Fides et ratio

 

L'enciclica che immette nel terzo millennio

 

Lezione inaugurale dell'anno accademico 1998-1999 dell'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, tenuta il 6 novembre 1998 da Mons. Rino Fisichella, vescovo ausiliare di Roma.

"Tra i diversi servizi che essa (la Chiesa) deve offrire all'umanità, uno ve n'è che la vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia alla verità. Questa missione, da una parte, rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che l'umanità compie per raggiungere la verità; dall'altra, la obbliga a farsi carico dell'annuncio delle certezze acquisite, pur nella consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre e solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio" (FR 2)

La citazione presa dall'inizio dell'enciclica permette di raccogliere alcuni elementi che permettono di creare uno scenario significativo ai diversi contenuti di Fides et ratio. La "diaconia alla verità" è ciò che Giovanni Paolo II identifica come motivazione prima della sua enciclica. La Chiesa, attesta il Papa, ha un compito da svolgere; questo non è assunto da una riflessione strategica che la comunità credente ha compiuto per giustificare la sua presenza nel mondo, ma è una missione che ha ricevuto dal Signore stesso. Se la Chiesa avesse semplicemente un "ruolo" da svolgere nella società, allora sarebbe abilitata a cambiarlo con il cambiare dei tempi e delle stagioni; se, invece, ha una missione da compiere, allora ciò che le viene chiesto è in primo luogo l'obbedienza e la fedeltà. Questa prima indicazione sembra necessaria nel momento in cui si deve almeno giustificare in un contesto come quello contemporaneo l'intervento del Magistero in materia di filosofia.

Le scuole filosofiche e teologiche non sono l'obiettivo primario dell'enciclica. Qualcuno, in maniera frettolosa, ha voluto vedere maliziosamente una strategia sottesa per chissà quale capovolgimento all'interno delle istituzioni educative ecclesiastiche! Ciò che le pagine di Fides et ratio contengono sono, piuttosto, l'indice di una fede che pensa e che proprio per questo individua le forme mediante le quali entrare in dialogo con gli uomini del proprio tempo. La diaconia alla verità non è l'unico ministero che la Chiesa svolge; esso, comunque, è tra i prioritari. Scaturisce, infatti, direttamente dalla rivelazione e dalla fede in essa e si attesta come la forma più adeguata per il riconoscimento della dignità e della libertà dell'uomo.

La prima parola, dunque, che merita di essere pronunciata per introdursi con coerenza in Fides et ratio a noi sembra essere: verità. Avendo, tuttavia, l'enciclica un carattere e dei contenuti filosofici non sarà superflua, fin dall'inizio, una precisazione. La verità non è qui intesa in primo luogo come "aletheia" filosofica, ma si deve recuperare il suo profondo e primario senso biblico. Solo a questa condizione si comprendono le caratteristiche che nel testo citato vengono proposte: la certezza acquisita che ha in sé la nota dell'universalità, il progresso costante che tende verso il compimento escatologico, la sua forma dialogica con quanti sono in ricerca della verità e la risposta ultima alla domanda sul senso dell'esistenza. E' possibile riportare in un'unità tutti questi elementi solo se si pone come fondamento il principio cristico.

E' necessario, pertanto, andare al primo capitolo di Fides et ratio per comprendere il valore portante della verità e il suo carattere cristologico. Bisogna, dunque, fare i conti con il tema della rivelazione per poter accedere al senso e al valore che la Chiesa applica alla verità e ai diversi modi per indagarla. Il primo capitolo è interamente dedicato a questo tema. Giovanni Paolo II offre in questi numeri un'autentica sintesi di teologia della rivelazione, come è emersa nella sua novità dal concilio Vaticano II. Gesù rivelatore del Padre è la porta che immette nella rivelazione della Sapienza di Dio. Questa prospettiva non è altro che la trasposizione dell'insegnamento di Dei Verbum, più volte citata in questi numeri. Emergono in maniera chiara alcune caratteristiche proprie della costituzione conciliare: la connotazione trinitaria della rivelazione, la centralità di Gesù Cristo, la gratuità dell'automanifestazione di Dio e la chiamata alla partecipazione alla vita divina rivolta all'umanità. I primi quattro numeri di Dei Verbum sono qui raccolti ed esplicitati avendo come obiettivo primario quello di far cogliere il nesso profondo tra la rivelazione di Dio e la ricerca di senso da parte dell'uomo. La verità, insomma, è dono che viene offerto da Dio all'umanità all'interno stesso della struttura umana e nel suo linguaggio personale. Non si sfugge a questa condizione. La concezione di verità che emerge dal testo è primariamente quella biblico-giovannea.

Gesù di Nazareth è la verità di Dio sull'uomo. "Io sono la via, la verità e la vita" (Gv 14) permane nella storia della fede come il criterio originario da cui la verità antropologica trae senso e come il punto terminale di ogni frammento di verità che è in cerca del suo compimento. Certo, la storia permette di verificare anche lo slittamento che nel corso dei secoli si è creato tra verità cristologica e verità come adequatio mentis et rei, ma questa dimensione non è certo alternativa alla prima. Essa, piuttosto, rimane come la forma visibile dello sviluppo e dell'armonia tra i due ambiti del sapere. Non si può dimenticare, infine, che questa dimensione veritativa è legata alla domanda di senso con la quale l'uomo scopre l'orizzonte di enigmaticità della propria esistenza. La vita di ogni uomo, lo sappiamo bene, si racchiude intorno al mistero. Non è da sottovalutare, in questo contesto, il richiamo a Gaudium et spes: "In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo... proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore Cristo svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione" (GS 22). Questo testo, a nostro avviso, è un punto fondamentale e nevralgico dell'intero magistero di Giovanni Paolo II. Si potrebbe facilmente dimostrare come questa espressione si ritrova lungo tutti i diversi interventi del Papa e si pone come chiave interpretativa della sua visione antropologica. La diretta partecipazione dell'allora arcivescovo di Kracovia alla redazione del testo conciliare permane come un centro focale mediante il quale è possibile vedere coniugata in una felice sintesi l'antropologia e la cristologia. Il mistero dell'uomo se vuole trovare senso deve porsi alla luce di un mistero più grande che è quello di Gesù Cristo: "Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo... Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi" (GS 22). L'uomo nuovo che viene presentato all'umanità è anche l'uomo perfetto in cui la verità di Dio sull'uomo trova compimento e definitività.

A partire da questa precomprensione, comunque, è possibile descrivere alcune tappe ulteriori che l'enciclica permette di compiere descrivendo i diversi volti della verità

1. La prima, indica la strada che accomuna l'umanità intera. La ricerca della verità, infatti, qualifica l'esistenza personale e permette di riconoscere un denominatore qualificato per il dialogo tra i popoli: "Questa missione rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che l'umanità compie per raggiungere la verità" (n. 2). Il concilio Vaticano II, d'altronde, aveva già anticipato in qualche modo questa prospettiva quando, parlando della coscienza, affermava che: "Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale" (Gaudium et spes 16). La verità è un dono che Dio affida a tutti gli uomini. Ciò comporta l'esistenza di un vero cammino che abilita ognuno a questa ricerca, rendendo ogni uomo veramente tale, ma solo se posto nell'orizzonte della verità. Fuori da questa luce la sua esistenza sarebbe sempre soggetta al dubbio, all'incertezza e, quindi, incapace di svilupparsi in un futuro apportatore di senso.

2. Una seconda osservazione emerge sempre dal testo con cui ci siamo introdotti: "nella consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio" (n. 2). La verità, insomma, è un cammino; questo non ha la durata di un momento, ma dell'intera vita. La verità piena sarà data solo nel compimento escatologico. Questa dimensione della verità ha un carattere determinante e fondamentale per i cristiani. Essa non è solo il dono fatto una volta per sempre nella persona di Gesù Cristo, ma un dono che accompagnerà la Chiesa fino al compimento dei tempi. La verità, quindi, è certamente una conquista che coinvolge l'uomo; eppure, essa non è mai data una volta per sempre come se fosse una realtà statica e chiusa in se stessa. La verità è sempre tesa verso il compimento; il coinvolgimento personale e comunitario, inoltre, è essenziale per valutare questa prospettiva. La dinamica della verità, comunque, non è solo tesa verso un compimento informe e generico; essa, piuttosto, è orientata a cogliere la verità sull'uomo e sulla sua esistenza. E' a partire da questa concezione che si determina la dignità e la libertà della persona; questa, pertanto, realizza se stessa solo se inserita nella dinamica propria della verità.

 

3. Una terza osservazione permette di sottolineare un'ulteriore caratteristica della verità cristiana: la sua portata universale. La lettura del n. 38 di Fides et ratio consente di cogliere un dato spesso dimenticato. Abbattute le barriere razziali, sociali e sessuali, il Cristianesimo aveva annunciato fin dai suoi inizi l'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. "La prima conseguenza di questa concezione si applicava al tema della verità. Veniva decisamente superato il carattere élitario che la sua ricerca aveva presso gli antichi: poiché l'accesso alla verità è un bene che permette di giungere a Dio, tutti devono essere nella condizione di poter percorrere questa strada". Questo breve passo permette di verificare un duplice elemento. Da una parte, l'annuncio cristiano si è fatto portatore di un messaggio di portata universale, veramente "cattolico"; dall'altra, ha unito inscindibilmente l'orizzonte veritativo con quello soteriologico. La verità che si presenta è salvezza, perché consiste nell'annuncio di Gesù Cristo "unico salvatore del mondo'

4. Un'ultima considerazione sul carattere della verità verte sulla sua unità profonda. Ritorna spesso nell'enciclica la spinta a guardare alla verità senza mai fermarsi ai frammenti di essa. E' questo un grave problema, che soprattutto nell'occidente merita di essere affrontato senza più alcun indugio. La provocazione di F. Nieztsche non è caduta nel vuoto: "Cercare la verità per la verità è superficiale! Non vogliamo essere ingannati. Ciò offende il nostro orgoglio". A partire da qui, diversi filosofi hanno teorizzato in diversi modi la sfiducia nel raggiungimento della verità. L'anelito verso una nuova e radicale verità che andasse oltre a quella ormai decaduta della rivelazione cristiana è apparso a molti come il richiamo perentorio da dover seguire. Ma la via percorsa non ha portato lontano e la ragione si è sempre più indebolita nella sua corsa verso il vero. Giovanni Paolo II afferra con coraggio la questione nichilista, mostrando come alla sua base si trovi un pensiero che mina l'identità stessa dell'uomo: "Il nichilismo, prima ancora di essere in contrasto con le esigenze della Parola di Dio, è negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa identità. Non si può dimenticare, infatti, che l'oblio dell'essere comporta inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e, conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità dell'uomo. Si fa così spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell'uomo i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine" (n. 90).

La ricerca della verità, come la prospetta la fede cristiana, non è mai fine a se stessa e nessuna scuola metafisica ha mai pensato in questo modo. La verità, piuttosto, è sempre scoperta di un dono perché l'esistenza personale possa essere sempre più umana. Fides et ratio, comunque, non ha timore di ribadire che la via prospettata dal nichilismo è senza uscita. Nel terzo capitolo è facile riconoscere una breve metafisica moderna che argomenta intorno al tema della verità. Il contenuto si snoda intorno a due pilastri che trovano la loro sintesi nella duplice espressione: "Si può definire, dunque, l'uomo come colui che cerca la verità" (n. 28) e: "L'uomo, essere che cerca la verità, è dunque colui che vive di credenza" (n.3 1). Ricerca di verità e conoscenza di fede non sono alternative. Solo una falsa posizione del problema ha voluto vedere l'una contrapposta all'altra in nome di una falsa autonomia della ragione. Ogni autentica ricerca di verità, invece, si ritrova come una germinale forma di fede ("credenza"), capace di accogliere in sé il mistero che le si pone innanzi.

Prendendo le mosse dal testo della Metafisica di Aristotele: "Tutto gli uomini desiderano sapere", Giovanni Paolo II individua progressivamente la verità come oggetto primo del desiderio umano. Sia nel campo pratico che teoretico, la ricerca della verità del sapere è ciò che appaga l'uomo. Senza questa, la vita verrebbe fondata sull'incertezza del dubbio e la libertà resterebbe solo una chimera. Percorrendo la strada dell'esperienza, come forma di conoscenza a cui il filosofo Karol Wojtila è particolarmente sensibile, passo dopo passo la domanda sul senso dell'esistenza e sul destino ultimo dell'uomo fanno capolino, ponendo l'inevitabile domanda se esista davvero una verità che sia capace di dare fondamento all'intera esistenza: "Viene per tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria esistenza ad una verità che dia certezza definitiva, una verità riconosciuta come ultima e non più sottoposta al dubbio" (n 27).

La ricerca della verità, quindi, non è inutile, ma finalizzata al compimento dell'esistenza personale. Qui trova aggancio la seconda argomentazione utilizzata da Giovanni Paolo II: la strada della fede. La conoscenza non si esaurisce nella sola forma razionale, ma procede oltre verso espressioni che sono spesso più profonde e umanamente più convincenti. Là dove una persona affida se stessa all'altro e, in forza di questa fiducia, acquisisce conoscenze, là prende corpo una forma conoscitiva che si basa sul credere. La relazione interpersonale, insomma, costituisce una forma di conoscenza con almeno pari dignità di quella razionale.

Non è un caso che il Papa abbia ad assumere come esempio significativo di questa dimensione il martire (cf. n. 32). Meriterebbe uno spazio adeguato la trattazione del martirio nel magistero di Giovanni Paolo II. L'occhio attento vedrebbe immediatamente che, soprattutto nelle ultime encicliche, ritorna con frequenza e con passione questo tema. Una chiave di lettura per comprendere questa costanza potrebbe essere offerta dalla Lettera apostolica Tertio millennio adveniente scritta per la preparazione del Giubileo del 2000. "Quella dei martiri è una testimonianza da non dimenticare" (tma 37). Mantenere viva la memoria dei martiri sembra una missione che il Papa ha voluto assumere nel momento in cui deve constatare che "al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri. Le persecuzioni nei riguardi dei credenti -sacerdoti, religiosi e laici- hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo" (tma 37).

Non è secondaria, in questa prospettiva, la decisione di volere un elenco in cui inserire i "nuovi martiri" di questi ultimi decenni. Se il martire, infatti, è segno evidente dell'assenso alla verità e all'amore, egli testimonia pure che per la verità cristiana si può dare la vita. Certo, dove c'è presenza del martire, là c'è ovviamente anche la presenza di quanti rifiutano la verità e la ostacolano. Il martire, insomma, parla con la sua testimonianza e attesta che la verità che professa ha un nome: amore. Qui non c'è più bisogno di "lunghe argomentazioni" (n. 32) perché la verità diventa evidente e viene portato a linguaggio ciò che ognuno percepisce nel più profondo e vorrebbe trovare la forza di esprimere.

Il primato che l'enciclica affida alla Rivelazione ha inevitabilmente delle conseguenze sul piano teologico e filosofico. La Parola di Dio, infatti, porta con sé "esigenze" proprie e "irrinunciabili". In modo particolare, tre sono le esigenze fondamentali che Fides et ratio presenta.

La prima è segnata dalla domanda di senso: "La Parola di Dio prospetta il problema del senso dell'esistenza e rivela la sua risposta indirizzando l'uomo a Gesù Cristo" (n. 80). La sacra Scrittura, quindi, possiede una propria lettura "filosofica" che mostra la vita dell'uomo in ricerca di un senso e indirizzata ad esso. Per comprendere più a fondo queste considerazioni che Giovanni Paolo II compie, si dovrebbero valutare le grandi problematiche affrontate dal concilio nella costituzione Gaudium et spes. Gli interrogativi dell'esistenza personale vengono qui messi in luce in tutta la loro drammaticità e ricondotti alla contraddittorietà dell'uomo. Alcuni frammenti del testo conciliare possono riportare alla mente il dramma dell'esistenza: "In verità, gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell'uomo. E' proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura che sperimenta in mille modi i suoi limiti; dall'altra parte si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato a una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione...Con tutto ciò, di fronte all'evoluzione attuale del mondo diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi capitali: cos'è l'uomo? Quale è il significato del dolore, del male, della morte che malgrado ogni progresso continuano a sussistere? Cosa valgono queste conquiste a così caro prezzo raggiunte? Che reca l'uomo alla società e che cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?" (GS 10).

Dinanzi a questa lettura sul senso, emerge con maggior drammaticità la "crisi di senso", prospettata dall'enciclica come "uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale" (n. 81). La frammentarietà che regna sovrana nel pensiero e di conseguenza nelle culture e nei comportamenti dei singoli, rende evidente il virus che ha inficiato la ragione lasciandola in balia del "dubbio radicale che facilmente sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o nelle diverse espressioni del nichilismo" (n. 81). La filosofia richiesta per corrispondere a questa prima esigenza della Parola di Dio, afferma il Papa, deve essere capace di ritrovare la sua "dimensione sapienziale" mediante la quale si indica il senso ultimo e definitivo dell'esistenza. In un contesto in cui emerge l'autorità dispotica della tecnica, la filosofia deve compiere lo sforzo per riappropriarsi di questo spazio vitale mediante il quale riconduce i frammenti all'unità del sapere e prospetta il fondamento di un senso che trova la sua base nella natura di ogni persona. Categorica la prima conclusione a cui l'enciclica porta: "Una filosofia che volesse negare la possibilità di un senso ultimo e globale sarebbe, dal punto di vista della fede, non soltanto inadeguata, ma erronea" (n. 81).

L'insistenza sul versante filosofico non deve far dimenticare la parte sostanziale che Giovanni Paolo II dedica alla riflessione sulla teologia. Vengono descritti, infatti, anche i compiti che attendono la teologia. A nostro avviso, questa sezione riveste un'importanza considerevole. La teologia, infatti, sembra vivere un momento di stasi. Terminato il periodo immediatamente successivo al Concilio Vaticano II, in cui lo sforzo teologico si era indirizzato quasi esclusivamente verso il necessario recupero dei dati biblici e patristici, la teologia sembra oggi guardarsi intorno incerta sul da farsi. Mentre alcuni la spingono con forza nell'abbraccio esclusivo dell'ermeneutica, altri amano di più seguire mode passeggere rincorrendo, di volta in volta, tematiche che durano quanto una primavera. La teologia di questi anni ha dimenticato, purtroppo, che l'interlocutore privilegiato deve rimanere la filosofia. Sottovalutare o dare per ovvia la relazione con la filosofia non porterà molto lontano i teologi; questi faranno filosofia loro malgrado, ma con il rischio di rinchiudersi in forme di pensiero inadeguate alla rivelazione o strumentalizzando lo stesso pensiero filosofico.

In quanto chiamata a dare intelligenza della rivelazione e del contenuto della fede - continua Giovanni Paolo II - la teologia deve mirare sempre al centro del mistero che indaga: il Dio Trino (cfr. n. 93). In questo suo perenne tentativo di rendere sempre più coerenti i contenuti di fede con le conquiste del pensiero, la teologia si incontra con alcune difficoltà che la impegnano direttamente nel dialogo con la filosofia. Il primo tema riguarda "il rapporto tra il significato e la verità" (n. 94). La Rivelazione, infatti, è data in un linguaggio che non esaurisce la rivelazione e, tuttavia, ne afferma e trasmette la verità. Compito del teologo, quindi, è quello di non fermarsi a una lettura positivista dei testi sacri, ma procedere verso la comprensione della verità che essi contengono. Si apre la strada, a questo punto, per una riflessione che consideri in profondità il senso e il valore della storia, sia nella prospettiva filosofica che teologica, in modo da stabilire la relazione tra il fatto che avviene e la verità del significato che esso incarna.

Un secondo tema che Fides et ratio offre alla riflessione dei teologi è il valore universale degli enunciati dogmatici. Ci si chiede in che modo una formula dogmatica, limitata pur sempre dal linguaggio storico, possa comunque contenere nei suoi termini una verità che permane immutata. Problema questo di non facile soluzione, perché comporta la valutazione duplice della struttura della verità e del linguaggio. La pluralità delle culture e dei relativi linguaggi pone indubbiamente delle questioni in proposito che, soprattutto nel contesto contemporaneo, non possono essere evase. Il rapporto tra la capacità espressiva concettuale dei segni linguistici e il valore veritativo che essi contengono oggettivamente, non può essere risolto in maniera sbrigativa, come alcuni sostengono, con il solo cambiamento del linguaggio. Ben di più è richiesto: lo studio sulla capacità del linguaggio di essere mediazione di verità e quindi di essere esso stesso aperto alla dimensione metafisica.

Un ultimo tema è riproposto dall'enciclica e tocca l'elaborazione di un pensiero speculativo capace di dare spessore all'intelligenza della fede (cfr. n. 97). Ancora una volta, Giovanni Paolo II sostiene la necessità per la teologia di farsi carico di una "filosofia dell'essere", in quanto unica espressione che garantisce la presentazione e comprensione coerente della tradizione di fede. Questa filosofia, lontano dal riproporre una metodologia passata, è intesa dal Papa come una filosofia dinamica che vede la realtà nelle sue strutture ontologiche, causali e comunicative. Essa trova la sua forza e perennità nel fatto di fondarsi sull'atto stesso dell'essere" (n. 97), permettendo di andare oltre ogni limite imposto dalla condizione storica per rimanere nell'apertura all'infinito, tipica dell'essere stesso.

E' significativo che Giovanni Paolo II abbia voluto richiamare in maniera esplicita, in questa sezione, il ruolo che viene svolto dalla catechesi. Vede impegnata direttamente anche la catechesi. Ciò dimostra ulteriormente come il contenuto dell'enciclica non si limiti ai soli teologi e filosofi, ma si estende e, a diverso titolo, coinvolge quanti operano per la nuova evangelizzazione. "Il lavoro teologico nella Chiesa è in primo luogo al servizio dell'annuncio della fede e della catechesi" (n. 99). Anch'essa, quindi, per il peculiare ruolo che svolge nella formazione cristiana, viene coinvolta nel valutare la sua relazione con il pensiero filosofico, soprattutto per quanto concerne il rapporto della verità con l'esistenza personale.

Ci sia permesso di concludere con l'affermazione che l'enciclica non intende percorrere un sentiero non facile; esso, tuttavia, è necessario. E' solo guardando in faccia alla realtà che è possibile tentare di cambiarla. Nascondersi dietro i sofismi o i tabulati dei sondaggi potrebbe fornire la parvenza di civile tolleranza, ma non aiuterebbe ad uscire dal tunnel in cui l'umanità oggi si trova, né a garantire l'autentica libertà della persona: "Una volta che si è tolta la verità all'uomo, è pura illusione pretendere di renderlo libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme miseramente periscono" (n. 90). Giovanni Paolo II con Fides et ratio non ha avuto timore di ribadire che il binomio di verità e libertà è la condizione per la vera dignità della persona umana. La fede e la ragione, infatti, rimangono nel raggiungimento di questo obiettivo come la strada maestra o, per usare i termini dell'enciclica "le due ali" per innalzarsi alla contemplazione della verità, unico vero desiderio iscritto nel cuore dell'uomo

 Mons. Rino Fisichella, vescovo ausiliare di Roma.