Sacrum Ministerium N. 1/97

 

 

SPIRITUALITA' COMUNIONALE

DEL SACERDOTE

 

 

1. Forse è bene iniziare una tale meditazione dagli aspetti per così dire "problematici". Con la parola di Dio e con i sacramenti, il ministero apostolico e, per la fede cattolica, uno degli elementi o strutture "costitutivi" della Chiesa. Questa verità e questa regola di vita, posseduta pacificamente attraverso i secoli e i millenni ed enormemente ricca di frutti di santità e di grazia, e stata, negli ultimi decenni, oggetto di una contestazione che, provenendo dal protestantesimo, è entrata anche dentro alla nostra Chiesa. Questa è la radice teologica della cosiddetta "crisi di identità dei sacerdoti" e, penso, della brusca diminuzione delle vocazioni verificatasi nei decenni passati in non pochi paesi. Vi sono certo delle altre ragioni, di tipo sociologico o, in senso ampio, culturale, alle origini di questa stessa crisi, ma con ogni probabilità essa non sarebbe stata così forte e così penetrante se il sacerdozio ministeriale agli occhi di molti presbiteri non fosse diventato problematico in se stesso, cioè dal punto di vista del suo stesso radicamento nel mistero di Cristo e della Chiesa. Questa è anche la diagnosi del Cardinale Ratzinger, che l'ha proposta magistralmente nella relazione che ha tenuto all'inizio del Sinodo dei Vescovi sulla formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali.

Non possiamo fermarci sulle motivazioni che vengono addotte per mettere in dubbio il carattere "costitutivo" per la Chiesa del nostro sacerdozio. Del resto le conosciamo bene: si dice che nel Nuovo Testamento i ministeri ecclesiali sono indicati con vocaboli profani e non sacri e sacerdotali, che Gesù stesso non era di stirpe sacerdotale e che il suo sacrificio, a differenza di quelli antichi, non è esso stesso un fatto cultuale ma profano, il cui elemento essenziale è l'amore, il servizio, il dono di se in mezzo al mondo e per il mondo.

C'è indubbiamente, in tutto questo, non poco di valido e di vero, ma vi è anche una unilateralità insostenibile, la cui origine si ritrova nello stesso Lutero. Per superarla occorre partire proprio dal "nuovo" che troviamo nel Nuovo Testamento, ossia dal centro del Nuovo Testamento stesso: dunque da Gesù Cristo. L'origine del sacerdozio cristiano è infatti unicamente in Cristo e soltanto attraverso di Lui sono giustificati gli agganci al sacerdozio veterotestamentario, in forza dell'unità fra l'antica è la nuova Alleanza. Ma al centro della persona e della missione di Gesù vi è il suo rapporto diretto con il Padre: "In verità vi dico, il Figlio da se non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre" (Gv 5, 19); "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato" (Gv 7,16). L'evangelista Giovanni ha approfondito questo concetto fondamentale, che è di tutti i Vangeli: in realtà è tipico di Gesù Cristo non appartenere a se stesso e non aver nulla da se stesso, perché egli è tutto dal Padre e per il Padre, Siamo così al centro della realtà di Dio, cioè del mistero trinitario.

Ma Gesù ha costituito i Dodici e ha detto loro: "Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato" (Mt 10,40), o anche "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv 20, 21). Questo parallelismo o corrispondenza nella missione ha un senso e una portata molto precisi: anche gli Apostoli, come il Figlio e attraverso il Figlio, ricevono tutto dal Padre e non possono fare nulla da se stessi. Lo vediamo chiaramente mettendo a confronto altre due frasi famose, ancora del Vangelo di Giovanni: "Il Figlio da se non può fare nulla" (Gv 5, 1,9) e "Senza di me non potete far nulla" (Gv 15,5). Questo "nulla", che i discepoli condividono con Gesù, esprime insieme la forza e la debolezza del ministero apostolico: da noi stessi non possiamo infatti fare nulla di ciò che, come apostoli, o sacerdoti, siamo tenuti a fare: donare lo Spirito Santo, rimettere i peccati, pronunciare le parole "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue". Ma proprio attraverso questo "nulla" di noi stessi siamo coinvolti nella comunione di vita e di missione con Cristo e con il Padre nello Spirito Santo. Proprio questo è ciò che, nel linguaggio della Chiesa, si chiama "sacramento", ed è questo ciò che intendiamo quando affermiamo che l'Ordine è un sacramento. Perciò nessuno può dichiararsi sacerdote da se stesso, e nessuna comunità può, di propria autorità e iniziativa, chiamare qualcuno al sacerdozio. Solo dal sacramento infatti si può ricevere ciò che è di Dio, entrando nella missione che ci fa suoi mandati, strumenti e messaggeri.

2. Questo breve richiamo al ministero apostolico come ci è presentato nel Nuovo Testamento dovrebbe naturalmente essere completato con un discorso sulla "successione apostolica", cioè sulla trasmissione del ministero e carisma dagli Apostoli ai Vescovi attraverso il gesto dell'imposizione delle mani: anche di questo abbiamo ampia testimonianza nel Nuovo Testamento, in particolare, ma non esclusivamente, nelle Lettere a Timoteo e a Tito, dove si parla del "dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani" (2 Tim 1, 6). L'Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis, n. 16, ci ricorda inoltre che mediante il sacerdozio del Vescovo, il sacerdozio dei presbiteri "è incorporato nella struttura apostolica della Chiesa". Si tratta in realtà di un fatto che risale alle stesse origini: come sappiamo, fin dalla tradizione più antica il sacerdozio dei Vescovi e dei presbiteri è fondamentalmente una realtà unitaria, pur nella distinzione, dei gradi.

Questa dunque è la base teologica e sacramentale del nostro essere preti: di essa non dobbiamo mai dubitare; ad essa dobbiamo sempre di nuovo riferirci nel concreto della nostra vita. La Pastores dabo vobis, n.12, parla proprio in questo senso dell'indole "relazionale" della nostra identità di preti. La relazione prima e originaria è evidentemente quella a Cristo, e tramite Cristo al Padre, nel dono dello Spirito Santo. t bene che ascoltiamo alcune espressioni impiegate dall'Esortazione: "Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell'essere una derivazione, una partecipazione specifica ed una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza... Il riferimento a Cristo è dunque la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali".

Già da qui scaturiscono con evidenza alcuni essenziali criteri orientativi per la nostra vita e spiritualità di sacerdoti, come il distacco da noi stessi, quella che potremmo chiamare "auto-espropriazione" è la gratuita del nostro servizio. Solo così ci conformiamo in concreto a Cristo e al mistero trinitario sviluppando in noi un'autentica somiglianza con Dio, cioè con il modello secondo il quale siamo stati creati. In questo modo, e non invece nella ricerca di noi stessi, del nostro vantaggio o tornaconto di qualsiasi genere - dagli onori al denaro alle gratificazioni affettive - troviamo, come sacerdoti, la realizzazione di noi stessi è la nostra maturità anche umana, anzi la più pienamente umana, proprio perché l'uomo è creato a immagine di Dio. Valgono dunque anzitutto per noi sacerdoti le parole di Gesù: "Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà" (Mt 16, 25).

3. L'indole "relazionale" del nostro sacerdozio si estende però da Cristo e dal Padre a tutta la realtà della Chiesa. Ascoltiamo ancora la Pastores dabo vobis, n. 16: "Il riferimento alla Chiesa è iscritto nell'unico e medesimo riferimento del sacerdote a Cristo, nel senso che è la 'rappresentanza sacramentale' di Cristo a fondare e ad animare il riferimento del sacerdote alla Chiesa".

Conosciamo bene come questo rapporto alla Chiesa si sviluppi secondo la dialettica tipicamente cristologica ed evangelica del "capo-servo" e del pastore, o meglio del buon pastore. Il sacerdote, per sua natura e per suo compito, e dunque colui che rende presente nella comunità Cristo, in quanto "capo-servo" e buon pastore. Non agisce quindi per se stesso, ma unicamente in chiave sacramentale, non solo nell'amministrazione dei sacramenti ma in tutta l'attività pastorale. Anzi, il suo essere stesso, ogni suo pensiero e comportamento entra in questa logica sacramentale. Ciò significa per noi, nella pratica della vita, il farci carico di ciascuno di coloro che ci sono stati affidati, anteponendo la loro Crescita nella fede e nella vita cristiana ad ogni nostra considerazione personale. Significa anche, e non meno, lo sforzo dì "tenere insìeme" questa molteplicità di individui in modo che, insieme a noi, formino in Cristo un corpo solo.

Un testo della Prima Lettera di Pietro, riportato integralmente dalla Pastores dabo vobis (n. 15), esprime con la più alta efficacia questa indole comunionale del ministero che ci è affidato. Vogliamo rileggerlo anche noi: "Esorto i presbiteri che sono tra voi, quale compresbitero, testimone della sofferenza di Cristo è partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo: non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli dei gregge. E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce" (1 Pt. 5, 14).

Due formule, l'una molto usata, l'altra coniata dal Santo Padre è ripresa nella Pastores dabo vobis, n. 17, esprimono il duplice profilo sotto il quale si realizza questa dimensione costitutiva del nostro essere preti. La prima dice che il Sacerdote è l'uomo della comunione, la seconda che il ministero ordinato ha una radicale "forma comunitaria" e può essere assolto solo come "un'opera collettiva".

In concreto, ciascun sacerdote, sia diocesano sia anche religioso, è chiamato alla comunione e collaborazione col Vescovo, nell'unita del presbiterio e nella sollecitudine per la Chiesa particolare a cui appartiene o nella quale, se religioso, è comunque inserito, e contestualmente nell'apertura e nella disponibilità al servizio della Chiesa universale.

Nello stesso tempo, il ministero ordinato esiste nella Chiesa in funzione del sacerdozio comune e universale di tutti i fedeli. Una delle intuizioni principali e più cariche di futuro del Concilio Vaticano Il è senza dubbio il ricupero e la nuova valorizzazione di questo sacerdozio battesimale di tutto il popolo di Dio. Ciò è stato talvolta avvertito da noi presbiteri come un ridimensionamento dei nostro ruolo e forse ha contribuito in qualche misura alla crisi della nostra identità sacerdotale. Ma, al contrario, la crescita spirituale e apostolica del popolo di Dio, è anche e necessariamente la crescita autentica del nostro ministero: non soltanto perché veniamo sollevati da ruoli a noi non propri, ma soprattutto perché veniamo chiamati a una più alta testimonianza e a un più forte servizio come pastori e guide del nostro popolo. Sappiamo bene, per esperienza diretta, che quando una comunità cristiana è viva, consapevole della sua fede e quindi missionaria, il sacerdote che la presiede è costantemente sollecitato a dare il meglio di sé, a vivere in pienezza il suo essere prete. Dobbiamo dunque guardare con intima convinzione e con gioia alla crescita del laicato cristiano, e sentire invece come una condizione negativa è come un limite da superare, attraverso la preghiera, la testimonianza personale, la dedizione apostolica è un'instancabile opera formativa, quelle situazioni di immaturità nella fede, di indifferenza o di scarso coinvolgimento che sono purtroppo ancora tanto diffuse nel nostro laicato.

Voi conoscete bene, dall'esperienza quotidiana della vostra vita e del vostro ministero, quali siano le esigenze pratiche di un genuino rapporto comunionale e per così dire "promozionale" col Vescovo, col presbiterio, coi laicato, con l'intero popolo di Dio. Sapete come ciò richieda quella libertà da noi stessi che ci rende sinceramente aperti e accoglienti verso il nostro prossimo, capaci di metterci dal suo punto di vista e non soltanto dal nostro. Sapete quanto sia importante essere capaci di fare il primo passo, non limitandoci ad aspettare che gli altri vengano in cerca di noi. E come sia altrettanto importante riuscire a perdonare. La gente avverte immediatamente chi vuole loro realmente bene, chi non si pone in atteggiamento di superiorità o di distacco, ma, essendo integralmente sacerdote - uomo di Dio e discepolo fedele del Signore Gesù -, proprio per questo e fratello di tutti e "amico dei peccatori" (Mt 11, 19); sa stare con gli altri e in mezzo agli altri, senza atteggiamenti di superiorità o di sufficienza; e tuttavia, con la sua stessa presenza, richiama spontaneamente la presenza in mezzo a noi del Signore.

4. Vorrei ora affrontare con voi alcuni nodi che stanno alla base del nostro quotidiano essere preti e quindi principio di comunione ecclesiale.

Uno di essi riguarda il tema dell'obbedienza, sempre delicato è oggi assai controverso. Il Padre Congar, in un suo piccolo scritto che molto mi colpì quando lo lessi ancora giovane sacerdote e che si intitola Per una Chiesa serva e povera parla di due "mistiche", quella dell'obbedienza e quella della comunione, la prima delle quali ha caratterizzato la spiritualità e la vita concreta della Chiesa e in particolare dei sacerdoti nel periodo tra il Concilio Vaticano 1 e il Vaticano 11, mentre l'altra è tipica di questo nostro tempo post-conciliare. Ciascuna di queste due mistiche e, nel proprio tempo, la risorsa è il collante segreto della Chiesa, la sua forza che nasce dal rapporto con Dio, anzi dal l'esperienza di Dio, e che dunque risale a Lui. Non si tratta certo di metterle in alternativa, l'una in opposizione all'altra, ma in primo luogo di registrare un fatto, uno spostamento di accenti, che noi sacerdoti più anziani abbiamo personalmente vissuto e toccato con mano. La mistica dell'obbedienza si incentrava nel rapporto con i superiori ecclesiastici e la sua forza stava nel vedere in essi, con semplicità di cuore, l'espressione della volontà di Dio. Fare l'obbedienza era perciò avvertito immediatamente come la forma concreta del mettersi in rapporto con Dio. Proprio Giovanni XXIII, il Papa che ha voluto il Concilio, ha fatto del motto "Oboedientia et pax" l'emblema della sua vita: si tratta di una autentica via della perfezione, come allontanamento dal proprio io, in quanto propria volontà egoistica e peccatrice, e conversione alla volontà di Dio, in sostanza a Dio stesso. Essa affonda le radici nell'esempio di Cristo stesso, il Figlio il cui cibo è fare la volontà di Colui che l'ha mandato (Gv 4, 34), il Figlio fatto obbediente fino alla morte di croce (Fil 2, 8), attraversa come un filone prezioso tutta la tradizione ecclesiale ed ha prodotto anche nel nostro secolo molti frutti di santità, alcuni dei quali giungono ora al riconoscimento ufficiale della Chiesa e alla gloria degli altari.

Non dobbiamo nasconderci però che la "mistica dell'obbedienza", se accentuata in modo unilaterale, corre il rischio di favorire una visione a sua volta unilateralmente gerarchica e per così dire piramidale della Chiesa e dell'esistenza cristiana: di fatto, una certa correlazione tra una tale forma di spiritualità e una ecclesiologia di questo tipo è esistita in particolare nel periodo tra i due Concili Vaticani.

Con il Vaticano II questa unilateralità è stata felicemente superata, mettendo in evidenza i concetti portanti del popolo di Dio, della collegialità episcopale, della comune dignità di tutti i battezzati. Nel Concilio e nel "dopo-Concilio", e particolarmente dopo il Sinodo straordinario del ventennale del Concilio, quella di "comunione" è ridiventata sempre più, come era nel Nuovo Testamento e nei Padri, un'idea-forza e una chiave di volta della nostra coscienza ecclesiale, insieme alle altre due parole fondamentali, mistero e missione, nella trilogia "mysterium, communio et missio", ed è stato sempre meglio messo in luce come il mistero che è comunione e missione consiste essenzialmente nel radicamento della Chiesa Della Trinità divina, secondo la parola dell'Apostolo Giovanni: "Il Verbo della vita, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo" (1 Gv 1, 23).

E' indispensabile però non intendere questa centralità della comunione in maniera alternativa alla dimensione gerarchica della Chiesa. Certo la Gerarchia sta "dentro" alla comunione (sebbene a questo riguardo occorrerà fare nella meditazione del pomeriggio qualche precisazione ulteriore) ed è in funzione di essa, come tutto il ministero ordinato è per il popolo di Dio e al suo servizio. Ma tutto ciò non deve far dimenticare, o anche solo attenuare, l'autenticità della nostra obbedienza e la consapevolezza del suo fondamento "mistico", nel medesimo mistero cristologico e trinitario.

Non possiamo ignorare che negli ultimi decenni l'obbedienza ecclesiale ha conosciuto, e sta ancora conoscendo, forti difficoltà, che si esprimono anzitutto nella prassi concreta, ma che affondano le loro radici proprio nella perdita o nell'indebolimento di questa dimensione mistica dell'obbedienza stessa. 1 motivi sono in parte esterni alla Chiesa, come l'esplodere dei fenomeni contestativi verificatosi a cavallo tra gli anni '60 e '70, e come, in seguito, la perdurante spinta verso l'esaltazione della soggettività e la relativizzazione di ogni norma oggettiva. Vi sono però anche cause che, pur provenendo anch'esse dall'esterno, toccano la Chiesa più nel profondo, compromettendo non soltanto la mistica dell'obbedienza ma anche quella della comunione, dato che la stessa comunione ecclesiale viene tendenzialmente ridotta alle dinamiche di una comunità puramente umana. Possiamo forse tentare di individuarle e riassumerle - certo molto sommariamente - attraverso un'unica espressione: parleremo allora di "spirito di mondanizzazione", o di "logica del mondo", che cerca di insinuarsi nella Chiesa, sostituendo gli atteggiamenti di rivendicazione e di contrapposizione a quelli della gratuita, della donazione, del servizio e della condivisione. t la tentazione di sempre, nella storia della Chiesa, non dunque qualcosa soltanto di oggi, che ora però prende le forme del nostro tempo e cerca di giustificarsi attraverso la cultura, e anche le ideologie, che attualmente prevalgono.

Qui siamo davvero davanti a un punto cruciale della nostra fedeltà non soltanto alla Chiesa ma a Gesù e al suo Vangelo. Perciò dobbiamo ogni giorno rimotivare in noi stessi la mistica della comunione e dentro di essa la mistica dell'obbedienza. Si tratta proprio di una "mistica" e in realtà di un'unica "mistica", quella per la quale la parola "fratelli" fu l'appellativo comune con cui i cristiani si chiamavano reciprocamente, nel Nuovo Testamento e nei primi due secoli della vita della Chiesa, e quella per cui il Figlio "imparò l'obbedienza dalle cose che patì" (Eb 5,8).

In concreto, quali sono le forme e i modi attraverso i quali questa mistica dell'obbedienza e della comunione può esprimersi nella realtà attuale della nostra vita di preti? La Pastores dabo vobis, al n. 28, qualifica la nostra obbedienza come "apostolica", nel senso che riconosce, ama e serve la Chiesa nella sua struttura gerarchica. Sottolinea inoltre che l'obbedienza presbiterale presenta una "esigenza comunitaria": non è infatti soltanto l'obbedienza di un singolo che personalmente si rapporta con l'autorità, ma è invece profondamente inserita nell'unità del presbiterio, che come tale è chiamato a vivere la collaborazione con il Vescovo, e per suo tramite con il Successore di Pietro. Sottolinea infine il suo "carattere di pastoralità", in quanto il prete è chiamato a vivere l'obbedienza in un atteggiamento di costante disponibilità a donare se stesso per far fronte alle necessita ed esigenze pastorali del popolo di Dio.

Molto importante, in concreto, per noi preti, vittime non di rado di una formazione e di una mentalità un po' troppo individualistica, è diventare capaci di accogliere i carismi, o più modestamente la presenza e le iniziative degli altri: dai nostri confratelli ai collaboratori a tutta la realtà del popolo che ci è affidato. Non di rado, invece, ci accade il contrario: il nostro personale punto di vista diventa una prigione per noi stessi, una paralisi per la nostra missione, un principio di disgregazione della comunità in cui siamo inseriti. E talvolta, quanto più questo punto di vista è parziale, ristretto o anche errato, tanto più lo difendiamo con un accanimento che può giungere fino alla irragionevolezza. t un rischio, questo, che insidia il nostro modo di relazionarci non soltanto verso i cosiddetti "superiori", ma anche verso i confratelli e verso gli "inferiori": è dunque un rischio non solo per l'obbedienza ma, più in generale, per la comunione. Per superarlo è bene ricorrere anzitutto alla dimensione mariana del nostro sacerdozio: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1, 38). Poiché Maria ha creduto, ha potuto anche rispondere così all'Angelo, con la sua bocca e poi con tutta la sincerità della sua vita. Quando, come in Maria, l'obbedienza nasce dall'amore, la libertà della .persona non viene mortificata, ma al contrario raggiunge il proprio vertice, nel libero dono di sé.

5. Un altro nodo che dobbiamo sciogliere nella nostra quotidiana vita di sacerdoti è quello che riguarda la nostra "rappresentanza", pubblica oltre che personale, di Cristo e della Chiesa. E' questa una caratteristica che non ci può mai abbandonare, perché, a livello sacramentale, e costitutiva del nostro stesso essere di ministri ordinati. La tentazione di volerci a un certo punto, o almeno in determinati momenti e per qualche aspetto, spogliare di essa e umanamente ben comprensibile, specialmente oggi quando il prete, nella società secolarizzata, spesso è avvertito come un estraneo e quindi può essere portato a percepirsi a sua volta come estraneo. ~ comprensibile anche per motivi più pratici e concreti, cioè per il ritmo incalzante degli impegni e delle prestazioni che ci sono richiesti, con un lavoro che tende a invadere ogni spazio e che, umanamente, a volte è povero di soddisfazioni.

L'alternativa a tutto questo può trovarsi soltanto in un rapporto davvero personale con il Signore Gesù, nell'averlo cioè incontrato e imparato ad amare. Ciò potrà apparire ovvio ma resta la cosa essenziale e decisiva. Il sacerdote dev'essere anzitutto un uomo profondamente religioso e cristiano, che sa stare con Cristo presso Dio, nella preghiera e nella vita, e che è intimamente convinto che Dio, e non lui, salva il mondo, e lo salva attraverso la croce. Senza questa convinzione, e ancor prima esperienza interiore, il nostro ministero è una fatica spesso avara di gratificazioni; con essa invece è un dono liberante e gratificante. Ci sentiamo allora al sicuro in Cristo e sappiamo che non è importante chi raccolga, dopo che abbiamo generosamente seminato. Da questo rapporto con Cristo nasce dunque la nostra pazienza pastorale, la nostra capacità di capire, sopportare e perdonare: quanti preti di questo tipo ho conosciuto, per grazia di Dio, nella mia vita!

Così il ministero, l'apostolato, diventa un bisogno e cessa, in qualche modo, di essere una fatica. E la "rappresentanza" di Cristo e della Chiesa viene da noi accolta volentieri e con animo libero, anche quando ci espone ai contrasti, alle contraddizioni, o anche alle derisioni. Un Vescovo e un prete che sono lieti di rappresentare con franchezza, sincerità e autenticità la Chiesa, anche in quegli aspetti del suo insegnamento e della sua disciplina che oggi sono più contestati, danno una testimonianza ed esercitano una "profezia" di incalcolabile fecondità spirituale. Al contrario, quando ci sottraiamo all'onere di rappresentare la Chiesa, o peggio, assumiamo le vesti di chi contesta e contraddice, spesso senza nemmeno avvertire che le nostre proteste e i nostri distinguo finiscono per investire non soltanto la Chiesa, ma Cristo e il suo Vangelo, diventiamo, senza accorgercene, simili ai falsi profeti di cui parlano ampiamente le Scritture. Potremo infatti ottenere qualche immediato applauso mondano, ma rechiamo danno al popolo di Dio, mettendo a rischio il suo senso di fede e la sua appartenenza ecclesiale, e in ultima analisi impoveriamo e umiliamo anche noi stessi, privandoci della gioia più vera che consiste nella piena fedeltà alla propria vocazione.

6. Non posso concludere questa meditazione sulla spiritualità comunionale del sacerdote senza un riferimento a quello che è il centro visibile della nostra comunione, cioè al ministero petrino e alla persona del Papa.

Non abbiamo certo il tempo per soffermarci sul radicamento di questo ministero nel Nuovo Testamento e nella tradizione ecclesiale, e nemmeno per esaminare più da vicino la distinzione, ormai classica, tra le forme in cui il servizio di Pietro è stato esercitato rispettivamente nel primo e nel secondo millennio cristiano. Possiamo però fare almeno qualche considerazione riferita al tempo che stiamo vivendo. Contestualmente all'affermarsi, talvolta anche violento, dei localismi e delle peculiarità di ciascuna cultura, popolo o nazione, l'unità del genere umano cresce in maniera sempre più veloce, nelle sue espressioni pratiche e concrete, attraverso le comunicazioni sociali, gli scambi e l'interdipendenza economica, le migrazioni, il turismo, il carattere unitario e universale della ricerca scientifica e delle realizzazioni tecnologiche. Questa crescente unità richiede, sul piano spirituale, non soltanto l'unità ecumenica dei cristiani e il dialogo tra le grandi religioni, ma l'unità concreta e visibile della Chiesa Cattolica, la sua presenza come un unico soggetto sulla scena mondiale, in conformità a quell'indole "pubblica", e non soltanto privata, che il cristianesimo ha avuto fin dalle origini. Ciò si è realizzato, non per caso, nel nostro secolo, in particolare a partire dal pontificato di Leone XIII e in misura massima con Giovanni Paolo 11, attraverso il suo magistero, i suoi viaggi, la sua pubblica testimonianza per Cristo e per i diritti dell'uomo.

Il nostro Papa ha potuto far questo in una situazione nella quale, come già accennavo, restano forti le tendenze alla critica, anche dentro alla Chiesa. È davvero un dono della Provvidenza di Dio che al vertice della dimensione anche istituzionale della Chiesa vi sia oggi un uomo che è al tempo stesso un grande e incontestabile esempio di preghiera, come intuiscono e riconoscono anche i giornalisti che lo accostano per ragioni professionali; un uomo veramente di Dio, un cristiano e un sacerdote nel senso forte della parola. Di nuovo, non è un caso che, da Pio IX in poi, attraverso personalità tra loro diversissime, la Provvidenza abbia sistematicamente collocato sulla sede di Pietro degli autentici e chiari testimoni di Cristo: così è stata offerta a tutti una conferma storica del fatto che non esiste alcuna opposizione, ma al contrario un'intima parentela, tra il Vangelo di Cristo e l'istituzione ecclesiale.

Il millennio che sta per aprirsi davanti a noi non sarà quindi, se mi è lecito azzardare una simile previsione, il tempo del semplice ritorno alla situazione del primo millennio, per quanto riguarda il rapporto tra la dimensione locale e quella universale della Chiesa; come d'altronde non sarà nemmeno una semplice continuazione del secondo millennio. Sarà piuttosto il tempo della sintesi, di quella più matura e più piena compresenza di universalità e particolarità di cui il Concilio Vaticano II, sotto l'impulso dello Spirito, ha gettato le basi, e che ora, per impulso del medesimo Spirito, dovrà realizzarsi nell'intreccio umanamente inestricabile della storia della salvezza, segnata dal peccato ma anche dalla sovrabbondanza della grazia.

Guardando con gli occhi della fede alla Chiesa e all'umanità a cui la Chiesa è mandata, e dentro di esse alla nostra missione e alla nostra stessa esistenza personale, non abbiamo motivi di sconforto o di smarrimento, ma piuttosto di gratitudine, di fiducia e di gioia. Vale anche per noi sacerdoti la parola di Cristo: "Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di dare a voi il suo regno" (Lc 12, 32).

Camillo Card. Ruini

Vicario di Sua Santità per la Diocesi di Roma

e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana