INDICE

 

 

INTRODUZIONE

CAPITOLO PRIMO: per capire la dottrina sociale

1. Perché esiste la dottrina sociale della Chiesa

2. Cos’è la dottrina sociale

3. L’uomo è la via della Chiesa: il cuore della dottrina sociale

CAPITOLO SECONDO: il contenuto della dottrina sociale

A. LA SITUAZIONE DELL’UOMO

1. Perché partire dalla Rerum Novarum: 1891

2. La situazione dell’uomo contemporaneo: il 1979.

3. A cento anni dalla Rerum Novarum: il 1991.

4. Sintesi: la dignità di "persona".

B. LA STORIA

1. Gli "errori" e la morte (1900-1950)

2. Il "progresso".

3. Il "blocco" delle ideologie: 1950-1990.

4. Il 1989

C. LA LIBERTÀ MALATA

1. Rapporto libertà-verità

2. Lo sviluppo

3. L’uomo consumatore. Crolla il marxismo.

4. La vera alienazione

5. "Nuovo ordine mondiale?"

D. LA VIA DA SEGUIRE

1. Non "TERZA VIA", ma criterio di verità di ogni via.

2. "Non c’è vera soluzione della questione sociale fuori del Vangelo.

3. PRIMA REGOLA: essere uomini.

4. SECONDA REGOLA: i beni sono per te, non tuoi.

5. TERZA REGOLA: solidarietà.

6. QUARTA REGOLA: pace e comunione.

7. QUINTA REGOLA: condividere, non "dare il superfluo".

8. SESTA REGOLA: la famiglia, vera "ecologia" umana.

9. SETTIMA REGOLA: Lo stato non è Dio.

10. OTTAVA REGOLA: la sussidiarietà.

CAPITOLO TERZO: l’opera comune cioè la missione

A. COSA BISOGNA FARE?

1. Speranza

2. Le opere

3. Cultura

4. Missione

5. Liberazione

6. In sintesi:

B. SEGUENDO MARIA

ANTOLOGIA RAGIONATA INTORNO ALLA

DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

seguendo l’enciclica Centesimus Annus di GIOVANNI PAOLO II

di Pinuccio Mazzucchelli

INTRODUZIONE

Non a caso la frase finale dell’ultima Enciclica sociale di Giovanni Paolo II, la Centesimus Annus, e la frase iniziale della sua prima enciclica, la Redemptor Hominis, si richiamano vicendevolmente, mostrando l’unità e la profondità dell’attuale magistero Pontificio.

La presente antologia desidera seguire la trama offerta dall’insegnamento del Papa mostrando, umilmente, la straordinaria profezia con cui Giovanni Paolo II sta servendo la Chiesa e la sta guidando rispetto alla questione umana che potremmo definire in modo ampio "sociale".

Le parole Cristo Redentore

Maria

Chiesa

uomo

terzo millennio

missione

nuova evangelizzazione

e il verbo URGE

sono fondamentali per capire questo Papa che, con decisione, è davanti a tutti sull’unica via per la salvezza dell’uomo contemporaneo.

Seguendo la sua TRACCIA, soprattutto il suo coraggio nell’affermare e indicare che c’è la via in mezzo all’imperante relativismo che lascia soli e angosciati soprattutto i più deboli e troppi giovani vogliamo sempre più imparare ad essere cristiani, cioè uomini veri.

RH 1

Il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo è centro del cosmo e della storia. A Lui si rivolgono il mio pensiero ed il mio cuore in questa ora solenne, che la Chiesa e l’intera famiglia dell’umanità contemporanea stanno vivendo. Infatti, questo tempo, nel quale Dio per un suo arcano disegno, dopo il prediletto Predecessore Giovanni Paolo I, mi ha affidato il servizio universale collegato con la Cattedra di San Pietro a Roma, è già molto vicino all’anno Duemila. È difficile dire, in questo momento che cosa quell’anno segnerà sul quadrante della storia umana, e come esso sarà per i singoli popoli, nazioni paesi e continenti, benché sin d’ora si tenti di prevedere taluni eventi. Per la Chiesa, per il Popolo di Dio, che si è esteso—sia pure in modo diseguale—fino ai più lontani confini della terra, quell’anno sarà l’anno di un gran Giubileo. Ci stiamo ormai avvicinando a tale data che—pur rispettando tutte le correzioni dovute all’esattezza cronologica—ci ricorderà e in modo particolare rinnoverà la consapevolezza della verità-chiave della fede espressa da San Giovanni agli inizi del suo Vangelo: "Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" e altrove: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". Siamo anche noi, in certo modo, nel tempo di un nuovo Avvento, ch’è tempo di attesa. "Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio…", per mezzo del Figlio-Verbo, che si è fatto uomo ed è nato dalla Vergine Maria. In questo atto redentivo la storia del l’uomo ha raggiunto nel disegno d’amore di Dio il suo vertice. Dio è entrato nella storia dell’umanità e, come uomo, è divenuto suo "soggetto", uno dei miliardi e, in pari tempo, Unico! Attraverso l’Incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione che intendeva dare all’uomo sin dal suo primo inizio, e l’ha data in maniera definitiva—nel modo peculiare a Lui solo, secondo il suo eterno amore e la sua misericordia, con tutta la divina libertà—ed insieme con quella munificenza che, di fronte al peccato originale ed a tutta la storia dei peccati dell’umanità, di fronte agli errori dell’intelletto, della volontà e del cuore umano, ci permette di ripetere con stupore le parole della sacra Liturgia: "O felice colpa, che meritò di avere un tanto nobile e grande Redentore!".

CA 62

Questa mia Enciclica ha voluto guardare al passato, ma soprattutto è protesa verso il futuro. Come la Rerum Novarum, essa si colloca quasi alla soglia del nuovo secolo ed intende, con l’aiuto di Dio, prepararne la venuta. a vera e perenne "novità delle cose" in ogni tempo viene dall’infinita potenza divina, che dice: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose" (Ap 21, 5). Queste parole si riferiscono al compimento della storia, quando Cristo "consegnerà il regno a Dio Padre…, perché Dio sia tutto in tutti" (I Cor 15, 24.28). Ma il cristiano sa bene che la novità, che attendiamo nella sua pienezza al ritorno del Signore, è presente fin dalla creazione del mondo e, più propriamente, da quando Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo e con lui e per lui ha fatto una "nuova creazione" (2 Cor 5, 17; Gal 6, 15). Nel concludere, ringrazio ancora Dio onnipotente, che ha dato alla sua Chiesa la luce e la forza di accompagnare l’uomo nel cammino terreno verso il destino eterno. Anche nel terzo Millennio la Chiesa sarà fedele nel fare propria la via dell’uomo, consapevole che non procede da sola, ma con Cristo, suo Signore. È lui che ha fatto propria la via dell’uomo e lo guida anche quando questi non se ne rende conto. Maria, la Madre del Redentore, la quale rimane accanto a Cristo nel suo cammino verso e con gli uomini, e precede la Chiesa nel pellegrinaggio della fede, accompagni con materna intercessione l’umanità verso il prossimo Millennio, in fedeltà a Colui che, "ieri come oggi, e lo stesso e lo sarà sempre" (cfr. Eb 13, 8), Gesù Cristo, nostro Signore, nel cui nome tutti benedico di cuore.

 

CAPITOLO PRIMO: per capire la dottrina sociale

 

1. Perché esiste la dottrina sociale della Chiesa

A prima vista la "dottrina sociale" potrebbe sembrare una parte speciale rispetto a ciò cui è chiamata la Chiesa: annunciare il Vangelo, cioè Gesù Cristo morto risorto e presente nel Suo Corpo che è la Chiesa.

Così "Gesù Cristo è la via principale della Chiesa", come dice RH 13.

Proprio guardando a Cristo, alla Sua Incarnazione, alla Redenzione da Lui operata, l’uomo finalmente comprende se stesso.

RH 8

Redentore del mondo! In lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile la fondamentale verità sulla creazione, che il Libro della Genesi attesta quando ripete più volte: "Dio vide che era cosa buona". Il bene ha la sua sorgente nella Sapienza e nell’Amore. In Gesù Cristo il mondo visibile, creato da Dio per l’uomo—quel mondo che, essendovi entrato il peccato, "è stato sottomesso alla caducità"—riacquista nuovamente il vincolo originario con la stessa sorgente divina della Sapienza e dell’Amore. Infatti, "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito". Come nell’uomo-Adamo questo vincolo è stato infranto, così nell’uomo-Cristo esso è stato di nuovo riallacciato. Non ci convincono forse, noi uomini del ventesimo secolo, le parole dell’Apostolo delle genti, pronunciate con una travolgente eloquenza, circa la "creazione (che) geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto" ed a attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio", circa la creazione che "è stata sottomessa alla caducità"? L’immenso progresso, non mai prima conosciuto, che si è verificato, particolarmente nel corso del nostro secolo, nel campo del dominio sul mondo da parte dell’uomo, non rivela forse esso stesso, e per di più in grado mai prima raggiunto, quella multiforme sottomissione "alla caducità"? Basta solo qui ricordare certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell’ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive di autodistruzione mediante l’uso delle armi atomiche, all’idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati. Il mondo della nuova epoca, il mondo dei voli cosmici, il mondo delle conquiste scientifiche e tecniche, non mai prima raggiunte, non è nello stesso tempo il mondo che "geme e soffre" ed "attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio"? Il Concilio Vaticano II, nella sua penetrante analisi "del mondo contemporaneo", perveniva a quel punto che è il più importante del mondo visibile, l’uomo, scendendo—come Cristo—nel profondo delle coscienze umane, toccando il mistero interiore dell’uomo, che nel linguaggio biblico (ed anche non biblico) si esprime con la parola "cuore". Cristo, Redentore del mondo, è Colui che è penetrato, in modo unico e irrepetibile, nel mistero dell’uomo ed è entrato nel suo "cuore". Giustamente, quindi, il Concilio Vaticano II insegna: "In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5, 14), e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione". E poi ancora: "Egli è l’immagine dell’invisibile Iddio" (Col 1, 15). Egli è l’uomo perfetto, che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, già resa deforme fin dal primo peccato. Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche a nostro beneficio innalzata a una dignità sublime. Con la sua incarnazione, infatti, il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato". Egli, il Redentore dell’uomo!

RH 10

L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore—come è stato già detto—rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso. Questa è—se così è lecito esprimersi—la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l’uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l’uomo diviene nuovamente "espresso" e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! "Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero. non c’è più uomo né donna poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù". L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo—non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere—deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del Creatore se "ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore", se "Dio ha dato il suo Figlio", affinché egli, l’uomo, "non muoia, ma abbia la vita eterna". In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, "nel mondo contemporaneo". Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell’umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo. Esso determina anche il suo posto, il suo—se così si può dire—particolare diritto di cittadinanza nella storia dell’uomo e dell’umanità. La Chiesa, che non cessa di contemplare l’insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce e la morte conduce alla risurrezione. Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell’uomo, di indirizzare la coscienza e l’esperienza di tutta l’umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca anche la più profonda sfera dell’uomo, la sfera—intendiamo—dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane.

La "dottrina sociale" nasce perché l’uomo è stato ridotto, mortificato e ingannato: non comprende più il suo valore, si sottovaluta o si sopravvaluta. L’uomo rischia di pensare di valere per ciò che possiede o per ciò che è capace di realizzare, per ciò che fa non per ciò che è.

Se le leggi economiche sono diventate come un criterio universale con cui valutare tutto, annunciare il Vangelo oggi significa aiutare l’uomo, ridotto a uomo-consumatore, a ritrovare se stesso.

La dottrina sociale esiste perché l’uomo incontri Cristo OGGI.

 

2. Cos’è la dottrina sociale

Per "dottrina sociale" si intende l’insegnamento complessivo, a partire dalla enciclica di Leone XIII "Rerum Novarum" del 1891, che il Magistero ha donato al mondo intero intorno all’uomo e alla sua condizione "sociale" nel mondo contemporaneo.

CA 53 e 54

Di fronte alla miseria del proletariato Leone XIII diceva: "Affrontiamo con fiducia questo argomento e con pieno nostro diritto… Ci parrebbe di mancare al nostro ufficio se tacessimo". Negli ultimi cento anni la Chiesa ha ripetutamente manifestato il suo pensiero, seguendo da vicino la continua evoluzione della questione sociale, e non ha certo fatto questo per recuperare privilegi del passato o per imporre una sua concezione. Suo unico scopo è stata la cura e responsabilità per l’uomo, a lei affidato da Cristo stesso, per questo uomo che, come il Concilio Vaticano II ricorda, è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa e per cui Dio ha il suo progetto, cioè la partecipazione all’eterna salvezza. Non si tratta dell’uomo "astratto", ma dell’uomo reale, "concreto" e "storico": si tratta di ciascun uomo, perché ciascuno è stato compreso nel mistero della redenzione e con ciascuno Cristo si è unito per sempre attraverso questo mistero. Ne consegue che la Chiesa non può abbandonare l’uomo, e che "questo uomo è la prima via che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione…, la via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’incarnazione e della redenzione". È, questa, solo questa l’ispirazione che presiede alla dottrina sociale della Chiesa. Se essa l’ha a mano a mano elaborata in forma sistematica, soprattutto a partire dalla data che commemoriamo, è perché tutta la ricchezza dottrinale della Chiesa ha come orizzonte l’uomo nella sua concreta realtà di peccatore e di giusto.

La dottrina sociale oggi specialmente mira all’uomo, in quanto inserito nella complessa rete di relazioni delle società moderne. Le scienze umane e la filosofia sono di aiuto per interpretare la centralità dell’uomo dentro la società e per metterlo in grado di capir meglio se stesso, in quanto "essere sociale". Soltanto la fede, però, gli rivela pienamente la sua identità vera, e proprio da essa prende avvio la dottrina sociale della Chiesa, la quale, valendosi di tutti gli apporti delle scienze e della filosofia, si propone di assistere l’uomo nel cammino della salvezza. L’Enciclica Rerum Novarum può essere letta come un importante apporto all’analisi socio-economica della fine del secolo XIX, ma il suo particolare valore le deriva dall’essere un Documento del Magistero, che ben si inserisce nella missione evangelizzatrice della Chiesa insieme con molti altri Documenti di questa natura. Da ciò si evince che la dottrina sociale ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione: in quanto tale, annuncia Dio ed il mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l’uomo a se stesso. In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto: dei diritti umani di ciascuno e, in particolare del "proletariato", della famiglia e dell’educazione, dei doveri dello Stato, dell’ordinamento della società nazionale e internazionale, della vita economica, della cultura, della guerra e della pace, del rispetto alla vita dal momento del concepimento fino alla morte.

 

3. L’uomo è la via della Chiesa: il cuore della dottrina sociale

Questa frase sintetica, l’uomo è la via della Chiesa, rappresenta con forza il Magistero di Giovanni Paolo II fin dall’inizio. Vale la pena di rileggere questo testo decisivo per comprendere che la dottrina sociale affronta in analisi tutto ciò che è contrario e tutto ciò che è a favore a che la vita umana diventi sempre più umana.

RH 14

La Chiesa non può abbandonare l’uomo la cui "sorte", cioè la scelta, la chiamata, la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo così stretto ed indissolubile unite al Cristo. E si tratta proprio di ogni uomo su questo pianeta, in questa terra che il Creatore ha dato al primo uomo, dicendo all’uomo e alla donna: "Soggiogatela e dominatela". Ogni uomo, in tutta la sua irripetibile realtà dell’essere e dell’agire, dell’intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore. L’uomo, nella sua singolare realtà (perché è "persona"), ha una propria storia della sua vita e, soprattutto, una propria storia della sua anima. L’uomo che, conformemente all’interiore apertura del suo spirito ed insieme a tanti e così diversi bisogni del suo corpo, della sua esistenza temporale, scrive questa sua storia personale mediante numerosi legami, contatti, situazioni, strutture sociali, che lo uniscono ad altri uomini, e ciò egli fa sin dal primo momento della sua esistenza sulla terra, dal momento del suo concepimento e della sua nascita. L’uomo, nella piena verità della sua esistenza, del suo essere personale ed insieme del suo essere comunitario e sociale—nell’ambito della propria famiglia, nell’ambito di società e di contesti tanto diversi, nell’ambito della propria nazione o popolo (e, forse, ancora solo del clan o tribù), nell’ambito di tutta l’umanità—quest’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione. Proprio quest’uomo in tutta la verità della sua vita, nella sua coscienza, nella sua continua inclinazione al peccato ed insieme nella sua continua aspirazione alla verità, al bene, al bello, alla giustizia, all’amore, proprio un tale uomo aveva davanti agli occhi il Concilio Vaticano II allorché, delineando la sua situazione nel mondo contemporaneo, si portava sempre dalle componenti esterne di questa situazione alla verità immanente dell’umanità: "È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, egli è costretto sempre a sceglierne qualcuna ed a rinunciare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società". Quest’uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché l’uomo—ogni uomo senza eccezione alcuna—è stato redento da Cristo, perché con l’uomo—ciascun uomo senza eccezione alcuna—Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole: "Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo"—ad ogni uomo e a tutti gli uomini—"…luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione". Essendo quindi quest’uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della di lui "situazione". Deve cioè essere consapevole delle sue possibilità, che prendono sempre nuovo orientamento e così si manifestano: la Chiesa deve, nello stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all’uomo. Deve essere consapevole, altresì, di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché "la vita umana divenga sempre più umana", perché tutto ciò che compone questa vita risponda alla vera dignità dell’uomo. In una parola, dev’essere consapevole di tutto ciò che è contrario a quel processo.

 

CAPITOLO SECONDO: il contenuto della dottrina sociale

 

A. LA SITUAZIONE DELL’UOMO

 

1. Perché partire dalla Rerum Novarum: 1891

La dottrina sociale di cui ci interessiamo in queste pagine inizia con la Rerum Novarum perché nel 1891 Leone XIII in modo esplicito insegnò con chiarezza cosa chiamare regresso e cosa chiamare progresso nei cambiamenti avvenuti nei suoi tempi (le "cose nuove" da cui prende titolo l’enciclica), rinunciando ad associarsi al coro di coloro che ritenevano buona qualunque "cosa" semplicemente perché "nuova".

Qualche frase aiuta a comprendere lo sguardo di Leone XIII:

"quello che veramente è indegno e inumano è l’abusare dell’uomo a scopo di guadagno e stimarlo solo in rapporto ai suoi muscoli e alle sue forze" RN 16;

"che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò non importa nulla all’eterna felicità; il buono o il cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa" RN 18;

"i fortunati del secolo sono dunque avvertiti che la ricchezza non libera dal dolore e che essa per la felicità avvenire, anziché giovare, può nuocere" RN 18.

Vale la pena di leggere per intero alcuni brani che ci aiutano a cogliere la concretezza della preoccupazione e delle indicazioni del Papa.

RN 1 (Introduzione)

L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo.

Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla Questione operaia Trattammo già questa materia, come ce ne venne l’occasione più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora di proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli.

RN 15 la lotta di classe non è una ovvia conseguenza delle differenze di classe

Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. Invece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.

RN 33 il riposo

Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che si sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non è ragionevole che si imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e dell’altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio e a se stesso.

RN 34 il giusto salario

Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato.

A questo ragionamento un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: "Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte" (Gn 3,19). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura.

Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità delle mercedi; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di lavoro, le cautele da prendere per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio.

Sono solo alcuni esempi. Ciò che ci preme, riportandoci ai nostri tempi, è la stessa preoccupazione di Leone XIII:

qual è la situazione dell’uomo contemporaneo?

 

2. La situazione dell’uomo contemporaneo: il 1979.

È preoccupazione costante del magistero di Giovanni Paolo II non solo rispondere alla domanda se "l’uomo in quanto uomo si sviluppa e progredisce oppure regredisce e degrada nella sua umanità" (RH 15), ma soprattutto indicare i termini del regresso e del progresso e la via per camminare.

Ciò che il Papa sviluppa nelle encicliche di questi anni (in particolare nella Sollicitudo rei socialis e nella Centesimus Annus) è già contenuto nei capitoli centrali della Redemptor Hominis, capitoli intensi, luminosi e chiarissimi scritti nel 1979!

RH 15

Conservando quindi viva nella memoria l’immagine che in modo così perspicace e autorevole ha tracciato il Concilio Vaticano II, cercheremo ancora una volta di adattare questo quadro ai "segni dei tempi", nonché alle esigenze della situazione, che continuamente cambia ed evolve in determinate direzioni. L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di "alienazione" nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti o possono esser diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga ed universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire. Deve nascere, quindi, un interrogativo: per quale ragione questo potere, dato sin dall’inizio all’uomo, potere per il quale egli doveva dominare la terra, si rivolge contro lui stesso, provocando un comprensibile stato d’inquietudine, di cosciente o incosciente paura, di minaccia, che in vari modi si comunica a tutta la famiglia umana contemporanea e si manifesta sotto vari aspetti? Questo stato di minaccia per l’uomo, da parte dei suoi prodotti, ha varie direzioni e vari gradi di intensità. Sembra che siamo sempre più consapevoli del fatto che lo sfruttamento della terra, del pianeta su cui viviamo, esiga una razionale ed onesta pianificazione. Nello stesso tempo, tale sfruttamento per scopi non soltanto industriali, ma anche militari, lo sviluppo della tecnica non controllato né inquadrato in un piano a raggio universale ed autenticamente umanistico, portano spesso con sé la minaccia all’ambiente naturale dell’uomo, lo alienano nei suoi rapporti con la natura, lo distolgono da essa. L’uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo. Invece, era volontà del Creatore che l’uomo comunicasse con la natura come "padrone" e "custode" intelligente e nobile, e non come "sfruttatore" e "distruttore" senza alcun riguardo. Lo sviluppo della tecnica e lo sviluppo della civiltà del nostro tempo, che è contrassegnato dal dominio della tecnica stessa, esigono un proporzionale sviluppo della vita morale e dell’etica. Intanto quest’ultimo sembra, purtroppo, rimanere sempre arretrato. Perciò, quel progresso, peraltro tanto meraviglioso, in cui è difficile non scorgere anche autentici segni della grandezza dell’uomo i quali, nei loro germi creativi, ci sono rivelati nelle pagine del Libro della Gn già nella descrizione della sua creazione, non può non generare molteplici inquietudini. La prima inquietudine riguarda la questione essenziale e fondamentale: questo progresso, il cui autore e fautore è l’uomo rende la vita umana sulla terra, in ogni suo aspetto, più umana"? La rende più "degna dell’uomo"? Non ci può esser dubbio che, sotto vari aspetti, la renda tale. Quest’interrogativo, però, ritorna ostinatamente per quanto riguarda ciò che è essenziale in sommo grado: se l’uomo, come uomo, nel contesto di questo progresso, diventi veramente migliore, cioè più maturo spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e più deboli, più disponibile a dare e portare aiuto a tutti. Questa è la domanda che i cristiani debbono porsi proprio perché Gesù Cristo li ha così universalmente sensibilizzati intorno al problema dell’uomo. E la stessa domanda debbono anche porsi tutti gli uomini, specialmente coloro che appartengono a quegli ambienti sociali, che si dedicano attivamente allo sviluppo ed al progresso nei nostri tempi. Osservando questi processi ed avendo parte in essi, non possiamo lasciarci prendere dall’euforia né possiamo lasciarci trasportare da un unilaterale entusiasmo per le nostre conquiste, ma tutti dobbiamo porci, con assoluta lealtà, con obiettività e con senso di responsabilità morale, le domande essenziali che riguardano la situazione dell’uomo, oggi e nel futuro. Tutte le conquiste, finora raggiunte, e quelle progettate dalla tecnica per il futuro, vanno d’accordo col progresso morale e spirituale dell’uomo? In questo contesto l’uomo, in quanto uomo si sviluppa e progredisce, oppure regredisce e si degrada nella sua umanità? Prevale negli uomini, "nel mondo dell’uomo"—che in se stesso è un mondo di bene e di male morale—il bene sul male? Crescono davvero negli uomini, fra gli uomini, l’amore sociale, il rispetto dei diritti altrui—per ogni uomo, nazione, popolo—o, al contrario, crescono gli egoismi di varie dimensioni, i nazionalismi esagerati, al posto dell’autentico amore di patria, ed anche la tendenza a dominare gli altri al di là dei propri legittimi diritti e meriti, e la tendenza a sfruttare tutto il processo materiale e tecnico-produttivo esclusivamente allo scopo di dominare sugli altri o in favore di tale o talaltro imperialismo? Ecco gli interrogativi essenziali, che la Chiesa non può non porsi, perché in modo più o meno esplicito se li pongono miliardi di uomini che vivono oggi nel mondo. Il tema dello sviluppo e del progresso è sulla bocca di tutti ed appare sulle colonne di tutti i giornali e pubblicazioni, in quasi tutte le lingue del mondo contemporaneo. Non dimentichiamo, però, che questo tema non contiene soltanto affermazioni e certezze, ma anche domande e angosciose inquietudini. Queste ultime non sono meno importanti delle prime. Esse rispondono alla natura della conoscenza umana, ed ancor più rispondono al bisogno fondamentale della sollecitudine dell’uomo per l’uomo, per la stessa sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra. La Chiesa, che è animata dalla fede escatologica, considera questa sollecitudine per l’uomo, per la sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra e, quindi, anche per l’orientamento di tutto lo sviluppo e del progresso, come un elemento essenziale della sua missione, indissolubilmente congiunto con essa. Ed il principio di questa sollecitudine essa lo trova in Gesù Cristo stesso, come testimoniano i Vangeli. Ed è per questo che desidera accrescerla continuamente in Lui, rileggendo la situazione dell’uomo nel mondo contemporaneo, secondo i più importanti segni del nostro tempo.

RH 16

Se, dunque, il nostro tempo, il tempo della nostra generazione, il tempo che si sta avvicinando alla fine del secondo Millennio della nostra era cristiana, si rivela a noi come tempo di grande progresso, esso appare, altresì, come tempo di multiforme minaccia per l’uomo, della quale la Chiesa deve parlare a tutti gli uomini di buona volontà, ed intorno alla quale deve sempre dialogare con loro. La situazione dell’uomo nel mondo contemporaneo, infatti, sembra lontana dalle esigenze oggettive dell’ordine morale, come dalle esigenze della giustizia e, ancora più, dell’amore sociale. Non si tratta qui che di ciò che ha trovato la sua espressione nel primo messaggio del Creatore, rivolto all’uomo nel momento in cui gli dava la terra, perché la "soggiogasse". Questo primo messaggio è stato riconfermato, nel mistero della redenzione, da Cristo Signore. Ciò è espresso dal Concilio Vaticano II in quei bellissimi capitoli del suo insegnamento che riguardano la "regalità" dell’uomo, cioè la sua vocazione a partecipare all’ufficio regale—il munus regale—di Cristo stesso. Il senso essenziale di questa "regalità" e di questo "dominio" dell’uomo sul mondo visibile, a lui assegnato come compito dallo stesso Creatore, consiste nella priorità dell’etica sulla tecnica, nel primato della persona sulle cose, nella superiorità dello spirito sulla materia. È per questo che bisogna seguire attentamente tutte le fasi del progresso odierno: bisogna, per così dire, fare la radiografia delle sue singole tappe proprio da questo punto di vista. Si tratta dello sviluppo delle persone e non soltanto della moltiplicazione delle cose, delle quali le persone possono servirsi. Si tratta—come ha detto un filosofo contemporaneo e come ha affermato il Concilio—non tanto di "avere di più", quanto di "essere di più"—. Infatti, esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale. L’uomo non può rinunciare a se stesso, né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico condanna l’uomo a tale schiavitù, pur se tal volta, indubbiamente, ciò avvenga contro le intenzioni e le premesse stesse dei suoi pionieri. Alle radici dell’attuale sollecitudine per l’uomo sta senz’altro questo problema. Non si tratta qui soltanto di dare una risposta astratta alla domanda: chi è l’uomo; ma si tratta di tutto il dinamismo della vita e della civiltà. Si tratta del senso delle varie iniziative della vita quotidiana e, nello stesso tempo, delle premesse per numerosi programmi di civilizzazione, programmi politici, economici, sociali, statali e molti altri. Se osiamo definire la situazione dell’uomo nel mondo contemporaneo come lontana dalle esigenze oggettive dell’ordine morale, lontana dalle esigenze della giustizia e, ancor più, dall’amore sociale, è perché ciò viene confermato dai ben noti fatti e dai raffronti, che più volte hanno già avuto diretta risonanza sulle pagine delle enunciazioni pontificie, conciliari, sinodali. La situazione dell’uomo nella nostra epoca non è certamente uniforme, ma differenziata in modo molteplice. Queste differenze hanno le loro cause storiche, ma hanno anche una loro forte risonanza etica. È, infatti, ben noto il quadro della civiltà consumistica, che consiste in un certo eccesso dei beni necessari all’uomo, alle società intere—e qui si tratta proprio delle società ricche e molto sviluppate—, mentre le rimanenti società, almeno larghi strati di esse, soffrono la fame, e molte persone muoiono ogni giorno di denutrizione e di inedia. Di pari passo va per gli uni un certo abuso della libertà, che è legato proprio ad un atteggiamento consumistico non controllato dall’etica, ed esso limita contemporaneamente la libertà degli altri, cioè di coloro che soffrono rilevanti deficienze e vengono spinti verso condizioni di ulteriore miseria ed indigenza. Questo raffronto, universalmente noto, e il contrasto al quale si sono richiamati, nei documenti del loro magistero, i Pontefici del nostro secolo, più recentemente Giovanni XXIII come anche Paolo VI, rappresentano come il gigantesco sviluppo della parabola biblica del ricco epulone e del povero Lazzaro. L’ampiezza del fenomeno chiama in causa le strutture e i meccanismi finanziari monetari, produttivi e commerciali, che, poggiando su diverse pressioni politiche, reggono l’economia mondiale: essi si rivelano quasi incapaci sia di riassorbire le ingiuste situazioni sociali, ereditate dal passato, sia di far fronte alle urgenti sfide ed alle esigenze etiche del presente. Sottoponendo l’uomo alle tensioni da lui stesso create, dilapidando ad un ritmo accelerato le risorse materiali ed energetiche, compromettendo l’ambiente geofisico, queste strutture fanno estendere incessantemente le zone di miseria e, con questa, l’angoscia, la frustrazione e l’amarezza. Ci troviamo qui dinanzi ad un grande dramma, che non può lasciare nessuno indifferente. Il soggetto che, da una parte, cerca di trarre il massimo profitto e quello che, dall’altra parte, paga il tributo dei danni e delle ingiurie, è sempre l’uomo. Il dramma viene ancor più esasperato dalla vicinanza con gli strati sociali privilegiati e con i paesi dell’opulenza, che accumulano i beni in grado eccessivo, e la cui ricchezza diventa, molto spesso per abuso, causa di diversi malesseri. Si aggiungano, la febbre dell’inflazione e la piaga della disoccupazione: ecco altri sintomi di questo disordine morale, che si fa notare nella situazione mondiale e che richiede, pertanto, risoluzioni audaci e creative, conformi all’autentica dignità dell’uomo. Un tal compito non è impossibile da realizzare. Il principio di solidarietà, in senso largo, deve ispirare la ricerca efficace di istituzioni e di meccanismi appropriati: si tratti del settore degli scambi, dove bisogna lasciarsi guidare dalle leggi di una sana competizione, e si tratti anche del piano di una più ampia e più immediata ridistribuzione delle ricchezze e dei controlli su di esse, affinché i popoli che sono in via di sviluppo economico possano non soltanto appagare le loro esigenze essenziali, ma anche progredire gradualmente ed efficacemente. Su questa difficile strada, sulla strada dell’indispensabile trasformazione delle strutture della vita economica non sarà facile avanzare se non interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del cuore. Il compito richiede l’impegno risoluto di uomini e di popoli liberi e solidali. Troppo spesso si confonde la libertà con l’istinto dell’interesse individuale o collettivo o ancora, con l’istinto di lotta e di dominio, qualunque siano i colori ideologici con cui essi son dipinti. È ovvio che tali istinti esistono ed operano, ma non sarà possibile alcuna economia veramente umana, se essi non vengono assunti, orientati e dominati dalle forze più profonde, che si trovano nell’uomo e che decidono della vera cultura dei popoli. Proprio da queste sorgenti deve nascere lo sforzo, in cui si esprimerà la vera libertà dell’uomo, e che sarà capace di assicurarla anche in campo economico. Lo sviluppo economico, con tutto ciò che fa parte del suo adeguato modo di funzionare, deve essere costantemente programmato e realizzato all’interno di una prospettiva di sviluppo universale e solidale dei singoli uomini e dei popoli, come ricordava in modo convincente il mio Predecessore Paolo VI nella Populorum Progressio. Senza di ciò, la sola categoria del "progresso economico" diventa una categoria superiore che subordina l’insieme dell’esistenza umana alle sue esigenze parziali, soffoca l’uomo, disgrega le società e finisce per avvilupparsi nelle proprie tensioni e negli stessi suoi eccessi. È possibile assumere questo dovere: lo testimoniano i fatti certi ed i risultati, che è difficile qui enumerare analiticamente. Una cosa, però, è certa: alla base di questo gigantesco campo bisogna stabilire, accettare ed approfondire il senso della responsabilità morale, che l’uomo deve far suo. Ancora e sempre: l’uomo. Per noi cristiani una tale responsabilità diventa particolarmente evidente, quando ricordiamo—e dobbiamo sempre ricordare—la scena del giudizio finale, secondo le parole di Cristo riportate nel Vangelo di Matteo. Questa scena escatologica dev’esser sempre "applicata" alla storia dell’uomo, dev’esser sempre fatta "metro" degli atti umani, come uno schema essenziale di un esame di coscienza per ciascuno e per tutti: "Ho avuto fame, e non mi avete dato da mangiare…; ero nudo, e non mi avete vestito…; ero in carcere, e non mi avete visitato". Queste parole acquistano una maggiore carica ammonitrice, se pensiamo che, invece del pane e dell’aiuto culturale ai nuovi stati e nazioni che si stanno destando alla vita indipendente, vengono offerti, talvolta in abbondanza, armi moderne e mezzi di distruzione, posti a servizio di conflitti armati e di guerre, che non sono tanto un’esigenza della difesa dei loro giusti diritti e della loro sovranità, quanto piuttosto una forma di sciovinismo, di imperialismo, di neocolonialismo di vario genere. Tutti sappiamo bene che le zone di miseria o di fame, che esistono sul nostro globo, avrebbero potuto essere "fertilizzate" in breve tempo, se i giganteschi investimenti per gli armamenti, che servono alla guerra e alla distruzione, fossero stati invece cambiati in investimenti per il nutrimento, che servono alla vita. Forse questa considerazione rimarrà parzialmente "astratta"; forse offrirà l’occasione all’una e all’altra "parte" per accusarsi reciprocamente, dimenticando ognuna le proprie colpe. Forse provocherà anche nuove accuse contro la Chiesa. Questa, però, non disponendo di altre armi che di quelle dello spirito, della parola e dell’amore, non può rinunciare ad annunziare "la parola… in ogni occasione opportuna e non opportuna". Per questo, non cessa di pregare ciascuna delle due parti, e di chiedere a tutti nel nome di Dio e nel nome dell’uomo: Non uccidete! Non preparate agli uomini distruzioni e sterminio! Pensate ai vostri fratelli che soffrono fame e miseria! Rispettate la dignità e la libertà di ciascuno!

 

3. A cento anni dalla Rerum Novarum: il 1991.

Da ciò che abbiamo potuto leggere nella prima enciclica di Giovanni Paolo II non si può dire che il Papa affronti la situazione dell’uomo contemporaneo in "occasione" del centenario della Rerum Novarum: dobbiamo dire che egli usa anche di questa occasione per continuare ad approfondire una preoccupazione costante di tutto il suo magistero.

Così Giovanni Paolo II con la Centesimus Annus non "commemora" un documento del passato, ma instancabilmente ripropone il magistero della Chiesa (ed in particolare il suo) come punto di riferimento di un "grande movimento per la difesa della persona umana".

CA 3

a) Invito alla lettura delle "cose nuove" di oggi.

Intendo ora proporre una "rilettura" dell’Enciclica leoniana, invitando a "guardare indietro", al suo testo stesso per scoprire nuovamente la ricchezza dei principi fondamentali, in essa formulati, per la soluzione della questione operaia. Ma invito anche a "guardare intorno", alle "cose nuove", che ci circondano ed in cui ci troviamo, per così dire, immersi, ben diverse dalle "cose nuove" che contraddistinsero l’ultimo decennio del secolo passato. Invito, infine, a "guardare al futuro", quando già s’intravede il terzo Millennio dell’era cristiana, carico di incognite, ma anche di promesse. Incognite e promesse che fanno appello alla nostra immaginazione e creatività, stimolando anche la nostra responsabilità, quali discepoli dell’"unico maestro", Cristo (cfr. Mt 23 8), nell’indicare la via, nel proclamare la verità e nel comunicare la vita che è lui (cfr. Gv 14, 6).

b) La tradizione della Chiesa: un grande tesoro vivo e vitale anche oggi.

Così facendo, sarà confermato non solo il permanente valore di tale insegnamento, ma si manifesterà anche il vero senso della Tradizione della Chiesa, la quale, sempre viva e vitale, costruisce sopra il fondamento posto dai nostri padri nella fede e, segnatamente, sopra quel che gli Apostoli trasmisero alla Chiesa in nome di Gesù Cristo, il fondamento "che nessuno può sostituire" (cfr. 1 Cor 3, 11). Fu per la coscienza della sua missione di successore di Pietro che Leone XIII si propose di parlare, e la stessa coscienza anima oggi il suo successore. Come lui, e come i Pontefici prima e dopo di lui, mi ispiro all’immagine evangelica dello "scriba divenuto discepolo del Regno dei cieli", del quale il Signore dice che "è simile ad un padrone di casa, che dal suo tesoro sa trarre cose nuove e cose antiche" (Mt 13, 52). Il tesoro è la grande corrente della Tradizione della Chiesa, che contiene le "cose antiche", ricevute e trasmesse da sempre, e permette di leggere le "cose nuove", in mezzo alle quali trascorre la vita della Chiesa e del mondo. Di tali cose che incorporandosi alla Tradizione, diventano antiche ed offrono occasioni e materiale per il suo arricchimento e per l’arricchimento della vita di fede fa parte anche l’operosità feconda di milioni e milioni di uomini, che, stimolati dal Magistero sociale, si sono sforzati di ispirarsi ad esso in ordine al proprio impegno nel mondo. Agendo individualmente o variamente coordinati in gruppi, associazioni ed organizzazioni, essi hanno costituito come un grande movimento per la difesa della persona umana e la tutela della sua dignità, il che nelle alterne vicende della storia ha contribuito a costruire una società più giusta o, almeno, a porre argini e limiti all’ingiustizia.

c) Analisi di alcuni avvenimenti della storia recente.

La presente Enciclica mira a mettere in evidenza la fecondità dei principi espressi da Leone XIII, i quali appartengono al patrimonio dottrinale della Chiesa e, per tale titolo, impegnano l’autorità del suo Magistero. Ma la sollecitudine pastorale mi ha spinto, altresì, a proporre l’analisi di alcuni avvenimenti della storia recente. È superfluo rilevare che il considerare attentamente il corso degli avvenimenti per discernere le nuove esigenze dell’evangelizzazione fa parte del compito dei Pastori. Tale esame, tuttavia, non intende dare giudizi definitivi, in quanto di per sé non rientra nell’ambito specifico del Magistero.

 

4. Sintesi: la dignità di "persona".

Giovanni Paolo II distingue tra i "principi" e l’analisi di alcuni momenti della storia recente. I "principi" fanno parte di quel patrimonio "certo" (o infallibile) tipico di alcuni pronunciamenti del magistero della Chiesa. La situazione dell’uomo ed in particolare il suo valore, la sua dignità, fanno parte di tali principi fondamentali.

CA 11

…occorre tener presente fin d’ora che ciò che fa da trama e, in certo modo, da guida all’Enciclica ed a tutta la dottrina sociale della Chiesa, è la corretta concezione della persona umana e del suo valore unico, in quanto "l’uomo… in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa". In lui ha scolpito la sua immagine e somiglianza (cfr. Gn 1, 26), conferendogli una dignità incomparabile, sulla quale più volte insiste l’Enciclica. In effetti, al di là dei diritti che l’uomo acquista col proprio lavoro, esistono diritti che non sono il corrispettivo di nessuna opera da lui prestata, ma che derivano dall’essenziale sua dignità di persona.

L’analisi degli avvenimenti della storia è certamente meno soggetta a giudizi definitivi: tuttavia il parallelo tra quanto Giovanni Paolo II prevede nella Redemptor Hominis (1979) e l’analisi della storia recente, i fatti di cui siamo spettatori e protagonisti, depongono fortemente a favore di un particolare dono di "acutezza" del giudizio del Pontefice anche in un campo dove non si può certo parlare di infallibilità.

 

 

 

 

B. LA STORIA

 

1. Gli "errori" e la morte (1900-1950)

Anche Leone XIII brillò per acutezza di analisi eppure non fu ascoltato o per lo meno non del tutto.

CA 16

Le riforme in parte furono realizzate dagli Stati ma nella lotta per ottenerle ebbe un ruolo importante l’azione del Movimento operaio. Nato come reazione della coscienza morale contro situazioni di ingiustizia e di danno, esso esplicò una vasta attività sindacale, riformista, lontana dalle nebbie dell’ideologia e più vicina ai bisogni quotidiani dei lavoratori e, in questo ambito, i suoi sforzi si sommarono spesso a quelli dei cristiani per ottenere il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. In seguito, tale movimento fu, in certa misura, dominato proprio da quella ideologia marxista, contro la quale si volgeva la Rerum Novarum. Le stesse riforme furono anche il risultato di un libero processo di auto-organizzazione della società, con la messa a punto di strumenti efficaci di solidarietà, atti a sostenere una crescita economica più rispettosa dei valori della persona. È da ricordare qui la multiforme attività con un notevole contributo dei cristiani nella fondazione di cooperative di produzione, di consumo e di credito nel promuovere l’istruzione popolare e la formazione professionale, nella sperimentazione di varie forme di partecipazione alla vita dell’impresa e, in generale, della società. Se dunque, guardando al passato, c’è motivo di ringraziare Dio perché la grande Enciclica non è rimasta priva di risonanza nei cuori ed ha spinto ad una fattiva generosità, tuttavia bisogna riconoscere che l’annuncio profetico, in essa contenuto, non è stato compiutamente accolto dagli uomini di quel tempo, e proprio da ciò sono derivate assai gravi sciagure.

Perché Leone XIII non fu ascoltato? Per un "errore" molto semplice da parte di noi ascoltatori: ci dimentichiamo che la libertà umana si può ammalare. E la malattia della libertà (come ogni malattia) impedisce di svolgere fino in fondo i propri compiti. Così la libertà ammalata (per esempio di amore di sé fino al disprezzo di tutto il resto e di tutti gli altri—egoismo cieco—) diventa incapace di fare l’unica "cosa" a cui serve: cercare e prediligere la verità.

CA 17

Leggendo l’Enciclica in connessione con tutto il ricco Magistero leoniano, si nota come essa indichi, in fondo, le conseguenze sul terreno economico-sociale di un errore di più vasta portata. L’errore—come si è detto—consiste in una concezione della libertà umana che la sottrae all’obbedienza alla verità e, quindi, anche al dovere di rispettare i diritti degli altri uomini. Contenuto della libertà diventa allora l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e del prossimo, amore che conduce all’affermazione illimitata del proprio interesse e non si lascia limitare da alcun obbligo di giustizia.

Conseguenza di questa malattia è semplicemente la morte.

CA 17-19

Proprio questo errore giunse alle estreme conseguenze nel tragico ciclo delle guerre che sconvolsero l’Europa ed il mondo tra il 1914 e il 1945. Furono guerre derivanti dal militarismo e dal nazionalismo esasperato e dalle forme di totalitarismo, ad essi collegate, e guerre derivanti dalla lotta di classe, guerre civili ed ideologiche. Senza la terribile carica di odio e di rancore, accumulata a causa delle tante ingiustizie sia a livello internazionale che a quello interno ai singoli Stati, non sarebbero state possibili guerre di tale ferocia, in cui furono investite le energie di grandi Nazioni, in cui non si esitò davanti alla violazione dei diritti umani più sacri, e fu pianificato ed eseguito lo sterminio di interi popoli e gruppi sociali. Ricordiamo qui, in particolare, il popolo ebreo, il cui terribile destino e divenuto simbolo dell’aberrazione cui può giungere l’uomo, quando si volge contro Dio. Tuttavia, l’odio e l’ingiustizia si impossessano di intere Nazioni e le spingono all’azione solo quando vengono legittimati ed organizzati da ideologie che si fondano su di essi piuttosto che sulla verità dell’uomo. La Rerum Novarum combatteva le ideologie dell’odio ed indicava le vie per distruggere la violenza ed il rancore mediante la giustizia. Possa il ricordo di quei terribili avvenimenti guidare le azioni di tutti gli uomini e, in particolare, dei reggitori dei popoli nel nostro tempo, in cui altre ingiustizie alimentano nuovi odi e si delineano all’orizzonte nuove ideologie che esaltano la violenza.

 

a) Una lucida esposizione della difficile situazione derivante dai due blocchi che per oltre 40 anni si sono fiancheggiati.

Certo, dal 1945 le armi tacciono nel Continente europeo; tuttavia, la vera pace—si ricordi—non è mai il risultato della vittoria militare, ma implica il superamento delle cause della guerra e l’autentica riconciliazione tra i popoli. Per molti anni, invece, si è avuta in Europa e nel mondo una situazione di non-guerra più che di autentica pace. Metà del Continente è caduta sotto il dominio della dittatura comunista, mentre l’altra metà si organizzava per difendersi contro un tale pericolo. Molti popoli perdono il potere di disporre di se stessi, vengono chiusi nei confini soffocanti di un impero, mentre si cerca di distruggere la loro memoria storica e la secolare radice della loro cultura. Masse enormi di uomini, in conseguenza di questa divisione violenta, sono costrette ad abbandonare la loro terra e forzatamente deportate.

b) Condanna della corsa agli armamenti e della logica dei blocchi.

Una folle corsa agli armamenti assorbe le risorse necessarie per lo sviluppo delle economie interne e per l’aiuto alle Nazioni più sfavorite. Il progresso scientifico e tecnologico, che dovrebbe contribuire al benessere dell’uomo, viene trasformato in uno strumento di guerra: scienza e tecnica sono usate per produrre armi sempre più perfezionate e distruttive, mentre ad un’ideologia, che è perversione dell’autentica filosofia, si chiede di fornire giustificazioni dottrinali per la nuova guerra. E questa non è solo attesa e preparata, ma è anche combattuta con enorme spargimento di sangue in varie parti del mondo. La logica dei blocchi o imperi, denunciata nei Documenti della Chiesa e di recente nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis, fa sì che le controversie e discordie insorgenti nei Paesi del Terzo Mondo siano sistematicamente incrementate e sfruttate per creare difficoltà all’avversario.

c) La precarietà della pace dopo la seconda guerra mondiale e la minaccia di una guerra atomica.

I gruppi estremisti, che cercano di risolvere tali controversie con le armi, trovano facilmente appoggi politici e militari, sono armati ed addestrati alla guerra, mentre coloro che si sforzano di trovare soluzioni pacifiche ed umane, nel rispetto dei legittimi interessi di tutte le parti, rimangono isolati e spesso cadono vittima dei loro avversari. Anche la militarizzazione di tanti Paesi del Terzo Mondo e le lotte fratricide che li hanno travagliati, la diffusione del terrorismo e di mezzi sempre più barbari di lotta politico-militare trovano una delle loro principali cause nella precarietà della pace che è seguita alla seconda guerra mondiale. Su tutto il mondo, infine, grava la minaccia di una guerra atomica, capace di condurre all’estinzione dell’umanità. La scienza, usata a fini militari, pone a disposizione dell’odio, incrementato dalle ideologie, lo strumento decisivo. Ma la guerra può terminare senza vincitori né vinti in un suicidio dell’umanità, ed allora bisogna ripudiare la logica che conduce ad essa, l’idea che la lotta per la distruzione dell’avversario, la contraddizione e la guerra stessa siano fattori di progresso e di avanzamento della storia. Quando si comprende la necessità di questo ripudio, devono necessariamente entrare in crisi sia la logica della "guerra totale" sia quella della "lotta di classe".

Le condizioni dellumanità dopo la seconda guerra mondiale. Conseguenze dellestendersi del totalitarismo comunista.

Alla fine della seconda guerra mondiale però, un tale sviluppo è ancora in formazione nelle coscienze, ed il dato che si impone all’attenzione è l’estensione del totalitarismo comunista su oltre metà dell’Europa e su parte del mondo. La guerra che avrebbe dovuto restituire la libertà e restaurare il diritto delle genti, si conclude senza aver conseguito questi fini, anzi in un modo che per molti popoli, specialmente per quelli che più avevano sofferto, apertamente li contraddice. Si può dire che la situazione venutasi a creare ha dato luogo a diverse risposte.

 

2. Il "progresso".

Il dopoguerra e gli anni ’50 videro anche la fine del "colonialismo" e l’emergere del problema dei "popoli della fame" chiamati da allora III mondo.

Nel 1967 Paolo VI riproporrà i temi della Rerum Novarum nel nuovo contesto in particolare in riferimento allo "sviluppo dei popoli".

Paolo VI pone decisamente il problema del contenuto umano, e non semplicemente economico, della parola progresso.

L’uomo progredisce semplicemente perché può possedere un maggior numero di beni?

Nel 1987 Giovanni Paolo II (riprendendo nella Sollicitudo rei socialis i temi trattati da Paolo VI), dava un giudizio impressionante sul cosiddetto "progresso": in venti anni non era scomparso il III mondo ma era nato il IV.

SRS 11-16

Diversità del contesto sociale rispetto allepoca della "Populorum Progressio".

L’insegnamento fondamentale dell’Enciclica Populorum Progressio ebbe a suo tempo grande risonanza per il suo carattere di novità. Il contesto sociale, nel quale viviamo oggi, non si può dire del tutto identico a quello di venti anni fa. E perciò vorrei ora soffermarmi, con una breve esposizione, su alcune caratteristiche del mondo odierno al fine di approfondire l’insegnamento dell’Enciclica di Paolo VI, sempre sotto il punto di vista dello "sviluppo dei popoli".

Le speranze di sviluppo, vive venti anni or sono,

appaiono ancora ben lontane dalla realizzazione.

Il primo fatto da rilevare è che le speranze di sviluppo, allora così vive, appaiono oggi molto lontane dalla realizzazione. In proposito, l’Enciclica non si faceva illusioni. Il suo linguaggio grave, a volte drammatico, si limitava a sottolineare la pesantezza della situazione ed a proporre alla coscienza di tutti l’obbligo urgente di contribuire a risolverla. In quegli anni era diffuso un certo ottimismo circa la possibilità di colmare, senza sforzi eccessivi, il ritardo economico dei popoli poveri, di dotarli di infrastrutture ed assisterli nel processo di industrializzazione. In quel contesto storico, al di là degli sforzi di ogni Paese, l’Organizzazione delle Nazioni Unite promosse consecutivamente due decenni di sviluppo. Furono prese, infatti, alcune misure, bilaterali e multilaterali, per venire in aiuto a molte Nazioni, alcune indipendenti da tempo, altre—per la maggior parte—nate appena come Stati dal processo di decolonizzazione. Da parte sua, la Chiesa sentì il dovere di approfondire i problemi posti dalla nuova situazione, pensando di sostenere con la sua ispirazione religiosa ed umana questi sforzi, per dar loro un’"anima" ed un impulso efficace.

Lintollerabile miseria di una moltitudine di uomini offre

unimpressione negativa della situazione del mondo.

Non si può dire che queste diverse iniziative religiose, umane, economiche e tecniche siano state vane, dato che hanno potuto raggiungere alcuni risultati. Ma in linea generale, tenendo conto dei diversi fattori, non si può negare che la presente situazione del mondo, sotto questo profilo dello sviluppo, offra un’impressione piuttosto negativa. Per questo desidero richiamare l’attenzione su alcuni indici generici, senza escluderne altri specifici. Tralasciando l’analisi di cifre o statistiche, è sufficiente guardare la realtà di una moltitudine innumerevole di uomini e donne, bambini, adulti e anziani, vale a dire di concrete ed irripetibili persone umane, che soffrono sotto il peso intollerabile della miseria. Sono molti milioni coloro che son privi di speranza per il fatto che, in molte parti della terra, la loro situazione si è sensibilmente aggravata. Di fronte a questi drammi di totale indigenza e bisogno, in cui vivono tanti nostri fratelli e sorelle, è lo stesso Signore Gesù che viene a interpellarci (cfr. Mt 25, 31-46).

Prima constatazione negativa: persistenza ed allargamento del fossato

tra il Nord ed il Sud del mondo.

a) Diversità di accelerazione, differenti culture e sistemi di valore tra i Paesi sviluppati ed il resto del mondo.

La prima constatazione negativa da fare è la persistenza, e spesso l’allargamento, del fossato tra l’area del cosiddetto Nord sviluppato e quella del Sud in via di sviluppo. Questa terminologia geografica è soltanto indicativa, perché non si può ignorare che le frontiere della ricchezza e della povertà attraversano al loro interno le stesse società sia sviluppate che in via di sviluppo. Difatti, come esistono diseguaglianze sociali fino a livelli di miseria nei Paesi ricchi, così, parallelamente, nei Paesi meno sviluppati si vedono non di rado manifestazioni di egoismo e ostentazioni di ricchezza, tanto sconcertanti quanto scandalose. All’abbondanza di beni e di servizi disponibili in alcune parti del mondo, soprattutto nel Nord sviluppato, corrisponde nel Sud un inammissibile ritardo, ed è proprio in questa fascia geo-politica che vive la maggior parte del genere umano. A guardare la gamma dei vari settori—produzione e distribuzione dei viveri, igiene, salute e abitazione, disponibilità di acqua potabile, condizioni di lavoro, specie femminile, durata della vita ed altri indici economici e sociali—, il quadro generale risulta deludente, a considerarlo sia in se stesso sia in relazione ai dati corrispondenti dei Paesi più sviluppati. La parola "fossato" ritorna spontanea sulle labbra. Forse non è questo il vocabolo appropriato per indicare la vera realtà, in quanto può dare l’impressione di un fenomeno stazionario. Non è così. Nel cammino dei Paesi sviluppati e in via di sviluppo si è verificata in questi anni una diversa velocità di accelerazione, che porta ad allargare le distanze. Così, i Paesi in via di sviluppo, specie i più poveri, vengono a trovarsi in una situazione di gravissimo ritardo. Occorre aggiungere ancora le differenze di cultura e dei sistemi di valori tra i vari gruppi di popolazione, che non sempre coincidono col grado di sviluppo economico, ma che contribuiscono a creare distanze. Sono questi gli elementi e gli aspetti che rendono molto più complessa la questione sociale, appunto perché ha assunto dimensione universale.

b) Parlare di Primo, Secondo, Terzo ed anche Quarto Mondo è una fraseologia che contrasta moralmente con il concetto dellunità del genere umano.

Osservando le varie parti del mondo separate dalla crescente distanza di un tale fossato, notando come ognuna di esse sembra seguire una propria rotta con proprie realizzazioni, si comprende perché nel linguaggio corrente si parli di mondi diversi all’interno del nostro unico mondo: Primo Mondo, Secondo Mondo, Terzo Mondo, e talvolta Quarto Mondo. Simili espressioni, che non pretendono certo di classificare in modo esauriente tutti i Paesi, appaiono significative: esse sono il segno della diffusa sensazione che l’unità del mondo, in altri termini l’unità del genere umano sia seriamente compromessa. Tale fraseologia, al di là del suo valore più o meno obiettivo, nasconde senza dubbio un contenuto morale, di fronte al quale la Chiesa, che è "sacramento o segno e strumento […] dell’unità di tutto il genere umano", non può rimanere indifferente.

Esistono altri indici negativi del sottosviluppo, oltre a quelli economici e sociali.

a) Mancanza distruzione, sfruttamento economico, discriminazioni razziali e di altri tipi.

Il quadro precedentemente tracciato sarebbe, però, incompleto, se agli "indici economici e sociali" del sottosviluppo non si aggiungessero altri indici egualmente negativi, anzi ancor più preoccupanti, a cominciare dal piano culturale. Essi sono: l’analfabetismo, la difficoltà o impossibilità di accedere ai livelli superiori di istruzione, l’incapacità di partecipare alla costruzione della propria Nazione, le diverse forme di sfruttamento e di oppressione economica, sociale, politica ed anche religiosa della persona umana e dei suoi diritti, le discriminazioni di ogni tipo, specialmente quella più odiosa fondata sulla differenza razziale. Se qualcuna di queste piaghe si lamenta in aree del Nord più sviluppato senza dubbio esse sono più frequenti, più durature e difficili da estirpare nei Paesi in via di sviluppo e meno avanzati.

b) Privazione del diritto di iniziativa economica e totalitarismo politico.

Occorre rilevare che nel mondo d’oggi, tra gli altri diritti, viene spesso soffocato il diritto di iniziativa economica. Eppure si tratta di un diritto importante non solo per il singolo individuo, ma anche per il bene comune. L’esperienza ci dimostra che la negazione di un tale diritto o la sua limitazione in nome di una pretesa "eguaglianza" di tutti nella società riduce o addirittura distrugge di fatto lo spirito d’iniziativa, cioè la soggettività creativa del cittadino. Di conseguenza sorge, in questo modo, non tanto una vera eguaglianza, quanto un "livellamento in basso". Al posto dell’iniziativa creativa nasce la passività, la dipendenza e la sottomissione all’apparato burocratico che, come unico organo "disponente" e "decisionale"—se non addirittura "possessore"—della totalità dei beni e mezzi di produzione, mette tutti in una posizione di dipendenza quasi assoluta, che è simile alla tradizionale dipendenza dell’operaio-proletario dal capitalismo. Ciò provoca un senso di frustrazione o disperazione e predispone al disimpegno dalla vita nazionale, spingendo molti all’emigrazione e favorendo, altresì, una forma di emigrazione "psicologica". Una tale situazione ha le sue conseguenze anche dal punto di vista dei "diritti delle singole Nazioni". Infatti, accade spesso che una Nazione viene privata della sua soggettività, cioè della "sovranità" che le compete nel significato economico ed anche politico-sociale e in certo qual modo culturale, perché in una comunità nazionale tutte queste dimensioni della vita sono collegate tra di loro. Bisogna ribadire, inoltre, che nessun gruppo sociale, per esempio un partito, ha diritto di usurpare il ruolo di guida unica perché ciò comporta la distruzione della vera soggettività della società e delle persone-cittadini, come avviene in ogni totalitarismo. In questa situazione l’uomo e il popolo diventano "oggetto", nonostante tutte le dichiarazioni in contrario e le assicurazioni verbali.

c) Debbono essere rimosse altre forme di povertà, oltre a quella economica.

A questo punto conviene aggiungere che nel mondo d’oggi ci sono molte altre forme di povertà. In effetti, certe carenze o privazioni non meritano forse questa qualifica? La negazione o la limitazione dei diritti umani—quali, ad esempio, il diritto alla libertà religiosa, il diritto di partecipare alla costruzione della società, la libertà di associarsi o di costituire sindacati o di prendere iniziative in materia economica—non impoveriscono forse la persona umana altrettanto, se non maggiormente della privazione dei beni materiali? E uno sviluppo, che non tenga conto della piena affermazione di questi diritti, è davvero sviluppo a dimensione umana? In breve, il sottosviluppo dei nostri giorni non è soltanto economico, ma anche culturale, politico e semplicemente umano, come già rilevava venti anni fa l’Enciclica Populorum Progressio. Sicché, a questo punto, occorre domandarsi se la realtà così triste di oggi non sia, almeno in parte, il risultato di una concezione troppo limitata, ossia prevalentemente economica, dello sviluppo.

Parziali successi di alcune iniziative, ma sostanziale aggravamento del sottosviluppo,

dipeso da meccanismi perversi.

È da rilevare che, nonostante i lodevoli sforzi fatti negli ultimi due decenni da parte delle Nazioni più sviluppate o in via di sviluppo e delle Organizzazioni internazionali, allo scopo di trovare una via d’uscita alla situazione o almeno di rimediare a qualcuno dei suoi sintomi, le condizioni si sono notevolmente aggravate. Le responsabilità di un simile peggioramento risalgono a cause diverse. Sono da segnalare le indubbie, gravi omissioni da parte delle stesse Nazioni in via di sviluppo e, specialmente, da parte di quanti ne detengono il potere economico e politico. Né tanto meno si può fingere di non vedere le responsabilità delle Nazioni sviluppate, che non sempre, almeno non nella debita misura, hanno sentito il dovere di portare aiuto ai Paesi separati dal mondo del benessere, al quale esse appartengono. Tuttavia, è necessario denunciare l’esistenza di meccanismi economici, finanziari e sociali, i quali, benché manovrati dalla volontà degli uomini, funzionano spesso in maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli uni e di povertà degli altri. Tali meccanismi, azionati—in modo diretto o indiretto—dai Paesi più sviluppati, favoriscono per il loro stesso funzionamento gli interessi di chi li manovra, ma finiscono per soffocare o condizionare le economie dei Paesi meno sviluppati. Sarà necessario sottoporre più avanti questi meccanismi a un’attenta analisi sotto l’aspetto etico-morale. Già la Populorum Progressio prevedeva che con tali sistemi potesse aumentare la ricchezza dei ricchi, rimanendo confermata la miseria dei poveri. Una riprova di questa previsione si è avuta con l’apparizione del cosiddetto Quarto Mondo.

 

3. Il "blocco" delle ideologie: 1950-1990.

Il nostro secolo passerà certamente alla storia come il momento storico in cui si sono assassinati centinaia di milioni di uomini, donne, bambini… in nome di pure ideologie; milioni di uomini hanno perso la dignità di persona e, vestiti da "oppositori", sono stati eliminati dal potere di turno.

SRS 20

a) Lesistenza di due blocchi politici contrapposti (Est e Ovest).

Se, a questo punto, esaminiamo le cause di tale grave ritardo nel processo dello sviluppo, verificatosi in senso opposto alle indicazioni dell’Enciclica Populorum Progressio, che aveva sollevato tante speranze, la nostra attenzione si ferma in particolare sulle cause politiche della situazione odierna. Trovandoci di fronte ad un insieme di fattori indubbiamente complessi, non è possibile giungere qui a un’analisi completa. Ma non si può passare sotto silenzio un fatto saliente del quadro politico, che caratterizza il periodo storico seguito al secondo conflitto mondiale ed è un fattore non trascurabile nell’andamento dello sviluppo dei popoli. Ci riferiamo all’esistenza di due blocchi contrapposti, designati comunemente con i nomi convenzionali di Est e Ovest, oppure di Oriente e Occidente. La ragione di questa connotazione non è puramente politica, ma anche, come si dice, geo-politica. Ciascuno dei due blocchi tende ad assimilare o ad aggregare intorno a sé, con diversi gradi di adesione o partecipazione, altri Paesi o gruppi di Paesi.

b) La contrapposizione ideologica dei due blocchi si è trasformata in contrapposizione militare.

La contrapposizione è innanzitutto politica, in quanto ogni blocco trova la propria identità in un sistema di organizzazione della società e di gestione del potere, che tende ad essere alternativo all’altro; a sua volta, la contrapposizione politica trae origine da una contrapposizione più profonda, che è di ordine ideologico.

In Occidente esiste, infatti, un sistema che storicamente si ispira ai principi del capitalismo liberista, quale si sviluppò nel secolo scorso con l’industrializzazione; in Oriente c’è un sistema ispirato al collettivismo marxista, che nacque dall’interpretazione della condizione delle classi proletarie, alla luce di una peculiare lettura della storia. Ciascuna delle due ideologie, facendo riferimento a due visioni così diverse dell’uomo, della sua libertà e del suo ruolo sociale, ha proposto e promuove, sul piano economico, forme antitetiche di organizzazione del lavoro e di strutture della proprietà, specialmente per quanto riguarda i cosiddetti mezzi di produzione.

c) La tensione tra i due blocchi è giunta alla minaccia di una "guerra aperta e totale".

Era inevitabile che la contrapposizione ideologica, sviluppando sistemi e centri antagonisti di potere, con proprie forme di propaganda e di indottrinamento, evolvesse in una crescente contrapposizione militare, dando origine a due blocchi di potenze armate, ciascuno diffidente e timoroso del prevalere dell’altro. A loro volta, le relazioni internazionali non potevano non risentire gli effetti di questa "logica dei blocchi" e delle rispettive "sfere di influenza". Nata dalla conclusione della seconda guerra mondiale, la tensione tra i due blocchi ha dominato tutto il quarantennio successivo, assumendo ora il carattere di "guerra fredda", ora di "guerre per procura" mediante la strumentalizzazione di conflitti locali, ora tenendo sospesi e angosciati gli animi con la minaccia di una guerra aperta e totale.

 

4. Il 1989

Per capire che cosa significa questo anno dobbiamo innanzitutto imparare a guardare la storia da cristiani. Il papa ci insegna al n. 26 della Centesimus Annus che non esiste il "caso", non esistono "meccanismi", ma occasioni per la nostra responsabilità. E l’occasione non va persa.

 

 

CA 26

Gli avvenimenti dell’89 si sono svolti prevalentemente nei Paesi dell’Europa orientale e centrale; tuttavia, hanno un’importanza universale, poiché ne discendono conseguenze positive e negative che interessano tutta la famiglia umana. Tali conseguenze non hanno un carattere meccanico o fatalistico, ma sono piuttosto occasioni offerte alla libertà umana per collaborare col disegno misericordioso di Dio che agisce nella storia.

Per non perdere l’occasione vogliamo allora cogliere cosa è effettivamente accaduto nel 1989: sembrava che solo un’altra guerra avrebbe potuto mutare l’ordine imposto dagli accordi di Yalta. Invece…

CA 22-23

Partendo dalla situazione mondiale ora descritta, e già ampiamente esposta nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis, si comprende l’inaspettata e promettente portata degli avvenimenti degli ultimi anni. Il loro culmine certo sono stati gli avvenimenti del 1989 nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale, ma essi abbracciano un arco di tempo ed un orizzonte geografico più ampi. Nel corso degli anni 80 crollano progressivamente in alcuni Paesi dell’America Latina, ma anche dell’Africa e dell’Asia certi regimi dittatoriali ed oppressivi; in altri casi inizia un difficile, ma fecondo cammino di transizione verso forme politiche più partecipative e più giuste. Un contributo importante, anzi decisivo, ha dato l’impegno della Chiesa per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo: in ambienti fortemente ideologizzati in cui lo schieramento di parte offuscava la consapevolezza della comune dignità umana, la Chiesa ha affermato con semplicità ed energia che ogni uomo—quali che siano le sue convinzioni personali—porta in sé l’immagine di Dio e, quindi, merita rispetto. In tale affermazione si è spesso riconosciuta la grande maggioranza del popolo, e ciò ha portato alla ricerca di forme di lotta e di soluzioni politiche più rispettose della dignità della persona.

Da questo processo storico sono emerse nuove forme di democrazia, che offrono la speranza di un cambiamento nelle fragili strutture politiche e sociali, gravate dall’ipoteca di una penosa serie di ingiustizie e di rancori, oltre che da un’economia disastrata e da pesanti conflitti sociali. Mentre con tutta la Chiesa rendo grazie a Dio per la testimonianza, spesso eroica, che non pochi Pastori, intere comunità cristiane, singoli fedeli ed altri uomini di buona volontà hanno dato in tali difficili circostanze, prego perché egli sostenga gli sforzi di tutti per costruire un futuro migliore. È, questa, infatti una responsabilità non solo dei cittadini di quei Paesi, ma di tutti i cristiani e degli uomini di buona volontà. Si tratta di mostrare che i complessi problemi di quei popoli possono essere risolti col metodo del dialogo e della solidarietà, anziché con la lotta per la distruzione dell’avversario e con la guerra.

I fattori della caduta dei regimi oppressivi.

a) La violazione dei diritti del lavoro.

Tra i numerosi fattori della caduta dei regimi oppressivi alcuni meritano di essere ricordati in particolare. Il fattore decisivo, che ha avviato i cambiamenti, è certamente la violazione dei diritti del lavoro. Non si può dimenticare che la crisi fondamentale dei sistemi, che pretendono di esprimere il governo ed anzi la dittatura degli operai, inizia con i grandi moti avvenuti in Polonia in nome della solidarietà. Sono le folle dei lavoratori a delegittimare l’ideologia, che presume di parlare in loro nome, ed a ritrovare e quasi riscoprire, partendo dall’esperienza vissuta e difficile del lavoro e dell’oppressione, espressioni e principi della dottrina sociale della Chiesa.

b) La lotta pacifica: gli strumenti usati.

Merita, poi di essere sottolineato il fatto che alla caduta di un simile "blocco" o impero, si arriva quasi dappertutto mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia. Mentre il marxismo riteneva che solo portando agli estremi le contraddizioni sociali fosse possibile arrivare alla loro soluzione mediante lo scontro violento, le lotte che hanno condotto al crollo del marxismo insistono con tenacia nel tentare tutte le vie del negoziato, del dialogo, della testimonianza della verità, facendo appello alla coscienza dell’avversario e cercando di risvegliare in lui il senso della comune dignità umana.

c) Il positivo risultato dellimpegno non violento per lordine europeo, dopo la seconda guerra mondiale.

Sembrava che l’ordine europeo, uscito dalla seconda guerra mondiale e consacrato dagli Accordi di Yalta, potesse essere scosso soltanto da un’altra guerra. È stato invece, superato dall’impegno non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità. Ciò ha disarmato l’avversario, perché la violenza ha sempre bisogno di legittimarsi con la menzogna, di assumere, pur se falsamente, l’aspetto della difesa di un diritto o della risposta a una minaccia altrui. Ringrazio ancora Dio che ha sostenuto il cuore degli uomini nel tempo della difficile prova, pregando perché un tale esempio possa valere in altri luoghi ed in altre circostanze. Che gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza rinunciando alla lotta di classe nelle controversie interne, come alla guerra in quelle internazionali.

Le frasi "la violenza ha sempre bisogno di legittimarsi con la menzogna" e la preghiera "perché gli uomini imparino a lottare per la giustizia senza violenza" ci aiutano anche a comprendere la nostra responsabilità di fronte ai cambiamenti avvenuti. È una responsabilità che l’Europa Occidentale deve saper affrontare nei confronti di quella Orientale senza poter dimenticare il resto del mondo.

CA 27-28

a) Necessità di liberarsi da odi e rancori accumulatisi da lungo tempo.

La seconda conseguenza riguarda i popoli dell’Europa. Molte ingiustizie, individuali e sociali, regionali e nazionali, sono state commesse negli anni in cui dominava il comunismo ed anche prima; molti odi e rancori si sono accumulati. È reale il pericolo che questi riesplodano dopo il crollo della dittatura, provocando gravi conflitti e lutti, se verranno meno la tensione morale e la forza cosciente di rendere testimonianza alla verità che hanno animato gli sforzi nel tempo passato. È da auspicare che l’odio e la violenza non trionfino nei cuori, soprattutto di coloro che lottano per la giustizia, e cresca in tutti lo spirito di pace e di perdono.

b) LEuropa intera deve aiutare i Paesi dellEst nella ricostruzione morale ed economica.

Occorrono, però passi concreti per creare o consolidare strutture internazionali capaci di intervenire, per il conveniente arbitrato, nei conflitti che insorgono tra le Nazioni, sicché ciascuna di esse possa far valere i propri diritti e raggiungere il giusto accordo e la pacifica composizione con i diritti delle altre. Tutto ciò è particolarmente necessario per le Nazioni europee, unite intimamente tra loro nel vincolo della comune cultura e storia millenaria. Occorre un grande sforzo per la ricostruzione morale ed economica nei Paesi che hanno abbandonato il comunismo. Per molto tempo le relazioni economiche più elementari sono state distorte, ed anche fondamentali virtù legate al settore dell’economia, come la veridicità, l’affidabilità, la laboriosità, sono state mortificate. Occorre una paziente ricostruzione materiale e morale, mentre i popoli stremati da lunghe privazioni chiedono ai loro governanti risultati tangibili ed immediati di benessere ed adeguato soddisfacimento delle loro legittime aspirazioni.

c) Linterdipendenza dei popoli è stata messa in luce più chiaramente dalla caduta del marxismo.

La caduta del marxismo naturalmente ha avuto effetti di grande portata in ordine alla divisione della terra in mondi chiusi l’uno all’altro ed in gelosa concorrenza tra loro. Essa mette in luce più chiaramente la realtà dell’interdipendenza dei popoli, nonché il fatto che il lavoro umano per sua natura è destinato ad unire i popoli, non già a dividerli. La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se vengono ottenuti e conservati a danno di altri popoli e Nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere.

Per alcuni Paesi europei è iniziato ora il vero dopoguerra.

a) Necessità di una grande solidarietà verso questi Paesi.

Per alcuni Paesi di Europa inizia, in un certo senso, il vero dopoguerra. Il radicale riordinamento delle economie, fino a ieri collettivizzate, comporta problemi e sacrifici, i quali possono esser paragonati a quelli che i Paesi occidentali del Continente si imposero per la loro ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale. È giusto che nelle presenti difficoltà i Paesi ex-comunisti siano sostenuti dallo sforzo solidale delle altre Nazioni: ovviamente, essi devono essere i primi artefici del proprio sviluppo; ma deve esser data loro una ragionevole opportunità di realizzarlo, e ciò non può avvenire senza l’aiuto degli altri Paesi. Del resto, la presente condizione di difficoltà e di penuria è la conseguenza di un processo storico, di cui i Paesi ex-comunisti sono stati spesso oggetto, e non soggetto: essi, perciò, si trovano in tale situazione non per libera scelta o a causa di errori commessi, ma in conseguenza di tragici eventi storici imposti con la violenza, i quali hanno loro impedito di proseguire lungo la via dello sviluppo economico e civile. L’aiuto degli altri Paesi soprattutto europei, che hanno avuto parte nella medesima storia e ne portano le responsabilità, corrisponde ad un debito di giustizia. Ma corrisponde anche all’interesse ed al bene generale dell’Europa, che non potrà vivere in pace, se i conflitti di diversa natura, che emergono come conseguenza del passato, saranno resi più acuti da una situazione di disordine economico, di spirituale insoddisfazione e disperazione.

b) È necessario non rallentare il sostegno e laiuto ai Paesi del Terzo Mondo.

Questa esigenza, però, non deve indurre a rallentare gli sforzi per il sostegno e l’aiuto ai Paesi del Terzo Mondo, che soffrono spesso di condizioni di insufficienza e di povertà assai più gravi. Sarà necessario uno sforzo straordinario per mobilitare le risorse, di cui il mondo nel suo insieme non è privo, verso fini di crescita economica e di sviluppo comune, ridefinendo le priorità e le scale di valori, in base alle quali si decidono le scelte economiche e politiche. Ingenti risorse possono essere rese disponibili col disarmo degli enormi apparati militari, costruiti per il conflitto tra Est e Ovest. Esse potranno risultare ancora più ingenti, se si riuscirà a stabilire affidabili procedure per la soluzione dei conflitti, alternative alla guerra, ed a diffondere, quindi, il principio del controllo e della riduzione degli armamenti anche nei Paesi del Terzo Mondo, adottando opportune misure contro il loro commercio. Ma soprattutto sarà necessario abbandonare la mentalità che considera i poveri—persone e popoli—come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri han prodotto. I poveri chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero. L’elevazione dei poveri è una grande occasione per la crescita morale, culturale ed anche economica dell’intera umanità.

 

C. LA LIBERTÀ MALATA

 

1. Rapporto libertà-verità

Abbiamo già notato che quando si distrugge il legame tra libertà e verità si arriva a non comprendere più a cosa serve la libertà. In modo più radicale questa rottura provoca la perdita nell’uomo del proprio significato. L’uomo, infatti, si differenzia da tutto il reale perché intuendo la propria esistenza è chiamato a interpretarla, a scegliere liberamente di essere uomo, cioè a scoprire e vivere la propria verità. Questo "compito" è inscritto nella natura stessa di come siamo fatti. La Passione di Cristo per ogni uomo, e dunque l’unione della Chiesa-corpo alla Passione del Capo, Servo Redentore, impegna la Chiesa in modo primario alla difesa della libertà dell’uomo in particolare con la missione di annunciare la verità.

Questo è espresso in modo chiarissimo nella prima enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor Hominis.

RH 12

L’atteggiamento missionario inizia sempre con un sentimento di profonda stima di fronte a ciò che "c’è in ogni uomo", per ciò che egli stesso, nell’intimo del suo spirito, ha elaborato riguardo ai problemi più profondi e più importanti; si tratta di rispetto per tutto ciò che in lui ha operato lo Spirito, che "soffia dove vuole". La missione non è mai una distruzione, ma è una riassunzione di valori e una nuova costruzione, anche se nella pratica non sempre vi è stata piena corrispondenza a un ideale così elevato. E la conversione, che da essa deve prendere inizio, sappiamo bene che è opera della grazia, nella quale l’uomo deve pienamente ritrovare se stesso. Perciò, la Chiesa del nostro tempo dà grande importanza a tutto ciò che il Concilio Vaticano II ha esposto nella Dichiarazione sulla Libertà Religiosa, sia nella prima che nella seconda parte del documento. Sentiamo profondamente il carattere impegnativo della verità che Dio ci ha rivelato. Avvertiamo, in particolare, il grande senso di responsabilità per questa verità. La Chiesa, per istituzione di Cristo, ne è custode e maestra, essendo appunto dotata di una singolare assistenza dello Spirito Santo, perché possa fedelmente custodirla ed insegnarla nella sua più esatta integrità. Adempiendo questa missione, guardiamo Cristo stesso. Colui che è il primo evangelizzatore, e guardiamo anche i suoi Apostoli, Martiri e Confessori. La Dichiarazione sulla Libertà Religiosa ci manifesta, in modo convincente, come Cristo e, in seguito, i suoi Apostoli, nell’annunciare la verità che non proviene dagli uomini, ma da Dio ("la mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato", cioè del Padre), pur agendo con tutta la forza dello spirito, conservino una profonda stima per l’uomo, per il suo intelletto, la sua volontà, la sua coscienza e la sua libertà. In tal modo, la stessa dignità della persona umana diventa contenuto di quell’annuncio, anche se privo di parole, mediante il comportamento nei suoi riguardi. Tale comportamento sembra corrispondere ai bisogni particolari dei nostri tempi. Siccome non in tutto quello che i vari sistemi ed anche singoli uomini vedono e propagano come libertà è la vera libertà dell’uomo, tanto più la Chiesa, in forza della sua divina missione, diventa custode di questa libertà, la quale è condizione e base della vera dignità della persona umana. Gesù Cristo va incontro all’uomo di ogni epoca, anche della nostra epoca, con le stesse parole: "Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi". Queste parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme un ammonimento: l’esigenza di un rapporto onesto nei riguardi della verità, come condizione di un’autentica libertà; e l’ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni libertà superficiale e unilaterale, ogni libertà che non penetri tutta la verità sull’uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi come Colui che porta all’uomo la libertà basata sulla verità, come Colui che libera l’uomo da ciò che limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse, nell’anima dell’uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà. Quale stupenda conferma di ciò hanno dato e non cessano di dare coloro che, grazie a Cristo e in Cristo, hanno raggiunto la vera libertà e l’hanno manifestata perfino in condizioni di costrizione esteriore!

Questo punto centrale è inevitabilmente ripreso in molti passaggi della Centesimus Annus.

CA 4 ( in questo testo il Papa fa riferimento ad un documento di Leone XIII proprio sul tema della libertà che aveva preceduto l’enciclica Rerum Novarum)

l’Enciclica Libertas praestantissimum, in cui era richiamato il legame costitutivo della libertà umana con la verità, tale che una libertà che rifiuti di vincolarsi alla verità scadrebbe in arbitrio e finirebbe col sottomettere se stessa alle passioni più vili e con l’autodistruggersi. Da cosa derivano, infatti, tutti i mali a cui la Rerum Novarum vuole reagire se non da una libertà che, nel campo dell’attività economica e sociale si distacca dalla verità dell’uomo?

CA 41

Nella società occidentale è stato superato lo sfruttamento, almeno nelle forme analizzate e descritte da Carlo Marx. Non è stata superata, invece, l’alienazione nelle varie forme di sfruttamento, quando gli uomini si strumentalizzano vicendevolmente e, nel soddisfacimento sempre più raffinato dei loro bisogni particolari e secondari, diventano sordi a quelli principali ed autentici, che devono regolare anche le modalità di soddisfacimento degli altri bisogni. L’uomo che si preoccupa solo o prevalentemente dell’avere e del godimento, non più capace di dominare i suoi istinti e le sue passioni e di subordinarle mediante l’obbedienza alla verità, non può essere libero: l’obbedienza alla verità su Dio e sull’uomo è la condizione prima della libertà, consentendogli di ordinare i propri bisogni, i propri desideri e le modalità del loro soddisfacimento secondo una giusta gerarchia, di modo che il possesso delle cose sia per lui un mezzo di crescita. Un ostacolo a tale crescita può venire dalla manipolazione operata da quei mezzi di comunicazione di massa che impongono, con la forza di una ben orchestrata insistenza, mode e movimenti di opinione, senza che sia possibile sottoporre a una disamina critica le premesse su cui essi si fondano.

 

2. Lo sviluppo

Applicando quanto abbiamo letto nel paragrafo precedente abbiamo il termine di paragone più corretto per valutare tante (troppe?) parole che sembrano ovvie e indiscutibili.

Cos’è lo SVILUPPO o il PROGRESSO?

L’aumento di beni, di soldi…o di umanità?

Spesso si ritiene che lo sviluppo abbia regole indipendenti da ciò di cui la Chiesa è competente (insomma i "principi" che la Chiesa richiama non possono entrare a far parte delle "leggi" dell’economia). Questo ragionamento (o vero e proprio divieto) tradisce un chiaro preconcetto non certo economico: al centro dello sviluppo c’è non l’uomo (come la Chiesa afferma) ma lo sviluppo stesso. Riecheggiando una famosa frase di Gesù bisogna ripetere che lo sviluppo è per l’uomo, non l’uomo per lo sviluppo. Il che significa che per valutare se siamo di fronte ad un vero sviluppo (o al mitico progresso di fronte a cui tutti si devono inchinare) il criterio è sempre l’uomo nella sua verità.

L’affermazione è netta nella Centesimus Annus al n. 29:

"Lo sviluppo non deve essere inteso in un modo esclusivamente economico, ma in senso integralmente umano".

E su questo tema Giovanni Paolo II si era giustamente dilungato nella Sollicitudo rei socialis, a cui la frase sopra citata rimanda. Il Papa commenta al n.8 l’enciclica di Paolo VI Populorum Progressio del 1967 proprio sul tema del "progresso".

SRS 8-10…la novità dell’enciclica "Populorum Progressio" di Paolo VI si può precisare in tre punti.

Più avanti la Sollicitudo entra nella descrizione analitica della falsa idea di sviluppo, di progresso e dei danni che ne conseguono.

Non una astratta regola economica può guidare l’economia: il progresso non è regola a se stesso, ma solo l’uomo nella sua totale verità è regola insuperabile.

a) La novità dell'Enciclica si può precisare in tre punti.

Il primo è costituito dal fatto stesso di un documento, emanato dalla massima autorità della Chiesa cattolica e destinato, a un tempo, alla stessa Chiesa e "a tutti gli uomini di buona volontà", sopra una materia che a prima vista è solo economica e sociale: lo sviluppo dei popoli. Qui il termine "sviluppo" è desunto dal vocabolario delle scienze sociali ed economiche. Sotto tale profilo l’Enciclica Populorum Progressio si colloca direttamente nel solco dell’Enciclica Rerum Novarum, che tratta della "condizione degli operai". Considerati superficialmente, entrambi i temi potrebbero sembrare estranei alla legittima preoccupazione della Chiesa vista come istituzione religiosa; anzi, lo "sviluppo" ancor più della "condizione operaia".

b) La Chiesa affronta legittimamente la questione sullo sviluppo, dato il carattere etico e culturale del problema.

In continuità con l’Enciclica di Leone XIII, al documento di Paolo VI bisogna riconoscere il merito di aver sottolineato il carattere etico e culturale della problematica relativa allo sviluppo e, parimenti, la legittimità e la necessità dell’intervento in tale campo da parte della Chiesa. Con ciò la dottrina sociale cristiana ha rivendicato ancora una volta il suo carattere di applicazione della Parola di Dio alla vita degli uomini e della società così come alle realtà terrene, che ad esse si connettono, offrendo "principi di riflessione", "criteri di giudizio" e "direttrici di azione". Ora, nel documento di Paolo VI si ritrovano tutti i tre elementi con un orientamento prevalentemente pratico, ordinato cioè alla condotta morale. Di conseguenza, quando la Chiesa si occupa dello "sviluppo dei popoli", non può essere accusata di oltrepassare il suo campo specifico di competenza e, tanto meno, il mandato ricevuto dal Signore.

Ampiezza di orizzonti sulla discussione della "questione sociale".

a) La "questione sociale", oggi di dimensione mondiale, resta anche problema di ogni Paese.

Il secondo punto è la novità della Populorum Progressio, quale si rivela dall’ampiezza di orizzonte aperto a quella che comunemente è conosciuta come la "questione sociale". In verità, l’Enciclica Mater et Magistra di Papa Giovanni XXIII era già entrata in questo più ampio orizzonte ed il Concilio se ne era fatto eco nella Costituzione Gaudium et spes. Tuttavia, il magistero sociale della Chiesa non era ancora giunto ad affermare in tutta chiarezza che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, né aveva fatto di questa affermazione, e dell’analisi che l’accompagna, una "direttrice di azione", come fa Papa Paolo VI nella sua Enciclica. Una simile presa di posizione così esplicita offre una grande ricchezza di contenuti, che è opportuno indicare.

b) Tutti debbono prendere coscienza della dimensione mondiale della questione sociale.

Anzitutto, occorre eliminare un possibile equivoco. Riconoscere che la "questione sociale" abbia assunto una dimensione mondiale, non significa affatto che sia venuta meno la sua forza d’incidenza o che abbia perduto la sua importanza nell’ambito nazionale e locale. Significa, al contrario, che le problematiche nelle imprese di lavoro o nel movimento operaio e sindacale di un determinato Paese o regione non sono da considerare isole sparse senza collegamenti, ma che dipendono in misura crescente dall’influsso di fattori esistenti al di là dei confini regionali e delle frontiere nazionali. Purtroppo, sotto il profilo economico, i Paesi in via di sviluppo sono molti di più di quelli sviluppati: le moltitudini umane prive dei beni e dei servizi, offerti dallo sviluppo, sono assai più numerose di quelle che ne dispongono. Siamo, dunque, di fronte a un grave problema di diseguale distribuzione dei mezzi di sussistenza, destinati in origine a tutti gli uomini, e così pure dei benefici da essi derivanti. E ciò avviene non per responsabilità delle popolazioni disagiate, né tanto meno per una specie di fatalità dipendente dalle condizioni naturali o dall’insieme delle circostanze. L’Enciclica di Paolo VI, nel dichiarare che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, si propone prima di tutto di segnalare un fatto morale, avente il suo fondamento nell’analisi oggettiva della realtà. Secondo le parole stesse dell’Enciclica, "ognuno deve prendere coscienza" di questo fatto, appunto perché tocca direttamente la coscienza, ch’è fonte delle decisioni morali. In tale quadro, la novità dell’Enciclica non consiste tanto nell’affermazione di carattere storico circa l’universalità della questione sociale quanto nella valutazione morale di questa realtà. Perciò, i responsabili della cosa pubblica, i cittadini dei Paesi ricchi personalmente considerati, specie se cristiani, hanno l’obbligo morale—secondo il rispettivo grado di responsabilità—di tenere in considerazione, nelle decisioni personali e di governo, questo rapporto di universalità, questa interdipendenza che sussiste tra i loro comportamenti e la miseria e il sottosviluppo di tanti milioni di uomini. Con maggior precisione l’Enciclica paolina traduce l’obbligo morale come "dovere di solidarietà", ed una tale affermazione, anche se nel mondo molte situazioni sono cambiate, ha oggi la stessa forza e validità di quando fu scritta.

c) Il problema dello sviluppo va risolto nella prospettiva dellinterdipendenza universale.

D’altra parte, senza uscire dalle linee di questa visione morale, la novità dell’Enciclica consiste anche nell’impostazione di fondo, secondo cui la concezione stessa dello sviluppo, se lo si considera nella prospettiva dell’interdipendenza universale, cambia notevolmente. Il vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore disponibilità dei beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell’essere umano.

Lo sviluppo dei popoli è il nuovo nome della pace.

Come terzo punto l’Enciclica fornisce un considerevole apporto di novità alla dottrina sociale della Chiesa nel suo complesso ed alla concezione stessa di sviluppo. Questa novità è ravvisabile in una frase, che si legge nel paragrafo conclusivo del documento e che può esser considerata come la sua formula riassuntiva, oltre che la sua qualifica storica: "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace".

SRS 27-30

Contro un falso ottimismo meccanicistico, bisogna riconoscere che lo sviluppo

non è un processo rettilineo, qua si automatico e illimitato.

Lo sguardo che l’Enciclica ci invita a rivolgere al mondo contemporaneo ci fa costatare, anzitutto, che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita. Simile concezione, legata ad una nozione di "progresso" dalle connotazioni filosofiche di tipo illuministico, piuttosto che a quella di "sviluppo", adoperata in senso specificamente economico-sociale, sembra posta ora seriamente in dubbio, specie dopo la tragica esperienza delle due guerre mondiali, della distruzione pianificata e in parte attuata di intere popolazioni e dell’incombente pericolo atomico. Ad un ingenuo ottimismo meccanicistico è subentrata una fondata inquietudine per il destino dell’umanità.

La piaga del consumismo è dominata dal desiderio dell"avere"

piuttosto che da quello di "essere".

a) Crisi della concezione "economicista" dello sviluppo privo di intendimento morale.

Al tempo stesso, però, è entrata in crisi la stessa concezione "economica" o "economicista", legata al vocabolo sviluppo. Effettivamente oggi si comprende meglio che la pura accumulazione di beni e dl servizi, anche a favore della maggioranza, non basta a realizzare la felicità umana. Né, di conseguenza, la disponibilità dei molteplici benefici reali, apportati negli ultimi tempi dalla scienza e dalla tecnica, compresa l’informatica, comporta la liberazione da ogni forma di schiavitù. Al contrario, l’esperienza degli anni più recenti dimostra che, se tutta la massa delle risorse e delle potenzialità, messe a disposizione dell’uomo, non è retta da un intendimento morale e da un orientamento verso il vero bene del genere umano, si ritorce facilmente contro di lui per opprimerlo. Dovrebbe essere altamente istruttiva una sconcertante constatazione del più recente periodo: accanto alle miserie del sottosviluppo, che non possono essere tollerate, ci troviamo di fronte a una sorta di supersviluppo, egualmente inammissibile, perché, come il primo, è contrario al bene e alla felicità autentica. Tale supersviluppo, infatti, consistente nell’eccessiva disponibilità di ogni tipo di beni materiali in favore di alcune fasce sociali, rende facilmente gli uomini schiavi del "possesso" e del godimento immediato, senza altro orizzonte che la moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose, che già si posseggono, con altre ancora più perfette. È la cosiddetta civiltà dei "consumi" o consumismo, che comporta tanti "scarti" e "rifiuti". Un oggetto posseduto, e già superato da un altro più perfetto, è messo da parte, senza tener conto del suo possibile valore permanente per sé o in favore di un altro essere umano più povero. Tutti noi tocchiamo con mano i tristi effetti di questa cieca sottomissione al puro consumo: prima di tutto, una forma di materialismo crasso, e al tempo stesso una radicale insoddisfazione, perché si comprende subito che—se non si è premuniti contro il dilagare dei messaggi pubblicitari e l’offerta incessante e tentatrice dei prodotti—quanto più si possiede tanto più si desidera mentre le aspirazioni più profonde restano insoddisfatte e forse anche soffocate.

b) Chi possiede molto non riesce ad "essere" perché troppo attaccato all"avere", mentre i poveri, essendo mancanti quasi di tutto, non possono realizzarsi come esseri umani.

L’Enciclica di Papa Paolo VI segnalò la differenza, al giorno d’oggi così frequentemente accentuata, tra l’"avere" e l’"essere", in precedenza espressa con parole precise dal Concilio Vaticano II. L’"avere" oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla maturazione e all’arricchimento del suo "essere", cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale. Certo, la differenza tra "essere" e "avere", il pericolo inerente a una mera moltiplicazione o sostituzione di cose possedute rispetto al valore dell’"essere" non deve trasformarsi necessariamente in un’antinomia. Una delle più grandi ingiustizie del mondo contemporaneo consiste proprio in questo: che sono relativamente pochi quelli che possiedono molto, e molti quelli che non possiedono quasi nulla. È l’ingiustizia della cattiva distribuzione dei beni e dei servizi destinati originariamente a tutti. Ecco allora il quadro: ci sono quelli—i pochi che possiedono molto—che non riescono veramente ad "essere", perché, per un capovolgimento della gerarchia dei valori, ne sono impediti dal culto dell’"avere"; e ci sono quelli—i molti che possiedono poco o nulla—, i quali non riescono a realizzare la loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni indispensabili. Il male non consiste nell’"avere" in quanto tale, ma nel possedere in modo irrispettoso della qualità e dell’ordinata gerarchia dei beni che si hanno. Qualità e gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro disponibilità all’"essere" dell’uomo ed alla sua vera vocazione. Con ciò resta dimostrato che, se lo sviluppo ha una necessaria dimensione economica, poiché deve fornire al maggior numero possibile degli abitanti del mondo la disponibilità di beni indispensabili per "essere", tuttavia non si esaurisce in tale dimensione. Se viene limitato a questa, esso si ritorce contro quelli che si vorrebbero favorire. Le caratteristiche di uno sviluppo pieno, "più umano", che—senza negare le esigenze economiche—sia in grado di mantenersi all’altezza dell’autentica vocazione dell’uomo e della donna, sono state descritte da Paolo VI.

Un vero sviluppo deve tener conto del "parametro interiore" delluomo.

a) Uno sviluppo non soltanto economico si misura e si orienta secondo questa realtà e vocazione dell’uomo visto nella sua globalità, ossia secondo un suo parametro interiore. Egli ha senza dubbio bisogno dei beni creati e dei prodotti dell’industria, arricchita di continuo dal progresso scientifico e tecnologico. E la disponibilità sempre nuova dei beni materiali, mentre viene incontro alle necessità, apre nuovi orizzonti. Il pericolo dell’abuso consumistico e l’apparizione delle necessità artificiali non debbono affatto impedire la stima e l’utilizzazione dei nuovi beni e risorse posti a nostra disposizione; in ciò dobbiamo, anzi, vedere un dono di Dio e una risposta alla vocazione dell’uomo, che si realizza pienamente in Cristo. Ma per conseguire il vero sviluppo è necessario non perder mai di vista detto parametro, che è nella natura specifica dell’uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza (cfr. Gn 1, 26). Natura corporale e spirituale, simboleggiata nel secondo racconto della creazione dai due elementi: la terra, con cui Dio plasma il fisico dell’uomo, e l’alito di vita, soffiato nelle sue narici (cfr. Gn 2, 7). L’uomo così viene ad avere una certa affinità con le altre creature: è chiamato a utilizzarle a occuparsi di esse e sempre secondo la narrazione della Genesi (2, 15) è posto nel giardino col compito di coltivarlo e custodirlo, al di sopra di tutti gli altri esseri collocati da Dio sotto il suo dominio (cfr. ibid. 1, 25 s.). Ma nello stesso tempo l’uomo deve rimanere sottomesso alla volontà di Dio, che gli prescrive limiti nell’uso e nel dominio delle cose (cfr. ibid., 2, 16 s.), così come gli promette l’immortalità (cfr. ibid., 2, 9; Sap 2, 23). L’uomo, pertanto, essendo immagine di Dio, ha una vera affinità anche con lui.

b) Il vero sviluppo non consiste nelluso e nel possesso indiscriminato delle cose.

Sulla base di questo insegnamento, lo sviluppo non può consistere soltanto nell’uso, nel dominio e nel possesso indiscriminato delle cose create e dei prodotti dell’industria umana, ma piuttosto nel subordinare il possesso, il dominio e l’uso alla somiglianza divina dell’uomo e alla sua vocazione all’immortalità. Ecco la realtà trascendente dell’essere umano, la quale appare partecipata fin dall’origine ad una coppia di uomo e donna (cfr. Gn 1, 27) ed è quindi fondamentalmente sociale.

Tutti gli uomini hanno il dovere di collaborare allo sviluppo.

a) Il comandamento divino di "dominare" il creato va assolto nellobbedienza alla legge divina.

Secondo la Sacra Scrittura, dunque, la nozione di sviluppo non è soltanto "laica" o "profana", ma appare anche, pur con una sua accentuazione socio-economica, come l’espressione moderna di un’essenziale dimensione della vocazione dell’uomo. L’uomo, infatti, non è stato creato, per così dire, immobile e statico. La prima raffigurazione, che di lui offre la Bibbia, lo presenta senz’altro come creatura e immagine, definita nella sua profonda realtà dall’origine e dall’affinità, che lo costituiscono. Ma tutto questo immette nell’essere umano, uomo e donna, il germe e l’esigenza di un compito originario da svolgere, sia ciascuno individualmente sia come coppia. Il compito è di "dominare" sulle altre creature, "coltivare il giardino", ed è da assolvere nel quadro dell’ubbidienza alla legge divina e, quindi, nel rispetto dell’immagine ricevuta, fondamento chiaro del potere di dominio, riconosciutogli in ordine al suo perfezionamento (cfr. Gn 1, 26-30; 2, 15 s.; Sap 9, 2-3). Quando l’uomo disobbedisce a Dio e rifiuta di sottomettersi alla sua potestà, allora la natura gli si ribella e non lo riconosce più come "signore", perché egli ha appannato in sé l’immagine divina. L’appello al possesso e all’uso dei mezzi creati rimane sempre valido, ma dopo il peccato l’esercizio ne diviene arduo e carico di sofferenze (cfr. Gn 3, 17-19). Infatti, il successivo capitolo della Genesi ci mostra la discendenza di Caino, la quale costruisce "una città", si dedica alla pastorizia, si dà alle arti (la musica) e alla tecnica (la metallurgia), mentre al tempo stesso si comincia "ad invocare il nome del Signore" (cfr. ibid., 4, 17-26). La storia del genere umano, delineata dalla Sacra Scrittura, anche dopo la caduta nel peccato è una storia di realizzazioni continue, che, sempre rimesse in questione e in pericolo dal peccato, si ripetono, si arricchiscono e si diffondono come risposta alla vocazione divina, assegnata sin dal principio all’uomo e alla donna (cfr. Gn 1, 26-28) e impressa nell’immagine, da loro ricevuta.

b) Non impegnarsi ad operare per lelevazione dellumanità significa andare contro il comandamento divino.

È logico concludere, almeno da parte di quanti credono nella Parola di Dio, che lo "sviluppo" di oggi deve essere visto come un momento della storia iniziata con la creazione e di continuo messa in pericolo a motivo dell’infedeltà alla volontà del Creatore, soprattutto per la tentazione dell’idolatria; ma esso corrisponde fondamentalmente alle premesse iniziali. Chi volesse rinunciare al compito, difficile ma esaltante, di elevare la sorte di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, sotto il pretesto del peso della lotta e dello sforzo incessante di superamento o addirittura per l’esperienza della sconfitta e del ritorno al punto di partenza, verrebbe meno alla volontà di Dio creatore. Sotto questo aspetto nell’Enciclica Laborem exercens ho fatto riferimento alla vocazione dell’uomo al lavoro, per sottolineare il concetto che e sempre lui il protagonista dello sviluppo. Anzi, lo stesso Signore Gesù, nella parabola dei talenti, mette in rilievo il severo trattamento riservato a chi osò nascondere il dono ricevuto: "Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso […]. Toglietegli, dunque, il talento e datelo a chi ha dieci talenti" (Mt 25, 26-28). A noi, che riceviamo i doni di Dio per farli fruttificare, tocca "seminare" e "raccogliere". Se non lo faremo, ci sarà tolto anche quello che abbiamo. L’approfondimento di queste severe parole potrà spingerci a impegnarci con più decisione nel dovere, oggi per tutti urgente di collaborare allo sviluppo pieno degli altri: "Sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini".

 

3. L’uomo consumatore. Crolla il marxismo.

Da questa situazione esce vincitore un tipo di uomo molto particolare: è colui che produce ciò che altri consumano e consuma ciò che altri producono. Il punto è che si produce e consuma non il necessario, ma—in una specie di corsa in ascesa—ciò che viene "indotto" come necessario. Si inventano sempre nuovi bisogni da consumare e l’esito è che quest’uomo-consumatore rischia di essere consumato; un po’ come si dice nella Bibbia di coloro che adorano gli idoli: l’idolo…mangia l’uomo.

CA 36

Conviene ora rivolgere l’attenzione agli specifici problemi ed alle minacce, che insorgono all’interno delle economie più avanzate e sono connesse con le loro peculiari caratteristiche. Nelle precedenti fasi dello sviluppo l’uomo è sempre vissuto sotto il peso della necessità: i suoi bisogni erano pochi, fissati in qualche modo già nelle strutture oggettive della sua costituzione corporea, e l’attività economica era orientata a soddisfarli. È chiaro che oggi il problema non è solo di offrirgli una quantità di beni sufficienti, ma è quello di rispondere ad una domanda di qualità: qualità delle merci da produrre e da consumare; qualità dei servizi di cui usufruire; qualità dell’ambiente e della vita in generale.

a) La richiesta di beni riguarda non solo la quantità, ma anche la qualità: "il fenomeno del consumismo".

La domanda di un’esistenza qualitativamente più soddisfacente e più ricca è in sé cosa legittima; ma non si possono non sottolineare le nuove responsabilità ed i pericoli connessi con questa fase storica. Nel modo in cui insorgono e sono definiti i nuovi bisogni, è sempre operante una concezione più o meno adeguata dell’uomo e del suo vero bene: attraverso le scelte di produzione e di consumo si manifesta una determinata cultura, come concezione globale della vita. È qui che sorge il fenomeno del consumismo. Individuando nuovi bisogni e nuove modalità per il loro soddisfacimento, è necessario lasciarsi guidare da un’immagine integrale dell’uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a quelle interiori e spirituali. Al contrario, rivolgendosi direttamente ai suoi istinti e prescindendo in diverso modo dalla sua realtà personale cosciente e libera, si possono creare abitudini di consumo e stili di vita oggettivamente illeciti e spesso dannosi per la sua salute fisica e spirituale. Il sistema economico non possiede al suo interno criteri che consentano di distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti, che ostacolano la formazione di una matura personalità. È perciò, necessaria ed urgente una grande opera educativa e culturale la quale comprenda l’educazione dei consumatori ad un uso responsabile del loro potere di scelta, la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e, soprattutto, nei professionisti delle comunicazioni di massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche Autorità.

b) La droga, esempio vistoso di consumo artificiale, che sfrutta la fragilità dei deboli.

Un esempio vistoso di consumo artificiale, contrario alla salute e alla dignità dell’uomo e certo non facile a controllare, è quello della droga. La sua diffusione è indice di una grave disfunzione del sistema sociale e sottintende anch’essa una "lettura" materialistica e, in un certo senso, distruttiva dei bisogni umani. Così la capacità innovativa dell’economia libera finisce con l’attuarsi in modo unilaterale ed inadeguato. La droga come anche la pornografia ed altre forme di consumismo, sfruttando la fragilità dei deboli, tentano di riempire il vuoto spirituale che si è venuto a creare.

Ma perché l’uomo si lascia corrompere in un modo così evidentemente sciocco?

La risposta parte dalla struttura, da come l’uomo è fatto: noi siamo dipendenti da ciò che poniamo al centro del nostro cuore.

Se togliamo Dio, magari con una dotta teorizzazione della Sua non esistenza, ci prostriamo—magari cambiandolo ogni giorno—a qualunque altro fantoccio buono o cattivo (soldi, successo, ideali, potere) come a "religioni secolari".

Dice Giovanni Paolo II: "Il marxismo aveva promesso di sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell’uomo, ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirci senza sconvolgere il cuore".

Sono punti molto densi della Centesimus Annus.

CA 24-25

a) Importanza della dimensione culturale e nazionale.

Il secondo fattore di crisi è certamente l’inefficienza del sistema economico, che non va considerata come un problema soltanto tecnico, ma piuttosto come conseguenza della violazione dei diritti umani all’iniziativa, alla proprietà ed alla libertà nel settore dell’economia. A questo aspetto va poi associata la dimensione culturale e nazionale: non è possibile comprendere l’uomo partendo unilateralmente dal settore dell’economia, né è possibile definirlo semplicemente in base all’appartenenza di classe. L’uomo è compreso in modo più esauriente, se viene inquadrato nella sfera della cultura attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi fondamentali dell’esistenza, come il nascere, l’amare, il lavorare, il morire. Al centro di ogni cultura sta l’atteggiamento che l’uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio. Le culture delle diverse Nazioni sono, in fondo, altrettanti modi di affrontare la domanda circa il senso dell’esistenza personale: quando tale domanda viene eliminata, si corrompono la cultura e la vita morale delle Nazioni. Per questo, la lotta per la difesa del lavoro si è spontaneamente collegata a quella per la cultura e per i diritti nazionali.

b) Il vuoto spirituale causato dallateismo.

La vera causa delle novità, però, è il vuoto spirituale provocato dall’ateismo, il quale ha lasciato prive di orientamento le giovani generazioni e in non rari casi le ha indotte, nell’insopprimibile ricerca della propria identità e del senso della vita, a riscoprire le radici religiose della cultura delle loro Nazioni e la stessa persona di Cristo, come risposta esistenzialmente adeguata al desiderio di bene, di verità e di vita che è nel cuore di ogni uomo. Questa ricerca è stata confortata dalla testimonianza di quanti, in circostanze difficili e nella persecuzione, sono rimasti fedeli a Dio. Il marxismo aveva promesso di sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell’uomo, ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirci senza sconvolgere il cuore.

Le lezioni degli avvenimenti dell89.

a) Successo della volontà di negoziato e dello spirito evangelico.

Gli avvenimenti dell’89 offrono l’esempio del successo della volontà di negoziato e dello spirito evangelico contro un avversario deciso a non lasciarsi vincolare da principi morali: essi sono un monito per quanti, in nome del realismo politico, vogliono bandire dall’arena politica il diritto e la morale. Certo la lotta, che ha portato ai cambiamenti dell’89, ha richiesto lucidità, moderazione sofferenze e sacrifici; in un certo senso, essa è nata dalla preghiera, e sarebbe stata impensabile senza un’illimitata fiducia in Dio, Signore della storia che ha nelle sue mani il cuore degli uomini. È unendo la propria sofferenza per la verità e per la libertà a quella di Cristo sulla Croce che l’uomo può compiere il miracolo della pace ed è in grado di scorgere il sentiero spesso angusto tra la viltà che cede al male e la violenza che, illudendosi di combatterlo, lo aggrava.

b) Il valore fondamentale della libertà.

Non si possono, tuttavia, ignorare gli innumerevoli condizionamenti in mezzo ai quali la libertà del singolo uomo si trova ad operare: essi influenzano, sì, ma non determinano la libertà; rendono più o meno facile il suo esercizio, ma non possono distruggerla. Non solo non è lecito disattendere dal punto di vista etico la natura dell’uomo che è fatto per la libertà, ma ciò non è neppure possibile in pratica. Dove la società si organizza riducendo arbitrariamente o, addirittura, sopprimendo la sfera in cui la libertà legittimamente si esercita, il risultato è che la vita sociale progressivamente si disorganizza e decade.

c) Luomo libero però, porta in sé la ferita del peccato originale. Lillusione di poter costruire il paradiso in terra.

Inoltre, l’uomo creato per la libertà porta in sé la ferita del peccato originale, che continuamente lo attira verso il male e lo rende bisognoso di redenzione. Questa dottrina non solo è parte integrante della Rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana. L’uomo tende verso il bene, ma è pure capace di male; può trascendere il suo interesse immediato e, tuttavia, rimanere ad esso legato. L’ordine sociale sarà tanto più solido quanto più terrà conto di questo fatto e non opporrà l’interesse personale a quello della società nel suo insieme ma cercherà piuttosto i modi della loro fruttuosa coordinazione. Difatti, dove l’interesse individuale è violentemente soppresso, esso è sostituito da un pesante sistema di controllo burocratico, che inaridisce le fonti dell’iniziativa e della creatività. Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla. La politica diventa allora una "religione secolare", che si illude di costruire il paradiso in questo mondo. Ma qualsiasi società politica, che possiede la sua propria autonomia e le sue proprie leggi, non potrà mai esser confusa col Regno di Dio. La parabola evangelica del buon grano e della zizzania (cfr. Mt 13, 24-30. 36-43) insegna che spetta solo a Dio separare i soggetti del Regno ed i soggetti del Maligno, e che siffatto giudizio avrà luogo alla fine dei tempi. Pretendendo di anticipare fin d’ora il giudizio, l’uomo si sostituisce a Dio e si oppone alla sua pazienza.

d) Il Regno di Dio illumina l’ordine temporale ed aiuta ad operare per il bene.

Grazie al sacrificio di Cristo sulla Croce, la vittoria del Regno di Dio è acquisita una volta per tutte; tuttavia, la condizione cristiana comporta la lotta contro le tentazioni e le forze del male. Solo alla fine della storia il Signore ritornerà nella gloria per il giudizio finale (cfr. Mt 25, 31) con l’instaurazione dei cieli nuovi e della terra nuova (cfr. 2 Pt 3, 13; Ap 21, 1), ma, mentre dura il tempo, la lotta tra il bene e il male continua fin nel cuore dell’uomo. Ciò che la Sacra Scrittura ci insegna in ordine ai destini del Regno di Dio non è senza conseguenze per la vita delle società temporali, le quali—come dice la parola—appartengono alle realtà del tempo con quanto esso comporta di imperfetto e di provvisorio. Il Regno di Dio, presente nel mondo senza essere del mondo, illumina l’ordine dell’umana società, mentre le energie della grazia lo penetrano e lo vivificano. Così son meglio avvertite le esigenze di una società degna dell’uomo, sono rettificate le deviazioni, è rafforzato il coraggio dell’operare per il bene. A tale compito di animazione evangelica delle realtà umane sono chiamati, unitamente a tutti gli uomini di buona volontà, i cristiani ed in special modo i laici.

CA 13-14

Lerrore del "socialismo" è di carattere antropologico.

a) Luomo considerato una molecola dellorganismo sociale.

Approfondendo ora la riflessione e facendo anche riferimento a quanto è stato detto nelle Encicliche Laborem exercens e Sollicitudo rei socialis, bisogna aggiungere che l’errore fondamentale del "socialismo" è di carattere antropologico. Esso, infatti, considera il singolo uomo come un semplice elemento ed una molecola dell’organismo sociale, di modo che il bene dell’individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d’altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al male. L’uomo così è ridotto ad una serie di relazioni sociali, e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione morale, il quale costruisce mediante tale decisione l’ordine sociale. Da questa errata concezione della persona discendono la distorsione del diritto che definisce la sfera di esercizio della libertà, nonché l’opposizione alla proprietà privata. L’uomo, infatti, privo di qualcosa che possa "dir suo" e della possibilità di guadagnarsi da vivere con la sua iniziativa, viene a dipendere dalla macchina sociale e da coloro che la controllano: il che gli rende molto più difficile riconoscere la sua dignità di persona ed inceppa il cammino per la costituzione di un’autentica comunità umana. Al contrario, dalla concezione cristiana della persona segue necessariamente una visione giusta della società. Secondo la Rerum Novarum e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell’uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno—sempre dentro il bene comune—la loro propria autonomia. È quello che ho chiamato la "soggettività" della società che, insieme alla soggettività dell’individuo, è stata annullata dal "socialismo reale".

b) La prima causa dellerrata concezione delluomo è lateismo e il razionalismo illuministico.

Se ci si domanda poi donde nasca quell’errata concezione della natura della persona e della "soggettività" della società, bisogna rispondere che la prima causa è l’ateismo. È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona. L’ateismo di cui si parla, del resto, è strettamente connesso col razionalismo illuministico, che concepisce la realtà umana e sociale in modo meccanicistico. Si negano in tal modo l’intuizione ultima circa la vera grandezza dell’uomo, la sua trascendenza rispetto al mondo delle cose, la contraddizione ch’egli avverte nel suo cuore tra il desiderio di una pienezza di bene e la propria inadeguatezza a conseguirlo e, soprattutto, il bisogno di salvezza che ne deriva.

Dallateismo deriva anche la scelta della "lotta di classe" da non confondere con la "lotta per la giustizia sociale".

Dalla medesima radice ateistica scaturisce anche la scelta dei mezzi di azione propria del "socialismo", che è condannato nella Rerum Novarum. Si tratta della lotta di classe. Il Papa, beninteso, non intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza. L’Enciclica Laborem exercens, del resto, ha riconosciuto chiaramente il ruolo positivo del conflitto, quando esso si configuri come "lotta per la giustizia sociale"; e già la Quadragesimo anno scriveva: "la lotta di classe, infatti, quando si astenga dagli atti di violenza e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia". Ciò che viene condannato nella lotta di classe è, piuttosto, l’idea di un conflitto che non è limitato da considerazioni di carattere etico o giuridico, che si rifiuta di rispettare la dignità della persona nell’altro (e, di conseguenza, in se stesso), che esclude, perciò, un ragionevole accomodamento e persegue non già il bene generale della società bensì un interesse di parte che si sostituisce al bene comune e vuol distruggere ciò che gli si oppone. Si tratta, in una parola, della ripresentazione—sul terreno del confronto interno tra i gruppi sociali—della dottrina della "guerra totale", che il militarismo e l’imperialismo di quell’epoca imponevano nell’ambito dei rapporti internazionali. Tale dottrina alla ricerca del giusto equilibrio tra gli interessi delle diverse Nazioni sostituiva quella dell’assoluto prevalere della propria parte mediante la distruzione del potere di resistenza della parte avversa, distruzione attuata con ogni mezzo, non esclusi l’uso della menzogna, il terrore contro i civili, le armi di sterminio (che proprio in quegli anni cominciavano ad essere progettate). Lotta di classe in senso marxista e militarismo, dunque, hanno le stesse radici: l’ateismo e il disprezzo della persona umana, che fan prevalere il principio della forza su quello della ragione e del diritto.

 

4. La vera alienazione

Il crollo del marxismo non significa per forza un futuro radioso: i rischi e i limiti del nostro sistema sono più subdoli ma certamente altrettanto drammatici per l’uomo.

Si tratta di capire bene cos’è che ruba all’uomo ciò che gli spetta come uomo, che cosa lo "aliena".

CA 41

a) La concezione marxista dell"alienazione".

Il marxismo ha criticato le società borghesi capitalistiche, rimproverando loro la mercificazione e l’alienazione dell’esistenza umana. Certamente, questo rimprovero è basato su una concezione errata ed inadeguata dell’alienazione, che la fa derivare solo dalla sfera dei rapporti di produzione e di proprietà, cioè assegnandole un fondamento materialistico e, per di più, negando la legittimità e la positività delle relazioni di mercato anche nell’ambito che è loro proprio. Si finisce così con l’affermare che solo in una società di tipo collettivistico potrebbe essere eliminata l’alienazione. Ora l’esperienza storica dei Paesi socialisti ha tristemente dimostrato che il collettivismo non sopprime l’alienazione, ma piuttosto l’accresce, aggiungendovi la penuria delle cose necessarie e l’inefficienza economica.

b) Le alienazioni nel capitalismo.

L’esperienza storica dell’Occidente, da parte sua, dimostra che, se l’analisi e la fondazione marxista dell’alienazione sono false, tuttavia l’alienazione con la perdita del senso autentico dell’esistenza è un fatto reale anche nelle società occidentali. Essa si verifica nel consumo, quando l’uomo è implicato in una rete di false e superficiali soddisfazioni, anziché essere aiutato a fare l’autentica e concreta esperienza della sua personalità. Essa si verifica anche nel lavoro, quando è organizzato in modo tale da "massimizzare" soltanto i suoi frutti e proventi e non ci si preoccupa che il lavoratore, mediante il proprio lavoro, si realizzi di più o di meno come uomo, a seconda che cresca la sua partecipazione in un’autentica comunità solidale, oppure cresca il suo isolamento in un complesso di relazioni di esasperata competitività e di reciproca estraniazione, nel quale egli è considerato solo come un mezzo, e non come un fine.

c) È necessaria uninversione tra i mezzi e i fini. Occorre entrare in relazione di solidarietà e comunicare con gli altri.

È necessario ricondurre il concetto di alienazione alla visione cristiana, ravvisando in esso l’inversione tra i mezzi e i fini: quando non riconosce il valore e la grandezza della persona in se stesso e nell’altro, l’uomo di fatto si priva della possibilità di fruire della propria umanità e di entrare in quella relazione di solidarietà e di comunione con gli altri uomini per cui Dio lo ha creato. È, infatti, mediante il libero dono di sé che l’uomo diventa autenticamente se stesso, e questo dono è reso possibile dall’essenziale "capacità di trascendenza" della persona umana. L’uomo non può donare se stesso ad un progetto solo umano della realtà, ad un ideale astratto o a false utopie. Egli, in quanto persona, può donare se stesso ad un’altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che è l’autore del suo essere ed è l’unico che può pienamente accogliere il suo dono. È alienato l’uomo che rifiuta di trascendere se stesso e di vivere l’esperienza del dono di sé e della formazione di un’autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio. È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana.

E la situazione attuale mostra tutti i rischi di un modello di vita che afferma: "io valgo perché possiedo"; "io valgo perché faccio"… In realtà l’uomo vale perché uomo.

 

 

 

CA 32-34

La moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi. L’economia, infatti, è un settore della multiforme attività umana, ed in essa, come in ogni altro campo, vale il diritto alla libertà, come il dovere di fare un uso responsabile di essa. Ma è importante notare che ci sono differenze specifiche tra queste tendenze della moderna società e quelle del passato anche recente. Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell’altro.

I problemi posti dalla moderna economia di impresa.

a) Emarginazione di milioni di esseri umani, sradicati da uneconomia di sussistenza ed impreparati ad operare in uneconomia di impresa.

Non si possono, tuttavia, non denunciare i rischi ed i problemi connessi con questo tipo di processo. Di fatto, oggi molti uomini, forse la grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono di entrare in modo effettivo ed umanamente degno all’interno di un sistema di impresa, nel quale il lavoro occupa una posizione davvero centrale. Essi non hanno la possibilità di acquisire le conoscenze di base, che permettono di esprimere la loro creatività e di sviluppare le loro potenzialità, né di entrare nella rete di conoscenze ed intercomunicazioni, che consentirebbe di vedere apprezzate ed utilizzate la loro qualità. Essi insomma, se non proprio sfruttati, sono ampiamente emarginati, e lo sviluppo economico si svolge, per così dire, sopra la loro testa, quando non restringe addirittura gli spazi già angusti delle loro antiche economie di sussistenza. Incapaci di resistere alla concorrenza di merci prodotte in modi nuovi e ben rispondenti ai bisogni, che prima essi solevano fronteggiare con forme organizzative tradizionali, allettati dallo splendore di un’opulenza ostentata, ma per loro irraggiungibile e, al tempo stesso, stretti dalla necessità, questi uomini affollano le città del Terzo Mondo, dove spesso sono culturalmente sradicati e si trovano in situazioni di violenta precarietà, senza possibilità di integrazione. Ad essi di fatto non si riconosce dignità, e talora si cerca di eliminarli dalla storia mediante forme coatte di controllo demografico, contrarie alla dignità umana.

b) Fasce di poveri sempre più poveri.

Molti altri uomini, pur non essendo del tutto emarginati, vivono all’interno di ambienti in cui è assolutamente primaria la lotta per il necessario e vigono ancora le regole del capitalismo delle origini, nella "spietatezza" di una situazione che non ha nulla da invidiare a quella dei momenti più bui della prima fase di industrializzazione. In altri casi è ancora la terra ad essere l’elemento centrale del processo economico, e coloro che la coltivano, esclusi dalla sua proprietà, sono ridotti in condizioni di semi servitù. In questi casi si può ancora oggi, come al tempo della Rerum Novarum, parlare di uno sfruttamento inumano. Nonostante i grandi mutamenti avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini, sono tutt’altro che scomparse; anzi, per i poveri alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza, che impedisce loro di uscire dallo stato di umiliante subordinazione.

c) Costante povertà degli abitanti dei Paesi del Terzo Mondo rimasti isolati.

Purtroppo, la grande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo vive ancora in simili condizioni. Sarebbe, però, errato intendere questo mondo in un senso soltanto geografico. In alcune regioni ed in alcuni settori sociali di esso sono stati attivati processi di sviluppo incentrati non tanto sulla valorizzazione delle risorse materiali, quanto su quella della "risorsa umana". In anni non lontani è stato sostenuto che lo sviluppo dipendesse dall’isolamento dei Paesi più poveri dal mercato mondiale e dalla loro fiducia nelle sole proprie forze. L’esperienza recente ha dimostrato che i Paesi che si sono esclusi hanno conosciuto stagnazione e regresso, mentre hanno conosciuto lo sviluppo i Paesi che sono riusciti ad entrare nella generale interconnessione delle attività economiche a livello internazionale. Sembra, dunque, che il maggior problema sia quello di ottenere un equo accesso al mercato internazionale, fondato non sul principio unilaterale dello sfruttamento delle risorse naturali, ma sulla valorizzazione delle risorse umane.

d) Anche nei Paesi sviluppati esistono situazioni tipiche del Terzo Mondo.

Aspetti tipici del Terzo Mondo però, emergono anche nei Paesi sviluppati, dove l’incessante trasformazione dei modi di produrre e di consumare svaluta certe conoscenze già acquisite e professionalità consolidate, esigendo un continuo sforzo di riqualificazione e di aggiornamento. Coloro che non riescono a tenersi al passo con i tempi possono facilmente essere emarginati. insieme con essi lo sono gli anziani, i giovani incapaci di ben inserirsi nella vita sociale e, in genere, i soggetti più deboli e il cosiddetto Quarto Mondo. Anche la situazione della donna in queste condizioni è tutt’altro che facile.

Il "libero mercato" sembra lo strumento più adatto per collocare le risorse e per rispondere ai bisogni; ma ha anche dei grossi limiti.

Sembra che, tanto a livello delle singole Nazioni quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono "solvibili", che dispongono di un potere d’acquisto, e per quelle risorse che sono "vendibili", in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. È stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi periscano. È, inoltre, necessario che questi uomini bisognosi siano aiutati ad acquisire le conoscenze ad entrare nel circolo delle interconnessioni, a sviluppare le loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse. Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia, che le son proprie, esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo in forza della sua eminente dignità. Questo qualcosa dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo al bene comune dell’umanità. Nei contesti di Terzo Mondo conservano la loro validità (in certi casi è ancora un traguardo da raggiungere) proprio quegli obiettivi indicati dalla Rerum Novarum, per evitare la riduzione del lavoro dell’uomo e dell’uomo stesso al livello di una semplice merce: il salario sufficiente per la vita della famiglia; le assicurazioni sociali per la vecchiaia e la disoccupazione; la tutela adeguata delle condizioni di lavoro.

La grave crisi del sistema capitalistico e le forze nazionalistiche, disgregatrici, nonché gli scontri tra etnie e popoli non sono che l’inizio di un dramma che può essere fermato solo dal riportare la verità dell’uomo al centro dell’economia e della politica.

 

5. "Nuovo ordine mondiale?"

Rispetto all’attuale situazione del mondo la verità del desiderio di "rimettere le cose a posto secondo giustizia e verità" si verifica guardando il modo di muoversi verso i due terzi del mondo che hanno fame.

D’altra parte alla pretesa di qualche nazione di salvare il mondo intero, (pretesa ormai sfumata visti gli avvenimenti e i comportamenti internazionali riguardo per esempio alla ex Jugoslavia e all’Africa) il Papa aveva già dato risposta:

SRS 24

Se la produzione delle armi è un grave disordine che regna nel mondo odierno rispetto alle vere necessità degli uomini e all’impiego dei mezzi adatti a soddisfarle, non lo è meno il commercio delle stesse armi. Anzi, a proposito di questo, è necessario aggiungere che il giudizio morale è ancora più severo. Come si sa, si tratta di un commercio senza frontiere capace di oltrepassare perfino le barriere dei blocchi. Esso sa superare la divisione tra Oriente e Occidente e, soprattutto, quella tra Nord e Sud sino a inserirsi—e questo è più grave—tra le diverse componenti della zona meridionale del mondo. Ci troviamo così di fronte a uno strano fenomeno: mentre gli aiuti economici e i piani di sviluppo si imbattono nell’ostacolo di barriere ideologiche insuperabili, di barriere tariffarie e di mercato, le armi di qualsiasi provenienza circolano con quasi assoluta libertà nelle varie parti del mondo. E nessuno ignora—come rileva il recente Documento della Pontificia Commissione Iustitia et Pax sul debito internazionale—che in certi casi i capitali, dati in prestito dal mondo dello sviluppo, son serviti ad acquistare armamenti nel mondo non sviluppato. Se a tutto questo si aggiunge il pericolo tremendo, universalmente conosciuto, rappresentato dalle armi atomiche accumulate fino all’incredibile, la conclusione logica appare questa: il panorama del mondo odierno, compreso quello economico, anziché rivelare preoccupazione per un vero sviluppo che conduca tutti verso una vita "più umana"—come auspicava l’Enciclica Populorum Progressio—, sembra destinato ad avviarci più rapidamente verso la morte. Le conseguenze di tale stato di cose si manifestano nell’acuirsi di una piaga tipica e rivelatrice degli squilibri e dei conflitti del mondo contemporaneo: i milioni di rifugiati, a cui guerre, calamità naturali, persecuzioni e discriminazioni di ogni tipo hanno sottratto la casa, il lavoro, la famiglia e la patria. La tragedia di queste moltitudini si riflette nel volto disfatto di uomini, donne e bambini, che, in un mondo diviso e divenuto inospitale, non riescono a trovare più un focolare.

Condanna di ogni tipo di terrorismo, che colpisce in modo sempre più indiscriminato.

Né si possono chiudere gli occhi su un’altra dolorosa piaga del mondo odierno: il fenomeno del terrorismo, inteso come proposito di uccidere e distruggere indistintamente uomini e beni e di creare appunto un clima di terrore e di insicurezza, spesso anche con la cattura di ostaggi. Anche quando si adduce come motivazione di questa pratica inumana una qualsiasi ideologia o la creazione di una società migliore, gli atti di terrorismo non sono mai giustificabili. Ma tanto meno lo sono quando, come accade oggi, tali decisioni e gesti, che diventano a volte vere stragi, certi rapimenti di persone innocenti ed estranee ai conflitti si prefiggono un fine propagandistico a vantaggio della propria causa; ovvero, peggio ancora, sono fine a se stessi, sicché si uccide soltanto per uccidere. Di fronte a tanto orrore e a tanta sofferenza mantengono sempre il loro valore le parole che ho pronunciato alcuni anni fa e che vorrei ripetere ancora: "Il Cristianesimo proibisce […] il ricorso alle vie dell’odio, all’assassinio di persone indifese, ai metodi del terrorismo".

 

D. LA VIA DA SEGUIRE

 

1. Non "TERZA VIA", ma criterio di verità di ogni via.

Vorrei in questa parte presentare i punti fondamentali della dottrina sociale cristiana; non lo farò seguendo lo schema classico che propone la dottrina in cinque "idee" chiave (persona—come punto fondamentale—; famiglia; socialità, legalità e autorità—lo stato—in ordine al bene comune; solidarietà—contro ogni lotta di classe—e partecipazione alla vita dello stato—contro ogni dittatura—; e infine il principio di sussidiarietà).

Motivo di questa scelta è semplicemente il desiderio di seguire più da vicino il magistero di Giovanni Paolo II che riprende, sottolinea, per certi aspetti amplia e doverosamente esemplifica nei problemi dei nostri giorni i cinque "cardini" su cui poggia la dottrina sociale cattolica.

Non è questione di aggiornamento ma molto più precisamente di indicazione chiara di ciò che quei principi significano oggi. Cosa significa difendere, sostenere, promuovere la persona, la famiglia etc. oggi, nel nostro contesto? La risposta a queste domande porta alla identificazione non solo di "valori" astratti—su cui difficilmente si è in disaccordo finché sono enunciati—ma di valori incarnati e dunque di vere e proprie scelte irrinunciabili per chi desidera essere cristiano. Non si vuole qui sostenere che su ogni problema il Papa debba esprimere la soluzione su cui "allinearsi"; questo comprometterebbe il giusto "rischio" che ogni uomo deve assumersi nelle scelte della propria vita. Così non si vuole neppure confondere il piano della politica con quello del magistero sociale: si tratta però di guardare con realismo e franchezza ad alcuni valori, alla loro incarnazione e dunque alla capacità di diventare criterio di giudizio per i problemi che via via si affrontano.

Già Leone XIII nella Rerum Novarum aveva dedicato interi paragrafi alla determinazione del "giusto" salario che era dovuto agli operai: oggi nessuno chiederebbe al Papa di pronunciarsi su tale questione e d’altra parte il Papa interverrebbe semplicemente richiamando il principio "generale" della giustizia.

Ma come Leone XIII decise di "incarnare" fino a quel punto la difesa della dignità della persona umana (infatti tratta del salario proprio nel capitolo intitolato "la dignità della persona umana") così Giovanni Paolo II incarna alcuni valori fino a esemplificazioni e indicazioni concrete, perché—come Leone XIII ai suoi tempi—ritiene di non poter tacere quando vede tradito e calpestato l’uomo.

La dottrina sociale va dunque conosciuta anche in queste sottolineature concrete che stimolano e verificano la nostra affermazione decisa dei valori: oso anzi affermare che la valutazione della serietà con cui si affermano i valori può essere aiutata da queste sottolineature concrete. Perché non usare come criterio per scelte difficili e responsabili come il voto politico non solo le promesse sui valori ma anche la verifica della reale attuazione di tali valori per esempio sui punti concreti che il Magistero propone?

Emerge così la caratteristica fondamentale della dottrina sociale: non è una via (la "terza" tra capitalismo e marxismo) ma un criterio, un sostegno, una spinta per ogni via che cerchi realmente una soluzione al bisogno dell’uomo secondo verità e giustizia. Da questo punto di vista è sprone agli uomini di "buona volontà" perché tentino vie sempre nuove senza sentirsi soli, senza punti di riferimento. Non è certo un "ordine di scuderia" su cui appiattirsi e uniformarsi. La storia lo dimostra: l’enciclica Rerum Novarum nacque da una intensa vita di "base" del mondo cattolico e non, e sviluppò ancor di più questa vita, mostrando però anche i limiti di alcuni tentativi e sostenendo i primi timidi passi di altri.

E sul tema della non "terza via", e dunque sullo scopo profondo della dottrina sociale il Papa è chiarissimo.

SRS 41

La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al problema del sottosviluppo in quanto tale, come affermò già Papa Paolo VI nella sua Enciclica. Essa, infatti, non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta preferenze per gli uni o per gli altri, purché la dignità dell’uomo sia debitamente rispettata e promossa ed a lei stessa sia lasciato lo spazio necessario per esercitare il suo ministero nel mondo. Ma la Chiesa è "esperta in umanità", e ciò la spinge a estendere necessariamente la sua missione religiosa ai diversi campi in cui uomini e donne dispiegano le loro attività, in cerca della felicità, pur sempre relativa, che è possibile in questo mondo, in linea con la loro dignità di persone. Sull’esempio dei miei predecessori, debbo ripetere che non può ridursi a problema "tecnico" ciò che, come lo sviluppo autentico, tocca la dignità dell’uomo e dei popoli. Così ridotto, lo sviluppo sarebbe svuotato del suo vero contenuto e si compirebbe un atto di tradimento verso l’uomo e i popoli, al cui servizio esso deve essere messo. Ecco perché la Chiesa ha una parola da dire oggi, come venti anni fa, ed anche in futuro, intorno alla natura, alle condizioni, esigenze e finalità dell’autentico sviluppo ed agli ostacoli, altresì, che vi si oppongono. Così facendo, la Chiesa adempie la missione di evangelizzare, poiché dà il suo primo contributo alla soluzione dell’urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull’uomo, applicandola a una situazione concreta.

b) La dottrina sociale della Chiesa non è una "terza via", ma si colloca al di là e al di sopra

della contrapposizione tra capitalismo e collettivismo.

Quale strumento per raggiungere lo scopo, la Chiesa adopera la sua dottrina sociale. Nell’odierna difficile congiuntura, per favorire sia la corretta impostazione dei problemi che la loro migliore soluzione, potrà essere di grande aiuto una conoscenza più esatta e una diffusione più ampia dell’"insieme dei principi di riflessione, dei criteri di giudizio e delle direttrici di azione" proposti dal suo insegnamento. Si avvertirà così immediatamente che le questioni che ci stanno di fronte sono innanzitutto morali. e che né l’analisi del problema dello sviluppo in quanto tale, né i mezzi per superare le presenti difficoltà possono prescindere da tale essenziale dimensione. La dottrina sociale della Chiesa non è una "terza via" tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale.

c) La dottrina sociale è lo strumento della Chiesa per guidare la condotta delle persone verso un impegno per la giustizia.

L’insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. E, trattandosi di una dottrina indirizzata a guidare la condotta delle persone, ne deriva di conseguenza l’"impegno per la giustizia" secondo il ruolo, la vocazione, le condizioni di ciascuno. All’esercizio del ministero dell’evangelizzazione in campo sociale, che è un aspetto della funzione profetica della Chiesa, appartiene pure la denuncia dei mali e delle ingiustizie. Ma conviene chiarire che l’annuncio è sempre più importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello, che le offre la vera solidità e la forza della motivazione più alta.

E di nuovo, anche in questo brano, emerge che la dottrina sociale ha come unico centro, come unico scopo e come unica forza propulsiva, l’annuncio dell’unica reale novità della storia: la presenza viva di Cristo, dunque di Dio, nella nostra realtà, per salvare noi e il cosmo intero.

Guai se la dottrina sociale diventasse qualcosa di diverso dall’azione di Cristo vivo, presente e perciò incontrabile in questa nostra vita, oggi e per ogni uomo.

Ma, appunto, perché ogni uomo possa incontrare Cristo non si può tacere su ciò che impedisce in qualunque modo questo "incontro". Anche le condizioni sociali e politiche possono ostacolare o favorire il fine della vita, il motivo per cui siamo stati creati; esistiamo per incontrare Colui che è fonte della vita, siamo vivi per scegliere liberamente di essere amati da Dio.

Si comprende così la prima parte del brano della Sollicitudo che poco sopra abbiamo citato.

Il tema della "terza via" è ripreso chiaramente nella Centesimus Annus:

CA 42-43

Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società? È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile? La risposta è ovviamente complessa. Se con "capitalismo" si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di "economia d’impresa" o di "economia di mercato" o semplicemente di "economia libera". Ma se con "capitalismo" si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa. La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell’affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C’è anzi il rischio che si diffonda un’ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all’insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato.

La Chiesa non propone modelli, ma orientamenti ideali.

La Chiesa non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra loro. A tale impegno la Chiesa offre, come indispensabile orientamento ideale, la propria dottrina sociale, che—come si è detto—riconosce la positività del mercato e dell’impresa, ma indica, nello stesso tempo, la necessità che questi siano orientati verso il bene comune. Essa riconosce anche la legittimità degli sforzi dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi maggiori di partecipazione nella vita dell’azienda, di modo che, pur lavorando insieme con altri e sotto la direzione di altri, possano, in un certo senso, "lavorare in proprio" esercitando la loro intelligenza e libertà.

a) Lazienda come "società di capitali" e come "società di persone".

L’integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso, anche se ciò può indebolire assetti di potere consolidati. L’azienda non può esser considerata solo come una "società di capitali"; essa, al tempo stesso, è una "società di persone", di cui entrano a far parte in modo diverso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale necessario per la sua attività, sia coloro che vi collaborano col loro lavoro. Per conseguire questi fini è ancora necessario un grande movimento associato dei lavoratori il cui obiettivo è la liberazione e la promozione integrale della persona.

b) La giusta concezione della proprietà individuale in rapporto alla destinazione universale dei beni.

Alla luce delle "cose nuove" di oggi è stato riletto il rapporto tra la proprietà individuale o privata, e la destinazione universale dei beni. L’uomo realizza se stesso per mezzo della sua intelligenza e della sua libertà e, nel fare questo, assume come oggetto e come strumento le cose del mondo e di esse si appropria. In questo suo agire sta il fondamento del diritto all’iniziativa e alla proprietà individuale. Mediante il suo lavoro l’uomo s’impegna non solo per se stesso, ma anche per gli altri e con gli altri: ciascuno collabora al lavoro ed al bene altrui. L’uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di cui fa parte, della Nazione e, in definitiva, dell’umanità tutta. Egli, inoltre, collabora al lavoro degli altri, che operano nella stessa azienda, nonché al lavoro dei fornitori o al consumo dei clienti, in una catena di solidarietà che si estende progressivamente. La proprietà dei mezzi di produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e legittima, se serve ad un lavoro utile; diventa, invece, illegittima, quando non viene valorizzata o serve ad impedire il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall’espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro. Una tale proprietà non ha nessuna giustificazione e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli uomini.

c) Non è legittimata la società che nega il diritto di ognuno al lavoro e ad un giusto compenso.

L’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale. Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti.

 

2. "Non c’è vera soluzione della questione sociale fuori del Vangelo.

Il titolo di questo paragrafo è una frase di Leone XIII ripresa e ampliata da Giovanni Paolo II nel numero 5 della Centesimus Annus.

Il significato di tale frase, riassuntivo dell’intero contenuto della dottrina sociale, è il punto di partenza per la proposizione dei temi seguenti: essa significa che la promessa di Cristo all’uomo (promessa di "salvezza") è via concreta in questo mondo, per ogni uomo, in questa realtà.

Tale contenuto era chiaramente espresso nel punto 18 della Redemptor Hominis.

 

RH 18

Questo sguardo, necessariamente sommario, alla situazione dell’uomo nel mondo contemporaneo ci fa indirizzare ancor più il pensiero e il cuore a Gesù Cristo, al mistero della Redenzione, in cui il problema dell’uomo è inscritto con una speciale forza di verità e di amore. Se Cristo "si è unito in certo modo ad ogni uomo", la Chiesa, penetrando nell’intimo di questo mistero, nel suo ricco e universale linguaggio, vive anche più profondamente la propria natura e missione. Non invano l’Apostolo parla del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Se questo Corpo mistico di Cristo è Popolo di Dio—come dirà in seguito il Concilio Vaticano II, basandosi su tutta la tradizione biblica e patristica—ciò significa che ogni uomo è in esso penetrato da quel soffio di vita che proviene da Cristo. In questo modo anche il volgersi verso l’uomo, i suoi reali problemi, verso le sue speranze e sofferenze, conquiste e cadute, fa sì che la Chiesa stessa come corpo, come organismo, come unità sociale, percepisca gli stessi impulsi divini, i lumi e le forze dello Spirito che provengono da Cristo crocifisso e risorto, ed è proprio per questo che essa vive la sua vita. La Chiesa non ha altra vita all’infuori di quella che le dona il suo Sposo e Signore. Difatti, proprio perché Cristo nel mistero della sua Redenzione si è unito ad essa, la Chiesa deve essere saldamente unita con ciascun uomo. Questa unione del Cristo con l’uomo è in se stessa un mistero, dal quale nasce "l’uomo nuovo", chiamato a partecipare alla vita di Dio, creato nuovamente in Cristo alla pienezza della grazia e della verità. L’unione del Cristo con l’uomo è la forza e la sorgente della forza, secondo l’incisiva espressione di S. Giovanni nel prologo del suo Vangelo: "Il Verbo ha dato potere di diventare figli di Dio". Questa è la forza che trasforma interiormente l’uomo, quale principio di una vita nuova che non svanisce e non passa, ma dura per la vita eterna. Questa vita, promessa e offerta a ciascun uomo dal Padre in Gesù Cristo, eterno ed unigenito Figlio, incarnato e nato "quando venne la pienezza del tempo" dalla Vergine Maria, è il compimento finale della vocazione dell’uomo. È in qualche modo compimento di quella "sorte", che dall’eternità Dio gli ha preparato. Questa "sorte divina" si fa via, al di sopra di tutti gli enigmi, le incognite, le tortuosità, le curve della "sorte umana" nel mondo temporale.

Se la dottrina sociale parte dall’uomo ed è diretta alla "promozione" di una società sempre più umana, la verità sull’uomo rivelata in Cristo—dunque il Vangelo, cioè Cristo stesso—è partenza, strada e meta, cioè "soluzione" ai problemi umani, al mistero del suo stesso esistere.

CA 55-56

La Chiesa riceve il "senso dell’uomo" dalla divina Rivelazione. "Per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio", diceva Paolo VI, e subito dopo citava santa Caterina da Siena, che esprimeva in preghiera lo stesso concetto: "Nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia".

a) Lantropologia cristiana è un capitolo della teologia.

Pertanto, l’antropologia cristiana è in realtà un capitolo della teologia e, per la stessa ragione, la dottrina sociale della Chiesa preoccupandosi dell’uomo, interessandosi a lui e al suo modo di comportarsi nel mondo, "appartiene… al campo della teologia e, specialmente, della teologia morale". La dimensione teologica risulta necessaria sia per interpretare che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana. Il che vale—conviene rilevarlo—tanto nei confronti della soluzione "atea", che priva l’uomo di una delle sue componenti fondamentali quella spirituale, quanto nei confronti delle soluzioni permissive e consumistiche, le quali con vari pretesti mirano a convincerlo della sua indipendenza da ogni legge e da Dio, chiudendolo in un egoismo che finisce per nuocere a lui stesso ed agli altri.

b) Lannuncio della salvezza di Dio è un arricchimento della dignità delluomo. Nuove forze e metodi nuovi per levangelizzazione.

Quando annuncia all’uomo la salvezza di Dio, quando gli offre e comunica la vita divina mediante i sacramenti, quando orienta la sua vita con i comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo, la Chiesa contribuisce all’arricchimento della dignità dell’uomo. Ma essa, come non può mai abbandonare questa sua missione religiosa e trascendente in favore dell’uomo, così si rende conto che la sua opera incontra oggi particolari difficoltà ed ostacoli. Ecco perché si impegna sempre con nuove forze e con nuovi metodi all’evangelizzazione che promuove tutto l’uomo. Anche alla vigilia del terzo Millennio, essa rimane "il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana", come ha sempre cercato di fare sin dall’inizio della sua esistenza, camminando insieme con l’uomo lungo tutta la storia. L’Enciclica Rerum Novarum ne è un’espressione significativa.

Necessità di divulgare in tutto il mondo la dottrina sociale cristiana.

Nel centesimo anniversario di quest’Enciclica, desidero ringraziare tutti coloro che si sono impegnati a studiare, approfondire e divulgare la dottrina sociale cristiana. A questo fine è indispensabile la collaborazione delle Chiese locali, ed io auguro che la ricorrenza sia motivo di un rinnovato slancio per il suo studio, diffusione ed applicazione nei molteplici ambiti. Desidero, in particolare, che essa sia fatta conoscere e sia attuata nei diversi Paesi dove, dopo il crollo del socialismo reale si manifesta un grave disorientamento nell’opera di ricostruzione. A loro volta, i Paesi occidentali corrono il pericolo di vedere in questo cedimento la vittoria unilaterale del proprio sistema economico, e non si preoccupano, perciò, di apportare ad esso le dovute correzioni. I Paesi del Terzo Mondo, poi si trovano più che mai nella drammatica situazione dei sottosviluppo, che ogni giorno si aggrava. Leone XIII, dopo aver formulato i principi e gli orientamenti per la soluzione della questione operaia, scrisse una parola decisiva: "Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe render più difficile la cura di un male già tanto grave", aggiungendo anche: "Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mai mancare in nessun modo l’opera sua".

 

3. PRIMA REGOLA: essere uomini.

Siamo al mondo non per avere, non per accumulare, non per fare, ma per essere, in particolare per essere noi stessi, uomini.

Sembra tanto banale eppure nel concetto di "persona", cioè dell’esistenza di un essere che scopre di esistere e può scegliere liberamente di essere ciò che è, risiede tutto il compito della nostra vita, il mistero della nostra esistenza, e dunque il centro della Rivelazione cristiana.

Nulla è più importante nel mondo creato dell’uomo. Eppure l’uomo deve rendersene conto imparando a valutarsi per ciò che è e non per ciò che ha.

Il lavoro è risposta, è realizzazione, è creazione dell’uomo, ma non è più importante dell’uomo. Dunque le regole, i ritmi del lavoro e del riposo, la destinazione del profitto del lavoro etc. hanno un punto chiaro: che ogni uomo sia sempre più uomo.

Mentre sembra che l’unico segnale positivo nell’andamento economico sia l’aumentare del profitto (perché ciò produce ricchezza e la ricchezza "ovviamente" rende l’uomo più uomo) e l’unico segnale negativo sia la perdita di profitto, la Chiesa rilancia la centralità dell’uomo rispetto al lavoro.

L’indice è positivo se l’uomo aumenta in umanità, e se questo è a vantaggio di ogni uomo.

SRS 32-33

L’obbligo di impegnarsi per lo sviluppo dei popoli non è un dovere soltanto individuale, né tanto meno individualistico, come se fosse possibile conseguirlo con gli sforzi isolati di ciascuno. Esso è un imperativo per tutti e per ciascuno degli uomini e delle donne, per le società e le Nazioni, in particolare per la Chiesa cattolica e per le altre Chiese e Comunità ecclesiali, con le quali siamo pienamente disposti a collaborare in questo campo. In tal senso, come noi cattolici invitiamo i fratelli cristiani a partecipare alle nostre iniziative, così ci dichiariamo pronti a collaborare alle loro, accogliendo gli inviti che ci sono rivolti. In questa ricerca dello sviluppo integrale dell’uomo possiamo fare molto anche con i credenti delle altre religioni, come del resto si sta facendo in diversi luoghi. La collaborazione allo sviluppo di tutto l’uomo e di ogni uomo, infatti, è un dovere di tutti verso tutti e deve, al tempo stesso, essere comune alle quattro parti del mondo: Est e Ovest, Nord e Sud; o, per adoperare il termine oggi in uso, ai diversi "mondi". Se, al contrario, si cerca di realizzarlo in una sola parte o in un solo mondo, esso è fatto a spese degli altri; e là dove comincia, proprio perché gli altri sono ignorati, si ipertrofizza e si perverte. I popoli o le Nazioni hanno anch’essi diritto al proprio pieno sviluppo, che, se implica—come si è detto—gli aspetti economici e sociali, deve comprendere pure la rispettiva identità culturale e l’apertura verso il trascendente. Nemmeno la necessità dello sviluppo può essere assunta come pretesto per imporre agli altri il proprio modo di vivere o la propria fede religiosa.

Il vero sviluppo si fonda sul rispetto dei diritti umani.

a) Per essere degno delluomo lo sviluppo deve promuovere tutti i diritti degli uomini, delle Nazioni e dei popoli.

Né sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli. Oggi, forse più che in passato, si riconosce con maggior chiarezza l’intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo. L’intrinseca connessione tra sviluppo autentico e rispetto dei diritti dell’uomo ne rivela ancora una volta il carattere morale: la vera elevazione dell’uomo, conforme alla vocazione naturale e storica di ciascuno non si raggiunge sfruttando solamente l’abbondanza dei beni e dei servizi o disponendo di perfette infrastrutture. Quando gli individui e le comunità non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali, fondate sulla dignità della persona e sull’identità propria di ciascuna comunità, a cominciare dalla famiglia e dalle società religiose, tutto il resto—disponibilità di beni, abbondanza di risorse tecniche applicate alla vita quotidiana, un certo livello di benessere materiale—risulterà insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile. Ciò afferma chiaramente il Signore nel Vangelo, richiamando l’attenzione di tutti sulla vera gerarchia dei valori: "Qual vantaggio avrà l’uomo, se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?" (Mt 16, 26).

 

 

 

b) Gli operatori dei processi di sviluppo debbono avere una vera coscienza del "valore" dei diritti umani.

Un vero sviluppo, secondo le esigenze proprie dell’essere umano, uomo o donna, bambino, adulto o anziano, implica soprattutto da parte di quanti intervengono attivamente in questo processo e ne sono responsabili una viva coscienza del valore dei diritti di tutti e di ciascuno nonché della necessità di rispettare il diritto di ognuno all’utilizzazione piena dei benefici offerti dalla scienza e dalla tecnica.

c) I diritti umani sono da rispettare allinterno delle Nazioni e sul piano internazionale.

Sul piano interno di ogni Nazione, assume grande importanza il rispetto di tutti i diritti: specialmente il diritto alla vita in ogni stadio dell’esistenza; i diritti della famiglia, in quanto comunità sociale di base o "cellula della società"; la giustizia nei rapporti di lavoro; i diritti inerenti alla vita della comunità politica in quanto tale; i diritti basati sulla vocazione trascendente dell’essere umano, a cominciare dal diritto alla libertà di professare e di praticare il proprio credo religioso. Sul piano internazionale, ossia dei rapporti tra gli Stati o, secondo il linguaggio corrente, tra i vari "mondi", è necessario il pieno rispetto dell’identità di ciascun popolo con le sue caratteristiche storiche e culturali. È indispensabile, altresì, come già auspicava l’Enciclica Populorum Progressio, riconoscere a ogni popolo l’eguale diritto "ad assidersi alla mensa del banchetto comune"", invece di giacere come Lazzaro fuori della porta, mentre "i cani vengono a leccare le sue piaghe" (cfr. Lc 16, 21). Sia i popoli che le persone singole debbono godere dell’eguaglianza fondamentale, su cui si basa, per esempio, la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: eguaglianza che è il fondamento del diritto di tutti alla partecipazione al processo di pieno sviluppo.

d) Lo sviluppo deve realizzarsi sulla base dei principi di eguaglianza, di solidarietà, di libertà e nel rispetto della verità.

Per essere tale, lo sviluppo deve realizzarsi nel quadro della solidarietà e della libertà, senza sacrificare mai l’una e l’altra per nessun pretesto. Il carattere morale dello sviluppo e la sua necessaria promozione sono esaltati quando c’è il più rigoroso rispetto di tutte le esigenze derivanti dall’ordine della verità e del bene, propri della creatura umana. Il cristiano, inoltre, educato a vedere nell’uomo l’immagine di Dio, chiamato alla partecipazione della verità e del bene, che è Dio stesso, non comprende l’impegno per lo sviluppo e la sua attuazione fuori dell’osservanza e del rispetto della dignità unica di questa "immagine". In altre parole, il vero sviluppo deve fondarsi sull’amore di Dio e del prossimo, e contribuire a favorire i rapporti tra individui e società. Ecco la "civiltà dell’amore", di cui parlava spesso il Papa Paolo VI.

È stupendo il modo con cui il Papa riprendendo questo tema parla delle varie aziende o imprese come di "comunità di uomini". Come cambierebbe il concetto di pianificazione, ristrutturazione etc. se per prima cosa parlando di "bilanci" di aziende venisse in mente la definizione del Papa.

Fantascienza o indicazione dell’unica possibilità di sopravvivenza?

CA 35

La Chiesa riconosce la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell’azienda: quando un’azienda produce profitto; ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti. Tuttavia il profitto non è l’unico indice delle condizioni dell’azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi negativi anche per l’efficienza economica dell’azienda. Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa.

 

4. SECONDA REGOLA: i beni sono per te, non tuoi.

Giovanni Paolo II compie un cambiamento di nome di grande interesse: inizia a sostituire il termine "proprietà privata" con "proprietà individuale".

Nello stesso tempo lega—come già Leone XIII—la proprietà individuale al concetto di destinazione universale dei beni.

Sono punti chiari, decisivi e per molti (forse anche tra noi cristiani?) ignoti.

SRS 42

La dottrina sociale della Chiesa, oggi più di prima, ha il dovere di aprirsi a una prospettiva internazionale in linea col Concilio Vaticano II, con le più recenti Encicliche e, in particolare, con quella che stiamo ricordando. Non sarà, pertanto, superfluo riesaminarne e approfondirne sotto questa luce i temi e gli orientamenti caratteristici, ripresi dal Magistero in questi anni. Desidero qui segnalarne uno: l’opzione o amore preferenziale per i poveri. È, questa, una opzione o una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l’uso dei beni. Oggi poi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale ha assunto, questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell’esistenza di queste realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al "ricco epulone", che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta (cfr. Lc 16, 19-31).

b) I governanti e i dirigenti degli organismi internazionali debbono dare la precedenza al fenomeno del continuo aumento della povertà.

La nostra vita quotidiana deve essere segnata da queste realtà, come pure le nostre decisioni in campo politico ed economico. Parimenti i responsabili delle Nazioni e degli stessi Organismi internazionali, mentre hanno l’obbligo di tener sempre presente come prioritaria nei loro piani la vera dimensione umana, non devono dimenticare di dare la precedenza al fenomeno della crescente povertà. Purtroppo, invece di diminuire, i poveri si moltiplicano non solo nei Paesi meno sviluppati, ma, ciò che appare non meno scandaloso, anche in quelli maggiormente sviluppati.

c) Riaffermazione della funzione sociale del diritto alla proprietà privata in forza del principio della destinazione universale dei beni.

Bisogna ricordare ancora una volta il principio tipico della dottrina sociale cristiana: i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti. Il diritto alla proprietà privata è valido e necessario, ma non annulla il valore di tale principio: su di essa, infatti, grava "un’ipoteca sociale", cioè vi si riconosce, come qualità intrinseca, una funzione sociale, fondata e giustificata precisamente sul principio della destinazione universale dei beni. Né sarà da trascurare, in questo impegno per i poveri, quella speciale forma di povertà che è la privazione dei diritti fondamentali della persona, in particolare del diritto alla libertà religiosa e del diritto, altresì, all’iniziativa economica.

CA 30-32

a) Leone XIII ha affermato il diritto alla proprietà privata subordinata alla originaria destinazione comune dei beni della Terra.

Nella Rerum Novarum Leone XIII affermava con forza e con vari argomenti, contro il socialismo del suo tempo, il carattere naturale del diritto di proprietà privata. Tale diritto, fondamentale per l’autonomia e lo sviluppo della persona, è stato sempre difeso dalla Chiesa fino ai nostri giorni. Parimenti la Chiesa insegna che la proprietà dei beni non è un diritto assoluto, ma porta inscritti nella sua natura di diritto umano i propri limiti. Mentre proclamava il diritto di proprietà privata, il Pontefice affermava con pari chiarezza che l’"uso" dei beni, affidato alla libertà, è subordinato alla loro originaria destinazione comune di beni creati ed anche alla volontà di Gesù Cristo, manifestata nel Vangelo. Infatti scriveva: "i fortunati dunque sono ammoniti…: i ricchi debbono tremare pensando alle minacce di Gesù Cristo…; dell’uso dei loro beni dovranno un giorno rendere rigorosissimo conto a Dio giudice"; e, citando san Tommaso d’Aquino, aggiungeva: "Ma se si domanda quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa non esita a rispondere che a questo proposito l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, ma come comuni", perché "sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge, il giudizio di Cristo".

b) I successori di Leone XIII hanno confermato tale dottrina.

I successori di Leone XIII hanno ripetuto la duplice affermazione: la necessità e, quindi, la liceità della proprietà privata ed insieme i limiti che gravano su di essa. Anche il Concilio Vaticano II ha riproposto la dottrina tradizionale con parole che meritano di essere riportate esattamente: "l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri". E poco oltre: "La proprietà privata o un qualche potere sui beni esterni assicurano a ciascuno una zona del tutto necessaria di autonomia personale e familiare e devono considerarsi come un prolungamento della libertà umana… La stessa proprietà privata ha per sua natura anche una funzione sociale, che si fonda sulla legge della comune destinazione dei beni". La stessa dottrina ho ripreso prima nel discorso alla III Conferenza dell’Episcopato latino-americano a Puebla, e poi nelle Encicliche Laborem exercens e Sollicitudo rei socialis.

 

 

 

La dottrina circa lorigine dei beni.

a) La prima origine dei beni è Dio stesso.

Rileggendo tale insegnamento sul diritto di proprietà e la destinazione comune dei beni in rapporto al nostro tempo, si può porre la domanda circa l’origine dei beni che sostentano la vita dell’uomo, soddisfano i suoi bisogni e sono oggetto dei suoi diritti. La prima origine di tutto ciò che è bene è l’atto stesso di Dio che ha creato la terra e l’uomo, ed all’uomo ha dato la terra perché la domini col suo lavoro e ne goda i frutti (cfr. Gn 1, 28-29). Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno. È qui la radice dell’universale destinazione dei beni della Terra. Questa in ragione della sua stessa fecondità e capacità di soddisfare i bisogni dell’uomo, è il primo dono di Dio per il sostentamento della vita umana. Ora, la terra non dona i suoi frutti senza una peculiare risposta dell’uomo al dono di Dio, cioè senza il lavoro: è mediante il lavoro che l’uomo, usando la sua intelligenza e la sua libertà riesce a dominarla e ne fa la sua degna dimora. In tal modo egli fa propria una parte della Terra, che appunto si è acquistata col lavoro. È qui l’origine della proprietà individuale. E ovviamente egli ha anche la responsabilità di non impedire che altri uomini abbiano la loro parte del dono di Dio, anzi deve cooperare con loro per dominare insieme tutta la Terra.

b) La seconda origine sta nel lavoro e nella terra, da cui deriva la proprietà individuale.

Nella storia si ritrovano sempre questi due fattori, il lavoro e la terra al principio di ogni società umana, non sempre, però, essi stanno nella medesima relazione tra loro. Un tempo la naturale fecondità della terra appariva e di fatto era il principale fattore della ricchezza, mentre il lavoro era come l’aiuto ed il sostegno di tale fecondità. Nel nostro tempo diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come fattore produttivo delle ricchezze immateriali e materiali; diventa inoltre evidente come il lavoro di un uomo si intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno. Il lavoro è tanto più fecondo e produttivo, quanto più l’uomo è capace di conoscere le potenzialità produttive della terra e di leggere in profondità i bisogni dell’altro uomo, per il quale il lavoro è fatto.

Valore della proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere.

Ma un’altra forma di proprietà esiste, in particolare, nel nostro tempo e riveste un’importanza non inferiore a quella della terra: è la proprietà della conoscenza della tecnica e del sapere. Su questo tipo di proprietà si fonda la ricchezza delle Nazioni industrializzate molto più che su quella delle risorse naturali.

a) Il ruolo determinante del lavoro umano e delle capacità di iniziativa e imprenditorialità.

Si è ora accennato al fatto che l’uomo lavora con gli altri uomini partecipando ad un "lavoro sociale" che abbraccia cerchi progressivamente più ampi. Chi produce un oggetto, lo fa in genere, oltre che per l’uso personale, perché altri possano usarne dopo aver pagato il giusto prezzo, stabilito di comune accordo mediante una libera trattativa. Ora, proprio la capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini e le combinazioni dei fattori produttivi più idonei a soddisfarli, è un’altra importante fonte di ricchezza nella società moderna. Del resto, molti beni non possono essere prodotti in modo adeguato dall’opera di un solo individuo, ma richiedono la collaborazione di molti al medesimo fine. Organizzare un tale sforzo produttivo, pianificare la sua durata nel tempo procurare che esso corrisponda in modo positivo ai bisogni che deve soddisfare, assumendo i rischi necessari: è, anche questo, una fonte di ricchezza nell’odierna società. Così diventa sempre più evidente e determinante il ruolo del lavoro umano disciplinato e creativo e—quale parte essenziale di tale lavoro—delle capacità di iniziativa e di imprenditorialità.

b) La principale risorsa delluomo è luomo stesso.

Un tale processo, che mette concretamente in luce una verità sulla persona incessantemente affermata dal cristianesimo, deve essere riguardato con attenzione e favore. In effetti, la principale risorsa dell’uomo insieme con la terra è l’uomo stesso. È la sua intelligenza che fa scoprire le potenzialità produttive della terra e le multiformi modalità con cui i bisogni umani possono essere soddisfatti. È il suo disciplinato lavoro, in solidale collaborazione, che consente la creazione di comunità di lavoro sempre più ampie ed affidabili per operare la trasformazione dell’ambiente naturale e dello stesso ambiente umano. In questo processo sono coinvolte importanti virtù, come la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell’assumere i ragionevoli rischi, l’affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell’esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell’azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna.

 

5. TERZA REGOLA: solidarietà.

È un termine chiave e decisivo, ricco già di storia e di successi (vedi anche Romano Guardini, LA FINE DELL’EPOCA MODERNA, Morcelliana, Brescia 1954-1973; il testo è globalmente molto interessante e certamente riesce a dare una profonda dignità culturale, attraverso un’acuta analisi storica, della necessità oggi a tutti i livelli della solidarietà, pur usando molto raramente questa parola.

Confronta in particolar modo il terzo capitolo: parlando della necessità della "riconquista dell’esistenza attraverso l’uomo e per l’umano, che rappresenta il compito dell’avvenire"—pag. 63—, Guardini afferma che le "esigenze di quest’opera saranno così immense che le possibilità delle iniziative individuali e la cooperazione dei singoli, individualisticamente formati, non saranno in grado di rispondervi". Quale, allora, l’unica possibilità? "Sarà necessaria una unione di forze ed una unità di contribuzioni basate su di un atteggiamento diverso… la solidarietà completa di fronte al lavoro e di fronte al compagno di lavoro".—pag. 66—).

Cosa intende la dottrina sociale cristiana ed in particolare l’attuale Magistero Pontificio con il "comandamento" della solidarietà?

Non ci troviamo di fronte al richiamo ad un atteggiamento di bontà, ma ad un dovere esigito non solo dalla giustizia, ma anche dall’intelligenza.

La solidarietà non è ancora la carità cristiana (che è puro dono gratuito), ma è il livello di rapporto normale, vero e indispensabile perché il mondo non scoppi in una crisi disastrosa, in particolare tra i popoli della fame (DUE TERZI dell’umanità) e i sazi.

Alla base dunque una evidenza: l’interdipendenza tra tutti gli uomini e tra tutti i popoli.

Tutto ciò è ben espresso nella Sollicitudo rei socialis che arriva a richiami molto concreti che possono far riflettere tutti coloro che possono intervenire (es. crisi degli alloggi e disoccupazione).

SRS 17-18

Quantunque la società mondiale offra aspetti di frammentazione, espressa con i nomi convenzionali di Primo, Secondo, Terzo ed anche Quarto Mondo, rimane sempre molto stretta la loro interdipendenza che, quando sia disgiunta dalle esigenze etiche, porta a conseguenze funeste per i più deboli. Anzi, questa interdipendenza, per una specie di dinamica interna e sotto la spinta di meccanismi che non si possono non qualificare come perversi, provoca effetti negativi perfino nei Paesi ricchi. Proprio all’interno di questi Paesi si riscontrano, seppure in misura minore, le manifestazioni specifiche del sottosviluppo. Sicché dovrebbe esser pacifico che lo sviluppo o diventa comune a tutte le parti del mondo o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante progresso. Fenomeno, questo, particolarmente indicativo della natura dell’autentico sviluppo: o vi partecipano tutte le Nazioni del mondo o non sarà veramente tale. Tra gli indici specifici del sottosviluppo, che colpiscono in maniera crescente anche i Paesi sviluppati, ve ne sono due particolarmente rivelatori di una situazione drammatica. In primo luogo, la crisi degli alloggi. In questo Anno internazionale dei senzatetto, voluto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’attenzione si rivolge ai milioni di esseri umani privi di un’abitazione adeguata o addirittura senza abitazione alcuna, al fine di risvegliare la coscienza di tutti e trovare una soluzione a questo grave problema che ha conseguenze negative sul piano individuale, familiare e sociale. La carenza di abitazioni si verifica su un piano universale ed è dovuta, in gran parte, al fenomeno sempre crescente dell’urbanizzazione. Perfino gli stessi popoli più sviluppati presentano il triste spettacolo di individui e famiglie che si sforzano letteralmente di sopravvivere, senza un tetto o con uno così precario che è come se non ci fosse. La mancanza di abitazioni, che è un problema di per se stesso assai grave, è da considerare segno e sintesi di tutta una serie di insufficienze economiche, sociali, culturali o semplicemente umane e, tenuto conto dell’estensione del fenomeno, non dovrebbe essere difficile convincersi di quanto siamo lontani dall’autentico sviluppo dei popoli.

Altri indici negativi comuni: la disoccupazione e la sottoccupazione.

a) Altro indice, comune alla stragrande maggioranza delle Nazioni, è il fenomeno della disoccupazione e della sottoccupazione. Non c’è chi non si renda conto dell’attualità e della crescente gravità di un simile fenomeno nei Paesi industrializzati. Se esso appare allarmante nei Paesi in via di sviluppo, con il loro alto tasso di crescita demografica e la massa della popolazione giovanile, nei Paesi di grande sviluppo economico sembra che si contraggano le fonti di lavoro, e così le possibilità di occupazione, invece di crescere, diminuiscono.

b) Anche questo fenomeno, con la sua serie di effetti negativi a livello individuale e sociale, dalla degradazione alla perdita del rispetto che ogni uomo o donna deve a se stesso, ci spinge a interrogarci seriamente sul tipo di sviluppo, che si è perseguito nel corso di questi venti anni.

Per un cristiano non intervenire su questi aspetti anche concreti, potendolo fare, è un atteggiamento particolarmente grave (si potrebbe parlare di "peccato mortale").

 

 

 

SRS 38-39

Nel quadro di tali riflessioni, la decisione di mettersi sulla strada o di continuare la marcia comporta, innanzitutto, un valore morale che gli uomini e le donne credenti riconoscono come richiesto dalla volontà di Dio, unico vero fondamento di un’etica assolutamente vincolante.

I maggiori ostacoli allo sviluppo dipendono dalla mancanza di valori assoluti, per cui è urgente per tutti un cambiamento spirituale.

È da auspicare che anche gli uomini e donne privi di una fede esplicita siano convinti che gli ostacoli frapposti al pieno sviluppo non sono soltanto di ordine economico, ma dipendono da atteggiamenti più profondi configurabili, per l’essere umano, in valori assoluti. Perciò è sperabile che quanti, in una misura o l’altra, sono responsabili di una "vita più umana" verso i propri simili, ispirati o no da una fede religiosa, si rendano pienamente conto dell’urgente necessità di un cambiamento degli atteggiamenti spirituali, che definiscono i rapporti di ogni uomo con se stesso, col prossimo, con le comunità umane, anche le più lontane, e con la natura, in virtù di valori superiori, come il bene comune, o, per riprendere la felice espressione dell’Enciclica Populorum Progressio, il pieno sviluppo "di tutto l’uomo e di tutti gli uomini".

Questo cambiamento spirituale è la conversione del cuore.

Per i cristiani, come per tutti coloro che riconoscono il preciso significato teologico della parola "peccato", il cambiamento di condotta o di mentalità o del modo di essere si chiama, con linguaggio biblico, "conversione" (cfr. Mc 1, 15; Lc 13, 3-5; Is 30, 15). Questa conversione indica specificamente relazione a Dio, alla colpa commessa, alle sue conseguenze e, pertanto, al prossimo, individuo o comunità. È Dio, nelle "cui mani sono i cuori dei potenti", e quelli di tutti, che può, secondo la sua stessa promessa, trasformare ad opera del suo Spirito i "cuori di pietra" in "cuori di carne" (cfr. Ez 36, 26). Nel cammino della desiderata conversione verso il superamento degli ostacoli morali per lo sviluppo, si può già segnalare, come valore positivo e morale, la crescente consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni. Il fatto che uomini e donne, in varie parti del mondo, sentano come proprie le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani commesse in Paesi lontani, che forse non visiteranno mai, è un segno ulteriore di una realtà trasformata in coscienza, acquistando così connotazione morale.

La coscienza dellinterdipendenza tra uomini e Nazioni deve tradursi in "solidarietà".

Si tratta, innanzitutto, dell’interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale. Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come "virtù"", è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che le cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama del profitto e quella sete del potere, di cui si è parlato. Questi atteggiamenti e "strutture di peccato" si vincono solo—presupposto l’aiuto della grazia divina—con un atteggiamento diametralmente opposto: l’impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a "perdersi" a favore dell’altro invece di sfruttarlo e a "servirlo" invece di opprimerlo per il proprio tornaconto (cfr. Mt 10, 40-42; 20, 25; Mc 10, 42-45; Lc 22, 25-27).

I valori della solidarietà tra persone, popoli o Nazioni.

a) La solidarietà è reale quando tutti gli uomini si riconoscono come persone e operano a vantaggio gli uni per gli altri.

L’esercizio della solidarietà all’interno di ogni società è valido, quando i suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone. Coloro che contano di più, disponendo di una porzione più grande di beni e di servizi comuni, si sentano responsabili dei più deboli e siano disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte loro, nella stessa linea di solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente passivo o distruttivo del tessuto sociale, ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per il bene di tutti. I gruppi intermedi, a loro volta, non insistano egoisticamente nel loro particolare interesse, ma rispettino gli interessi degli altri. Segni positivi nel mondo contemporaneo sono la crescente coscienza di solidarietà dei poveri tra di loro, i loro interventi di appoggio reciproco, le manifestazioni pubbliche nella scena sociale, senza far ricorso alla violenza, ma prospettando i propri bisogni e i propri diritti di fronte all’inefficienza o alla corruzione dei pubblici poteri. In virtù del suo impegno evangelico, la Chiesa si sente chiamata a restare accanto alle folle povere, a discernere la giustizia delle loro richieste, a contribuire a soddisfarle, senza perdere di vista il bene dei gruppi nel quadro del bene comune. Lo stesso criterio si applica, per analogia, nelle relazioni internazionali. L’interdipendenza deve trasformarsi in solidarietà, fondata sul principio che i beni della creazione sono destinati a tutti: ciò che l’industria umana produce con la lavorazione delle materie prime, col contributo del lavoro, deve servire egualmente al bene di tutti.

b) La solidarietà deve essere applicata superando le tendenze allimperialismo e le brame di egemonia.

Superando gli imperialismi di ogni tipo e i propositi di conservare la propria egemonia, le Nazioni più forti e più dotate debbono sentirsi moralmente responsabili delle altre, affinché sia instaurato un vero sistema internazionale, che si regga sul fondamento dell’eguaglianza di tutti i popoli e sul necessario rispetto delle loro legittime differenze. I Paesi economicamente più deboli o rimasti al limite della sopravvivenza, con l’assistenza degli altri popoli e della comunità internazionale, debbono essere messi in grado di dare anch’essi un contributo al bene comune con i loro tesori di umanità e di cultura, che altrimenti andrebbero perduti per sempre. La solidarietà ci aiuta a vedere l’"altro"—persona, popolo o Nazione—non come uno strumento qualsiasi, per sfruttarne a basso costo la capacità di lavoro e la resistenza fisica, abbandonandolo poi quando non serve più ma come un nostro "simile", un "aiuto" (cfr. Gn 2, 18-20), da rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini sono egualmente invitati da Dio. Di qui l’importanza di risvegliare la coscienza religiosa degli uomini e dei popoli. Sono così esclusi lo sfruttamento, l’oppressione, l’annientamento degli altri. Questi fatti, nella presente divisione del mondo in blocchi contrapposti, vanno a confluire nel pericolo di guerra e nell’eccessiva preoccupazione per la propria sicurezza a spese non di rado dell’autonomia, della libera decisione, della stessa integrità territoriale delle Nazioni più deboli, che son comprese nelle cosiddette "zone d’influenza" o nelle "cinture di sicurezza". Le "strutture di peccato" e i peccati, che in esse sfociano, si oppongono con altrettanta radicalità alla pace e allo sviluppo, perché lo sviluppo, secondo la nota espressione dell’Enciclica paolina, è "il nuovo nome della pace".

Sempre nella stessa enciclica il Papa con profondo realismo richiama gli stessi paesi in via di sviluppo ad una responsabilità e ad una solidarietà.

SRS 44-45

Lo sviluppo richiede soprattutto spirito d’iniziativa da parte degli stessi Paesi che ne hanno bisogno. Ciascuno di essi deve agire secondo le proprie responsabilità, senza sperare tutto dai Paesi più favoriti ed operando in collaborazione con gli altri che sono nella stessa situazione. Ciascuno deve scoprire e utilizzare il più possibile lo spazio della propria libertà. Ciascuno dovrà rendersi capace di iniziative rispondenti alle proprie esigenze di società. Ciascuno dovrà pure rendersi conto delle reali necessità, nonché dei diritti e dei doveri che gli impongono di risolverle. Lo sviluppo dei popoli inizia e trova l’attuazione più adeguata nell’impegno di ciascun popolo per il proprio sviluppo, in collaborazione con gli altri. È importante allora che le stesse Nazioni in via di sviluppo favoriscano l’autoaffermazione di ogni cittadino mediante l’accesso a una maggiore cultura ed a una libera circolazione delle informazioni. Tutto quanto potrà favorire l’alfabetizzazione e l’educazione di base che l’approfondisce e completa, come proponeva l’Enciclica Populorum Progressio—mete ancora lontane dall’attuazione in tante parti del mondo—è un diretto contributo al vero sviluppo.

Saper individuare le priorità del proprio Paese.

Per incamminarsi su questa via, le stesse Nazioni dovranno individuare le proprie priorità e riconoscer bene i propri bisogni secondo le particolari condizioni della popolazione, dell’ambiente geografico e delle tradizioni culturali. Alcune Nazioni dovranno incrementare la produzione alimentare, per aver sempre a disposizione il necessario al nutrimento e alla vita. Nel mondo contemporaneo—in cui la fame miete tante vittime, specie in mezzo all’infanzia—ci sono esempi di Nazioni non particolarmente sviluppate, che pure sono riuscite a conseguire l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare e a divenire perfino esportatrici di generi alimentari.

Riformare strutture ingiuste, specie le istituzioni politiche non democratiche e partecipative.

Altre Nazioni hanno bisogno di riformare alcune ingiuste strutture e, in particolare, le proprie istituzioni politiche, per sostituire regimi corrotti, dittatoriali o autoritari con quelli democratici e partecipativi. È un processo che ci auguriamo si estenda e si consolidi, perché la "salute" di una comunità politica—in quanto si esprime mediante la libera partecipazione e responsabilità di tutti i cittadini alla cosa pubblica, la sicurezza del diritto, il rispetto e la promozione dei diritti umani—è condizione necessaria e garanzia sicura di sviluppo di "tutto l’uomo e di tutti gli uomini".

Necessarie la solidarietà e la collaborazione della comunità mondiale per le Nazioni

in via di sviluppo e anche tra queste per la loro interdipendenza.

Quanto si è detto non si potrà realizzare senza la collaborazione di tutti specialmente della comunità internazionale, nel quadro di una solidarietà che abbracci tutti, a cominciare dai più emarginati. Ma le stesse Nazioni in via di sviluppo hanno il dovere di praticare la solidarietà fra se stesse e con i Paesi più emarginati del mondo. È desiderabile, per esempio, che Nazioni di una stessa area geografica stabiliscano forme di cooperazione che le rendano meno dipendenti da produttori più potenti, aprano le frontiere ai prodotti della zona, esaminino le eventuali complementarità dei prodotti, si associno per dotarsi dei servizi, che ciascuna da sola non è in grado di provvedere, estendano la cooperazione al settore monetario e finanziario. L’interdipendenza è già una realtà in molti di questi Paesi. Riconoscerla, in maniera da renderla più attiva, rappresenta un’alternativa all’eccessiva dipendenza da Paesi più ricchi e potenti, nell’ordine stesso dell’auspicato sviluppo, senza contrapporsi a nessuno, ma scoprendo e valorizzando al massimo le proprie possibilità. I Paesi in via di sviluppo di una stessa area geografica, anzitutto quelli compresi nella denominazione "Sud", possono e debbono costituire—come già si comincia a fare con promettenti risultati—nuove organizzazioni regionali, ispirate a criteri di eguaglianza, libertà e partecipazione nel concerto delle Nazioni. La solidarietà universale richiede, come condizione indispensabile, autonomia e libera disponibilità di se stessi, anche all’interno di associazioni come quelle indicate. Ma, nello stesso tempo, richiede disponibilità ad accettare i sacrifici necessari per il bene della comunità mondiale.

La solidarietà è dunque dovere per tutti, anche dei poveri non solo verso i poveri. La solidarietà è regola generale della vita del mondo e dei popoli, perché ognuno è chiamato a dare la ricchezza che possiede, a condividerla con tutti, perché la ricchezza non è solo quella economica.

Chi è dunque il povero?

CA 28

Ma soprattutto sarà necessario abbandonare la mentalità che considera i poveri—persone e popoli—come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri han prodotto. I poveri chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero. L’elevazione dei poveri è una grande occasione per la crescita morale, culturale ed anche economica dell’intera umanità.

La solidarietà è dunque regola e criterio dello sviluppo (che è sempre e solo sviluppo dell’uomo).

CA 43

Alla luce delle "cose nuove" di oggi è stato riletto il rapporto tra la proprietà individuale o privata, e la destinazione universale dei beni. L’uomo realizza se stesso per mezzo della sua intelligenza e della sua libertà e, nel fare questo, assume come oggetto e come strumento le cose del mondo e di esse si appropria. In questo suo agire sta il fondamento del diritto all’iniziativa e alla proprietà individuale. Mediante il suo lavoro l’uomo s’impegna non solo per se stesso, ma anche per gli altri e con gli altri: ciascuno collabora al lavoro ed al bene altrui. L’uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di cui fa parte, della Nazione e, in definitiva, dell’umanità tutta. Egli, inoltre, collabora al lavoro degli altri, che operano nella stessa azienda, nonché al lavoro dei fornitori o al consumo dei clienti, in una catena di solidarietà che si estende progressivamente. La proprietà dei mezzi di produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e legittima, se serve ad un lavoro utile; diventa, invece, illegittima, quando non viene valorizzata o serve ad impedire il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce dall’espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piuttosto dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro. Una tale proprietà non ha nessuna giustificazione e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli uomini.

Non è legittimata la società che nega il diritto di ognuno al lavoro e ad un giusto compenso.

L’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale. Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti.

Anche su questo punto il Papa entra in concrete questioni attuali: il debito dei paesi poveri.

CA 35

Rompere le barriere e i monopoli, ed assicurare a tutti le condizioni di base che consentano di partecipare allo sviluppo.

Si è visto come è inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto "socialismo reale" lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica. Occorre rompere le barriere e i monopoli che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo, assicurare a tutti—individui e Nazioni—le condizioni di base, che consentano di partecipare allo sviluppo. Tale obiettivo richiede sforzi programmati e responsabili da parte di tutta la comunità internazionale. Occorre che le Nazioni più forti sappiano offrire a quelle più deboli occasioni di inserimento nella vita internazionale, e che quelle più deboli sappiano cogliere tali occasioni, facendo gli sforzi e i sacrifici necessari assicurando la stabilità del quadro politico ed economico, la certezza di prospettive per il futuro, la crescita delle capacità dei propri lavoratori, la formazione di imprenditori efficienti e consapevoli delle loro responsabilità.

Il grave problema del debito estero dei Paesi più poveri.

Al presente sugli sforzi positivi che sono compiuti in proposito grava il problema, in gran parte ancora irrisolto, del debito estero dei Paesi più poveri. È certamente giusto il principio che i debiti debbano essere pagati; non è lecito, però, chiedere o pretendere un pagamento, quando questo verrebbe ad imporre di fatto scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti contratti siano pagati con insopportabili sacrifici. In questi casi è necessario—come, del resto, sta in parte avvenendo—trovare modalità di alleggerimento, di dilazione o anche di estinzione del debito, compatibili col fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso.

 

6. QUARTA REGOLA: pace e comunione.

Bisognerebbe non aver paura di dire con il Papa che l’unico nome della pace oggi è la "solidarietà", è lo sviluppo di tutti per mezzo del concorso di tutti.

Pare invece sempre più evidente una rinascita di nazionalismi, e il sogno di una unità tra i popoli viene allontanata dall’intolleranza razziale che purtroppo è ricomparsa in modo violento. Ma non è solo la violenza che preoccupa: la questione grave è una intolleranza diffusa come mentalità, che fa dell’immigrato—di qualunque razza—un pericolo. Pericolo per cosa o per chi? Non è forse ancora una volta l’economia a determinare i rapporti tra gli uomini? Credo sia inevitabile una risposta affermativa. Purtroppo questi episodi di violenza che si nutrono in una cultura qualunquista e preoccupata solo del proprio tornaconto, sono solo l’inizio: i prossimi anni vedranno un accentuarsi della diffidenza e della ostilità tra i popoli—e sempre per motivi economici—.

Lo scontro non sarà solo tra paesi poveri e paesi ricchi, ma avverrà all’interno delle stesse nazioni per il sorgere di quello che potrebbe essere chiamato il "quinto mondo", cioè la povertà grave nei paesi del primo mondo.

Non è possibile fermare i conflitti e non iniziarne di nuovi se non si sviluppa una logica totalmente diversa nel concepire l’uso dei beni della terra e dunque se non matura un nuovo concetto economico.

Il concetto è decisamente espresso nella Sollicitudo rei socialis:

SRS 39

In tal modo la solidarietà da noi proposta è via alla pace e insieme allo sviluppo. Infatti, la pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da parte dei responsabili, a riconoscere che l’interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione. Questo è, appunto, l’atto proprio della solidarietà tra individui e Nazioni. Il motto del pontificato del mio venerato predecessore Pio XII era Opus iustitiae pax, la pace come frutto della giustizia. Oggi si potrebbe dire, con la stessa esattezza e la stessa forza di ispirazione biblica (cfr. Is 32, 17; Gc 3, 18): Opus solidaritatis pax, la pace come frutto della solidarietà. Il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente raggiunto con l’attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruirne uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo migliore.

Il Papa riprende il legame solidarietà-pace nella Centesimus Annus con riferimenti a fatti precisi di cui è stato autorevole protagonista contro il parere di una maggioranza fortissima:

CA 52…sul pericolo dei conflitti

I pontefici Benedetto XV ed i suoi successori hanno lucidamente compreso questo pericolo, ed io stesso, in occasione della recente drammatica guerra nel Golfo Persico, ho ripetuto il grido: "Mai più la guerra!". No, mai più la guerra, che distrugge la vita degli innocenti, che insegna ad uccidere e sconvolge egualmente la vita degli uccisori, che lascia dietro di sé uno strascico di rancori e di odi rendendo più difficile la giusta soluzione degli stessi problemi che l’hanno provocata! Come all’interno dei singoli Stati è giunto finalmente il tempo in cui il sistema della vendetta privata e della rappresaglia è stato sostituito dall’impero della legge, così è ora urgente che un simile progresso abbia luogo nella Comunità internazionale. Non bisogna, peraltro, dimenticare che alle radici della guerra ci sono in genere reali e gravi ragioni: ingiustizie subite, frustrazioni di legittime aspirazioni miseria e sfruttamento di moltitudini umane disperate, le quali non vedono la reale possibilità di migliorare le loro condizioni con le vie della pace.

Lo sviluppo per tutti i popoli, presupposto indispensabile per la pace, esige reciproca comprensione e conoscenza.

Per questo, l’altro nome della pace è lo sviluppo. Come esiste la responsabilità collettiva di evitare la guerra, così esiste la responsabilità collettiva di promuovere lo sviluppo. Come a livello interno è possibile e doveroso costruire un’economia sociale che orienti il funzionamento del mercato verso il bene comune allo stesso modo è necessario che ci siano interventi adeguati anche a livello internazionale. Perciò, bisogna fare un grande sforzo di reciproca comprensione, di conoscenza e di sensibilizzazione delle coscienze. È questa l’auspicata cultura che fa crescere la fiducia nelle potenzialità umane del povero e, quindi, nella sua capacità di migliorare la propria condizione mediante il lavoro o di dare un positivo contributo al benessere economico. Per far questo, però, il povero—individuo o Nazione—ha bisogno che gli siano offerte condizioni realisticamente accessibili. Creare tali occasioni è il compito di una concertazione mondiale per lo sviluppo, che implica anche il sacrificio delle posizioni di rendita e di potere, di cui le economie più sviluppate si avvantaggiano. Ciò può comportare importanti cambiamenti negli stili di vita consolidati, al fine di limitare lo spreco delle risorse ambientali ed umane, permettendo così a tutti i popoli ed uomini della terra di averne in misura sufficiente. A ciò si deve aggiungere la valorizzazione dei nuovi beni materiali e spirituali, frutto del lavoro e della cultura dei popoli oggi emarginati, ottenendo così il complessivo arricchimento umano della famiglia delle Nazioni.

Purtroppo anche i richiami di oggi sulla situazione africana o sulla guerra in paesi a noi molto vicini rimangono inascoltati.

La solidarietà è dunque un punto di lavoro proponibile ad ogni uomo in quanto uomo, perché la logica vincente sottesa a questa proposta è profondamente ragionevole: viceversa non c’è altra strada se non l’eliminazione fisica di chi—morendo di fame—fa sentire i propri gemiti.

Non c’è altra strada se si vuole evitare un conflitto tra poveri e ricchi del mondo, preceduto da migrazioni di interi popoli. Ma a tutto ciò stiamo già assistendo.

E se i paesi ricchi non si convinceranno che è più intelligente la solidarietà rispetto ad altre pseudo-soluzioni, alla fine—temo—si convinceranno che aiutare veramente è meno dispendioso che reprimere. Non solo, ma la solidarietà, come è proposta dal Papa, comporta uno scambio e non solo un dare e un ricevere unilaterale, dunque un arricchimento di umanità per tutti.

Per i cristiani poi la solidarietà è il modo più semplice per vivere la comunione, dono di Dio che si esprime nella carità.

SRS 40

La solidarietà è indubbiamente una virtù cristiana. Già nella precedente esposizione era possibile intravedere numerosi punti di contatto tra essa e la carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (cfr. Gv 13, 35). Alla luce della fede, la solidarietà tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione. Allora il prossimo non è soltanto un essere umano con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma diviene la viva immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo. Egli, pertanto, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore, e per lui bisogna essere disposti al sacrificio, anche supremo: "Dare la vita per i propri fratelli" (cfr. I lettera di Gv 3, 16). Allora la coscienza della paternità comune di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo, "figli nel Figlio", della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà al nostro sguardo sul mondo come un nuovo criterio per interpretarlo. Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola "comunione". Tale comunione, specificamente cristiana, gelosamente custodita, estesa e arricchita, con l’aiuto del Signore, è l’anima della vocazione della Chiesa ad essere "sacramento", nel senso già indicato. La solidarietà, perciò, deve contribuire all’attuazione di questo disegno divino tanto sul piano individuale, quanto su quello della società nazionale e internazionale. I "meccanismi perversi" e le "strutture di peccato", di cui abbiamo parlato, potranno essere vinte solo mediante l’esercizio della solidarietà umana e cristiana, a cui la Chiesa invita e che promuove instancabilmente. Solo così tante energie positive potranno pienamente sprigionarsi a vantaggio dello sviluppo e della pace. Molti Santi canonizzati dalla Chiesa offrono mirabili testimonianze di tale solidarietà e possono servire di esempio nelle difficili circostanze presenti. Fra tutti desidero ricordare san Pietro Claver, col suo servizio agli schiavi di Cartagena de Indias, e san Massimiliano Maria Kolbe, con l’offerta della sua vita in favore di un prigioniero a lui sconosciuto nel campo di concentramento di Auschwitz-Oswiecim.

 

7. QUINTA REGOLA: condividere, non "dare il superfluo".

Fa impressione ma probabilmente nel profondo del nostro cuore facciamo ancora resistenza all’idea che, di fronte a chi muore di fame, noi siamo chiamati a dividere ciò che abbiamo, non a dare ciò che ci avanza.

In fondo San Martino aveva un solo mantello, e probabilmente soffriva il freddo come il povero che non aveva di che coprirsi: taglia il mantello, mostrandoci un esempio non irraggiungibile, ma attualissimo. Per fare un esempio banale: quanti ancora regalano ai guardaroba parrocchiali per i poveri, vestiti vecchi, logori e rotti!

Nella Centesimus Annus il Papa supera definitivamente l’idea di superfluo.

CA 58

L’amore per l’uomo e, in primo luogo, per il povero, nel quale la Chiesa vede Cristo, si fa concreto nella promozione della giustizia. Questa non potrà mai essere pienamente realizzata, se gli uomini non riconosceranno nel bisognoso, che chiede un sostegno per la sua vita, non un importuno o un fardello, ma l’occasione di bene in sé, la possibilità di una ricchezza più grande. Solo questa consapevolezza infonderà il coraggio per affrontare il rischio ed il cambiamento impliciti in ogni autentico tentativo di venire in soccorso dell’altro uomo. Non si tratta, infatti, solo di dare il superfluo, ma di aiutare interi popoli, che ne sono esclusi o emarginati, ad entrare nel circolo dello sviluppo economico ed umano. Ciò sarà possibile non solo attingendo al superfluo, che il nostro mondo produce in abbondanza, ma soprattutto cambiando gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società. Né si tratta di distruggere strumenti di organizzazione sociale che han dato buona prova di sé, ma di orientarli secondo un’adeguata concezione del bene comune in riferimento all’intera famiglia umana. Oggi è in atto la cosiddetta "mondializzazione dell’economia", fenomeno, questo, che non va deprecato, perché può creare straordinarie occasioni di maggior benessere. Sempre più sentito, però, è il bisogno che a questa crescente internazionalizzazione dell’economia corrispondano validi Organi internazionali di controllo e di guida, che indirizzino l’economia stessa al bene comune, cosa che ormai un singolo Stato, fosse anche il più potente della Terra, non è in grado di fare. Per poter conseguire un tale risultato, occorre che cresca la concertazione tra i grandi Paesi e che negli Organismi internazionali siano equamente rappresentati gli interessi della grande famiglia umana. Occorre anche che essi, nel valutare le conseguenze delle loro decisioni, tengano sempre adeguato conto di quei popoli e Paesi che hanno scarso peso sul mercato internazionale, ma concentrano i bisogni più vivi e dolenti e necessitano di maggior sostegno per il loro sviluppo. Indubbiamente, in questo campo rimane molto da fare.

La paura e la resistenza più grossa a prendere sul serio questa indicazione chiara del Papa—non un semplice consiglio o esortazione—è che poi venga meno il "necessario" a noi, alla nostra famiglia, ai figli, nella vecchiaia.

Non sono motivi futili, ma chiariscono di noi che abbiamo perso l’idea—e la realtà—della PROVVIDENZA.

Abbiamo dimenticato che essere cristiani non è un certificato di assicurazione sulla vita, ma il modo più umano di vivere la vita.

Noi cristiani non abbiamo meno sofferenze e neppure la "soluzione" a tutte le sofferenze, ma il dono—non per merito nostro—del motivo per cui vale la pena di vivere, di soffrire e di gioire. E il motivo è un Volto che compatisce e soffre per noi e con noi.

Da imparare a memoria questo brano della Centesimus Annus:

CA 59

Perché dunque, si attui la giustizia ed abbiano successo i tentativi degli uomini per realizzarla, è necessario il dono della grazia, che viene da Dio. Per mezzo di essa, in collaborazione con la libertà degli uomini, si ottiene quella misteriosa presenza di Dio nella storia che è la Provvidenza. L’esperienza di novità vissuta nella sequela di Cristo esige di esser comunicata agli altri uomini nella concretezza delle loro difficoltà, lotte, problemi e sfide, perché siano illuminate e rese più umane dalla luce della fede. Questa, infatti, non aiuta soltanto a trovare le soluzioni, ma rende umanamente vivibili anche le situazioni di sofferenza, perché in esse l’uomo non si perda e non dimentichi la sua dignità e vocazione.

 

8. SESTA REGOLA: la famiglia, vera "ecologia" umana.

Parlare di "ecologia" oggi è certamente equivoco e perciò rischioso. L’uomo, infatti, è stato frantumato in tanti "tipi" di benessere: fisico, psicologico, affettivo, economico…

La vera ecologia è il bene globale dell’uomo. Il Papa ne iniziò a parlare nella Sollicitudo chiarendo i principi e i criteri di un vero sviluppo che tenga conto di tutto l’uomo.

SRS 34

a) Non si può abusare impunemente della natura.

Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere neppure dal rispetto per gli esseri che formano la natura visibile e che i Greci, alludendo appunto all’ordine che la contraddistingue, chiamavano il "cosmo". Anche tali realtà esigono rispetto, in virtù di una triplice considerazione, su cui giova attentamente riflettere. La prima consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri viventi o inanimati—animali, piante, elementi naturali—come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche. Al contrario, occorre tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato, ch’è appunto il cosmo.

b) Le risorse della natura non sono illimitate.

La seconda considerazione, invece, si fonda sulla constatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio, mette seriamente in pericolo la loro disponibilità non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.

c) Un certo tipo di sviluppo del mondo industrializzato contamina lambiente.

La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate. Sappiamo tutti che risultato diretto o indiretto dell’industrializzazione e, sempre più di frequente, la contaminazione dell’ambiente, con gravi conseguenze per la salute della popolazione.

d) Dio non ha dato alluomo il potere assoluto di usare ed abusare della natura.

Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l’uso delle risorse e la maniera di utilizzarle non possono essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali. Una di queste impone senza dubbio limiti all’uso della natura visibile. Il dominio accordato dal Creatore all’uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare" o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto dell’albero" (cfr. Gn 2, 16 s.), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire. Una giusta concezione dello sviluppo non può prescindere da queste considerazioni—relative all’uso degli elementi della natura, alla rinnovabilità delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata—, le quali ripropongono alla nostra coscienza la dimensione morale, che deve distinguere lo sviluppo.

Nella Centesimus Annus il Papa amplifica e chiarisce la questione fino alle sue totali dimensioni.

La distruzione della famiglia è la distruzione dell’unico vero "habitat" per l’uomo.

Proprio in questo habitat, tra tanti rischi, è presente e attivissima una vera e propria "guerra chimica": l’aborto. Non produce degrado, ma morte.

CA 37-39

a) Luomo non può disporre a proprio arbitrio dei beni della Terra.

Del pari preoccupante, accanto al problema del consumismo e con esso strettamente connessa, è la questione ecologica. L’uomo, preso dal desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita. Alla radice dell’insensata distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L’uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l’uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui.

b) Lumanità di oggi ha doveri verso le generazioni future.

Si avverte in ciò, prima di tutto, una povertà o meschinità dello sguardo dell’uomo, animato dal desiderio di possedere le cose anziché di riferirle alla verità, e privo di quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l’essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create. Al riguardo, l’umanità di oggi deve essere conscia dei suoi doveri e compiti verso le generazioni future.

Necessità di salvaguardare le condizioni morali per unautentica "ecologia umana".

Oltre all’irrazionale distruzione dell’ambiente naturale è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell’ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la necessaria attenzione. Mentre ci si preoccupa giustamente, anche se molto meno del necessario, di preservare gli "habitat" naturali delle diverse specie animali minacciate di estinzione, perché ci si rende conto che ciascuna di esse apporta un particolare contributo all’equilibrio generale della terra, ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica "ecologia umana". Non solo la terra è stata data da Dio all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato. Sono da menzionare, in questo contesto, i gravi problemi della moderna urbanizzazione, la necessità di un urbanesimo preoccupato della vita delle persone, come anche la debita attenzione ad un’"ecologia sociale" del lavoro. L’uomo riceve da Dio la sua essenziale dignità e con essa la capacità di trascendere ogni ordinamento della società verso la verità ed il bene. Egli, tuttavia, è anche condizionato dalla struttura sociale in cui vive, dall’educazione ricevuta e dall’ambiente. Questi elementi possono facilitare oppure ostacolare il suo vivere secondo verità. Le decisioni, grazie alle quali si costituisce un ambiente umano, possono creare specifiche strutture di peccato, impedendo la piena realizzazione di coloro che da esse sono variamente oppressi. Demolire tali strutture e sostituirle con più autentiche forme di convivenza è un compito che esige coraggio e pazienza.

La famiglia, fondata sul matrimonio, prima e fondamentale struttura per una "ecologia umana".

a) Cause di disimpegno a formarsi una famiglia stabile.

La prima e fondamentale struttura a favore dell’"ecologia umana" è la famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte dell’uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino. Spesso accade, invece, che l’uomo è scoraggiato dal realizzare le condizioni autentiche della riproduzione umana, ed è indotto a considerare se stesso e la propria vita come un insieme di sensazioni da sperimentare anziché come un’opera da compiere. Di qui nasce una mancanza di libertà che fa rinunciare all’impegno di legarsi stabilmente con un’altra persona e di generare dei figli, oppure induce a considerare costoro come una delle tante "cose" che è possibile avere o non avere, secondo i propri gusti, e che entrano in concorrenza con altre possibilità.

b) La famiglia va considerata come il "santuario della vita".

Occorre tornare a considerare la famiglia come il santuario della vita. Essa, infatti, è sacra: è il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le esigenze di un’autentica crescita umana. Contro la cosiddetta cultura della morte, la famiglia costituisce la sede della cultura della vita. L’ingegno dell’uomo sembra orientarsi, in questo campo, più a limitare, sopprimere o annullare le fonti della vita ricorrendo perfino all’aborto, purtroppo così diffuso nel mondo, che a difendere e ad aprire le possibilità della vita stessa. Nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis sono state denunciate le campagne sistematiche contro la natalità, che, in base ad una concezione distorta del problema demografico e in un clima di "assoluta mancanza di rispetto per la libertà di decisione delle persone interessate", le sottopongono non di rado "a intolleranti pressioni… per piegarle a questa forma nuova di oppressione". Si tratta di politiche che con nuove tecniche estendono il loro raggio di azione fino ad arrivare, come in una "guerra chimica", ad avvelenare la vita di milioni di esseri umani indifesi.

c) La libertà economica è soltanto un elemento della libertà umana.

Queste critiche sono rivolte non tanto contro un sistema economico, quanto contro un sistema etico-culturale. L’economia, infatti, è solo un aspetto ed una dimensione della complessa attività umana.

Se essa è assolutizzata, se la produzione ed il consumo delle merci finiscono con l’occupare il centro della vita sociale e diventano l’unico valore della società, non subordinato ad alcun altro, la causa va ricercata non solo e non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto che l’intero sistema socio-culturale, ignorando la dimensione etica e religiosa, si è indebolito e ormai si limita solo alla produzione dei beni e dei servizi. Tutto ciò si può riassumere affermando ancora una volta che la libertà economica è soltanto un elemento della libertà umana. Quando quella si rende autonoma, quando cioè l’uomo è visto più come un produttore o un consumatore di beni che come un soggetto che produce e consuma per vivere, allora perde la sua necessaria relazione con la persona umana e finisce con l’alienarla ed opprimerla.

 

9. SETTIMA REGOLA: Lo stato non è Dio.

"Pilato ebbe ancora più paura ed entrato di nuovo nel Pretorio disse a Gesù: "Di dove sei?" Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: "Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?" Rispose Gesù: "Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto"".

(Gv 19, 8-11).

In questo drammatico capitolo San Giovanni esprime tutto il mistero del rapporto tra libertà dei figli di Dio (che appartengono al popolo nuovo, non diviso in razze o stati) e la lealtà al potere dello stato.

Il potere è dunque lecito e deve essere esercitato come responsabilità, e il senso del potere non è deciso dal potere ma da ciò per cui esiste. La frase "dall’alto" indica la necessarietà e bontà del potere ed anche il suo limite, ciò a cui deve rispondere.

Il potere non è a servizio del proprio mantenimento ma del bene dell’uomo; e per il bene dell’uomo è necessario il potere, secondo varie forme che in qualche modo contemplino la partecipazione alla gestione stessa del potere. Questo è ciò che la dottrina sociale ha sempre affermato.

Una cosa è dunque certa: lo stato e il suo doveroso potere sono per l’uomo, non il contrario, mai e assolutamente.

Proprio su questo punto ogni potere è giudicato: "nessun potere umano—diceva il Papa nel suo ultimo viaggio in Polonia—può assumersi il diritto di decidere della vita (o più precisamente della morte) di milioni di bambini indifesi".

Si riferiva all’aborto, esempio lampante della confusione tra ciò che viene concesso per legge dal potere per un chiaro sbaglio umano, ma che rimane in realtà folle e illecito gesto.

Nessuna decisione, neppure a maggioranza assoluta, potrà mai decidere che un bambino in grembo a sua madre sia o "un problema" o "un bambino" a seconda che venga desiderato o non desiderato; nessuna legge e nessun potere può oltrepassare il limite dei diritti fondamentali dell’uomo, tra cui il primo e fondamentale è quello alla vita.

Lo stato esiste per aiutare ogni uomo a conseguire il proprio bene, per difendere chi è meno in grado di attuare la propria esistenza da solo, per sostenere l’uomo, non per decidere chi è l’uomo e quando è degno o non degno di vivere, neppure a maggioranza.

Il rischio è di arrivare ad eliminare chi non pensa secondo il potere dominante—con varie forme di eliminazione, da quella fisica a quelle emarginazioni psicologiche o reali di chi non la pensa secondo il potere—; lo facevano i Romani e con loro tutti i potenti dittatori di ogni colore. Il nostro secolo passerà alla storia—lo abbiamo già detto ma non guasta ripeterlo—come quello in cui ci sono stati il maggior numero di milioni di morti per puri contrasti ideologici, veri e propri genocidi in nome del potere-dio.

Per giudicare un potere il metodo più semplice è notare come viene trattato oltre il diritto primario alla vita anche il diritto alla "libertà religiosa": negare questo diritto—o affermarlo astrattamente impedendone poi l’attuazione con discriminazioni di ogni genere—è negare la possibilità all’uomo di essere tale, è negare la libertà di cercare il significato della vita ed aderirvi con tutto il cuore. È negare il diritto tipico della ragione e del cuore umano di cercare con passione la verità.

E limitare questo diritto fondamentale non vuol dire solo incarcerare, ma anche—in società definite libere—"la possibilità di un soggiogamento "pacifico" degli individui, degli ambiti di vita, di società intere e nazioni, che per qualsiasi motivo possono riuscire scomodi per coloro i quali dispongono dei relativi mezzi e sono pronti a servirsene senza scrupolo", come dice il Papa nel numero 11 della Dives in Misericordia, parlando prima della guerra come mezzo per assoggettare i popoli e poi di questi mezzi "pacifici" a disposizione della civiltà odierna. Credo che il discorso possa estendersi in egual misura al nostro problema: per impedire la libertà religiosa si possono usare i carri armati o invadere tutti i mezzi di comunicazione con messaggi diversi ma identici nel distruggere la coscienza personale e nell’indurre condotte e modelli di comportamento.

Riascoltiamo—su tutti questi temi—il testo della Redemptor Hominis.

RH 17

Il senso essenziale dello Stato, come comunità politica, consiste nel fatto che la società o chi la compone, il popolo, è sovrano della propria sorte. Questo senso non viene realizzato se, al posto dell’esercizio del potere con la partecipazione morale della società o del popolo, assistiamo all’imposizione del potere da parte di un determinato gruppo a tutti gli altri membri di questo società. Queste cose sono essenziali nella nostra epoca, in cui è enormemente aumentata la coscienza sociale degli uomini ed insieme con essa il bisogno di una corretta partecipazione dei cittadini alla vita politica della comunità, tenendo conto delle reali condizioni di ciascun popolo e del necessario vigore dell’autorità pubblica. Questi sono, quindi, problemi di primaria importanza dal punto di vista del progresso dell’uomo stesso e dello sviluppo globale della sua umanità. La Chiesa ha sempre insegnato il dovere di agire per il bene comune e, così facendo, ha educato altresì buoni cittadini per ciascuno Stato. Essa, inoltre, ha sempre insegnato che il dovere fondamentale del potere è la sollecitudine per il bene comune della società; da qui derivano i suoi fondamentali diritti. Proprio nel nome di queste premesse attinenti all’ordine etico oggettivo, i diritti del potere non possono essere intesi in altro modo che in base al rispetto dei diritti oggettivi e inviolabili dell’uomo. Quel bene comune, che l’autorità serve nello Stato, è pienamente realizzato solo quando tutti i cittadini sono sicuri dei loro diritti. Senza questo si arriva allo sfacelo della società, all’opposizione dei cittadini all’autorità, oppure ad una situazione di oppressione, di intimidazione, di violenza di terrorismo, di cui ci hanno fornito numerosi esempi i totalitarismi del nostro secolo. È così che il principio dei diritti dell’uomo tocca profondamente il settore della giustizia sociale e diventa metro per la sua fondamentale verifica nella vita degli Organismi politici. Fra questi diritti si annovera, e giustamente, il diritto alla libertà religiosa accanto al diritto alla libertà di coscienza. Il Concilio Vaticano II ha ritenuto particolarmente necessaria l’elaborazione di una più ampia Dichiarazione su questo tema. È il documento che s’intitola Dignitatis Humanae, nel quale è stata espressa non soltanto la concezione teologica del problema, ma anche la concezione dal punto di vista del diritto naturale, cioè dalla posizione "puramente umana", in base a quelle premesse dettate dall’esperienza stessa dell’uomo, dalla sua ragione e dal senso della sua dignità. Certamente, la limitazione della libertà religiosa delle persone e delle comunità non è soltanto una loro dolorosa esperienza, ma colpisce innanzitutto la dignità stessa dell’uomo, indipendentemente dalla religione professata o dalla concezione che esse hanno del mondo. La limitazione della libertà religiosa e la sua violazione contrastano con la dignità dell’uomo e con i suoi diritti oggettivi. Il sunnominato documento conciliare dice con bastante chiarezza che cosa sia una tale limitazione e violazione della libertà religiosa. Indubbiamente, ci troviamo in questo caso di fronte a una ingiustizia radicale riguardo a ciò che è particolarmente profondo nell’uomo riguardo a ciò che è autenticamente umano. Difatti, perfino lo stesso fenomeno dell’incredulità, areligiosità e ateismo, come fenomeno umano, si comprende soltanto in relazione al fenomeno della religione e della fede. È pertanto difficile, anche da un punto di vista "puramente umano", accettare una posizione, secondo la quale solo l’ateismo ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica e sociale mentre gli uomini credenti, quasi per principio, sono appena tollerati, oppure trattati come cittadini di categoria inferiore, e perfino—il che è già accaduto—sono del tutto privati dei diritti di cittadinanza. Occorre, pur se brevemente, trattare anche questo tema, perché anch’esso rientra nel complesso delle situazioni dell’uomo nel mondo attuale, perché anch’esso testimonia quanto questa situazione sia gravata da pregiudizi e da ingiustizie di vario genere. Se ci asteniamo dall’entrare nei particolari proprio in questo campo, in cui avremmo uno speciale diritto e dovere di farlo, ciò è soprattutto perché insieme con tutti coloro che soffrono i tormenti della discriminazione e della persecuzione per il nome di Dio, siamo guidati dalla fede nella forza redentrice della croce di Cristo. Tuttavia, in virtù del mio ufficio, desidero a nome di tutti i credenti del mondo intero, rivolgermi a coloro da cui, in qualche modo, dipende l’organizzazione della vita sociale e pubblica, domandando ad essi ardentemente di rispettare i diritti della religione e dell’attività della Chiesa. Non si chiede alcun privilegio, ma il rispetto di un elementare diritto. L’attuazione di questo diritto è una delle fondamentali verifiche dell’autentico progresso dell’uomo in ogni regime, in ogni società, sistema o ambiente.

Il tema è ripreso in analisi nella Centesimus Annus:

CA 44

a) Lo "Stato di diritto" in cui è sovrana la legge.

Leone XIII non ignorava che una sana teoria dello Stato è necessaria per assicurare il normale sviluppo delle attività umane: di quelle spirituali e di quelle materiali, che sono entrambe indispensabili. Per questo, in un passo della Rerum Novarum egli presenta l’organizzazione della società secondo i tre poteri—legislativo, esecutivo e giudiziario—, e ciò in quel tempo costituiva una novità nell’insegnamento della Chiesa. Tale ordinamento riflette una visione realistica della natura sociale dell’uomo, la quale esige una legislazione adeguata a proteggere la libertà di tutti. A tal fine è preferibile che ogni potere sia bilanciato da altri poteri e da altre sfere di competenza, che lo mantengano nel suo giusto limite. È, questo, il principio dello "Stato di diritto", nel quale è sovrana la legge, e non la volontà arbitraria degli uomini.

b) Il totalitarismo moderno è una negazione del valore trascendente della dignità della persona umana.

A questa concezione si è opposto nel tempo moderno il totalitarismo, il quale, nella forma marxista-leninista, ritiene che alcuni uomini, in virtù di una più profonda conoscenza delle leggi di sviluppo della società o per una particolare collocazione di classe o per un contatto con le sorgenti più profonde della coscienza collettiva, sono esenti dall’errore e possono, quindi, arrogarsi l’esercizio di un potere assoluto. Va aggiunto che il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione il oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro. Allora l’uomo viene rispettato solo nella misura in cui è possibile strumentalizzarlo per un’affermazione egoistica. La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l’individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla.

Tale concezione totalitarista ha—come Pilato—un solo nemico: chi non dipende da altro se non dalla verità.

La Chiesa che pretende di essere—come dice la Redemptor Hominis al n. 19—"soggetto sociale della responsabilità per la verità divina", deve essere messa a tacere da ogni totalitarismo.

 

 

 

CA 45

La cultura e la prassi del totalitarismo comportano anche la negazione della Chiesa. Lo Stato, oppure il partito, che ritiene di poter realizzare nella storia il bene assoluto e si erge al di sopra di tutti i valori, non può tollerare che sia affermato un criterio oggettivo del bene e del male oltre la volontà dei governanti, il quale, in determinate circostanze, può servire a giudicare il loro comportamento. Ciò spiega perché il totalitarismo cerca di distruggere la Chiesa o, almeno, di assoggettarla, facendola strumento del proprio apparato ideologico. Lo Stato totalitario, inoltre, tende ad assorbire in se stesso la Nazione, la società, la famiglia, le comunità religiose e le stesse persone. Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona, che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cfr. At 5, 29), la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e di sovranità.

Anche la democrazia, pur apprezzata tra i possibili modi di concretizzarsi del potere in uno stato, è vincolata alla costruzione del vero bene dell’uomo: pare invece che chi parte da valori cristiani sia—in politica—inaffidabile, settoriale, insomma di parte.

Torniamo dunque al punto cruciale: la libertà slegata dalla verità porta alla morte dell’uomo. In politica porta alla dittatura, comunque sia configurata.

CA 46-47

Il valore della democrazia.

La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governanti la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno. Essa, pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato.

a) Senza il riferimento alle "verità ultime", la democrazia si trasforma facilmente in totalitarismo.

Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della "soggettività" della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Oggi si tende ad affermare che l’agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e l’atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal punto di vista democratico perché non accettano che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia.

b) Il metodo della Chiesa è il rispetto della libertà. Il pericolo del fanatismo.

Né la Chiesa chiude gli occhi davanti al pericolo del fanatismo o fondamentalismo, di quanti, in nome di un’ideologia che si pretende scientifica o religiosa, ritengono di poter imporre agli altri uomini la loro concezione della verità e del bene. Non è di questo tipo la verità cristiana. Non essendo ideologica, la fede cristiana non presume di imprigionare in un rigido schema la cangiante realtà socio-politica e riconosce che la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse e non perfette. La Chiesa, pertanto, riaffermando costantemente la trascendente dignità della persona, ha come suo metodo il rispetto della libertà. Ma la libertà è pienamente valorizzata soltanto dall’accettazione della verità: in un mondo senza verità la libertà perde la sua consistenza, e l’uomo è esposto alla violenza delle passioni ed a condizionamenti aperti od occulti. Il cristiano vive la libertà (cfr. Gv 8, 31-32) e la serve proponendo continuamente, secondo la natura missionaria della sua vocazione, la verità che ha conosciuto. Nel dialogo con gli altri uomini egli, attento ad ogni frammento di verità che incontri nell’esperienza di vita e nella cultura dei singoli e delle Nazioni, non rinuncerà ad affermare tutto ciò che gli hanno fatto conoscere la sua fede ed il corretto esercizio della ragione.

Costruzione di regimi democratici dopo il crollo del totalitarismo comunista.

a) Necessaria attenzione per i diritti umani.

Dopo il crollo del totalitarismo comunista e di molti altri regimi totalitari e "di sicurezza nazionale", si assiste oggi al prevalere, non senza contrasti, dell’ideale democratico, unitamente ad una viva attenzione e preoccupazione per i diritti umani. Ma proprio per questo è necessario che i popoli che stanno riformando i loro ordinamenti diano alla democrazia un autentico e solido fondamento mediante l’esplicito riconoscimento di questi diritti. Tra i principali sono da ricordare: il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una famiglia e ad accogliere e educare i figli, esercitando responsabilmente la propria sessualità. Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona.

b) Nelle vecchie democrazie non sempre i diritti umani sono rispettati.

Anche nei Paesi dove vigono forme di governo democratico non sempre questi diritti sono del tutto rispettati. Né ci si riferisce soltanto allo scandalo dell’aborto, ma anche a diversi aspetti di una crisi dei sistemi democratici, che talvolta sembra abbiano smarrito la capacità di decidere secondo il bene comune. Le domande che si levano dalla società a volte non sono esaminate secondo criteri di giustizia e di moralità, ma piuttosto secondo la forza elettorale o finanziaria dei gruppi che le sostengono. Simili deviazioni del costume politico col tempo generano sfiducia ed apatia con la conseguente diminuzione della partecipazione politica e dello spirito civico in seno alla popolazione, che si sente danneggiata e delusa. Ne risulta la crescente incapacità di inquadrare gli interessi particolari in una coerente visione del bene comune. Questo, infatti, non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un’esatta comprensione della dignità e dei diritti della persona. La Chiesa rispetta la legittima autonomia dell’ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale. Il contributo, che essa offre a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo incarnato.

Una nota a proposito del tanto declamato "problema demografico"—per cui lo stato avrebbe non solo potere ma dovere di intervenire nella responsabilità delle famiglie rispetto ai figli da accogliere—la troviamo nella Sollicitudo: un chiaro esempio di ciò che lo stato non può essere.

SRS 25

Concetto errato e perverso di sviluppo umano nelle campagne

sistematiche contro la natalità.

a) A questo punto occorre fare un riferimento al problema demografico ed al modo di parlarne oggi, seguendo quanto Paolo VI ha indicato nell’Enciclica ed io stesso ho esposto diffusamente nell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortium. Non si può negare l’esistenza, specie nella zona Sud del nostro pianeta, di un problema demografico tale da creare difficoltà allo sviluppo. È bene aggiungere subito che nella zona Nord questo problema si pone con connotazioni inverse: qui, a preoccupare, è la caduta del tasso di natalità, con ripercussioni sull’invecchiamento della popolazione, incapace perfino di rinnovarsi biologicamente. Fenomeno, questo, in grado di ostacolare di per sé lo sviluppo. Come non è esatto affermare che tali difficoltà provengono soltanto dalla crescita demografica, così non è neppure dimostrato che ogni crescita demografica sia incompatibile con uno sviluppo ordinato.

b) Queste campagne ledono la libertà di decisione delle singole persone e spesso non sono giustificate.

D’altra parte, appare molto allarmante costatare in molti Paesi il lancio di campagne sistematiche contro la natalità per iniziativa dei loro governi, in contrasto non solo con l’identità culturale e religiosa degli stessi Paesi, ma anche con la natura del vero sviluppo. Avviene spesso che tali campagne sono dovute a pressioni e sono finanziate da capitali provenienti dall’estero e, in qualche caso, ad esse sono addirittura subordinati gli aiuti e l’assistenza economico-finanziaria. In ogni caso, si tratta di assoluta mancanza di rispetto per la libertà di decisione delle persone interessate, uomini e donne, sottoposte non di rado a intolleranti pressioni, comprese quelle economiche, per piegarle a questa forma nuova di oppressione. Sono le popolazioni più povere a subirne i maltrattamenti: e ciò finisce con l’ingenerare, a volte, la tendenza a un certo razzismo o col favorire l’applicazione di certe forme, egualmente razzistiche, di eugenismo. Anche questo fatto, che reclama la condanna più energica, è indizio di un concetto errato e perverso del vero sviluppo umano.

 

10. OTTAVA REGOLA: la sussidiarietà.

Concludiamo con un paragrafo sul principio di sussidiarietà, che è tipico della dottrina sociale cattolica.

Tale principio affonda le sue radici nel fatto—già notato sopra—"che l’individuo, la famiglia, i gruppi e i corpi sociali che liberamente si formano nello spazio vitale della persona (associazioni, gruppi di volontariato, imprese, etc.) sono "prima" (in senso ontologico ed etico) dello stato che, pur essendo la forma superiore e necessaria di organizzazione della società, non può assorbirli o soggiogarli. Lo stato, secondo la sua stessa ragion d’essere, deve integrarli, sostenerli, proteggerli nelle loro attività e nel loro sviluppo. Può e deve supplirli quando è necessario, riservando a sé, come proprio campo di azione, le esigenze e i problemi generali che riguardano il bene comune e superano le possibilità, le competenze, le finalità dirette degli individui e dei gruppi" (cit. da: Raimondo Spiazzi, "I documenti sociali della Chiesa", introduzione, pp. XLII-XLIII, Milano 1983).

Dunque il principio di sussidiarietà è in sostanza il limite di intervento dello stato verso i singoli—soli o liberamente associati—a ciò che essi non sono in grado di fare rispetto ad un vero bene comune.

In questa linea viene difesa e sostenuta la creatività sociale di ognuno, in ogni campo: scolastico, assistenziale, sanitario, economico etc.

Alcuni brani possono aiutarci ancor meglio a comprendere questo punto.

CA 11

Se Leone XIII si appella allo Stato per rimediare secondo giustizia alla condizione dei poveri, lo fa anche perché riconosce opportunamente che lo Stato ha il compito di sovraintendere al bene comune e di curare che ogni settore della vita sociale, non escluso quello economico, contribuisca a promuoverlo, pur nel rispetto della giusta autonomia di ciascuno di essi. Ciò, però, non deve far pensare che per Papa Leone ogni soluzione della questione sociale debba venire dallo Stato. Al contrario, egli insiste più volte sui necessari limiti dell’intervento dello Stato e sul suo carattere strumentale, giacché l’individuo, la famiglia e la società gli sono anteriori ed esso esiste per tutelare i diritti dell’uno e delle altre, e non già per soffocarli.

CA 15

La Rerum Novarum si oppone alla statalizzazione degli strumenti di produzione che ridurrebbe ogni cittadino ad un "pezzo" nell’ingranaggio della macchina dello Stato. Non meno decisamente essa critica la concezione dello Stato che lascia il settore dell’economia totalmente al di fuori del suo campo di interesse e di azione. Esiste certo una legittima sfera di autonomia dell’agire economico, nella quale lo Stato non deve entrare. Questo, però ha il compito di determinare la cornice giuridica, al cui interno si svolgono i rapporti economici, e di salvaguardare in tal modo le condizioni prime di un’economia libera, che presuppone una certa eguaglianza tra le parti, tale che una di esse non sia tanto più potente dell’altra da poterla ridurre praticamente in schiavitù.

Al conseguimento di questi fini lo Stato deve concorrere sia direttamente che indirettamente. Indirettamente e secondo il principio di sussidiarietà, creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell’attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza. Direttamente e secondo il principio di solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all’autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato. L’Enciclica ed il Magistero sociale, ad essa collegato ebbero una molteplice influenza negli anni tra il XIX e il XX secolo. Tale influenza si riflette in numerose riforme introdotte nei settori della previdenza sociale, delle pensioni, delle assicurazioni contro le malattie, della prevenzione degli infortuni, nel quadro di un maggiore rispetto dei diritti dei lavoratori.

CA 48

I compiti dello Stato in campo economico.

a) Garantire a tutti la sicurezza, la libertà di operare e la moralità pubblica.

Queste considerazioni generali si riflettono anche sul ruolo dello Stato nel settore dell’economia. L’attività economica, in particolare quella dell’economia di mercato, non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Essa suppone, al contrario, sicurezza circa le garanzie della libertà individuale e della proprietà, oltre che una moneta stabile e servizi pubblici efficienti. Il principale compito dello Stato, pertanto, è quello di garantire questa sicurezza, di modo che chi lavora e produce possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con efficienza e onestà. La mancanza di sicurezza, accompagnata dalla corruzione dei pubblici poteri e dalla diffusione di improprie fonti di arricchimento e di facili profitti, fondati su attività illegali o puramente speculative, è uno degli ostacoli principali per lo sviluppo e per l’ordine economico.

b) Sorveglianza sullesercizio dei diritti umani.

Altro compito dello Stato è quello di sorvegliare e guidare l’esercizio dei diritti umani nel settore economico; ma in questo campo la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società. Non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l’intera vita economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli. Ciò, tuttavia, non significa che esso non abbia alcuna competenza in questo ambito come hanno affermato i sostenitori di un’assenza di regole nella sfera economica. Lo Stato, anzi, ha il dovere di assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi.

c) Funzioni di supplenza dello Stato nellattività economica in casi eccezionali.

Lo Stato, ancora, ha il diritto di intervenire quando situazioni particolari di monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo. Ma, oltre a questi compiti di armonizzazione e di guida dello sviluppo, esso può svolgere funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito. Simili interventi di supplenza giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre stabilmente a detti settori e sistemi di imprese le competenze che sono loro proprie e per non dilatare eccessivamente l’ambito dell’intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile.

d) Evitare lerrore dello "Stato assistenziale", rispettando il principio di sussidiarietà.

Si è assistito negli ultimi anni ad un vasto ampliamento di tale sfera di intervento, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno Stato di tipo nuovo: lo "Stato del benessere". Questi sviluppi si sono avuti in alcuni Stati per rispondere in modo più adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a forme di povertà e di privazione indegne della persona umana. Non sono, però, mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo Stato del benessere, qualificato come "Stato assistenziale". Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso. Si aggiunga che spesso un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi anche alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati ed a tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossico-dipendenti: persone tutte che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno.

 

CAPITOLO TERZO: l’opera comune cioè la missione

ovvero la speranza cristiana come responsabilità nel presente

 

A. COSA BISOGNA FARE?

La dottrina sociale, che si può esprimere secondo principi e idee, è soprattutto una rilettura intelligente della vita e delle scelte operate dagli uomini di fede; è dunque scaturita da migliaia di "opere", dal mettersi insieme di uomini che in nome di una speranza e un desiderio hanno cercato di costruire una vita che rispondesse a tutte le loro esigenze e prendesse sul serio i loro bisogni.

Non si tratta di mettersi a tavolino a inventare: la prima responsabilità affidata ai cristiani è di vivere la propria vocazione, di costruire dunque quella realtà incontrabile e visibile che è la Chiesa. Questo crea inevitabilmente un "soggetto sociale nuovo" che non ha come compito di inglobare tutto e tutti, ma semplicemente di essere segno di speranza per chi per esso vive e dunque per ogni uomo che può, se lo desidera, incontrare e percepire un modo nuovo di guardare alla vita, ai propri bisogni, alla realtà.

Il primo passo nel concretizzarsi della dottrina sociale è che esista e si incrementi la Chiesa.

È il punto 13 della Redemptor Hominis.

RH 13

Quando, attraverso l’esperienza della famiglia umana in continuo aumento a ritmo accelerato, penetriamo nel mistero di Gesù Cristo, comprendiamo con maggiore chiarezza che, alla base di tutte queste vie lungo le quali, conforme alla saggezza del Pontefice Paolo VI, deve proseguire la Chiesa dei nostri tempi, c’è un’unica via: è la via sperimentata da secoli, ed è, insieme, la via del futuro. Cristo Signore ha indicato questa via, soprattutto quando—come insegna il Concilio—"con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo". La Chiesa ravvisa, dunque, il suo compito fondamentale nel far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi. La Chiesa desidera servire quest’unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa irradia. Sullo sfondo dei sempre crescenti processi nella storia, che nella nostra epoca sembrano fruttificare in modo particolare nell’ambito di vari sistemi, concezioni ideologiche del mondo e regimi, Gesù Cristo diventa, in certo modo, nuovamente presente, malgrado tutte le apparenti sue assenze, malgrado tutte le limitazioni della presenza e dell’attività istituzionale della Chiesa. Gesù Cristo diventa presente con la potenza di quella verità e di quell’amore, che si sono espressi in Lui come pienezza unica e irripetibile, benché la sua vita in terra sia stata breve ed ancor più breve la sua attività pubblica. Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via "alla casa del Padre", ed è anche la via a ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all’uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può esser fermata da nessuno. Questa è l’esigenza del bene temporale e del bene eterno dell’uomo. La Chiesa, per riguardo a Cristo ed in ragione di quel mistero che costituisce la vita della Chiesa stessa, non può rimanere insensibile a tutto ciò che serve al vero bene dell’uomo così come non può rimanere indifferente a ciò che lo minaccia. Il Concilio Vaticano II, in diversi passi dei suoi documenti, ha espresso questa fondamentale sollecitudine della Chiesa, affinché "la vita nel mondo "sia" più conforme all’eminente dignità dell’uomo" in tutti i suoi aspetti, per renderla "sempre più umana". Questa è la sollecitudine di Cristo stesso, il buon Pastore di tutti gli uomini. In nome di tale sollecitudine—come leggiamo nella Costituzione pastorale del Concilio—"la Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana". Qui, dunque, si tratta dell’uomo in tutta la sua verità nella sua piena dimensione. Non si tratta dell’uomo "astratto", ma reale, dell’uomo "concreto", "storico". Si tratta di "ciascun" uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. Ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa. Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero ed è incentrata su di lui in modo del tutto particolare. L’oggetto di questa premura è l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso.

Nel suo esistere nel mondo contemporaneo la Chiesa sottolinea ed indica a tutti i cristiani e a tutti gli uomini di "buona volontà" alcuni passi e alcune scelte che possono davvero costituire la trama di un lavoro comune per una presenza viva nella società. Oggi i cristiani sono seriamente chiamati a mettersi insieme perché l’esempio e le scelte personali di ognuno—che costituiscono la premessa ovvia di qualunque cammino—non cedano di fronte ad una mentalità dilagante e ad una rassegnazione.

Non darsi una mano, non intraprendere e rischiare insieme, è dunque un grave limite alla possibilità di vedere ed incontrare per ogni uomo un modo nuovo di vivere; è impedire la speranza che questa realtà possa essere diversa, speranza che—seppur desiderata—non è credibile se non incontra come possibilità storica per me, ora, un modo nuovo di lavorare, di fare politica, di costruire la vita.

Non mettersi insieme, insomma, oltre ad essere un grave peccato perché non aiuta il dilatarsi dell’unica novità vera della storia, cioè la presenza operante di Cristo, Capo della Sua Chiesa, è pure un rischio per la persona, per ciascuno di noi, perché uccide la speranza facendola diventare sogno.

La comunione è origine e sostegno della persona: oggi siamo chiamati a dare testimonianza e "rendere ragione della speranza che è in noi" (1 Pt 3,5); ciò non significa un "farci vedere" nel senso deteriore del termine ma un "essere visibili" nell’unità che ci è donata.

Indichiamo allora con alcune parole questa trama possibile per una azione comune, per l’opera a cui siamo chiamati in questo momento storico.

 

1. Speranza

La speranza è il primo motivo ragionevole per cui vale la pena di lavorare e vivere oggi da cristiani.

La speranza è dono di Dio: nasce nella fede e fiorisce nella carità: è risposta immediata al cuore del Vangelo, alla certezza che "Io sono con voi fino alla fine dei giorni" (Mt 28, 20). Non è dunque un vago "ottimismo", "nonostante tutto" etc.. È la certezza che questa realtà è il luogo creato da Dio per incontrarci. Eppure questa realtà è evidentemente bisognosa di salvezza: il cristianesimo è l’annuncio che in questa realtà è presente il Salvatore.

Lui è speranza e genera speranza.

Questa è la certezza che ci rende liberi e sereni, pronti ed intelligenti nell’agire. La speranza è vivere ora perché questa realtà, ferita nel peccato, ridiventi se stessa: "come in cielo così in terra".

Non importa dove arriviamo e quanto facciamo; la vita è "nuova" perché oggi è possibile sperimentare—inizialmente ma realmente—ciò che è per sempre. I limiti e le difficoltà sono come un "test" per la nostra umanità, sono una "prova" che dimostra, non solo che fa fare fatica: così come il cammino nel deserto fu "prova" per il popolo di Israele che "solo Dio basta".

La speranza, legame tra fede e carità, è fonte inesauribile di una accanita operosità per cambiare il mondo semplicemente perché ci attesta che il mondo è già amato e salvato pur non essendone purtroppo consapevole. E questa operosità è il compito che il Signore affida a ciascuno di noi. L’operosità non è il semplice agire ma il nostro stesso essere, tanto che diventa "operosa" anche la sofferenza "incapace di fare", perché associata—per volere di Dio e con la collaborazione della libertà dell’uomo—all’unica "opera" che salva il mondo: la sofferenza e la morte di Gesù Cristo. Andrebbe riletto tutto il messaggio per la pace del primo gennaio 1985.

SRS 48

a) La Chiesa sa bene che nessuna realizzazione temporale s’identifica col Regno di Dio, ma che tutte le realizzazioni non fanno che riflettere e, in un certo senso, anticipare la gloria del Regno, che attendiamo alla fine della storia, quando il Signore ritornerà. Ma l’attesa non potrà esser mai una scusa per disinteressarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella loro vita sociale, nazionale e internazionale, in quanto questa—ora soprattutto—condiziona quella.

b) Nessuna realizzazione risultante dallo sforzo solidale di tutti, anche se imperfetta, sarà vana.

Nulla, anche se imperfetto e provvisorio, di tutto ciò che si può e si deve realizzare mediante lo sforzo solidale di tutti e la grazia divina in un certo momento della storia, per rendere "più umana" la vita degli uomini, sarà perduto né sarà stato vano.

 

2. Le opere

Cosa dobbiamo fare?

Ma la domanda potrebbe essere "cosa dobbiamo essere"?

La risposta è identica: fare ciò che siamo, essere figli di Dio.

Le opere nascono quando prendendo sul serio ciò che siamo entriamo in rapporto col bisogno nostro e di chi incontriamo, e iniziamo a darci una mano per rispondere al nostro desiderio di vita.

CA 57

Per la Chiesa il messaggio sociale del Vangelo non deve esser considerato una teoria, ma prima di tutto un fondamento e una motivazione per l’azione. Spinti da questo messaggio, alcuni dei primi cristiani distribuivano i loro beni ai poveri, testimoniando che, nonostante le diverse provenienze sociali, era possibile una convivenza pacifica e solidale. Con la forza del Vangelo, nel corso dei secoli, i monaci coltivarono le terre, i religiosi e le religiose fondarono ospedali e asili per i poveri, le confraternite, come pure uomini e donne di tutte le condizioni, si impegnarono in favore dei bisognosi e degli emarginati, essendo convinti che le parole di Cristo: "Ogni volta che farete queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me" (Mt 25, 40), non dovevano rimanere un pio desiderio, ma diventare un concreto impegno di vita. Oggi più che mai la Chiesa è cosciente che il suo messaggio sociale troverà credibilità nella testimonianza delle opere, prima che nella sua coerenza e logica interna. Anche da questa consapevolezza deriva la sua opzione preferenziale per i poveri, la quale non è mai esclusiva né discriminante verso altri gruppi. Si tratta, infatti, di opzione che non vale soltanto per la povertà materiale, essendo noto che, specialmente nella società moderna, si trovano molte forme di povertà non solo economica, ma anche culturale e religiosa. L’amore della Chiesa per i poveri, che è determinante ed appartiene alla sua costante tradizione, la spinge a rivolgersi al mondo nel quale, nonostante il progresso tecnico-economico, la povertà minaccia di assumere forme gigantesche. Nei Paesi occidentali c’è la povertà multiforme dei gruppi emarginati, degli anziani e malati, delle vittime del consumismo e, più ancora, quella dei tanti profughi ed emigrati; nei Paesi in via di sviluppo si profilano all’orizzonte crisi drammatiche, se non si prenderanno in tempo misure internazionalmente coordinate.

La nostra vita che prende sul serio e fino in fondo il nostro desiderio e i nostri veri bisogni, non il "fare" qualcosa di buono per gli altri, è segno e stimolo per tutti gli uomini di "buona volontà".

Le "opere" nascono dalla consapevolezza di un comune destino.

SRS 26

a) Consapevolezza della dignità propria e di ogni essere umano.

Simile panorama prevalentemente negativo, della reale situazione dello sviluppo del mondo contemporaneo, non sarebbe completo se non si segnalasse la coesistenza di aspetti positivi.

La prima nota positiva è la piena consapevolezza, in moltissimi uomini e donne, della dignità propria e di ciascun essere umano. Tale consapevolezza si esprime, per esempio, con la preoccupazione dappertutto più viva per il rispetto dei diritti umani e col più deciso rigetto delle loro violazioni. Ne è segno rivelatore il numero delle associazioni private, alcune di portata mondiale, di recente istituzione, e quasi tutte impegnate a seguire con grande cura e lodevole obiettività gli avvenimenti internazionali in un campo così delicato. Su questo piano bisogna riconoscere l’influsso esercitato dalla Dichiarazione dei Diritti Umani, promulgata circa quaranta anni fa dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. La sua stessa esistenza e la sua progressiva accettazione da parte della comunità internazionale sono già segno di una consapevolezza che si va affermando. Lo stesso bisogna dire, sempre nel campo dei diritti umani, per gli altri strumenti giuridici della medesima Organizzazione delle Nazioni Unite o di altri Organismi internazionali. La consapevolezza, di cui parliamo, non va riferita soltanto agli individui, ma anche alle Nazioni e ai popoli, che, quali entità aventi una determinata identità culturale, sono particolarmente sensibili alla conservazione, alla libera gestione e alla promozione del loro prezioso patrimonio.

b) Convincimento della necessità della solidarietà a livello mondiale perché si è tutti legati ad un "destino comune".

Contemporaneamente, nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti, si fa strada la convinzione di una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la necessità di una solidarietà che la assuma e traduca sul piano morale. Oggi forse più che in passato, gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino, da costruire insieme, se si vuole evitare la catastrofe per tutti. Dal profondo dell’angoscia, della paura e dei fenomeni di evasione come la droga, tipici del mondo contemporaneo, emerge via via l’idea che il bene, al quale siamo tutti chiamati, e la felicità, a cui aspiriamo, non si possono conseguire senza lo sforzo e l’impegno di tutti, nessuno escluso, e con la conseguente rinuncia al proprio egoismo.

c) Tentativi di operare per una pace vera che esige vera giustizia ed equa distribuzione dei frutti del vero sviluppo.

Qui s’inserisce anche, come segno del rispetto per la vita—nonostante tutte le tentazioni di distruggerla, dall’aborto all’eutanasia—, la preoccupazione concomitante per la pace; e, di nuovo, la coscienza che questa è indivisibile: o è di tutti o non è di nessuno. Una pace che esige sempre più il rispetto rigoroso della giustizia e, conseguentemente, l’equa distribuzione dei frutti del vero sviluppo.

 

3. Cultura

L’opera comune non è però una strategia tipo "l’unione fa la forza", ma l’esprimersi del mistero profondo dell’uomo che non può realizzare il suo compito senza "un aiuto che gli sia simile" come richiama Genesi 2.

Proprio in quella pagina biblica l’uomo (inteso come uomo e donna) ha il compito di coltivare il giardino (il lavoro che continua l’opera creatrice di Dio e trasforma il deserto della realtà in giardino per l’uomo) e di "dare nome a tutti gli animali" e le cose: è la cultura, cioè lo sguardo alla realtà concepita per quello che è, dono e responsabilità per l’uomo.

L’opera comune spinge ad una mutazione della cultura, della mentalità e dei giudizi che presiedono alle scelte e al riconoscimento dei valori.

Il dramma è quando l’agire del cristiano è slegato da un cambiamento di mentalità e giudizio. Si può "fare" la carità e continuare a pensare come la logica dominante impone, illudendosi di essere buoni.

Si può fare anche tantissimo "volontariato" senza che questo muti noi e il mondo in cui viviamo.

È il dramma di una fede che non accoglie, fino alla conseguenza di un cambiamento di mentalità, il proprio contenuto: Gesù Cristo come fonte di un modo radicalmente nuovo di guardare e di vivere tutto.

Così il Papa afferma che un volontariato senza cultura si esaurisce in uno sforzo sterile. D’altronde una cultura—cioè un giudizio nuovo sulla realtà, non perché più intelligente, ma perché frutto di fede—nasce solo da uomini che rischiano, che mettono alla prova ciò che è stato loro tramandato col desiderio non di correre dietro a tanti pareri o di giustificarsi perché "fan tutti così", ma di ritrovare le tracce della verità che sola costituisce il compimento della nostra ragione e del nostro cuore.

CA 49, 50 e 51

a) Da sottolineare lazione caritativa svolta dal "volontariato".

In questo campo la Chiesa, fedele al mandato di Cristo, suo Fondatore, è da sempre presente con le sue opere, per offrire all’uomo bisognoso un sostegno materiale che non lo umili e non lo riduca ad esser solo oggetto di assistenza, ma lo aiuti a uscire dalla precaria sua condizione, promovendone la dignità di persona. Con viva gratitudine a Dio bisogna segnalare che la carità operosa non si è mai spenta nella Chiesa ed anzi registra oggi un multiforme e confortante incremento. Al riguardo, merita speciale menzione il fenomeno del volontariato, che la Chiesa favorisce e promuove sollecitando tutti a collaborare per sostenerlo e incoraggiarlo nelle sue iniziative.

 

 

b) Necessità di una adeguata politica sociale incentrata sulla funzione primaria della famiglia.

Per superare la mentalità individualista, oggi diffusa, si richiede un concreto impegno di solidarietà e di carità, il quale inizia all’interno della famiglia col mutuo sostegno degli sposi e, poi, con la cura che le generazioni si prendono l’una dell’altra. In tal modo la famiglia si qualifica come comunità di lavoro e di solidarietà. Accade, però, che quando la famiglia decide di corrispondere pienamente alla propria vocazione, si può trovare priva dell’appoggio necessario da parte dello Stato e non dispone di risorse sufficienti. È urgente promuovere non solo politiche per la famiglia, ma anche politiche sociali, che abbiano come principale obiettivo la famiglia stessa, aiutandola, mediante l’assegnazione di adeguate risorse e di efficienti strumenti di sostegno, sia nell’educazione dei figli sia nella cura degli anziani, evitando il loro allontanamento dal nucleo familiare e rinsaldando i rapporti tra le generazioni.

c) Lapporto di solidarietà delle altre società intermedie.

Oltre alla famiglia, svolgono funzioni primarie ed attivano specifiche reti di solidarietà anche altre società intermedie. Queste, infatti, maturano come reali comunità di persone ed innervano il tessuto sociale, impedendo che scada nell’anonimato ed in un’impersonale massificazione, purtroppo frequente nella moderna società. È nel molteplice intersecarsi dei rapporti che vive la persona e cresce la "soggettività della società". L’individuo oggi è spesso soffocato tra i due poli dello Stato e del mercato. Sembra, infatti, talvolta che egli esista soltanto come produttore e consumatore di merci, oppure come oggetto dell’amministrazione dello Stato, mentre si dimentica che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al mercato né allo Stato poiché possiede in se stessa un singolare valore che Stato e mercato devono servire. L’uomo è, prima di tutto, un essere che cerca la verità e si sforza di viverla e di approfondirla in un dialogo che coinvolge le generazioni passate e future.

Una giusta "cultura della Nazione" che non disperda il patrimonio dei valori tramandati.

Da tale ricerca aperta della verità, che si rinnova ad ogni generazione, si caratterizza la cultura della Nazione. In effetti, il patrimonio dei valori tramandati ed acquisiti è sempre sottoposto dai giovani a contestazione. Contestare, peraltro, non vuol dire necessariamente distruggere o rifiutare in modo aprioristico, ma vuol significare soprattutto mettere alla prova nella propria vita e, con tale verifica esistenziale, rendere quei valori più vivi, attuali e personali, discernendo ciò che nella tradizione è valido da falsità ed errori o da forme invecchiate, che possono esser sostituite da altre più adeguate ai tempi.

In questo contesto, conviene ricordare che anche l’evangelizzazione si inserisce nella cultura delle Nazioni, sostenendola nel suo cammino verso la verità ed aiutandola nel lavoro di purificazione e di arricchimento. Quando, però, una cultura si chiude in se stessa e cerca di perpetuare forme di vita invecchiate, rifiutando ogni scambio e confronto intorno alla verità dell’uomo, allora essa diventa sterile e si avvia a decadenza.

Necessità di una adeguata formazione di una cultura delluomo.

a) Il contributo della Chiesa in favore di una vera cultura della verità.

Tutta l’attività umana ha luogo all’interno di una cultura e interagisce con essa. Per un’adeguata formazione di tale cultura si richiede il coinvolgimento di tutto l’uomo, il quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini. Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di autodominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità per promuovere il bene comune. Per questo, il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell’uomo, ed il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino. È a questo livello che si colloca il contributo specifico e decisivo della Chiesa in favore della vera cultura. Essa promuove le qualità dei comportamenti umani, che favoriscono la cultura della pace contro modelli che confondono l’uomo nella massa, disconoscono il ruolo della sua iniziativa e libertà e pongono la sua grandezza nelle arti del conflitto e della guerra. La Chiesa rende un tale servizio predicando la verità intorno alla creazione del mondo, che Dio ha posto nelle mani degli uomini perché lo rendano fecondo e più perfetto col loro lavoro, e predicando la verità intorno alla redenzione, per cui il Figlio di Dio ha salvato tutti gli uomini e, al tempo stesso, li ha uniti gli uni agli altri, rendendoli responsabili gli uni degli altri. La Sacra Scrittura ci parla continuamente di attivo impegno per il fratello e ci presenta l’esigenza di una corresponsabilità che deve abbracciare tutti gli uomini.

b) Ognuno deve sentirsi responsabile della sorte degli altri uomini, da considerare come fratelli.

Questa esigenza non si ferma ai confini della propria famiglia, e neppure della Nazione o dello Stato, ma investe ordinatamente tutta l’umanità, sicché nessun uomo deve considerarsi estraneo o indifferente alla sorte di un altro membro della famiglia umana. Nessun uomo può affermare di non essere responsabile della sorte del proprio fratello (cfr. Gn 4, 9. Lc 10, 29-37; Mt 25, 31-46)! l’attenta e premurosa sollecitudine verso il prossimo, nel momento stesso del bisogno, oggi facilitata anche dai nuovi mezzi di comunicazione che hanno reso gli uomini più vicini tra loro, è particolarmente importante in relazione alla ricerca degli strumenti di soluzione dei conflitti internazionali alternativi alla guerra. Non è difficile affermare che la potenza terrificante dei mezzi di distruzione, accessibili perfino alle medie e piccole potenze, e la sempre più stretta connessione, esistente tra i popoli di tutta la Terra, rendono assai arduo o praticamente impossibile limitare le conseguenze di un conflitto.

 

4. Missione

Ciò che rende più insicuri e incapaci di metterci insieme tra cristiani e con gli altri uomini per rispondere ai nostri bisogni in modo vero e consapevole è l’aver dimenticato che Cristo può essere incontrato da ogni uomo. Cristo può camminare e sostenere l’uomo solo se questi incontra qualcuno che esplicitamente in nome Suo condivide la propria vita (e dunque il suo bisogno) con chiunque incontra.

Insomma il cristianesimo non è l’approdo ultimo della ricerca intellettuale e della capacità dell’uomo, ma un incontro con persone che condividendo gli stessi bisogni e le fatiche di ogni uomo hanno incontrato Cristo e vivono per Lui.

Il fine anche delle opere "sociali" è sempre e comunque quello inevitabile di annunciare la Salvezza, inevitabile come per la luce illuminare.

CA 59 e 60

L’esperienza di novità vissuta nella sequela di Cristo esige di esser comunicata agli altri uomini nella concretezza delle loro difficoltà, lotte, problemi e sfide, perché siano illuminate e rese più umane dalla luce della fede. Questa, infatti, non aiuta soltanto a trovare le soluzioni, ma rende umanamente vivibili anche le situazioni di sofferenza, perché in esse l’uomo non si perda e non dimentichi la sua dignità e vocazione.

Annunciando i principi per la soluzione della questione operaia, Leone XIII scriveva: "La soluzione di un problema così arduo richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche di altri". Egli era convinto che i gravi problemi, causati dalla società industriale, potevano essere risolti soltanto mediante la collaborazione tra tutte le forze. Questa affermazione è diventata un elemento permanente della dottrina sociale della Chiesa, e ciò spiega, tra l’altro, perché Giovanni XXIII indirizzò la sua Enciclica sulla pace anche a "tutti gli uomini di buona volontà". Papa Leone, tuttavia, constatava con dolore che le ideologie del tempo, specialmente il liberalismo e il marxismo, rifiutavano questa collaborazione. Nel frattempo molte cose sono cambiate, specialmente negli anni più recenti. Il mondo odierno è sempre più consapevole che la soluzione dei gravi problemi nazionali e internazionali non è soltanto questione di produzione economica o di organizzazione giuridica o sociale, ma richiede precisi valori etico-religiosi, nonché cambiamento di mentalità, di comportamento e di strutture. La Chiesa si sente, in particolare, responsabile di offrire questo contributo e—come ho scritto nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis—c’è la fondata speranza che anche quel gruppo numeroso che non confessa una religione possa contribuire a dare il necessario fondamento etico alla questione sociale.

Nello stesso Documento ho pure rivolto un appello alle Chiese cristiane e a tutte le grandi religioni del mondo invitando ad offrire l’unanime testimonianza delle comuni convinzioni circa la dignità dell’uomo, creato da Dio. Sono persuaso, infatti, che le religioni oggi e domani avranno un ruolo preminente per la conservazione della pace e per la costruzione di una società degna dell’uomo. D’altra parte, la disponibilità al dialogo e alla collaborazione vale per tutti gli uomini di buona volontà e, in particolare, per le persone ed i gruppi che hanno una specifica responsabilità nel campo politico economico e sociale, a livello sia nazionale che internazionale.

 

5. Liberazione

Questo termine che sembra "politico", ma che in realtà ha un profondissimo significato umano e biblico, è il vertice a cui tutto il percorso conduce.

L’incarnazione è la scelta attraverso cui Dio decide di venire a "liberare" il suo popolo dalla schiavitù più radicale, che è fonte di tutto il male che abbiamo visto, cioè dal peccato.

La liberazione dell’uomo coincide con il segno della Croce, che, per il potere di ogni tempo, è il vertice dell’orgoglio e dell’illusione di aver eliminato l’unica reale insidia ad un dominio senza regole né confini, mentre in realtà è la roccia della vera rinascita dell’uomo e del mondo.

 

 

 

 

 

 

Rileggiamo la stupenda conclusione della Sollicitudo rei socialis (n. 46 ss).

a) La teologia della liberazione come tentativo di un nuovo modo di affrontare i problemi della miseria e del sottosviluppo.

Popoli e individui aspirano alla propria liberazione: la ricerca del pieno sviluppo è il segno del loro desiderio di superare i molteplici ostacoli che impediscono di fruire di una "vita più umana". Recentemente, nel periodo seguito alla pubblicazione dell’Enciclica Populorum Progressio, in alcune aree della Chiesa cattolica, in particolare nell’America Latina, si è diffuso un nuovo modo di affrontare i problemi della miseria e del sottosviluppo, che fa della liberazione la categoria fondamentale e il primo principio di azione. I valori positivi, ma anche le deviazioni e i pericoli di deviazione, connessi a questa forma di riflessione e di elaborazione teologica, sono stati convenientemente segnalati dal Magistero ecclesiastico. È bene aggiungere che l’aspirazione alla liberazione da ogni forma di schiavitù, relativa all’uomo e alla società, è qualcosa di nobile e valido. A questo mira propriamente lo sviluppo o piuttosto la liberazione e lo sviluppo, tenuto conto dell’intima connessione esistente tra queste due realtà. Uno sviluppo soltanto economico non è in grado di liberare l’uomo, anzi, al contrario, finisce con l’asservirlo ancora di più. Uno sviluppo, che non comprenda le dimensioni culturali, trascendenti e religiose dell’uomo e della società nella misura in cui non riconosce l’esistenza di tali dimensioni e non orienta ad esse i propri traguardi e priorità, ancor meno contribuisce alla vera liberazione. L’essere umano è totalmente libero solo quando è se stesso, nella pienezza dei suoi diritti e doveri: la stessa cosa si deve dire dell’intera società.

b) Il peccato e le strutture da esso indotte sono gli ostacoli ad una vera liberazione.

L’ostacolo principale da superare per una vera liberazione è il peccato e le strutture da esso indotte, man mano che si moltiplica e si estende. La libertà, con la quale Cristo ci ha liberati (cfr. Gal 5, 1), stimola a convertirci in servi di tutti. Così il processo dello sviluppo e della liberazione si concreta in esercizio di solidarietà, ossia di amore e servizio al prossimo, particolarmente ai più poveri: "Là dove vengono meno la verità e l’amore, il processo di liberazione porta alla morte di una libertà, che non ha più sostegno".

La Chiesa invita tutti ad impegnarsi responsabilmente nella solidarietà

e nellamore preferenziale per i poveri.

a) Non sono giustificati pessimismo e passività perché gli intralci ad un vero sviluppo possono essere superati.

Nel quadro delle tristi esperienze degli anni recenti e del panorama prevalentemente negativo del momento presente la Chiesa deve affermare con forza la possibilità del superamento degli intralci che, per eccesso o per difetto, si frappongono allo sviluppo, e la fiducia per una vera liberazione. Fiducia e possibilità fondate, in ultima istanza sulla consapevolezza che ha la Chiesa della promessa divina, volta a garantire che la storia presente non resta chiusa in se stessa, ma è aperta al Regno di Dio. La Chiesa ha fiducia anche nell’uomo, pur conoscendo la malvagità di cui è capace, perché sa bene che—nonostante il peccato ereditato e quello che ciascuno può commettere—ci sono nella persona umana sufficienti qualità ed energie, c’è una fondamentale "bontà" (cfr. Gn 1, 31), perché è immagine del Creatore, posta sotto l’influsso redentore di Cristo, "che si è unito in certo modo a ogni uomo", e perché l’azione efficace dello Spirito Santo "riempie la terra" (Sap 1, 7). Non sono, pertanto, giustificabili né la disperazione né il pessimismo né la passività. Anche se con amarezza occorre dire che, come si può peccare per egoismo, per brama di guadagno esagerato e di potere, si può anche mancare, di fronte alle urgenti necessità di moltitudini umane immerse nel sottosviluppo, per timore, indecisione e, in fondo, per codardia. Siamo tutti chiamati, anzi obbligati, ad affrontare la tremenda sfida dell’ultima decade del secondo Millennio. Anche perché i pericoli incombenti minacciano tutti: una crisi economica mondiale, una guerra senza frontiere, senza vincitori né vinti. Di fronte a simile minaccia, la distinzione tra persone e Paesi ricchi, tra persone e Paesi poveri, avrà poco valore, salvo la maggiore responsabilità gravante su chi ha di più e può di più.

b) Un impegno di tutti è operare per la difesa della dignità umana.

Ma tale motivazione non è né l’unica né la principale. È in gioco la dignità della persona umana la cui difesa e promozione ci sono state affidate dal Creatore, e di cui sono rigorosamente e responsabilmente debitori gli uomini e le donne in ogni congiuntura della storia. Il panorama odierno—come già molti più o meno chiaramente avvertono—non sembra rispondente a questa dignità. Ciascuno è chiamato a occupare il proprio posto in questa campagna pacifica, da condurre con mezzi pacifici, per conseguire lo sviluppo nella pace, per salvaguardare la stessa natura e il mondo che ci circonda. Anche la Chiesa si sente profondamente implicata in questo cammino, nel cui felice esito finale spera.

… Desidero rivolgermi specialmente a quanti, per il sacramento del Battesimo e la professione dello stesso Credo, sono compartecipi di una vera comunione, sia pure imperfetta, con noi. Sono sicuro che sia la sollecitudine che questa Lettera esprime, sia le motivazioni che la animano saranno loro familiari, perché ispirate dal Vangelo di Cristo Gesù. Possiamo trovare qui un nuovo invito a dare testimonianza unanime delle nostre comuni convinzioni sulla dignità dell’uomo, creato da Dio, redento da Cristo, santificato dallo Spirito, e chiamato in questo mondo a vivere una vita conforme a questa dignità. A coloro che condividono con noi l’eredità di Abramo "nostro padre nella fede" (cfr. Rom 4, 11 s.), e la tradizione dell’Antico Testamento, ossia gli Ebrei, a coloro che, come noi, credono in Dio giusto e misericordioso, ossia i Mussulmani, rivolgo parimenti questo appello, che si estende, altresì, a tutti i seguaci delle grandi religioni del mondo. L’incontro del 27 ottobre dell’anno passato ad Assisi, la città di san Francesco, per pregare ed impegnarci per la pace—ognuno in fedeltà alla propria professione religiosa—ha rivelato a tutti fino a che punto la pace e, quale sua necessaria condizione, lo sviluppo di "tutto l’uomo e di tutti gli uomini" siano una questione anche religiosa, e come la piena attuazione dell’una e dell’altro dipenda dalla fedeltà alla nostra vocazione di uomini e di donne credenti. Perché dipende, innanzitutto, da Dio.

 

6. In sintesi:

A noi cosa è chiesto?

Semplicemente riscoprire che anche l’economia, il lavoro, la politica, le opere… o servono a incontrare l’amore di Dio o ci rendono schiavi.

È il cuore della Centesimus Annus:

CA 36

Non è male desiderare di viver meglio, ma è sbagliato lo stile di vita che si presume esser migliore, quando è orientato all’avere e non all’essere e vuole avere di più non per essere di più, ma per consumare l’esistenza in un godimento fine a se stesso. È necessario, perciò, adoperarsi per costruire stili di vita nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti. In proposito, non posso ricordare solo il dovere della carità, cioè il dovere di sovvenire col proprio "superfluo" e, talvolta, anche col proprio ""necessario" per dare ciò che è indispensabile alla vita del povero. Alludo al fatto che anche la scelta di investire in un luogo piuttosto che in un altro, in un settore produttivo piuttosto che in un altro, è sempre una scelta morale e culturale. Poste certe condizioni economiche e di stabilità politica assolutamente imprescindibili la decisione di investire cioè di offrire ad un popolo l’occasione di valorizzare il proprio lavoro, è anche determinata da un atteggiamento di simpatia e dalla fiducia nella Provvidenza, che rivelano la qualità umana di colui che decide.

 

B. SEGUENDO MARIA

La Redemptor Hominis si conclude invocando Maria che "deve trovarsi su tutte le vie della vita quotidiana della Chiesa".

RH 22

LA MADRE DELLA NOSTRA FIDUCIA

Quando dunque all’inizio del nuovo pontificato rivolgo al Redentore dell’uomo il mio pensiero e il mio cuore, desidero in questo modo entrare e penetrare nel ritmo più profondo della vita della Chiesa. Se, infatti, la Chiesa vive la sua propria vita, ciò avviene perché la attinge da Cristo, il quale vuole sempre una cosa sola, cioè che abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza. Questa pienezza di vita, che è in Lui, è contemporaneamente per l’uomo. Perciò, la Chiesa, unendosi a tutta la ricchezza del mistero della Redenzione, diventa Chiesa degli uomini viventi, viventi perché vivificati dall’interno per opera dello "Spirito di verità", perché visitati dall’amore che lo Spirito Santo infonde nei nostri cuori. Lo scopo di qualsiasi servizio nella Chiesa, sia esso apostolico, pastorale, sacerdotale, episcopale, è di mantenere questo legame dinamico del mistero della Redenzione con ogni uomo. Se siamo coscienti di questo compito, allora ci sembra di comprender meglio che cosa significhi dire che la Chiesa è madre, ed ancora che cosa significhi che la Chiesa sempre e, particolarmente, nei nostri tempi ha bisogno di una Madre. Dobbiamo una speciale gratitudine ai Padri del Concilio Vaticano II, che hanno espresso questa verità nella Costituzione Lumen Gentium con la ricca dottrina mariologica in essa contenuta. Poiché Paolo VI, ispirato da questa dottrina, ha proclamato la Madre di Cristo "Madre della Chiesa", e tale denominazione ha trovato una vasta risonanza, sia lecito anche al suo indegno Successore di rivolgersi a Maria, come Madre della Chiesa, alla fine delle presenti considerazioni, che era opportuna svolgere all’inizio del servizio pontificale. Maria è Madre della Chiesa, perché, in virtù dell’ineffabile elezione dello stesso eterno Padre e sotto la particolare azione dello Spirito d’amore. Ella ha dato la vita umana al Figlio di Dio, "per il quale e dal quale son tutte le cose" e da cui tutto il Popolo di Dio assume la grazia e la dignità dell’elezione. Il suo proprio Figlio volle esplicitamente estendere la maternità di sua Madre—ed estenderla in modo facilmente accessibile a tutte le anime e i cuori—additandoLe dall’alto della croce il suo discepolo prediletto come figlio. Lo Spirito Santo Le suggerì di rimanere anche Lei, dopo l’Ascensione di nostro Signore, nel Cenacolo raccolta nella preghiera e nell’attesa, insieme con gli Apostoli fino al giorno della Pentecoste, in cui doveva visibilmente nascere la Chiesa, uscendo dall’oscurità. E in seguito tutte le generazioni dei discepoli e di quanti confessano ed amano Cristo—così come l’apostolo Giovanni—accolsero spiritualmente nella loro casa questa Madre, la quale in tal modo, sin dagli inizi stessi, cioè dal momento dell’Annunciazione, è stata inserita nella storia della salvezza e nella missione della Chiesa. Noi tutti quindi, che formiamo la generazione odierna dei discepoli di Cristo, desideriamo unirci a Lei in modo particolare. Lo facciamo con tutto l’attaccamento alla tradizione antica e, in pari tempo, con pieno rispetto e amore per i membri di tutte le Comunità cristiane. Lo facciamo spinti dalla profonda necessità della fede, della speranza e della carità. Se, infatti, in questa difficile e responsabile fase della storia della Chiesa e dell’umanità avvertiamo uno speciale bisogno di rivolgerci a Cristo, che è Signore della sua Chiesa e Signore della storia dell’uomo in forza del mistero della Redenzione, noi crediamo che nessun altro sappia introdurci come Maria nella dimensione divina e umana di questo mistero. Nessuno come Maria è stato introdotto in esso da Dio stesso. In questo consiste l’eccezionale carattere della grazia della maternità divina. Non soltanto unica e irripetibile è la dignità di questa maternità nella storia del genere umano, ma unica anche per profondità e raggio d’azione è la partecipazione di Maria, in ragione della medesima maternità, al divino disegno della salvezza dell’uomo, attraverso il mistero della Redenzione. Questo mistero si è formato, possiamo dire, sotto il cuore della Vergine di Nazareth, quando ha pronunciato il suo "fiat". Da quel momento questo cuore verginale e insieme materno, sotto la particolare azione dello Spirito Santo, segue sempre l’opera del suo Figlio e va verso tutti coloro che Cristo ha abbracciato e abbraccia continuamente nel suo inesauribile amore. E, perciò, questo cuore deve essere anche maternamente inesauribile. La caratteristica di questo amore materno, che la Madre di Dio immette nel mistero della Redenzione e nella vita della Chiesa, trova la sua espressione nella sua singolare vicinanza all’uomo ed a tutte le sue vicende. In questo consiste il mistero della Madre. La Chiesa, che La guarda con amore e speranza tutta particolare, desidera appropriarsi di questo mistero in maniera sempre più profonda. In ciò, infatti, la Chiesa riconosce anche la via della sua vita quotidiana, che è ogni uomo. L’eterno amore del Padre, manifestatosi nella storia dell’umanità attraverso il Figlio che il Padre diede "perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna", un tale amore si avvicina ad ognuno di noi per mezzo di questa Madre ed acquista in tal modo segni più comprensibili ed accessibili a ciascun uomo. Di conseguenza, Maria deve trovarsi su tutte le vie della vita quotidiana della Chiesa. Mediante la sua materna presenza, la Chiesa prende certezza che vive veramente la vita del suo Maestro e Signore, che vive il mistero della Redenzione in tutta la sua, vivificante profondità e pienezza. Parimenti la stessa Chiesa, che ha le sue radici in numerosi e svariati campi della vita di tutta l’umanità contemporanea, acquista anche la certezza e, si direbbe, l’esperienza di essere vicina all’uomo, ad ogni uomo, di essere la "sua" Chiesa: Chiesa del Popolo di Dio. Di fronte a tali compiti, che sorgono lungo le vie della Chiesa, lungo quelle vie, che il Papa Paolo VI ci ha chiaramente indicato nella prima Enciclica del suo Pontificato, noi, consapevoli dell’assoluta necessità di tutte queste vie e, nello stesso tempo, delle difficoltà che su esse si accumulano, tanto più sentiamo il bisogno di un profondo legame con Cristo. Risuonano in noi, come un’eco sonora, le parole che Egli disse: "Senza di me non potete far nulla". Non solo sentiamo il bisogno, ma addirittura l’imperativo categorico per una grande, intensa, crescente preghiera di tutta la Chiesa. Solamente la preghiera può far sì che tutti questi grandi compiti e difficoltà che si susseguono non diventino fonte di crisi, ma occasione e quasi fondamento di conquiste sempre più mature sul cammino del Popolo di Dio verso la Terra Promessa in questa tappa della storia che ci sta avvicinando alla fine del secondo Millennio. Pertanto, terminando questa meditazione con un caloroso ed umile invito alla preghiera, desidero che si perseveri in questa preghiera uniti con Maria, Madre di Gesù, così come perseverano gli Apostoli e i discepoli del Signore, dopo la sua Ascensione, nel Cenacolo di Gerusalemme. Supplico soprattutto Maria, la celeste Madre della Chiesa, affinché si degni in questa preghiera del nuovo Avvento dell’umanità di perseverare con noi che formiamo la Chiesa, cioè il Corpo mistico del suo Figlio unigenito. Io spero che, grazie a tale preghiera, potremo ricevere lo Spirito Santo che scende su di noi e divenire in questo modo testimoni di Cristo "fino agli estremi confini della terra", come coloro che uscirono dal Cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste.

La Sollicitudo rei socialis (pubblicata nell’anno santo mariano) dedica un passaggio intensissimo a Maria.

SRS 49

Affidamento a Maria della difficile congiuntura del mondo.

In quest’Anno Mariano, che ho indetto perché i fedeli cattolici guardino sempre di più a Maria, che ci precede nel pellegrinaggio della fede e con materna premura intercede per noi davanti al suo Figlio, nostro Redentore, desidero affidare a lei e alla sua intercessione la difficile congiuntura del mondo contemporaneo, gli sforzi che si fanno e si faranno, spesso con grandi sofferenze, per contribuire al vero sviluppo dei popoli, proposto e annunciato dal mio predecessore Paolo VI. Come sempre ha fatto la pietà cristiana, noi presentiamo alla Santissima Vergine le difficili situazioni individuali, perché, esponendole a suo Figlio, ottenga da lui che siano alleviate e cambiate. Ma le presentiamo, altresì, le situazioni sociali e la stessa crisi internazionale nei loro aspetti preoccupanti di miseria, disoccupazione, carenza di vitto, corsa agli armamenti, disprezzo dei diritti umani, stati o pericoli di conflitto, parziale o totale. Tutto ciò vogliamo filialmente deporre davanti ai suoi "occhi misericordiosi", ripetendo ancora una volta con fede e speranza l’antica antifona: "Santa Madre di Dio non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci sempre da tutti i pericoli o Vergine gloriosa e benedetta". Madre Santissima nostra Madre e Regina, è colei che volgendosi a suo Figlio, dice: "Non hanno più vino" (Gv 2, 3), ed è anche colei che loda Dio Padre, perché: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc 1, 52 s.). La sua materna sollecitudine si interessa degli aspetti personali e sociali della vita degli uomini sulla terra. Davanti alla Santissima Trinità, io affido a Maria quanto in questa Lettera ho esposto invitando tutti a riflettere e ad impegnarsi attivamente nel promuovere il vero sviluppo dei popoli, come efficacemente afferma l’orazione della Messa omonima: "O Dio, che hai dato a tutte le genti una unica origine e vuoi riunirle in una sola famiglia, fa’ che gli uomini si riconoscano fratelli e promuovano nella solidarietà lo sviluppo di ogni popolo, perché […] si affermino i diritti di ogni persona e la comunità umana conosca un’era di eguaglianza e di pace".

Anche la Centesimus Annus nella sua conclusione che riportiamo ampliamente culmina con un "affido" a Maria.

CA 62

La "Centesimus Annus" prepara la venuta del nuovo secolo.

Questa mia Enciclica ha voluto guardare al passato, ma soprattutto è protesa verso il futuro. Come la Rerum Novarum, essa si colloca quasi alla soglia del nuovo secolo ed intende, con l’aiuto di Dio, prepararne la venuta. a vera e perenne "novità delle cose" in ogni tempo viene dall’infinita potenza divina, che dice: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose" (Ap 21, 5). Queste parole si riferiscono al compimento della storia, quando Cristo "consegnerà il regno a Dio Padre…, perché Dio sia tutto in tutti" (I Cor 15, 24.28). Ma il cristiano sa bene che la novità, che attendiamo nella sua pienezza al ritorno del Signore, è presente fin dalla creazione del mondo e, più propriamente, da quando Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo e con lui e per lui ha fatto una "nuova creazione" (2 Cor 5, 17; Gal 6, 15). Nel concludere, ringrazio ancora Dio onnipotente, che ha dato alla sua Chiesa la luce e la forza di accompagnare l’uomo nel cammino terreno verso il destino eterno. Anche nel terzo Millennio la Chiesa sarà fedele nel fare propria la via dell’uomo, consapevole che non procede da sola, ma con Cristo, suo Signore. È lui che ha fatto propria la via dell’uomo e lo guida anche quando questi non se ne rende conto. Maria, la Madre del Redentore, la quale rimane accanto a Cristo nel suo cammino verso e con gli uomini, e precede la Chiesa nel pellegrinaggio della fede, accompagni con materna intercessione l’umanità verso il prossimo Millennio, in fedeltà a Colui che, "ieri come oggi, e lo stesso e lo sarà sempre" (cfr. Eb 13, 8), Gesù Cristo, nostro Signore, nel cui nome tutti benedico di cuore.

Non sono scelte devozionali del Papa.

È la consapevolezza cattolica di voler obbedire intelligentemente alla volontà espressa da Cristo in Croce: "Donna ecco tuo figlio… Ecco la tua madre…" Gv 19,26-27.

Non viviamo in momenti facili e non sono semplici le responsabilità di cui abbiamo parlato: solo un’ultima e disastrosa superbia ci potrebbe non far accogliere la presenza materna di Maria voluta e scelta per accompagnarci in questa "valle di lacrime", adesso e nell’ora della nostra morte, Lei Regina della speranza.