima creazione: Dio agisce attraverso la sua Parola. E tanto più questo è il senso della nuova creazione nella quale Dio agisce dando la sua salvezza.

La salvezza è uno dei moti-chiave dell’iniziazione cristiana: Dio la offre a tutti ed a ciascuno in particolare. Egli chiama ogni uomo a far parte del popolo che forma il corpo del suo Figlio. L’iniziazione cristiana è giustamente una maniera privilegiata, quantunque non unica, di significare e di compiere questa salvezza per ogni uomo. Nati di nuovo in Dio, noi siamo associati alla responsabilità storica di Cristo e portiamo nelle nostre vite il marchio dello Spirito. Dio è iniziatore attraverso la sua Parola e attraverso la sua azione di salvezza, ma Egli lo fa all’interno di quel gruppo che è la comunità ecclesiale.

La teologia neotestamentaria e patristica non nasconde mai questo aspetto. Dio rivela e compie la sua salvezza dando la comunità di salvezza: noi siamo iniziati nella fede che è necessariamente la fede della chiesa.

In effetti, perché la fede ci sia portata, bisogna che essa ci preceda negli altri, bisogna anche che essa sia contenuta, mantenuta, e senza pausa rinnovata. E’ il ruolo della chiesa quello di precedere e di inglobare così la fede del battezzato; è anche il suo ruolo quello di vegliare sulle sorgenti di questa fede.

Si ha, qualche volta, la tendenza ad opporre, nell’iniziazione cristiana, il dono di Dio e l’incorporazione della Chiesa. In realtà la chiesa è essa stessa soprattutto un dono di Dio che fa apparire la sua iniziativa di salvezza nello Spirito Santo.

Lo Spirito non ha dunque mai un ruolo complementare: al contrario Egli è colui senza il quale niente esiste. Se il suo posto è essenziale nel mistero della fede, come riconoscerla anche nella celebrazione dell’iniziazione cristiana? Attraverso di Lui la vita cristiana, tutta intera, diventa azione di grazia. D’altra parte solo nello Spirito noi possiamo chiamare Dio col nome di Padre. E’ anche lo Spirito che ci spinge ad essere testimoni del Vangelo, come negli Atti degli Apostoli ha spinto i discepoli a portare il Vangelo attraverso il mondo e ad accogliere le nazioni pagane nella chiesa. Lo Spirito suscita nel cuore del discepolo il dinamismo missionario che è il motore del progresso dell’evangelizzazione. Se lo Spirito cancella le barriere della paura, se egli estirpa le false sicurezze, se egli chiama all’evangelizzazione, è perché la chiesa che egli anima è una comunità in marcia, una comunità escatologica.

I sacramenti, in particolare quelli dell’iniziazione, stabiliscono il percorso di questa strada ed inaugurano l’avvenire. Negli Atti, il dono dello Spirito è apparso come un avvenimento escatologico (cap. 2) che accompagna tutte le tappe dell’evangelizzazione. La comunità, così come ogni battezzato, è dunque proiettata verso il compimento futuro, nell’attesa che Colui che ha cominciato la sua opera, la compia. Niente è più contrario allo Spirito che il fermarsi sul passato ed il presente, oppure riempirli soltanto di sé. Suscitato dallo Spirito, il Battesimo lavora al grande passaggio dell’umanità e dell’universo verso Dio, compiuto in Cristo: egli vive già nell’avvenire di Dio, di cui attende attivamente la manifestazione definitiva.

Questo è il senso della formula di S. Ambrogio: Divieni quello che sei!

Il battesimo rivela un’identità nuova, che è un dono di Dio; ma questa nuova identità non è nulla se non cresce e se non fa crescere la chiesa.

Il Battesimo non è dunque certamente concluso nel giorno della sua celebrazione, ma si conclude soltanto al termine della vita del battezzato. L’attività degli altri sacramenti si sviluppa in riferimento al Battesimo.