La critica di Spinoza

al concetto di miracolo.

Caratteristiche e implicazioni

di Ruggero TARADEL*

 

Sommario

1. Introduzione 2. Il concetto di miracolo nella Bibbia ebraica, nella tradizione greca e latina e nel Nuovo Testamento 3. L'evoluzione del concetto di miracolo nella patristica 4. La questione dei miracoli nella Scolastica in S. Tommaso d'Aquino  5. La critica di Spinoza al concetto di miracolo nel Tractatus Theologico-Politicus 5.1. L'origine della credenza nei miracoli 5.2. Teologia e politica del miracolo 5.3. Dio, Natura e miracolo 5.4. Storia, interpretazione biblica e miracoli

6. Conclusione

 

1. Introduzione

    Il Tractatus Theologico-Politicus fu pubblicato da Spinoza ad Amsterdam per i tipi di J. Rieuwertsz: l’autore risultava anonimo e sul frontespizio campeggiava l’indicazione di un falso luogo di edizione: Hamburgi, Apud Henricum Kuenrath., 1670. Anche la data di edizione (il 1670) è probabilmente falsa. Il testo di Spinoza secondo recenti studi fu in effetti pubblicato solo nel 1672.    Spinoza fu presto scoperto come autore del libro e fatto segno di aspre polemiche, culminanti nella solenne condanna dell’opera da parte delle Corti d’Olanda il 19 luglio 1674. Il VI capitolo, dedicato ai miracoli provocò, e in modo particolare, reazioni indignate e scandalizzate: le lettere inviate a Spinoza da Oldenburg e da Van Velthusyen a questo proposito esprimono sconcerto e costernazione (Cfr. Epistolario, lettere n. 42, n. 71 e n. 79), mentre già nel 1674 usciva il libro di J. Batalerius, Vindiciae miraculorum, per quae divinae Religionis et fidei Christianae veritas olim confirmata fuit, adversus profanum Auctorem Tractaus Theologico-Politici (Amsterdam, 1674). Nel lungo elenco di testi scritti negli anni seguenti allo scopo di confutare il Tractatus di Spinoza spiccano, su questo particolare argomento, i libri di Reigner de Mansvelt (Adversus Anonymum Theologico-Politicum Liber Singularis, Amsterdam, 1674), di J. Bredenburg (Enervatio Tractatus Theologico-Politici, Rotterdam, 1675), di F. Kuyper (Arcana Atheismi Revelata, Rotterdam, 1675), di M. Walther, De existentia diabolorum contra Spinozam (Viterbo, 1692), e di J. H. Muller, De Miraculis adversus Spinozam dissertatio (Altdorf, 1714). Nel 1751, a più di ottant’anni dalla pubblicazione del Tractatus sarebbe invece uscito il libro di L. François, Preuves de la Religion de Jésus-Christ contre les spinozistes et les déistes (Parigi, 1751).

     L’accanirsi della critica contro il VI capitolo del Tractatus dedicato ai miracoli è senza dubbio significativo: nel settembre del 1665 Spinoza aveva comunicato ad Oldenburg di essere intento a scrivere una nuova opera, e di esservi spinto non solo dai "pregiudizi dei teologi", e dalla "libertà di filosofare", ma anche dalle accuse di ateismo e dalla sua intenzione di respingerle (Lettera n. 30). La pubblicazione del Tractatus rese le accuse di ateismo ancora più veementi, e la trattazione del tema dei miracoli procurò a Spinoza attacchi violentissimi. Lo stesso Oldenburg confermò in una sua lettera a Spinoza come il tema dei miracoli costituisse un punto nevralgico dell’apologetica cristiana: se si negano la possibilità e il valore probante dei miracoli, nota infatti Oldenburg, qualunque certezza in merito all’origine divina della Rivelazione viene completamente distrutta (Lettera n. 71). Spinoza, nei suoi testi parla spesso delle idee che intende confutare come opinioni del vulgus o della plebs, ma al di là di questo usuale espediente retorico, mai come nel caso della sua critica al concetto di miracolo, l’obiettivo del suo attacco è la tradizione teologica cristiana, colpita dalla critica di Spinoza soprattutto nella sua corrente tomista e scolastica. E’ quindi opportuno fornire un quadro generale dell’evoluzione storica del concetto di miracolo nell’ambito della tradizione ebraica e della teologia cristiana.

 

 

 

2. Il concetto di miracolo nella Bibbia ebraica, nella tradizione greca e latina e nel Nuovo Testamento

     Nella Bibbia ebraica non esiste un termine corrispondente al termine "miracolo" (lat.: miraculum, da mirus, "stupefacente", "meraviglioso"). I termini consueti per indicare questo genere di eventi sono pele’ e nifla’ot, traducibili all’incirca come "meraviglie"(vd. Esodo, 3:20; Giosuè, 3:5; Salmi, 78:11). Altri termini usati dalla Bibbia sono ‘otot, mofetim (segni) indicanti eventi straordinari operati da Dio per mostrare il suo potere (vd. I Re, 13:1-6; Esodo, 4:1-17). Manca, nell’Antico Testamento qualunque indicazione riguardante il problema se questi eventi siano prodotti da Dio violando o meno l’ordine naturale. Solo in Numeri, 16: 30, viene usato il termine "creazione" per indicare un prodigio, dettaglio che ha fatto pensare ad alcuni che in questo caso lo scrittore biblico concepisse l’evento come implicante una modifica dell’ordine della creazione, ma si tratta di un caso isolato.

I miracoli (intesi come fenomeni prodigiosi causati dall’intervento diretto del divino nella sfera delle vicende umane) erano ben conosciuti anche dalla tradizione religiosa e filosofica latina e greco- ellenistica. Nella tradizione greca erano comuni i termini sema, semeion, teras, terata, per indicare questa particolarissima classe di fenomeni (vd. Iliade, II, 234; Odissea, III, 173) mentre nella letteratura romana si parlava infatti di ostenta, portenta, prodigia, monstra (Cfr. Cicerone, De Divinitate, I, 93).

     Guarigioni inspiegabili, lacrimazione e sanguinamento di statue, apparizioni e manifestazioni degli dèi costituivano parte non marginale della religiosità pagana antica e tardoantica (per l’essudazione di statue vd. in particolare Plutarco, Alex., 14; per prodigi concernenti il culto vd. Erodoto, Le Storie, I, 59). Particolarmente importanti sotto questo punto di vista, e meta di consistenti pellegrinaggi erano i numerosi santuari distribuiti soprattutto nel bacino del Mediterraneo. Celebri, e rinomati per i prodigi che vi si compivano erano ad esempio il santuario di Asclepio in Epidauro, il santuario di Apollo a Delfi e, a Roma, il santuario di Apollo nell’isola tiberina. A livello di pietà popolare era molto diffuso l’uso degli ex-voto (oggetti artigianali solitamente forgiati in metallo e rappresentanti le membra o gli organi del corpo risanati dagli dèi), mentre a livello colto godeva di molto favore l’aretologia, un vero e proprio genere letterario consistente nell’elogio e nell’esaltazione dei poteri miracolosi degli dèi, e che costituiva un ramo particolarmente vivace e fiorente della retorica encomiastica.

     Nel Nuovo Testamento la tradizione ebraica e quella ellenistica sembrano in un certo senso confluire, non solo per quanto riguarda la tipologia dei miracoli compiuti da Gesù, consistenti essenzialmente in guarigioni, esorcismi e resurrezioni (vd. in particolare Matteo, 8-9; Marco,4-5; Luca, 8-9), ma anche per la terminologia. Nei Vangeli si parla infatti di semeia (segni) e terata (meraviglie) che anche i pseudocristoi possono compiere (Matteo 24:24; Marco 13: 22); i farisei chiedono a Gesù dei operare e mostrare dei semeia (Marco, 8:11-13; Matteo,16:1-4), mentre a Gesù, quando rimprovera l’incredulità di alcune città malgrado i miracoli che vi sono stati compiuti (Luca, 10:13-14; Matteo, 11: 20-24), viene posta in bocca la parola dunameis (potenze). Sia i termini ebraici dell’ AT sia quelli greci del NT sarebbero poi stati tradotti in latino nella Vulgata di S. Girolamo soprattutto con il termini signa e miracula. S. Tommaso, cercando di mettere un po’ d’ordine, avrebbe cercato di dare ragione di questa varietà terminologica: "Nel miracolo possono scorgersi due cose; una è quel che accade e che è certo qualcosa che eccede la facoltà della natura; e in questo senso i miracoli si dicono potenze. La seconda è ciò per cui i miracoli accadono cioè di qualcosa di soprannaturale, e in questo senso comunemente i miracoli si dicono segni, mentre si dicono portenti per la loro eccellenza e prodigi in quanto mostrano qualcosa da lontano" (Summa Theol., II, 2 q. 178, a. 1, ad. 3).

 

 

 

3. L'evoluzione del concetto di miracolo nella patristica

    La teologia cristiana non si pose immediatamente il compito di inquadrare i miracoli operati secondo il Nuovo Testamento da Gesù, gli eventi portentosi concernenti la storia del popolo d’Israele narrati dalla Bibbia e i prodigia del mondo pagano all’interno di una teoria coerente ed unitaria. Nei primi padri della Chiesa manca quindi una sistematica riflessione sul concetto di miracolo e sulle sue implicazioni filosofiche. Fino al V secolo i padri della Chiesa si limitarono infatti ad esaltare la potenza del Dio cristiano (proponendo i primi esempi di aretologia cristiana) e a denigrare l’azione dei vecchi dèi, suggerendo l’idea che i prodigia pagani dovessero senz’altro attribuirsi all’azione dei demoni. S. Cipriano parla di miracoli connessi alla celebrazione eucaristica nel De Lapsis (De Lapsis, 25-26, PL. 4, 499-501) S. Gregorio Nazianzeno di guarigioni inspiegabili nell’ Adversus Julianum (Adversus Julianum, 2, 1, PG. 35, 666), e analoghi passi, particolarmente interessanti, si trovano nel De Excessu Fratis Satyri di S. Ambrogio (De Excessu Fratis Satyri, 1, 46, PL. 16, 132), e nel De Schismate Donatistorum di Ottato di Milevi (De Schismate Donatistorum, 2, 19, PL. 11, 972). In questi ed in altri testi manca però una riflessione sistematica e approfondita sul concetto di miracolo. I padri della Chiesa spendevano le loro migliori energie nel confronto e nello scontro con il paganesimo, che costituendo una variegata una complessa tradizione religiosa poteva senza difficoltà opporre ai "segni" e ai "miracoli" e alle "profezie" vantati dall’apologetica cristiana una folta schiera di eventi almeno altrettanto prodigiosi.

     Scartando la possibilità di dichiarare inesistenti o semplici frodi i miracoli pagani (un espediente apologetico certamente percepito come una lama a doppio taglio), la maggior parte dei padri e dei teologi dei primi secoli preferì non tanto negare la realtà degli eventi proposti dai difensori del paganesimo quanto concentrarsi su chi o cosa dovesse considerarsi come loro autore. Partendo dal presupposto monoteistico che vi era un solo Dio si concluse ben presto che i fenomeni più o meno inspiegabili che avvenivano in altri contesti religiosi (ma anche "miracoli" in ambito cristiano che potevano risultare sgraditi all’autorità ecclesiastica) dovessero essere attribuiti senza dubbio all’attività di Satana e dei suoi demoni. Gesù stesso, d’altronde, aveva ammonito di guardarsi da coloro che compivano miracoli per confondere gli eletti (Matteo 24: 24; Marco 13: 22), mentre i Farisei insinuato l’idea che Gesù potesse compiere miracoli facendo uso di un potere demoniaco (Matteo, 9:34). Venne quindi introdotta la distinzione tra miraculum mendax e miraculum vero.

     Il delicatissimo compito di distinguere i due tipi di miracolo fu progressivamente e saldamente avocato a sé dalla gerarchia e dalle più alte autorità ecclesiastiche. Quanto spinosa fosse quest’ultima questione, e complessi i problemi scaturenti dal dover distinguere tra "veri" e "falsi" miracoli all’interno della Cristianità stessa è ben illustrato, a distanza di parecchi secoli, dal seguente passo di Lutero: "Siano demolite le cappelle nelle foreste e le chiese di campagna, anziché permettere che nuovi pellegrinaggi si compiano alla loro volta … E non giova che vi avvengano dei miracoli, perché lo spirito del male ben può compiere miracoli, come ci annunzia Cristo…E se non vi fosse altro segno a dimostrare che non provengono da Dio, sarebbe sufficiente il fatto che gli uomini vi accorrono come esaltati, senza buon senso e a mandrie, come le vacche, la qual cosa non è possibile che provenga da Dio, né che Dio l’abbia comandata"(Martin Lutero, Alla Nobiltà Cristiana di Nazione Tedesca, punto XX).

     Occorre attendere la fine del IV secolo per trovare in S. Agostino la prima definizione di miracolo della teologia cristiana. Nel De utilitate credendi, il miracolo viene infatti definito come "qualunque cosa appaia stupefacente o insolito al di sopra della speranza o della possibilità di chi osserva" (De Utilitate Credendi, XVI, 34). S. Agostino aveva notato che, a prescindere dal contesto in cui un evento i prodigi potevano verificarsi, alla base del concetto stesso di miraculum sta la reazione di meraviglia, stupore e ammirazione innescata negli uomini da fenomeni inspiegabili che sembrano trascendere in modo evidente l’ordinato e prevedibile scorrere degli eventi. Questa prima definizione di S. Agostino ebbe una tale fortuna che ancora adesso, per la teologia cattolica, perché un evento soprannaturale possa essere considerato un miracolo in senso stretto, occorre che sia percepibile ai sensi. L’Eucarestia, ad esempio, pur implicando la transustanziazione (ovvero la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo per modus substantiae), viene considerata non un miraculum ma un mysterium: e questo proprio perché il tutto si svolge al di fuori dell’esperienza sensibile. Solo quando si presume che il sangue di Cristo sia divenuto fisicamente percepibile (attraverso fenomeni eclatanti e drammatici come il sanguinamento di ostie consacrate) si parla di miracolo eucaristico.

     La definizione agostiniana, se chiarisce il significato del termine nel suo uso corrente non risponde ai molti problemi concernenti il tema dei miracoli. Con quali criteri si accerta se un fenomeno sia da considerarsi un miracolo? A quale scopo Dio opera miracoli? E ancora, il verificarsi di un miracolo implica una temporanea sospensione o violazione delle leggi della natura o no? A quest’ultima domanda, dopo molte esitazioni, S. Agostino risponde in modo netto nel De Civitate Dei: "Il portento dunque avviene non contro natura ma contro quanto della natura è noto". (De Civitate Dei, XXI, 8, 2). Non è ragionevole, secondo Agostino pensare che il miracolo violi o sospenda le leggi che Dio stesso ha impresso nella natura. Certo, Dio è onnipotente, e almeno in teoria può tutto, ma se un evento ci appare inspiegabile non è perché esso sia contra naturam nel senso letterale del termine, ma perché contraddice ciò che della natura conosciamo. Il miracolo, per Agostino, è quindi un evento prodotto da Dio sostanzialmente secundum naturam, un evento reso possibile dal fatto che Dio attinge a delle risorse (a noi certamente sconosciute ma non per questo non regolate da leggi rigorose e immutabili) già iscritte nell’ordine impresso nella creazione. Questa impostazione spinge S. Agostino a cercare di dimostrare la possibilità naturale di alcuni prodigi. Ad esempio, sempre nel De Civitate Dei, si ingegna a "dimostrare" come il fuoco infernale possa bruciare in eterno i dannati senza consumare i loro corpi portando ad esempio le presunte caratteristiche della salamandra e altri "miracolosi" fenomeni naturali. (vd. De Civitate Dei, XXI, 1- 4; 4).

 

 

 

4. La questione dei miracoli nella Scolastica e in S. Tommaso d'Aquino

     La Scolastica avrebbe in vario modo dibattuto il problema dei miracoli, articolando la sua trattazione in tre diverse quaestiones concernenti: 1) la teoria e la prassi concernenti l’accertamento dell’effettivo essersi prodotto dei miracoli (questione della veritas historica), 2) La chiarificazione, in sede razionale e speculativa del meccanismo che permette il verificarsi del miracolo (questione della veritas philosophica), e 3) l’identificazione dell’agente che ha operato il miracolo e lo scopo per cui il miracolo si è verificato (questione della veritas relativa). S. Tommaso compendia la riflessione teologica precedente apportandovi una serie di contributi innovativi: è soprattutto con la sua dottrina che Spinoza si confronta, e giova quindi chiarirne preliminarmente i punti salienti. A differenza della tradizione agostiniana, S. Tommaso ravvisa nel miracolo un evento che spezza il consueto svolgersi dei fenomeni dell’ordine naturale. Un miraculum secundum naturam, per Tommaso, non solo non è un miracolo, ma è anche (con buona pace di S. Agostino) una contraddizione in termini.

     S. Tommaso riprende quindi da S. Agostino l’accento posto sull’aspetto straordinario e mirabile del miracolo sottolineando però che per poter considerare un qualunque evento, sia pure straordinario, un vero e proprio miracolo, si deve poter ravvisare in esso una violazione, o quantomeno una sospensione delle leggi della natura. Inoltre si deve poter riconoscere con chiarezza che l’evento è stato prodotto dalla diretta azione di Dio. I demoni infatti, possono produrre effetti sull’ordine naturale (ma già S. Agostino diceva che Dio permette ai demoni di mutare le apparenze ma non le nature delle cose) e dar luogo a monstra, prodigia, portenta, ma solo Dio può operare miracoli. La nuova definizione di miracolo proposta quindi da S. Tommaso è la seguente: "E' detto miracolo qualcosa che, per così dire, suscita totale stupore: ciò naturalmente ha una causa semplice e nascosta a tutti. Questa in realtà è Dio. da ciò deriva che le cose operate da Dio al di là delle cause a noi note sono dette miracoli". (Summa Theol., I, q. 105, a. 7).

     S. Tommaso insiste particolarmente su questo punto: il miracolo non è qualcosa che avviene in contrasto con ciò che noi sappiamo della natura, ma in contrasto con la natura stessa: "Si dice propriamente miracolo ciò che avviene al di là dell'ordine dell'intera natura creata, sotto il quale ordine è contenuta ogni virtù della creatura(Summa Theol., I, q. 114, a. 4. c). Che Dio possa mutare a suo piacimento l’ordine della natura è per S. Tommaso incontestabile: i miracoli sono miracoli proprio in quanto l’ordine naturale viene temporaneamente violato o sospeso. Nella Summa Teologica S. Tommaso afferma che esistono tre diversi gradi di miracolo, corrispondenti alla drammaticità con cui la sovrana volontà di Dio agisce nell’ordine naturale producendo effetti eccedenti le possibilità di quest’ultimo: "Un evento è detto miracolo per comparazione alla facoltà della natura che viene superata. E perciò a seconda di ciò che maggiormente supera le facoltà della natura, secondo ciò a maggior ragione è detto miracolo. In realtà qualcosa può superare la facoltà della natura in tre modi. In un modo quanto alla sostanza del fatto come quando vi dovessero essere contemporeanamente due corpi oppure quando il sole dovesse procedere all'indietro oppure quando il corpo umano dovesse essere glorificato: tutte cose che la natura non può fare in alcun modo. E codeste occupano il sommo grado tra i miracoli.

     In un secondo modo qualcosa supera le facoltà della natura non in quanto a ciò che accade (ad id quod fit) ma in quanto a ciò in cui accade (ad id in quo fit), come la resurrezione dei morti, il recupero della vista nei ciechi et similia. Infatti la natura può causare la vita ma non in un morto: e può dare la vista ma non ad un cieco, e queste cose occupano il secondo grado nei miracoli. In un terzo modo supera le facoltà della natura per quanto attiene alla misura e all'ordine del fare, come quando qualcuno improvvisamente per virtù divina è guarito improvvisamente per virtù divina dalla febbre, senza cura e senza il solito processo naturale in tali circostanze, e come quando immediatamente l'aria si condensa in pioggia per virtù divina, in assenza di cause naturali, come avvenne in risposta alle preghiere di Samuele e di Elia; e miracoli di questo genere occupano il grado più basso tra i miracoli"(Summa Theol. I. q. 105, a. 8. c).

     Tanto più imponente la violazione dell’ordine naturale, dunque, tanto più grande ed eccelso il miracolo. S. Tommaso articolerà poi la tripartizione da lui proposta in modo ancora più chiaro, classificando i miracoli in tre categorie distinte: miraculum contra naturam, miraculum super naturam, miraculum praeter natura: in tutti e tre i casi il miracolo si configura come un evento che eccede in modo inequivocabile la facoltà della natura.( Vd. in proposito S. Tommaso D'AquinoQuaestiones Disputatae, De Potentia, 6, 2. ad. 3).

     Per completare il quadro è opportuno ricordare la soluzione proposta al problema dei miracoli da un altro grande filosofo aristotelico della seconda metà del XII secolo che Spinoza aveva avuto modo di studiare approfonditamente, ovvero Mosè Maimonide. Per alcuni filosofi ebrei medievali, per Saadiah Gaon, e per Yehudà ha-Levì, ad esempio, i miracoli infrangevano e sospendevano effettivamente le leggi della natura (Cfr. l’opera principale di Yehudà ha-Levì Il Re dei Khazari). Per Maimonide, invece, i miracoli risultano essere degli eventi predeterminati da Dio al tempo della creazione, e non implicano quindi alcun cambiamento della sua volontà o della sua sapienza (Cfr. La Guida dei Perplessi, III: 25). I miracoli sono dunque il risultato di una sospensione preordinata della legge di natura già stabilita al tempo della creazione. Molti miracoli narrati dalla Bibbia, per Maimonide, sono da intendersi inoltre solo allegoricamente, e molti altri possono essere interpretati razionalisticamente, ovvero spiegati facendo riferimento a fenomeni puramente naturali (vd. La Guida dei Perplessi, II: 46;

47).

 

 

5. La critica di Spinoza al concetto di miracolo nel Tractatus Theologico-Politicus

5.1. L'origine della credenza nei miracoli

     Con la riflessione tomista la speculazione teologica cristiana sul problema dei miracoli giunge al suo compiuto grado di elaborazione, e la stessa cosa può dirsi per la tradizione ebraica per quanto riguarda l’opera di Maimonide. Ben poco di nuovo e interessante, dal punto di vista teorico, viene scritto sull’argomento tra il XV e il XVI secolo. Affermatasi vittoriosamente, la concezione medievale e soprannaturalistica del miracolo divenne corrente in tutta Europa, a livello sia popolare che colto. Spinoza, nel corso della propria formazione intellettuale, ebbe modo di assorbire la tradizione ebraica e di familiarizzarsi con la teologia cristiana, cosa che gli permise di affrontare il problema dei miracoli da un punto di osservazione privilegiato.

     Spinoza apre la prefazione del Tractatus constatando ciò che "è noto a tutti", ovvero che essendo "il timore la causa che genera, mantiene e alimenta la superstizione" ne consegue che "tutti gli uomini sono per natura soggetti alla superstizione stessa"(TTP, prefaz). Vi sono due immediate conseguenze la prima è che la superstizione si presenta necessariamente sotto un’infinita varietà di forme, esibendo caratteristiche "varie e incostanti", la seconda è che la superstizione, e i sistemi di credenze nelle quali essa si articola non traggono origine dalla ragione "ma dalla sola sensibilità, e per di più da una appassionata sensibilità"(TTP, prefaz.). Gli uomini, nota Spinoza, conducono delle esistenze per lo più infelici e impotenti, segnate dall’impossibilità di comprendere e dominare gli eventi, e sono quindi costantemente sballottati "dalla tempesta delle speranze e dei timori". L’origine della superstizione è dunque iscritta nelle stesse condizioni esistenziali del genere umano. Questo è tanto vero che "Se gli uomini fossero in grado di governare secondo un preciso disegno tutte le circostanze della loro vita , o se la fortuna fosse loro sempre favorevole, essi non sarebbero schiavi della superstizione"(TTP, prefaz).

     La diffusa credenza negli auspici, nelle profezie, nei prodigi e nei miracoli è quindi la diretta conseguenza del fatto che gli uomini sono in balìa di due affetti, di due passioni strette da un vincolo di complementarietà: il timore e la speranza che senza posa si alimentano l’uno dell’altra. Gli uomini quindi, "se nei momenti del timore si vedon capitare qualcosa che ricorda loro qualche bene o male del passato, credono che ciò annunci il successo o l’insuccesso e lo chiamano favorevole o funesto auspicio…Se poi con grande loro stupore assistono ad un fatto insolito, credono che si tratti di un prodigio che sta a manifestare l’ira degli dèi o della somma divinità…E così s’immaginano un’infinità di cose e danno strane interpretazioni dei fatti naturali come se la natura nella sua totalità fosse pazza come loro"(TTP, prefaz.). Ora, le passioni sono per definizione incostanti, e quindi anche quelle sfruttate dai governi per sottomettere le moltitudini possono facilmente ritorcersi contro i governanti stessi. La multitudo, infatti, "è facilmente indotta, sotto l’apparenza della devozione, ora ad adorare i suoi re come dèi, ora a maledirli e a detestarli come sciagura comune del genere umano"(TTP, prefaz). Proprio per evitare queste fluttuazioni ci si è ingegnati ad organizzare un sistema organico e compatto di credenze razionalizzate dalla speculazione teologica e proposte nel fasto di riti e cerimonie splendide e accattivanti. La religione, quindi deve risultare "superiore ad ogni circostanza" e deve essere oggetto di una "zelantissima e continua osservanza da parte di tutti"(TTP, prefaz.).

 

 

5.2. Teologia e politica del miracolo

     La religione è dunque un instrumentum regni per la sua capacità di cristallizzare e rendere irredimibile la stato di infelicità e di ignoranza del vulgus, alimentando senza posa i suoi timori e le sue speranze e impedendogli di accedere ad un grado di conoscenza e di esperienza del reale che potrebbe mettere in crisi la reggenza dei governi monarchici e tirannici. "Ordunque, se è vero che il segreto più grande e il massimo interesse del regime monarchico consistono nel mantenere gli uomini nell’inganno e nel nascondere sotto lo specioso nome di religione la paura con cui essi devono essere tenuti sottomessi, perché combattano per la loro schiavitù come se fosse la loro salvezza…è altrettanto vero che in una libera comunità non si potrebbe né pensare né tentare di realizzare nulla di più funesto"(TTP, prefaz.). La credenza nei miracoli gioca un ruolo di non secondaria importanza in questo sistema di oppressione teologica e politica, perché in essa si concentra in massimo grado la passione della speranza, una passione tanto più grande quanto più grandi sono l’ignoranza, l’infelicità e il timore in cui gli uomini vivono o sono costretti a vivere.

     La polemica di Spinoza contro i miracoli e la filosofia e la teologia che li riguarda va quindi inquadrata nel più ampio contesto della sua battaglia intellettuale: "Spinoza combatte su due fronti, cercando di decapitare l’aquila bicipite dell’impero teologico politico: contro la paura in quanto passione ostile alla ragione (cfr. E, IV, prop. LIII), e contro la speranza, in quanto, di norma, fuga dal mondo, alibi della vita, strumento di rassegnazione e di obbedienza" (R. Bodei, Geometria delle passioni, Milano, 1992, pag. 76). Per Spinoza infatti, il concetto di miracolo non è solo un assurdità dal punto di vista filosofico, ma è un importantissimo tassello del complesso mosaico concettuale che disegna le strutture e i contenuti di una millenaria oppressione.

     Non è un caso che il miracolo non possa essere inteso se non in base alla scandalosa analogia Dio: Mondo = Re: Regno che esso stesso, retroattivamente, contribuisce a rinsaldare e a rilanciare. "Il volgo crede, evidentemente, che Dio non faccia nulla quando la natura agisce secondo l’ordine consueto, e viceversa che restino oziose la potenza della natura e le cause naturali quando agisce Dio. Ci si immagina pertanto due potenze nettamente separate l’una dall’altra: la potenza di Dio e la potenza delle cose naturali, quest’ultima tuttavia determinata da Dio in qualche particolare modo o anzi (come i più credono ai giorni nostri) da lui creata. Ma che cosa poi il volgo intenda per l’una e per l’altra delle due potenze, come concepisca Dio e la natura, ciò invero non lo sa; esso si raffigura la potenza divina come l’autorità di un monarca assoluto e la potenza della natura come una sorta di violenza senza freno"( TTP, cap. VI; Cfr. Ethica, II, schol. 2 prop. III: " Il volgo, per potenza di Dio intende la sua libera volontà e il suo diritto su tutte le cose che sono e che perciò sono comunemente considerate contingenti. Infatti dicono che Dio ha il potere di distruggere e annientare ogni cosa. Inoltre, molto spesso, paragonano la potenza di Dio a quella dei Re").

     Così come l’autocrate può a suo piacimento revocare leggi e norme per introdurne di nuove, così Dio, il Pantokrator, può, se vuole, ignorare, sospendere, e violare l’ordine da lui stesso impresso alla creazione. Ravvisare quindi in eventi straordinari, e che si credono violare le leggi della natura la dimostrazione più chiara dell’attività di Dio è per Spinoza non solo stultitia, ma indice di una condizione di servitù e d’impotenza. Se le superstizioni hanno come comune radice il timore, i pregiudizi hanno la loro radice nel pregiudizio finalistico che salda in un unico concetto l’immaginario politico e quello teologico, e "cioè che gli uomini comunemente ritengono che tutte le cose naturali, e loro stessi, agiscono in vista di un fine; e addirittura si ritengono certi che Dio stesso diriga tutte le cose verso un fine determinato. Dicono infatti che Dio ha creato tutte le cose in vista dell’uomo, e poi ha creato l’uomo perché lo adorasse" (Ethica, I, append.). Questa idea, secondo la quale l’intera natura è stata creata a fine e vantaggio dell’uomo è di per sé rassicurante e consolatoria e costituisce il teorema da cui la credenza nei miracoli trae vitalità e che i presunti miracoli confermano e rafforzano: "Ciò a tal punto fu gradito agli uomini, che essi non hanno mai smesso, fino ai nostri tempi, di foggiarsi miracoli, di credere di essere i preferiti da Dio rispetto agli altri, e di ritenersi la causa finale in vista della quale Dio ebbe a creare tutte le cose e persiste nel governarle. Che cosa mai pretende l’insipienza del volgo!"(TTP, cap.VI).

 

 

5.3. Dio, Natura e miracolo

     Spinoza apre la sua trattazione del tema dei miracoli affrontando in primo luogo la quaestio philosophica. A questo proposito la connessione tra il Tractatus e l’Ethica è strettissima, al punto che si potrebbe dire che l’impostazione del Tractatus su questo punto particolare dipende completamente dalla I parte dell’Ethica, che Spinoza aveva praticamente finito di scrivere già nel 1663 (vd. la lettera n. 8 dell’Epistolario inviata da Simone de Vries a Spinoza il 24 febbraio 1663), mentre nel 1665 (anno in cui mette mano alla composizione del Tractatus) è ancora impegnato a scrivere la sua III parte. Spinoza, nel momento in cui scrive il VI capitolo del Tractatus si è già convinto insomma che: "Dio è causa immanente e non transeunte di tutte le cose"(Ethica, I, prop. XVIII) che "le cose non possono essere state prodotte da Dio in alcun altro modo e in alcun altro ordine se non come sono state prodotte" (Ethica, I, prop. XXXIII). E che "…tutti i decreti di Dio sono stati stabiliti da Dio stesso fin dall’eternità. Diversamente infatti sarebbe tacciato d’incostanza. Ma poiché nell’eternità non c’è quando né prima né dopo, dalla sola perfezione di Dio consegue che Dio non può e non ha mai potuto decretare diversamente, cioè che Dio non è stato prima dei suoi decreti, né potrebbe essere senza di essi"(Ethica, I, schol. 2 prop. XXXIII).

     Nell’accingersi quindi ad affrontare il tema dei miracoli Spinoza intende innanzitutto riaffermare che "niente accade in contrasto con la natura, anzi essa mantiene un ordine eterno fisso e immutabile"(TTP, cap. VI), e che l’idea stessa di una qualche sospensione o violazione delle leggi di natura è semplicemente pazzesca: "Poiché dunque, di necessità, nulla è vero se non per decreto divino, ne consegue con la massima chiarezza che le leggi universali della natura sono veri e propri decreti divini che procedono dalla necessità e perfezione della natura di Dio. Se pertanto qualcosa accadesse in natura che ripugnasse alle sue leggi universali, necessariamente anche ripugnerebbe al decreto divino, all’intelletto e alla natura di Dio; in altri termini, se a qualcuno venisse in mente di affermare che Dio può in qualche modo agire contro le leggi di natura, costui sarebbe al tempo stesso costretto ad ammettere che Dio può agire contro la sua stessa natura: cosa di cui nulla è più assurdo"(TTP, cap. VI).

     I "miracoli" (ammesso e non concesso che effettivamente si verifichino) non implicano quindi alcuna modificazione dell’ordine naturale, e la concezione di un Dio che crea e ordina la Natura secondo delle leggi che si vede poi costretto a revocare o a sospendere per meglio realizzare i suoi disegni viene giudicata da Spinoza "del tutto contraria a ragione". Il termine "miracolo", per Spinoza può solo indicare "un evento le cui cause naturali non siamo in grado di accertare in base all’esempio offerto dagli altri eventi consueti" o, più precisamente "ciò la cui causa non può essere chiarita in base ai principi naturali in base al lume naturale"(TTP, cap. VI). Non si potrebbe immaginare un rovesciamento più drastico della definizione tomista. Non solo il miracolo non viola alcuna legge di natura, ma se esso avvenisse in contrasto con l’ordine naturale sarebbe un evento da spingerci all’incredulità piuttosto che alla fede, all’ateismo piuttosto che verso Dio. Spinoza attacca poi le distinzioni tra i vari gradi di miracolo proposta da S. Tommaso dichiarandole inconsistenti e capziose; ha poca importanza parlare di miracula super, contra o praeter naturam. E neppure ha senso, per Spinoza, la distinzione proposta da S. Tommaso tra piano naturale e soprannaturale, che gli permetteva di affermare che in senso stretto, Dio, operando sull’ordo secundarum causarum produceva miracoli, dal suo punto di vista, praeter hanc ordinem, e non contra naturam in senso assoluto (cfr. Summa Theol. I, 150;151). 

     Dice a questo proposito Spinoza: "Né qui ravviso nessuna differenza tra evento contro natura ed evento al di sopra della natura…infatti il miracolo non si compie al di fuori del mondo naturale ma nell’ambito di esso, e, ancorché lo si dichiari semplicemente al di sopra della natura, tuttavia è necessario –in quanto miracolo- che interrompa l’ordine naturale che noi peraltro concepiamo come procedente, fermo e immutabile, dai decreti divini. Se qualcosa dunque accadesse in natura che non conseguisse dalle leggi naturali, necessariamente contraddirebbe a quell’ordine che Dio per l’eternità stabilì in natura mediante le universali leggi naturali; sarebbe perciò contro la natura e contro le sue leggi, e di conseguenza la credenza in esso ci indurrebbe a revocare tutto in dubbio e ci porterebbe all’ateismo…onde possiamo ribadire la nostra conclusione: che il miracolo, sia esso qualificato "contro natura" o "al di sopra della natura", è un vero e proprio assurdo"(TTP, cap. VI).

     Vi è poi un secondo punto che a Spinoza preme dimostrare, ovvero che "dal miracolo non possiamo razionalmente risalire né all’essenza né all’esistenza e di conseguenza neppure alla provvidenza di Dio; al contrario, tutto ciò può essere assai meglio percepito sulla base dell’ordine stabile e immutabile della natura"(TTP, cap.VI). Avendo già affrontato il problema principale, ovvero quello concernente l’intrinseca contraddittorietà del tradizionale concetto di "miracolo" Spinoza affronta la quaestio religiosa in modo drastico: "…il miracolo, abbia o no cause naturali, è un prodotto di natura che non può essere spiegato mediante cause, ossia che trascende le capacità umane di comprensione. Ma nulla ci è possibile comprendere prendendo le mosse da un fatto e in generale da ciò che sorpassa le nostre possibilità conoscitive. Qualunque cosa infatti venga da noi percepita in modo chiaro e distinto, essa deve rendersi nota o per sé o per altro, il quale sia a sua volta percepito chiaramente e distintamente"(TTP, cap. VI).

    In altre parole, il miracolo, inteso come evento inspiegabile si presenta, nella trama della natura, come un fenomeno non solo irrelato, ma anche irrelabile. Non lo si può comprendere né mediante se stesso né mediante altri eventi (se fosse possibile correlarlo in modo significativo ad altri fenomeni avremmo spiegato il "miracolo" naturalisticamente). Ora, come si fa a risalire a Dio, del quale (ipoteticamente) non sappiamo nulla, a partire dal miracolo, ovvero da qualcosa di cui (per definizione) non sappiamo nulla? se inoltre Dio è tutt’uno con l’ordine immutabile e perfetto della natura, un evento che sovverte delle leggi naturali "non potrebbe dare alcuna cognizione di Dio, ma anzi sopprimerebbe quella conoscenza che abbiamo per natura e ci costringerebbe a dubitare di Dio e di ogni realtà"(TTP, cap. VI). Spinoza inoltre ritorce la distinzione tra miraculum mendax emiraculum vero contro la tradizione teologica che l’aveva elaborata: se i miracoli possono essere compiuti anche da falsi profeti e gli uomini possono volgersi per loro tramite anche all’idolatria ne consegue che il miracolo, di per sé, è assolutamente inutilizzabile al fine di una retta conoscenza di Dio.

 

 

5.4. Storia, interpretazione biblica e miracoli

     Spinoza dedica molto spazio al terzo e al quarto punto della sua trattazione, volta a dimostrare 1) che la Scrittura, quando parla dei decreti e dei voleri di Dio (e quindi della provvidenza) non parla se non delle leggi della natura, e 2) che i "miracoli" di cui si narra nella Scrittura sono sempre o eventi naturali o semplici allegorie volte "ad impressionare e a dominare la fantasia e l’immaginazione degli uomini"(TTP. cap. VI). Per quanto riguarda il primo punto Spinoza propone una serie di passi scritturistici tratti soprattutto dall’AT cercando di dimostrare che molti dei miracoli in esso narrati, come ad esempio le piaghe d’Egitto (Esodo, 10:14,19) e il passaggio del Mar Rosso (Esodo 14:21) possono essere agevolmente spiegati come fenomeni naturali.

     Su questo punto l’influenza del pensiero di Maimonide su Spinoza è chiarissima. L’aprirsi di un varco nel Mar Rosso come evento causato da un forte vento sembra ripreso quasi alla lettera dalla Guida dei Perplessi. Anche dalla lettura dei Vangeli Spinoza trova conforto alla sua tesi: molte delle guarigioni operate da Gesù dipendono chiaramente da una serie di circostanze psicologiche e fisiche senza le quali essi non si sarebbero verificate. Spinoza, d’altronde, si rende conto che non tutti gli eventi narrati dalla Bibbia possono essere spiegati in questo modo e formula un principio interpretativo che per la sua radicalità avrebbe provocato un immenso scandalo: "…concludiamo in modo categorico che tutto quello che nella Scrittura è narrato come veramente accaduto, accadde conformemente alle leggi naturali come è necessario che avvenga per ogni cosa; qualora poi vi si trovasse menzione di qualche fatto di cui si possa apoditticamente provare che ripugna alle leggi di natura o che non avrebbe potuto procedere da esse, senz’altro v’è da ritenere che sia frutto di un’interpolazione sacrilega. Tutto ciò che è contrario alla natura, infatti, è contrario alla ragione, e ciò che è contrario alla ragione è assurdo e quindi da respingere"(TTP, cap.VI).

     Spinoza aveva notato come la Scrittura andasse interpretata in base a se stessa, ovvero in base alle caratteristiche della sua lingua, del suo linguaggio e del contesto storico in cui era stata scritta. Fin qui si tratta di una versione laica e razionalistica del principio luterano Scriptura sui ipsius interpres. Prendendo spunto dal problema dei miracoli Spinoza compie il passo decisivo distruggendo completamente, e con un colpo solo, l’autorità del testo sacro. L’accettazione di quanto contenuto nella Scrittura viene interamente subordinata all’insindacabile scrutinio della ragione, che diventa la vera e unica norma normans non normata che presiede all’interpretazione della Scrittura.

 

 

 

6. Conclusione

 

 

     La critica spinoziana al concetto di miracolo costituisce, nella trattatistica del seicento, un vero e proprio unicum. In nessun altro autore dello stesso periodo si possono rintracciare una simile ricchezza di spunti e una simile compattezza teorica. Le tre tradizionali quaestiones relative ai miracoli sono tutte affrontate e risolte, ma Spinoza si spinge oltre: ci fornisce non solo un’analisi e una critica del concetto teologico e filosofico del miracolo, ma anche, nelle straordinarie pagine della Prefazione del Tractatus Theologico-Politcus, una spiegazione della credenza nel miracolo, della sua apparente inestirpabilità, e della funzionalità della credenza stessa al mantenimento di una struttura di potere violenta e irrazionale.

     I pregiudizi della religione sono in ultima analisi "i segni del nostro antico servaggio"(TTP, prefaz.), e se vincere il timore significa emanciparsi dalla tirannia politica, "opporsi alla speranza significa… colpire ‘al cuore’ la religione, negarle ciò che la rende diversa dallo Stato nella sua promessa di un regno che non è di questo mondo, di "un nuovo cielo e di una nuova terra": scoprire, dietro le sue speranze e promesse, i suoi dogmi e le sue pratiche, le catene del mistero doloroso dell’obbedienza, e, spesso, della servitù" (R. Bodei, 1992, op.cit., p. 78). Non a caso, nella definizione agostiniana il miracolo è un evento addirittura eccedente la speranza stessa: il miracolo è infatti "qualunque cosa appaia stupefacente (arduum) o insolito al di là della speranza o delle possibilità di che osserva" (S. Agostino, De Utilitate Credendi, XVI, 34). Punto privilegiato della concentrazione delle speranze di un’umanità infelice, oppressa e impotente, il miracolo lenisce le ferite della servitù contribuendo al contempo a rafforzarla e a perpetuarne le strutture. La precisione nell’individuare il punto su cui concentrare il proprio attacco alla teologia e la perenne vitalità della critica di Spinoza al concetto di miracolo sono entrambe dimostrate dall’anatema pronunziato dal Concilio Vaticano I (1870) contro le proposizioni che articolate in quattro punti, costituiscono l’architrave del capitolo VI del Tractatus Theologico-Politicus: "Se qualcuno dice che i miracoli sono impossibili e che di conseguenza tutte le narrazioni che vi si riferiscono, anche quelle contenute nella sacra scrittura, devono essere annoverate tra le favole o i miti, o che i miracoli non possono mai essere conosciuti con certezza né servire per provare efficacemente l'origine divina della religione cristiana: sia anatema"(Acta Conciliorum Oecomenicorum Decreta, Concilium Vaticanum I, Sessio III, Constitutio dogmatica de fide catholica, Canones: III. De Fide: 4).

(Si ringrazia la dott.ssa Marina Castellano per la consulenza e la revisione delle traduzioni di S. Agostino e S. Tommaso)

 

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* Professore di Filosofia e Storia nei Licei, assistente di Filosofia Teoretica all'Università di Roma "La Sapienza". 

 

 

 

 

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Per l’ edizione critica del testo originale vedi:

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Le citazioni del testo dell'Ethica e del Tractaus Theologico-Politicus di Spinoza sono tratti dalle traduzioni in italiano a cura di: Remo Cantoni e Maria Brunelli (Ethica) e Salvatore Rizzo e Franco Fergnani (Tractatus Theologico-Politicus);

 

 

 

 

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