9. Blondel: la filosofia dell'azione

 

 

Ma colui che delineò una vera e propria "filosofia dell'azione" fu Maurice Blondel (1861-1949), autore di L'azione, saggio di una critica della vita e d'una scienza della pratica (1893), di Il pensiero (1934) e di La filosofia e lo spirito cristiano (1944-1946), e simpatizzante del movimento modernista (vedi più oltre) finché esso non fu condannato dalla chiesa cattolica.

L'azione, egli dice, è ciò che caratterizza l'esistenza umana; anzi essa appare come una legge generale a cui l'uomo, nella sua individualità, è costretto ad adeguarsi per poter esistere.

Se si consulta l'evidenza immediata, l'azione, nella mia vita, è un fatto, il piú generale e il piú costante di tutti, l'espressione in me del determinismo universale: essa si produce anche senza di me. Piú che un fatto, è una necessita.

Piú che una necessità, l'azione mi appare spesso come un obbligo; bisogna che si produca per opera mia, anche quando esige da me una scelta dolorosa, un sacrificio, una morte: non soltanto vi consumo la mia vita corporea, ma vi mortifico sempre affetti e desideri che pretenderebbero tutto, ognuno per sé. Non si va avanti, non si apprende, non ci s'arricchisce se non chiudendoci tutte le vie, tranne una, e impoverendoci di tutto ciò che avremmo potuto sapere e guadagnare altrimenti: vi è forse un rammarico piú sottile di quello dell'adolescente costretto, per entrare nella vita, a limitare la sua curiosità come con dei paraocchi? Ogni determinazione tronca un'infinità di atti possibili. A questa mortificazione naturale nessuno sfugge.

(L'azione)

E non ci si può sottrarre alla necessità di agire, né è possibile semplicemente sospendere l'azione, magari per "decidere".

Avrò almeno la risorsa di fermarmi? No, bisogna andare avanti; di sospendere la mia decisione per non rinunziare a niente? No, bisogna impegnarsi sotto pena di perdere tutto, bisogna compromettersi. Non ho il diritto di aspettare o non ho piú il potere di scegliere. Se non agisco di mia propria iniziativa, c'è qualcosa in me o fuori di me che agisce senza di me; e ciò che agisce senza di me agisce ordinariamente contro di me. La pace è una sconfitta; l'azione non tollera maggior indugio che la morte. Testa cuore e braccia, bisogna dunque che io li dia di buon animo, o me li prendono.

(L'azione)

Né l'azione incarna ed attua un'idea chiara, una scelta consapevole, un obiettivo autonomamente predeterminato dal soggetto agente.

Mi rimarrà la speranza di condurmi, se lo voglio, in piena luce e di governarmi con le mie idee soltanto? No. La pratica, che non tollera alcun ritardo, non comporta mai un'intera chiarezza; l'analisi completa non è possibile ad un pensiero finito.

Potrò almeno compiere ciò che ho risoluto, sia che si sia, come l'ho risoluto? No. C'è sempre fra ciò che so, ciò che voglio e ciò che faccio una sproporzione inesplicabile e sconcertante. Le mie decisioni vanno spesso al di là dei miei pensieri, e i miei atti al di là delle mie intenzioni. Ora non faccio tutto ciò che voglio, ora faccio, quasi a mia insaputa, ciò che non voglio.

(L'azione)

Nell'esistenza umana, allora, c'è un contrasto, ineliminabile, tra la volontà di dominare cose ed eventi e le condizioni oggettive della realtà che limitano e talvolta opprimono tale volontà; contrasto che si manifesta in quello, permanente, tra l'atto del volere e il risultato effettivamente conseguito, tra la "volontà volente" e la "volontà voluta". Tale contrasto tiene l'uomo in condizione di perenne insoddisfazione e lo risospinge senza posa all'azione. L'uomo è necessitato ad agire, per esistere, senza possibilità di "astenersi" e di "riserbarsi", ma agendo non riesce a "soddisfarsi", a "bastarsi", a "liberarsi", perché la sua volontà è "costretta".

Una legge dialettica, dunque, governa la vita umana; ma non si tratta di una dialettica di tipo hegeliano; anzitutto perché non si tratta di una dialettica della ragione, e poi perché si alimenta solo di contrasti e non giunge mai a superamenti sintetici.

Si consideri piú analiticamente l'azione: per il soggetto agente essa è "a priori", libera, autonoma; in realtà è essa che crea le condizioni per le quali appare determinata "a posteriori"; agendo, cioè, si provocano quelle "risposte" da parte della realtà che, raccolte come "insegnamenti", sono tenute in conto dalla volontà per l'azione ulteriore, sicché questa appare determinata da quelle condizioni.

È ciò che accade, ad esempio, nel lavoro. Ma è anche ciò che accade nella vita sociale. Agendo l'uomo si apre agli altri uomini, e crea i rapporti sociali; questi rapporti poi limitano e condizionano l'ulteriore azione dell'individuo, che deve subordinarsi ad essi per mantenerli vigenti, o per svilupparli.

Detto in altri termini, l'uomo è insieme libero e necessitato, è libero nell'ambito della necessità, è necessitato ma non deterministicamente; il suo esser determinato gli rivela le sue effettive possibilità di essere libero, la sua libertà poi, quando diventa consapevole di sé, scopre l'ambito oggettivo del suo esercizio:

Si deve dire per questo che tale libertà necessaria s'assorbe nel determinismo? Niente affatto. Bisogna quindi mantenere ad un tempo queste due asserzioni: da una parte il determinismo ha messo capo alla coscienza della libertà; d'altra parte la libertà, prendendo coscienza di sé, ratifica tutto ciò che precede e vuole tutto ciò che le permette di volere.

(L'azione)

Se pertanto è nell'azione che l'uomo attua a pieno la sua umanità, la conoscenza allora è in funzione di essa.

La vera conoscenza è quella riflessione che spinge innanzi lo sguardo esteriore verso i fini che sollecitano la volontà, perché ivi soltanto è la ragione sufficiente delle determinazioni libere. Chiunque è nato per l'azione guarda davanti a sé; o se cerca donde viene, è soltanto per saper meglio dove va, senza mai chiudersi nella tomba d'un passato morto.

(L'azione)

Sia pure in condizioni limitate e limitanti, l'uomo agendo "crea", compie "una creazione nella creazione"; crea nei rapporti con la natura e in quelli con gli altri uomini; e sotto questo secondo aspetto egli crea, progressivamente, la famiglia, la patria, l'umanità; e poi, al di sopra dei rapporti sociali, pone i rapporti etici, in cui però sussiste pur sempre un contrasto tra la volizione e la realizzazione, come tra il dovere e il fatto.

Anche a livello di vita etica l'uomo vive l'insoddisfazione, non bastandogli ciò che ha realizzato. È a questo punto che gli si apre, nel suo cammino progressivo, la porta del soprannaturale. È proprio nella sua consapevolezza d'esser sempre e comunque signore e schiavo, è proprio nel bisogno di trovare la sua ragion d'essere ed il fine del suo agire, che egli si apre al trascendente.

Senza dubbio, accanto alla potenza misteriosa che sperimenta in sé l'uomo si sente assalito e spesso vinto da oscure tirannie, ed il grande enimma della sua natura è appunto questa mescolanza estrema di forza e d'infermità. Ma se talvolta egli è come uno zimbello tra mani sconosciute nulla però dal lato delle scienze positive, nulla nel determinismo dei fenomeni minaccia la sua sovranità. E se è vero che il suo sforzo fallisce spesso contro miserabili scogli, non è mai per cause che la scienza possa definire né in nome delle leggi generali della natura o del pensiero. La libertà adotta tutte le sue condizioni antecedenti. Ma non vi trova la sua ragion d'essere. In un fine trascendente alla natura e alla scienza diviene necessario vedere la vera ragione dell'azione.

(L'azione)

Tale trascendente non può essere se non Dio.

Al termine, presto raggiunto, di ciò che è finito, fin dalla prima riflessione, eccoci dunque in presenza di ciò che il fenomeno e il nulla celano e manifestano ugualmente, di fronte a colui del quale non si può mai parlare di ricordo come d'uno straniero o d'un assente, davanti a colui per cui in tutte le lingue e in tutte le coscienze c'è una parola e un sentimento per riconoscerlo, Dio.

L'idea di Dio in noi dipende in doppio modo dalla nostra azione. Da una parte, appunto perché agendo troviamo in noi stessi un'infinita sproporzione, siamo costretti a cercare nell'infinito l'equazione della nostra azione. Dall'altra, appunto perché affermando la perfezione assoluta non riusciamo mai ad adeguare la nostra affermazione, siamo costretti a cercarne il complemento e il commentario nell'azione. Il problema posto dall'azione, solo l'azione lo può risolvere.

(L'azione)

Ma Dio si sottrae ad una conoscenza piena da parte dell'uomo. Bisogna sempre "inseguirlo", ed inseguirlo con l'azione.

Appena si crede di conoscere Dio abbastanza, non lo si conosce piú. Nel momento dunque in cui sembra si raggiunga Dio con uno strale di pensiero, egli sfugge, se non lo si conserva, se non lo si cerca con l'azione. Non si può mirare alla sua immobilità come una mèta fissa se non con un perpetuo movimento. Dovunque ci si ferma, egli non è, dovunque si va avanti, egli è. È una necessità passar sempre oltre, perché sempre egli è al di là. Appena non ce ne stupiamo piú come d'una inesprimibile novità, e lo consideriamo dal di fuori come una materia di conoscenza o una semplice occasione di studio speculativo senza giovinezza di cuore né inquietudine d'amore, è finita, non abbiamo piú fra le mani che fantasma e idolo. Tutto ciò che s'è visto o sentito di lui non è che un mezzo di andare piú innanzi; è una strada, non ci si fermi in essa dunque, altrimenti non è piú una strada.

(L'azione)

La nostra azione, proprio in quanto si configura come "cooperazione", come "collaborazione" alla "teergia", all'azione divina, ci istalla nel cuore stesso di Dio; e l'azione umana acquista cosí anch'essa un carattere trascendente.

Pensare a Dio è un'azione; ma pure noi non agiamo senza cooperare con lui e senza farlo cooperare con noi, con una specie di teergia necessaria che reintegra nell'operazione umana la parte divina, allo scopo di mettere l'azione volontaria in equazione nella coscienza. Ed appunto perché l'azione è una sintesi dell'uomo con Dio, essa è in perpetuo divenire, come travagliata dall'aspirazione d'una crescita infinita. Assiso in sé e contento di sé, il pensiero è un mostro: la sua natura è d'introdurre, nello svolgimento della vita, un dinamismo progressivo. Non è frutto della vita se non per diventare un germe di vita nuova. Ecco perché il pensiero del trascendente impone inevitabilmente all'azione un carattere trascendente.

Nata, per l'impulso stesso del determinismo, da un conflitto in seno alla coscienza umana, l'idea necessaria di Dio, con un ultimo progresso del determinismo, risolve tale conflitto in un'alternativa inevitabile.

(L'azione)

Con l'azione l'uomo non solo attua di fatto la presenza di Dio nel mondo, ma compie, ne sia o no consapevole, uno sforzo per agguagliarsi a Dio, per diventare Dio. L'azione, insomma, ha un significato "religioso".

L'idea di Dio (si sappia o no nominarlo) è l'inevitabile complemento dell'azione umana, ma anche l'azione umana ha l'inevitabile ambizione di raggiungere e di adoperare, di definire e di realizzare in sé questa idea della perfezione. Ciò che noi conosciamo di Dio è questo sovrappiú di vita interiore che esige il suo impiego: non possiamo dunque conoscere Dio senza volerlo diventare in qualche modo. L'idea viva che abbiamo di lui non è e non resta viva se non si volge alla pratica, se non si vive di lei e non se ne nutre l'azione.

(L'azione)

Resta comunque all'uomo la libertà di "riconoscere" questo carattere religioso dell'azione. Pertanto gli si pone il dilemma: essere dio senza Dio e contro Dio, o essere dio per mezzo di Dio e con Dio.

Cosí, mediante il meccanismo della vita interiore, eccoci condotti di fronte ad un'alternativa che riassume tutti gl'insegnamenti della pratica. L'uomo, da solo, non può essere ciò che già è suo malgrado, ciò che pretende diventare volontariamente. vorrà vivere, sino a morirne, se si può parlare cosí, consentendo ad essere soppiantato da Dio? Oppure pretenderà bastarsi senza di lui, approfittare della sua presenza necessaria senza renderla volontaria, prendere in prestito da lui la forza per fare a meno di lui e volere infinitamente senza volere l'infinito? Volere e non potere, potere e non volere, questa è l'opzione che si presenta alla libertà: "amarsi sino al disprezzo di Dio, amar Dio sino al disprezzo di sé".

Senza dubbio, l'alternativa sorge necessariamente dinanzi alla coscienza, ed è ancora una necessità pronunziarsi: ma non si equivochi. L'opzione, è vero, ci è imposta; ma è per suo mezzo che diventiamo ciò che vogliamo: checché ne debba risultare, non potremo prendercela che con noi. Cosí, in ultima analisi, non è la libertà che si assorbe nel determinismo; è il determinismo totale della vita umana che è sospeso a questa suprema alternativa: o escludere da noi ogni volontà diversa dalla nostra, o abbandonarsi all'essere che non siamo come all'unico salvatore. L'uomo aspira a fare il dio: essere dio senza Dio e contro Dio, essere dio per mezzo di Dio e con Dio, questo è il dilemma.

(L'azione)

Quando si sceglie di essere dio con Dio, allora

all'iniziativa assoluta dell'uomo è necessario sostituire, liberamente come vi è necessariamente, l'iniziativa assoluta di Dio. Non spetta a noi darcelo, né darci a noi stessi; il nostro compito è di fare in modo che Dio sia tutto in noi come egli vi è da sé e di ritrovare nel principio stesso del nostro consenso alla sua azione sovrana la sua presenza efficace. La vera volontà dell'uomo, è il volere divino. Confessare la sua fondamentale passività, è, per l'uomo, la perfezione dell'attività. A chi riconosce che Dio fa tutto, Dio concede d'aver fatto tutto; ed è vero. Non appropriarsi nulla, è il solo metodo d'acquistar l'infinito. Egli è dovunque non ci si appartiene piú.

(L'azione)