Conoscenza metafisica dell'esistenza

di Vittorio Possenti

 

 

 

Tentativi di neutralizzare l'esistenza

Si dice che la bellezza della donna cresca con gli anni: varrebbe questo anche per la filosofia, che è donna, e in specie per quella moderna? E in che cosa altro potrebbe consistere la bellezza della filosofia, se non nel saper conoscere l'essere/ esistenza(1)? Per questo ci vuole tempo, si dice, anche se la filosofia non ne è stata priva. Assumiamo senza sottintesi che la sua bellezza cresca col tempo, non automaticamente però, bensì in rapporto alla conoscenza dell'esistenza, e dedichiamo attenzione alla modernità di espressione razionalistica e idealistica. Ha essa voluto conoscere l'esistenza? O ha invece inteso metterla da parte già con Cartesio, che filosofa non per conoscerla ma per dedurla? "Dedurre dalla conoscenza di Dio stesso la spiegazione delle cose da lui create, in modo tale da acquistare la scienza più perfetta, che è quella degli effetti dalle cause"(2).

L'ambizione assoluta di Cartesio va verso l'edificazione di un sapere compiutamente deduttivo, che proceda dal principio ai principiati, dalle cause agli effetti, da Dio alle cose, e nel quale l'esistenza finita venga dedotta dal pensiero. Capovolgendo il cammino naturale della ricerca umana e il metodo del filosofare, che lungi dal poter pretendere di installarsi nell'Assoluto, deve partire da ciò che è per noi il più noto e vicino, egli inaugura l'impiego del metodo sintetico in filosofia, che è piuttosto proprio della teologia rivelata da un lato e delle matematiche dall'altro, e il ricorso alla dimostrazione a priori (3). Il grandioso tentativo cartesiano trova il suo apogèo e la sua terminale conclusione nel pensiero di Hegel, quando si cercò di risolvere l'esistenza in una formula logico-dialettica (torneremo su tale notevolissimo momento). Allora parve che il sistema completo dell'esistenza fosse a portata di mano, e che per domenica prossima o al massimo la successiva sarebbe stato finalmente dato alle stampe nella sua interezza.

Se lo scorrere del tempo non ha forse accresciuto la nostra bellezza, ci ha reso sufficientemente avvertiti che non può darsi sistematica dell'esistenza, ma conoscenza dell'essere. Come edificheremmo infatti un sistema dell'esistenza? Se mediante concetti logici, avremmo il sistema ma non l'esistenza reale, che sempre se ne sta fuori dalla logica, la cui potenza non si estende oltre le leggi di connessione tra concetti. Se invece mediante conoscenze storiche puntuali ed esperienze individuali di vita, conseguiremmo certo qualche accesso all'esistenza, ma niente sistema. Dell'esistenza come tale, dell’esistenza raggiunta nel suo valore universale non se ne saprebbe nulla in entrambi i casi. Al di fuori di ogni sistematica dell'esistenza, rimane la strada della conoscenza dell'essere, libera, impregiudicata, aperta come è la vita, ma appunto come la vita con un suo interno ed organico ordine. Tale è la strada della metafisica, che dopo l'epoca del sistema che logicizzava l'essere, e quella più vicina a noi in cui quest'ultimo parve parola vuota, può riprendere a pensarlo e a conoscerlo.

"Crederò che il cielo, l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne non siano altro che una beffa dei sogni, con cui egli [Dio] ha teso delle trappole alla mia credulità. Considererò me stesso privo di mani, di occhi, di carne, di sangue, dei sensi, e che sono in errore quando ritengo di possedere tutte queste cose... Ora chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, metterò a tacere tutti i sensi, cancellerò anche tutte le immagini delle cose corporee persino dal mio pensiero"(4). Queste inequivoche espressioni di Cartesio nelle Meditationes de prima philosophia, che danno l'avvio al pensiero moderno nel suo consapevole separarsi da quello greco e medievale, rendono nella maniera più vivida la nuova intenzionalità della ricerca, la quale mettendo tra parentesi l'esistenza extramentale, vuole fondare la philosophie nouvelle sull'esame dell'interiorità e del cogito. Il pensiero cartesiano opera il cominciamento con un atto di separazione dallo splendore dell'esistenza del mondo, che egli cercherà poi di dedurre, ma spogliata di ogni suo aspetto tranne quello dell'estensione, poiché solo la conoscenza del nostro io e di Dio sono le realtà "più certe e le più evidenti che possano essere conosciute dall'ingegno umano" (5).

Che cosa ne è dell'essere in questa filosofia engagéante et hardie, che volle presentarsi come la più vera e autentica filosofia cristiana? Che pose l'esistenza del pensiero come il primo principio dal quale si deduce tutto il resto? E che ritiene che coloro i quali hanno cominciato dalla filosofia antica, siano i meno adatti a comprendere bene la vera (la nuova filosofia di Cartesio)(6)? Deve presentarsi come tema degno della più accurata attenzione, se col pensiero cartesiano non inizi un'epoca di accentuato oblio dell'essere, capace di coinvolgere i più grandi esponenti della modernità filosofica.

L'impresa cartesiana e la plurisecolare discendenza filosofica che ne è proceduta, sono ormai alle nostre spalle, ed il loro programma forse conchiuso. Se è vero che la filosofia non giunge mai a termine, rinascendo continuamente dalle sue ceneri o dalle sue crisi, possono invece pervenire a conclusione secolari programmi di ricerca, come quello cartesiano rappresentazionale, in cui assunse immenso rilievo il tema gnoseologico della natura e "rappresentazionalità" delle idee, e scarso rilievo quello della conoscenza dell'essere.

Tutto lascia pensare che Cartesio ritenesse di aver regolato una volta per tutte la questione dell'essere; che considerasse agevole da svolgere e infine sostanzialmente risolto il senso dell'esistenza. Quando il pensiero considera agevole trattare dell'esistenza, è fatale che ci si imbatta in numerose obiezioni. Una delle maggiori è forse la seguente: "L'esistenza è come il movimento: è molto difficile avere da fare con essa" (7). Quando due secoli dopo Cartesio Kierkegaard verga questa frase, che costituisce una smentita del cartesianismo, egli con quelle mosse dialettiche in cui era maestro riapre il dossier dell'esistenza (e della domanda sull'essere), che la filosofia moderna stava procedendo a chiudere, come se si trattasse della cosa più scontata del mondo. Siano rese grazie a Kierkegaard per aver introdotto nel compatto organismo dell'idealismo trascendentale, ormai in procinto di abbandonare l'esistenza o di digerirla come idea, una spina nella carne: quella spina secondo cui aver a che fare con l'esistenza è il massimo e il più difficile tra i problemi filosofici. Siano rese grazie a Kierkegaard per essersi fatto interprete della protesta dell'esistenza contro lo spirito di sistema, e per aver ricordato ai filosofi dell'essere che il loro compito poteva ricominciare; per aver fatto intendere che tra tutti i postulati, quello di operare il cominciamento dal pensiero puro e non dall'esistenza era il più traballante e incredibile, perché rendeva l'esistenza qualcosa di indifferente (invece che la sorgente prima di ogni intelligibilità, come diremo più avanti).

Ogni autentico ed essenziale conoscere riguarda l'esistenza; e soltanto il conoscere che ha un rapporto con l'esistenza è conoscere essenziale. Esiste perciò un rapporto originario e necessario tra pensiero ed esistenza, entro il quale la metafisica manifesta una costitutiva vocazione esistenziale, in cui oggettività e soggettività si uniscono, dandosi la mano.

Sin dagli albori della filosofia greca il compito conoscitivo si è prospettato con Parmenide attraverso la proposizione dell'identità tra pensiero ed essere (8), che costituisce uno dei temi più alti che hanno attraversato il cammino del filosofare, sebbene poi la lettura del lascito parmenideo sia stata compiuta lungo due soluzioni tra loro incomponibili. Uno schema assume che nell'equazione tra pensiero ed essere il primato vada al primo termine: il pensiero puro, facendo il cominciamento da se stesso e isolandosi, non vuole aver nulla a che fare con l'esistenza quale sostrato ultimo e indipendente, ma cerca di dedurla dal proprio automovimento. Emigrando dall'esistenza, il pensiero si stabilisce in sé, e finisce per girare a vuoto. Esso non pensa la realtà, ma si installa nella logica in modo tanto più mistificante quanto più introduce nel pensiero logico, che è astratto e intemporale, la commedia del movimento. Questo fu il compito di Hegel. Egli concepì l'ardita idea di partire dall'essere puro, vuoto e indeterminato della scienza della logica, e per evitare che l'impresa si concludesse in uno scacco sin dal suo primo passo, volle stabilire la filosofia sulle sue basi definitive in-troducendo il movimento dialettico nella logica. Ma la logica tollera il movimento? Oppure la sua introduzione significa che perfino in essa, la scienza del pensiero limpido, puro, rigoroso, si inietta la confusione? Hegel cercò qualcosa di grande, ma fallì perché in un sistema logico non vi è rapporto con l'esistenza, in quanto le entità logiche sono indifferenti all'esistenza o al suo contrario. La potenza della logica si estende perciò a tutto quanto può venire pensato secondo concetti e alle loro connessioni, ma è impotente nei confronti dell'esistenza. (Tuttavia in un equivoco maggiore di quello hegeliano sono incorsi coloro che, invece di iniettare il movimento nella logica, hanno pensato bene di toglierlo anche dall'esistenza, eternizzandola in ogni sua minima manifestazione al pari di una formula logica. In entrambi i casi si opera il cominciamento mediante un'idea di essere in cui esso è inteso come il genere più vasto e vuoto (genus generalissimum), invece di cominciare dall’ente quale universale concreto, gravido di tutte le sue determinazioni.

Chi si fa prendere nel tranello secondo cui la filosofia speculativa è tanto più profonda quanto più comincia con l'essere puro, vuoto e indeterminato della logica, è finito perché di caduta in caduta si allontanerà sempre di più dall'esistenza. Alla fine del processo l'esistenza è svanita, e la filosofia speculativa, il cui compito fondamentale è di comprendere/conoscere l'essere, si trova nella curiosa condizione di essere agli antipodi dell'esistenza. Se il vertice del nichilismo teoretico si colloca là dove dell'essere non ne è più nulla, nichilismo e neutralizzazione dell'esistenza si presentano come le due facce di un'unica medaglia.

La chiara e netta posizione di Kierkegaard fu: "un sistema logico è possibile; ma non è possibile un sistema dell'esistenza. Pertanto se si deve costruire un sistema logico bisogna badare soprattutto che non venga assunto nulla di ciò che è soggetto alla dialettica dell'esistenza, cioè di quanto è unicamente perché esiste o perché è esistito, e non per via dell'essere (logico)" (9). Poiché l'essere logico è indifferente all'esistenza, fare con esso il cominciamento implica procedere lasciando da parte l'esistere! Implica filosofare lasciando da parte il problema a partire dal quale il filosofare assume il suo senso.

Pur opponendosi con passione infinita ad Hegel, Kierkegaard rischiò di passare accanto alla soluzione (sbagliò però meno di Hegel) quando oppose seccamente pensiero ed esistenza, ritenendo sotto l'influsso del dialettico di Stoccarda che pensiero, sistema e mediazione si rapportassero esclusivamente nel modo da questi stabilito; e che perciò l'unico pensamento dell'esistenza si desse solo nel sistema (il che era per Kierkegaard vanità e follia), al di fuori del quale non restava che l'esperienza e la passione soggettiva del singolo, immerso sino al collo nelle contraddizioni della vita. Per liberarsi del suo avversario, Kierkegaard rischiò di privarsi del pensiero dell'esistenza, non solo di quello spurio, che è una mera onto-logica, ma anche di quello autentico proprio della Seinsphilosophie, che pensa l'esistenza singola nell'universale e con l'universale, senza alterarla né logicizzarla. Scrisse: "Esistere significa anzitutto e soprattutto essere un singolo, ed è per questo che il pensiero deve prescindere dall'esistenza perché il singolo non si lascia pensare, ma soltanto l'universale"(10). Opponendo individuale (che è certo inesauribile e ineffabile) e universale (inteso à la Hegel come essenza logica e sistema), il Danese non vide che con il concetto trascendentale e analogo (e dunque universale) di essere noi raggiungiamo anche il singolare.

 

 

L'esistenza come fonte prima di ogni intellegibilità

 

 

Ma vi è un altro modo di interpretare il venerando lascito di Parmenide sull'identità fra pensiero ed essere, ed esso fu il compito di larga parte del pensiero greco (in specie di Aristotele) e della tradizione della filosofia dell'essere. Fu il cammino denotato da due assunti cardinali: la primalità dell'essere rispetto al pensiero, per cui il cominciamento va fatto da quello, non da questo; l'intendimento dell'identità fra pensiero ed essere come identità non fisica, ma intenzionale, per cui il pensiero nel concetto e col concetto diviene intenzionalmente o immaterialmente la cosa(11). Nella sua intenzionalità conoscitiva la filosofia cerca di conoscere gli esistenti: le cose che sono e come sono. In certo modo l'intero problema della metafisica è contenuto nel rapporto tra filosofia ed esistenza, e più esattamente nella conoscenza dell'esistenza come tale, onde raggiungerne una scienza teoretica. La metafisica si volge ad essa non come ad un elemento empirico che è muto per l'intelletto, ma come alla fonte prima di ogni intelligibilità, ciò da cui si aspetta una possibile rivelazione del senso dell'essere; si volge all'esistenza come tale, in tutta la sua possibile ampiezza, non perciò soltanto a quella che viene colta attraverso la conoscenza sensibile.

Per determinare con maggior proprietà il linguaggio, diremo che si dà un termine o oggetto connaturale della conoscenza umana, ed esso è l'ente materiale, conosciuto mediante i sensi. Questa conoscenza non costituisce ancora l'oggetto della metafisica, che è l'esistenza o l'essere "liberato" o astratto dal sensibile, l'ente in quanto ente (ens in quantum ens) colto in una intellezione astrattiva. E' un equivoco confondere i due momenti della conoscenza naturale spontanea e di quella astrattivo-scientifica, e immaginarsi che sia l'essere come raggiunto dalla prima, l'essere dunque come incorporato nelle cose sensibili, non astratto e visualizzato nel suo valore trascendentale, a costituire l'oggetto della metafisica. Essa assume come proprio oggetto di indagine scientifica non in primo luogo l'essenza e neppure il concetto di esistenza, ma l'atto stesso di esistere. Poiché l'oggetto della metafisica è l'ente in quanto tale, e l'ente(ens = id quod habet esse) è ciò il cui atto è l'esistere, il termine più radicale verso cui si dirige l'intellezione metafisica(più radicale della conoscenza della sola essenza) è l'atto d'essere degli essenti. Pertanto essa -, che pur prendendo le mosse dall'essere delle cose sensibili e materiali, astrae poi dalle condizioni materiali dell'esistenza empirica -, non astrae mai dall'esistenza, in funzione della quale conosce tutto quello che conosce.

Se la polarità esistenza-essenza costituisce la coppia massimamente reggente dell'intera storia della metafisica, la coppia che occupa un rango ontologico più alto delle polarità materia-forma, sensibile-intellettuale, uno-molti, in essa il momento più qualificante è dato dalla conoscenza dell'esistenza piuttosto che solo dell'essenza. Poiché poi ciò che vi è di più reale e più intimo nella realtà è l'atto d'essere (esse; actus essendi) esercitato da ogni cosa, la metafisica è scienza massimamente reale, in quanto cerca di "toccare" l'esse: toccarlo non di una scienza intellettuale-intuitiva del singolare, ma universale-astrattiva, l'unica possibile per lo spirito umano.

Molte metafisiche hanno detto e dicono invece: la filosofia in quanto scienza della ragione e dei suoi concetti più astratti si dirige all'in sé delle cose, alla loro essenza, onde la metafisica è una scienza delle essenze, ossia dei possibili. Viene così compiuto un passo falso, nel senso che l'esistenza viene lasciata fuori dalla filosofia e questa intesa come un sapere che si rivolge alla intelligibilità delle essenze come all'oggetto più proprio del conoscere umano, mentre l'essere esistenziale è concepito come un mero di più, un elemento di fatto o un accidente che si aggiunge all'essenza quale costitutivo intellegibile già perfettamente compiuto in se stesso (fra le filosofie del nostro secolo appartiene a questa classe la fenomenologia di Husserl da questi determinata come una teoresi che si rivolge alle essenze). Tuttavia il concetto di esistenza giace interamente al di fuori di quello di essenza: la circostanza che qualcosa con una certa essenza esista o non esista non cambia nulla dal lato dell'essenza, mentre cambia tutto dal lato della realtà. Non è possibile dedurre l'esistenza dall'essenza. La metafisica subisce un'alterazione decisiva se, rinunciando alla conoscenza dell'esistenza, si volge solo ai possibili, alle essenze: subisce una specifica forma di oblio dell'essere, che è ad un tempo oblio della differenza fra ente ed essere, e oblio del primato dell'esistenza sull'essenza. Il disguido della tradizione razionalistica moderna, che perlopiù ha essenzializzato l'esistenza o ha preteso di dedurla dal pensiero, sembra consistere nel voler partire dall'astratto per raggiungere il concreto.

Nell'asserire che l'essere è a se stesso la sua propria luce si integra l'idea che in ogni cosa è l' esistenza (reale o possibile) a costituire la sorgente ultima dell'intelligibilità, a cui risponde l'atto conoscitivo dell'intelletto. " Esse est actualitas omnis rei; Actualitas rei est quoddam lumen ejus; Ratio veritatis fundatur in esse et non in quidditate; Veritas sequitur esse rerum" (12). In queste espressioni decisive vengono posti a tema il rapporto tra metafisica ed esistenza, e l'essenza della verità nel suo fondarsi sull'esse piuttosto che nella quiddità. In base al loro contenuto gli asserti citati dicono che l'atto d'essere è in ogni cosa l'atto radicale che la pone fuori dal nulla e fuori dalle sue cause, che l'esistenza in atto della cosa è la sua propria luce, e infine che - in quanto nella verità si esprime l'adeguazione fra l'atto enunciativo della mente e la realtà, dove l'elemento più radicale è l'atto d'essere degli essenti -, il luogo ultimo della verità ontologica va identificato nell'esse/esistenza, più che nell'essenza. Nel momento del giudizio quale luogo della verità non si hanno dinanzi essenze sussistenti, ma esistenti reali, a cui esso fa appunto fronte. Viene confermato che il significato più profondo del realismo filosofico consiste nell'andare con l'intelligenza all'esistenza stessa, ossia nel riconoscere che l'esistenza non è cieca e neppure un mero positum (dato di fatto che non ha nulla da esprimere), bensì è fonte di intelligibilità in senso più profondo di quanto non lo sia l'essenza. Sempre intelligibilità ed atto si corrispondono, poiché ogni cosa è intelligibile nella misura stessa in cui è in atto. Orbene, dal momento che l'esse sussiste nel cuore dell'essente come suo atto primo e fondante ogni altro atto, nel porre a proprio oggetto l'ente in quanto tale e in ultima istanza l'esse la metafisica raggiunge il centro dell'esistenza e l'intelligibilità che le è concessa.

La conoscenza perfetta consiste nell'intuizione dell'oggetto singolo, ed essa sarebbe una conoscenza divina. Questo elemento costituisce una situazione di umiltà per la metafisica la quale, non essendo una scienza intuitiva dell'esistenza singolare e del suo atto d'essere, poiché come ogni scienza conosce l'universale e nell'universale, attinge solo indirettamente i soggetti singolari, che costituiscono però tutta la realtà. All'uomo è negata ogni scienza immediato-intuitiva dell'esistere, essendo l'intelletto umano dotato non di un'intuizione pura ma solo astrattiva (al chiarimento del tema dell’intuizione intellettuale è dedicato il cap. successivo). D'altronde l'oggetto proporzionato dell'intelletto umano non è costituito dall'esse puro e infinito ma dall'ente, e dunque da un atto d'essere ricevuto e limitato da un'essenza: l'intelletto umano può cogliere ciò che ha un'essenza che partecipa all'essere. Il rapporto tra esistenza ed essenza, che è di distinzione reale negli enti, è tale per cui l'atto d'essere attua l'essenza, essendone limitato. Quest'ultima svolge dunque la funzione di coprincipio potenziale dell'ente, nel senso che l'essenza è di per sé in potenza rispetto all'esistenza.

 

 

Giudizio ed esistenza

 

 

Se la verità si fonda soprattutto nell'atto d'essere piuttosto che nell'essenza, con quale atto l'intelletto umano potrà coglierla? Di fronte allo sguardo dell'intelligenza che considera l'ente, questo si disloca nei due aspetti dell'essenza e dell'esse, che vengono colti da due specifiche operazioni dello spirito. L'essenza, ciò che una cosa è, viene raggiunta dalla prima operazione (la apprensione semplice) ed espressa in un concetto; mentre l'esistenza (esse/actus essendi) nel giudizio (seconda operazione dello spirito). In esso lo spirito non afferra le determinazioni quidditative dell'ente, già raggiunte dalla apprensione nell'unità intenzionale del pensiero e della cosa, bensì raggiunge l'atto stesso in virtù di cui la cosa è, il suo esse; lo raggiunge intenzionalmente e come portandolo nel proprio seno. La conoscenza intellettuale è un atto che risponde all’atto di esistere e che si compie nel giudizio.

Fondandosi sull'atto d'essere dell'ente, la verità altro non è che l'adeguazione dell'immanenza in atto del nostro pensiero a ciò che esiste fuori di esso, all'esistenza esercitata dalle cose. Il giudizio, che unisce (o divide) soggetto e predicato, possiede dunque significato esistenziale, non soltanto copulativo: quando nel giudizio dichiaro che una cosa è in un certo modo, non contemplo un quadro di essenze, ma affermo che nell'esistenza reale quella cosa esiste nel preciso modo che si è formulato col giudizio.

Sarebbe fermarsi ben prima che a metà strada ritenere che il giudizio si limiti ad applicare nella sua sintesi o compositio un predicato a un soggetto, una forma universale a un soggetto particolare: sin qui non saremmo usciti di molto o per nulla dal campo della logica. Il carattere fondamentale del giudizio è esistenziale-reale: esso traspone la mente dal livello delle essenze o degli oggetti di pensiero al livello dell'esistenza reale, dove gli oggetti di pensiero designano cose o soggetti che esercitano l'esse. Proiettando nell'esistenza reale i concetti appresi dalla mente, il giudizio rimette in contatto, dichiarandoli identici in re, soggetto e predicato, prima separati dall'apprensione (la quale è anch'essa una forma di intuizione che però, cogliendo solo le essenze astratte e separate dall'esistenza, non raggiunge il concreto). Nel giudizio si coglie l'esistenza reale esercitata da un oggetto (existentia ut exercita), non l'esistenza rappresentata (existentia ut significata), raggiunta a modo d'essenza o quiddità nel processo astrattivo dell'apprensione.

Poichè l'essere o esistere è un atto, ci vuole un atto, quello del giudizio, per coglierlo. In questo atto di sintesi reale che è il luogo della verità , l'intelligenza, operando al più alto grado di visualizzazione eidetica, tocca la cosa stessa e la sua attualità suprema, l'esse; raggiunge intenzionalmente l'atto di esistere che la cosa esercita (o può esercitare) nella realtà, cogliendone la infinita distanza rispetto al nulla(nihil absolutum). Raggiunge l'esse in quanto determinante e perfezionante, non determinabile e perfezionabile; lo raggiunge come qualcosa di infinitamente più intenso e ricco del semplice esser-presente, dell'esser-là (Dasein), nel qual caso la cosa è raggiunta come mera presenza al mio mondo, non come realtà o esistenza "assoluta". La portata obiettiva di ogni giudizio è di sboccare sull'esse : Ciò vale in special modo per il giudizio di esistenza o di "posizione assoluta" del tipo: "A è". Quando si afferma "Carlo Magno esiste", non si attribuisce alcun predicato nuovo alla nozione di Carlo Magno già determinata in se stessa, ma si afferma l'esistenza reale di Carlo Magno. Il giudizio di esistenza si presenta come una posizione assoluta, con carattere diverso dai giudizi copulativi o attributivi in cui un'essenza (il predicato) è attribuita al soggetto, poiché in esso si afferma puramente e semplicemente l'esistenza di un soggetto come posto fuori dal nulla. La sua peculiarità deriva dal fatto che l'esistenza non è predicato necessario di alcuna essenza finita, dal momento che l'analisi del concetto di quest'ultima non consente mai di scoprirvi l'esistenza: essa non è analitica. Già Aristotele osservava che l'esistenza di una cosa non può appartenere alla natura del concetto; che le definizioni non rivelano che l'oggetto da esse denotato possa esistere (13).

Nel giudizio di esistenza, l'esse viene raggiunto più immediatamente che nelle altre due forme di giudizio dove la funzione copulativa tende a primeggiare su quella esistenziale: 1) il giudizio di essenza (l'albero è verde), in cui una forma-predicato è applicata al soggetto; 2) il giudizio di semplice presenza al mio mondo (l'albero è qui); i quali presuppongono il giudizio di "posizione assoluta" e il suo valore realista. La sua possibilità è fondata sull'unità analogica e trascendentale dell'essere; mentre in Kant riposa sull'unità sintetica apriorica dell'appercezione trascendentale.

Il giudizio è sì sintesi, ma non costruita a priori dallo spirito e da esso proiettata nelle cose, bensì operata dall'intelletto sotto la guida dell'esistenza: attraverso un'attiva visione intellettuale esso unisce soggetto e predicato in base all'informazione intelligibile emergente dal loro contenuto. Dal reciproco confronto del soggetto e del predicato emerge la necessità dell'affermazione (o negazione) del predicato come predicato del soggetto in quanto uniti (o separati) nell'esistenza reale o possibile(14). La struttura del reale non è modellata dalla forma del giudizio, come se il reale dovesse calarsi e modellarsi su calchi, che sarebbero le forme a priori dello spirito. Al contrario la copula del giudizio, fondata sull'esse dell'oggetto reale, cerca di attingerlo intenzionalmente. Le datità fenomenologiche fondamentali del conoscere lo dichiarano un processo scoprente-accogliente-vedente, non apriorico-sintetico-fabbricatore. Un processo in cui il soggetto conoscente non si limita a dimorare presso se stesso; più esattamente dimora presso di se stando presso l'oggetto, nel senso che l'attività conoscitiva è sì immanente, ma appunto alla luce dell'oggetto portato intenzionalmente nell'interiorità dello spirito.

A differenza delle filosofie di indirizzo platonico, che limitano l'oggetto specificatore dell'intelligenza umana alle essenze, in cui vedono la fonte prima dell'intelligibilità del reale, nella Seinsphilisophie l'intelligenza va non solo all'essenza ma all'esistenza. Non è difficile comprendere quali argomenti spingano il filosofo a rivolgersi in modo privilegiato all'essenza: non deve forse la filosofia fondare il proprio sapere su oggetti stabili di pensiero? E dove trovarli in maniera soddisfacente se non nell' intelligibilità delle essenze ideali e nella loro immutabilità? L'essenza presenta al filosofo i caratteri che va cercando, ossia la necessità, la universalità, l'immutabilità. Le difficoltà del platonismo, che inclina a lasciare l'esistenza fuori dalla sfera dell'essere vero e dell'intelligibilità, si sono reduplicate in quelle dell'idealismo moderno. Esso ha fatto dell'esistenza un concetto pensato, trattandola come un'essenza e attribuendo alla soggettività trascendentale una funzione costruttiva e costitutiva, in cui l'oggetto è datità empirica intrasparente e muta per il pensiero, se non è riportato nel circolo dell'Io trascendentale. In ciò matura la crisi della metafisica che percorre parte della filosofia moderna, e che si chiarisce come una crescente difficoltà a raggiungere intellettualmente l'esistenza, fondando su di essa la conoscenza ontologica. Il primo correlato di tale crisi è l'oblio dell'essere in cui la metafisica uscita dal razionalismo si è trovata implicata nel corso del suo sviluppo, oblio che assume le forme tanto dell'esistenza intesa come mero positum, quanto della sua sussunzione entro quadri logici.

 

 

A tale oblio hanno dato il loro apporto diversi fattori, fra cui alcuni equivoci concernenti la natura del conoscere e la sua portata realistica. Nell'atto della conoscenza reale l'intelletto, il giudizio e la cosa/ente si corrispondono entro il generale isomorfismo tra pensiero ed essere. Viene inoltre riconosciuta la natura della conoscenza (quale movimento perfettivo di un soggetto) nel valere come processo di identificazione con l'altro come tale. Nei sistemi dell'idealismo accade un quasi completo capovolgimento di questi elementi, per cui la natura del conoscere viene alterata. L'isomorfismo tra pensiero ed essere è affermato ma invertito, poiché il primato va al pensiero. Della conoscenza si mantiene il momento dell'identificazione, non però del soggetto conoscente con l'altro in quanto altro, ma identificazione come superamento e soppressione dell'alterità: "Conoscere - ha scritto G. Gentile - è identificare, superare l'alterità come tale", riportandola all'Io trascendentale (15). A sua volta quest'ultimo è processo o atto, non sostanza; e l'essere è nome vuoto, al più una convenzione del linguaggio, non la sorgente prima di ogni intellegibilità. L'oblio dell'essere è massimo e ostruita la conoscenza dell'esistenza, nel senso che non si cerca il sapore dell'essere, ma la coerenza dell'idea.

Seguendo la strada della conoscenza dell'esistenza, prende forma una distinzione fra due concetti di filosofia, uno soltanto dei quali è denotato da un intento realistico( distinzione che segna anche uno spartiacque fra filosofie più e meno adeguate: che tutte le filosofie siano eguali significa infatti che non c'è più filosofia). Il primo concetto di filosofia, e più esattamente di metafisica, ne incorpora un'idea più logica che reale, nel senso che la metafisica diventa la scienza dei concetti più astratti e delle loro connessioni: sistema della conoscenza cercato solo come tale, facendo astrazione da qualsiasi scopo che non sia quello dell'unità sistematica del sapere, e procedendo alla neutralizzazione dell'esistenza. In base al secondo concetto la metafisica vale come scienza teoretica dell'essere/esistenza, e proprio per questo in essa si integra l'idea che la filosofia, includendo la relazione di ogni conoscenza ai fini essenziali della ragione umana, comprenda ciò che necessariamente interessa ogni uomo: trovare un orientamento nella vita secondo un senso(16).

 

 

Episodi di allontanamento dall'esistenza

 

 

La consapevolezza che il compito della metafisica consista nella conoscenza dell'essere/esistenza diventa maggiormente esplicita nella Seinsphilosophie del XX secolo. Su piano storiografico non è difficile accertare, ed è generalmente concesso, che le elaborazioni degli autori di tale linea si siano qualificate nella riscoperta dell'esse tomistico come actus essendi e nell'esplorare gli stretti legami tra metafisica ed esistenza. Si può dunque parlare di un "esistenzialismo metafisico"(per la verità alquanto lontano dalle forme dell'esistenzialismo consuete nelle correnti di tal nome), o anche di una metafisica capace di apertura all'esistenza e di intellettualismo flessibile. La ripresa di consapevolezza a cui si è fatto cenno, segna una svolta nella vicenda della filosofia moderna, nel momento in cui questa, concludendosi, accenna ad un postmoderno dai caratteri ambivalenti.

In rapporto alla penetrazione del nesso fra metafisica ed esistenza raggiunta dalla Seinsphilosophie dell'Aquinate, si è verificato nell'epoca tardomedievale e poi moderna un processo discensivo verso un crescente oblio dell'essere, ed una crescente essenzializzazione dell'esistenza, per cui questa risulta più o meno severamente neutralizzata nelle varie ontologie. Alla determinazione dell’ente come id quod habet esse venne via via sostituendosi nella Scolastica formalista-essenzialista un'idea di ente inteso come aptitudo ad existendum, in cui l'esistenza è a vario titolo una modalità o un accidente dell'essenza (quest'ultima era già la posizione difesa da Avicenna). Tale processo è stato ricostruito in maniera eccellente da E. Gilson in L'^etre et l'essence, in cui le posizioni dei maggiori pensatori dell'Occidente sono accuratamente scandagliate proprio sul nesso essenza-esistenza.

Occorrerebbe meditare quest'opera in cui l'unione di una notevole penetrazione speculativa con un'impareggiabile padronanza della storia della filosofia produce solide conclusioni. Considerando la concezione dell'essere come uno in Platone, come sostanza in Aristotele, il primato dell'essenza su e contro l'esistenza nello scotismo, la neutralizzazione dell'esistenza in Wolff e in Kant, per cui l'ontologia diventa scienza di un essere totalmente deesistenzializzato, la deduzione logica dell'esistenza in Hegel e la rivolta di Kiekegaard (che rischia di opporre ad una filosofia senza esistenza una esistenza senza filosofia), Gilson ha ritenuto di mostrare che forse solo nella Seinsphilosophie dell'Aquinate l'esistenza è realmente "guardata in faccia" come il punto di partenza e di arrivo della metafisica. Non è tempo sprecato ripercorrere qualche conclusione dell'opera, capace di dare la misura del cammino percorso: "Le ontologie dell'essenza non commettono solamente l'errore di ignorare il ruolo dell'esistenza, ma si ingannano sulla natura dell'essenza stessa. Dimenticano semplicemente che l'essenza è sempre quella di un ente, che non viene espresso nella sua interezza dal concetto della sola essenza...La storia della filosofia è lì a farci vedere che prendere atto dell'esistenza è l'inizio della sapienza filosofica...In realtà, l'unico al di là dell'essenza cui si possa pensare, senza essere costretti a pensarlo come radicalmente estraneo all'essenza stessa, è l'esistenza...Un aldilà dell'essenza è un aldilà dell'essere solo nelle ontologie che, come quelle di Platone, di Plotino e di Eriugena, cominciano con l'identificare l'intelligibile con l'essenza e l'essenza stessa con l'essere. Non così in una metafisica dell'esistere, perché qui l'essenza e l'esistenza entrano l'una e l'altra nella struttura dell'essere reale...l'esistenza non è una malattia dell'essenza, ma ne è al contrario la vita"(17).

Tra le posizioni essenzialiste vale la pena di menzionare come esemplare delle non poche posizioni analoghe quella dello scotista Francesco Antonio da Brindisi, che nel suo Scotus delucidatus in II Sent. (1607) sostiene la primalità e la maggior perfezione dell'essenza sull'esistenza: "Inter esse essentiae reale et existentiae est ordo perfectionis, quia esse essentiae est perfectius esse existentiae, quia esse existentiae est quoddam accidentale adveniens naturae". Senza mezzi termini o giri di frase viene ripresa la tesi avicenniana per cui l'esistenza è un accidente dell'essenza. Basterà fare ancora un passo e tale "modalizzazione accidentalistica" dell'esistenza rispetto all'essenza, per cui l'ente non è ciò che esercita l'atto di essere bensì una semplice aptitudo ad esistere, diventerà con Wolff una pura possibilità passiva, nel senso che per il filosofo tedesco nell'ens si esprime solo una non repugnatia ad existendum: "Notio entis in genere existentiam minime involvit, sed saltem non repugnatiam ad existendum, seu, quod perinde est, existendi possibilitatem"(18). Formule rivelative del processo di allontanamento dall'esistenza, percorso sia dal razionalismo, sia dalla maggior parte delle correnti della Scolastica rinascimentale e barocca.

In tale processo la posizione di Kant rappresenta un punto ancipite, da cui sarebbe forse stato possibile ripartire se non fosse poi intervenuta con la dialettica hegeliana una compiuta logicizzazione dell'esistenza. In un celebre passo della Critica della ragion pura l'esistenza è presentata come una posizione di fatto : "Essere, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni in se stesse. Nell'uso logico è unicamente la copula di un giudizio... Il reale non viene a contenere niente più del semplice possibile. Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili... Se io dunque penso una cosa con quali e quanti predicati voglio (magari nella sua determinazione completa) non s'aggiunge alla cosa stessa il minimo che, per il fatto che io soggiungo ancora: questa cosa è"(19). Frase ancipite dal momento che, non riducendo l'essere solo alla funzione logica della copula nel giudizio, considera l'essere anche come "posizione"; come qualcosa che può certo venire inteso come mero dato di fatto, ma che potrebbe per altro verso aprire ad una metafisica dell'atto e dell'esistenza come atto.

Che cosa vuol intendere Kant quando sostiene che l'essere non è un predicato reale ma "posizione"? Molto probabilmente che l'esistenza è l'atto con cui una cosa è posta fuori dalla condizione di possibilità, onde transita dalla sfera dell'esser-possibile a quella dell'esser-reale. Con questo, pur avendo eretto l'ordine dell'esistenza come diverso e irrisolubile in quello dell'essenza, non sappiamo ancora nulla di determinato sull'esistenza: se da un certo punto di vista è verissimo che l'essere è differente da un predicato (perché i predicati sono essenze che si aggiungono o si dicono del soggetto, e l'esistenza non è un'essenza), da un altro angolo di visuale l'esistenza è il soggetto di tutti i predicati, poiché nessuno esiste senza l'essere. In altri termini sembra che nell'analisi della coppia essenza-esistenza, Kant si ponga dal lato dell'essenza, dal quale è legittimo concludere che l'esistenza non aggiunge nulla ai caratteri intelligibili dell'essenza. Ma è questa l'unica prospettiva da considerare? Se nella linea formale-essenziale l'esistenza non aggiunge nulla ai costitutivi dell'essenza, nella linea ontologico-reale le aggiunge tutto, poiché pone la cosa/ente come un esistente concreto, fuori dal nulla e fuori dalle sue cause. Come si è già sottolineato, la nozione di esistenza possiede un valore proprio e una perfezione suprema, essendo l'atto di tutti gli atti e la perfezione di tutte le perfezioni, che aggiunge qualcosa di realissimo all'essenza, sebbene al di fuori del suo ordine e perciò connessa ad essa in modo contingente. La Critica della ragion pura ha percepito lucidamente l'impossibilità di un processo puramente analitico a raggiungere l'esistenza, poiché questa non fa parte del concetto o essenza di una cosa, ma appartiene ad un altro ordine: e con ciò viene denunciata la debolezza dell'argomento ontologico.

Se l'esistenza è "posizione" ed appartiene ad un ordine completamente diverso da quello dell'essenza, quale atto dello spirito le farà fronte nella filosofia kantiana? Come verrà conosciuta, dal momento che in essa il compito del giudizio non è ontologico-reale? Anzi nello schema kantiano delle modalità dell'essere: possibile/impossibile (a cui corrispondono i giudizi problematici); esistente/non-esistente (= giudizi assertori); necessario/contingente (= giudizi apodittici), l'esistenza è solo una categoria della modalità, quella che corrisponde alla modalità assertoria del giudizio. E con ciò l'esistenza resta qualcosa di incognito, che non è stato guardato in volto. Avendo omesso di domandare se l'esistenza sia qualcosa di più di positum, di una posizione di fatto, la Critica della ragion pura ha evitato di pensare nella maniera più determinata l'esistenza, e ha pagato il suo tributo all'oblio dell'essere.

Quando Hegel ci avverte che "pel pensiero, nel riguardo del contenuto, non si può dar nulla di più povero che l'essere"(20), ci invita a ricordare che la sua logica si divide in tre parti: 1) la dottrina dell'essere, 2) la dottrina dell'essenza; 3) la dottrina del concetto e dell'idea; in cui la prima parte è appunto il momento astratto o intellettuale del pensiero nella sua immediatezza, ossia il concetto in sé. Orbene Hegel non parte dall'ente quale trascendentale fondante ricco di tutte le sue determinazioni, ma da un concetto di essere astratto e logico-formale, che nella sua immediatezza è privo di ogni determinazione. E' l'indeterminazione pura e il puro vuoto, in cui non vi è nulla da contemplare o da pensare, perché ciò sarebbe un pensare a vuoto. Per riferirci all'Enciclopedia: "Il puro essere forma il cominciamento, perché esso è così pensiero puro, come è, insieme, l'elemento sicuramente immediato semplice e indeterminato... questo puro essere è la pura astrazione e, per conseguenza, è l'assolutamente negativo, il quale, preso anche immediatamente, è il niente... Povere astrazioni, come l'essere e il niente, - le più povere che possano mai darsi, dacché sono soltanto le determinazioni iniziali" (§§ 86, 88). Espressioni in cui sarebbe difficile non scorgere un'ulteriore tappa e, a vero dire, il vertice dell'oblio dell'essere, perché questo è pensato come il genere più universale e più vuoto, come un puro quadro logico che nella sua generalità indeterminata abbraccia tutto, non come il trascendentale supremo (già Aristotele aveva avvertito che l'essere non è un genere, poiché le sue differenze gli sono interne). Solo a prezzo di una enorme semplificazione si può sostenere che Tommaso d'Aquino e Hegel muovono entrambi dall'essere, dal momento che il primo prende le mosse dall'ente e il secondo dall'essere assolutamente vuoto; e questa radicale differenza si ripercuote all'infinito nelle rispettive filosofie.

Concepito l'essere in senso logico come l'immediato indeterminato ossia l'universale astratto, un velo impenetrabile copre l'atto d'essere e la specifica intelligibilità di cui è portatore, raggiungibile nel giudizio. Poiché l'essere non parla più all'intelletto e l'intelligibilità che è possibile raggiungere nella dottrina della scienza è immanente ormai solo al momento logico-dialettico, diventa lecito sostenere l'identità di essere e nulla (cfr. Enciclopedia, § 88), e procedere ad una pretesa deduzione del divenire quale unità di essere e nulla, in cui esso rimane completamente non pensato né spiegato. Non è infatti una delle minori sorprese che il divenire, inteso come il primo concreto, scaturisca dall'astratto, poiché essere e nulla sono mere astrazioni(21). Infine non è casuale ma necessario che l'ontologia venga definita come "la dottrina dei caratteri astratti dell'essenza"(22), a conferma del primato di un essenzialismo a base logica, che sin dal cominciamento lascia da parte l'esistenza quale sorgente prima di ogni intelligibilità.

E' un luogo comune ricordare, dopo i molti che già l'hanno fatto, la fondamentale arbitrarietà del metodo hegeliano, in cui si assume che il movimento dialettico dei concetti adegui o corrisponda allo sviluppo del reale, quasi ricreandolo a priori; e che le determinazioni concettuali del pensiero siano le determinazioni fondamentali delle cose stesse. Orbene, il disguido sul metodo, per cui la ricerca di ragioni dialettiche prende il posto delle analisi conoscitive sulle cose, si ripercuote anche sull'oggetto, in virtù di una sostanziale identità di metodo e oggetto che il dialettico di Stoccarda non cessa di sostenere:"Il metodo non è altro che la struttura dell'intiero presentato nella sua più pura essenza"(23), e tale struttura altro non è che l'oggetto del sapere compiuto. Nonostante gli straordinari doni di Hegel e la potente onda poetico-tragica che solleva tante sue pagine, il suo metodo dialettico veicola una grande mistificazione, che non è superata capovolgendo la dialettica dell'idea in quella della materia, come intese fare Marx, poiché la mistificazione è inerente alla dialettica come tale: essa conduce ad un sapere logico e probabile, lontano da un sapere stabilito su cause reali. E quell'elemento di realtà che essa qua e là conserva, dipende per così dire dalle "iniezioni di realtà" operate di soppiatto nel circolo del metodo: se conclusioni del metodo dialettico, che procede collegando concetti puri, risultano adeguate e reali, è perché i concetti non erano veramente puri ma ospitavano sin dall'inizio qualche elemento di realtà (24). Che con un metodo esclusivamente logico non si possano ottenere opposizioni reali, a meno che non si introduca di nascosto nel processo dialettico qualcosa di reale, qualche riferimento empirico, era già stato osservato da Trendelenburg nelle sue Logische Untersuchungen, dove si parla di intuizioni effettive che spingono in avanti il pensiero puro e lo conducono dove mai arriverebbe con le sue sole forze. L'arbitrarietà del metodo hegeliano e della sua dottrina della scienza non è naturalmente un incidente fortuito, quanto piuttosto lo svolgimento necessario e portato al più geniale livello di elaborazione, della sorgente non sempre identificata dell' hegelismo: l'ontofobia, cioè l'indifferenza o in certo modo la cecità intellettuale nei confronti dell'essere/esistenza, intesi come semplice apparizione dell'essenza (25).

Si è infine condotti ad individuare il motore onnipresente dell'hegelismo nella risoluzione dell'essere a concetto, nel senso che la natura di ciò che è, è di essere il proprio concetto, il quale a sua volta nel proprio automovimento è la scienza o l'elemento speculativo (26). Nell'equivalenza di essere e di concetto (invece che di essere e di atto d'esistere) consiste il proton pseudos dell'hegelismo ( e la massima opposizione a Kant, per il quale l'esistenza non è rappresentabile né nel concetto , né attraverso un concetto). Con esso la filosofia moderna tocca un punto di non ritorno, rispetto al quale le successive radicalizzazioni, quale ad es. l'attualismo gentiliano che risolve tutto (compresa l'intera dialettica hegeliana con la sua vasta macchina) nell'attuosità pura dell'Io trascendentale, appaiono come tappe prevedibli di un processo di coerenza, non come elaborazioni veramente innovative.

Del cammino del razionalismo verso l'esito ontofobico fu consapevole Vl. Soloviev, già all'inizio della sua precoce attività filosofica. In La crisi della filosofia occidentale (1874) composta a 21 anni, così viene scandita la dialettica del razionalismo occidentale da Cartesio ad Hegel nel suo allontanarsi dalla conoscenza reale dell'essere: "1. (Maggiore del dogmatismo): ciò che veramente è, è conosciuto aprioricamente; 2. (Minore di Kant): nella conoscenza apriorica si conoscono solamente le forme del nostro intelletto: 3. (Conclusione di Hegel): Dunque le forme del nostro conoscere sono ciò che veramente è". Soloviev riassume nel seguente sillogismo la tesi del razionalismo: "Noi pensiamo ciò che è; 2. Ma noi pensiamo soltanto concetti; 3. Dunque, ciò che è, è concetto" (27). La riduzione dell'essere a concetto renderebbe possibile un sistema puramente logico dell'esistenza, che la filosofia dell'essere, la Postilla conclusiva non scientifica, e infine Soloviev giudicano improponibile, segnando un fondamentale campo d'accordo, secondo cui il razionalismo di vario genere rappresenta un momento alto nel processo verso l'oblio dell'essere.

Nel cammino discendente verso l'essenzializzazione dell'esistenza l'ultimo Schelling (lontano dal primo, che si era espresso nel Sistema dell'idealismo trascendentale) con la sua filosofia positiva rappresenta una linea di resistenza e in certo modo l'accesso ad una posizione simile a quella kantiana, dove l'esistenza, accertabile empiricamente come posizione di fatto (si incontra in ciò un lascito dell'empirismo humiano che ha salvato il kantismo dal risolversi in idealismo assoluto), è il limite che si oppone ad una integrale idealizzazione dell'essere. Schelling ha compreso l'importanza reggente della coppia essenza-esistenza, di cui tratta ampiamente nella quarta lezione di La filosofia della rivelazione, senza però che nell' opera si riesca a venir in chiaro sulla natura dell'esistenza. Si sottopone a critica il processo puramente logico di Hegel, nel quale nulla sporge fuori dal pensiero(28), ma non si raggiunge un concetto di esistenza diverso e più alto di quello di una semplice actualitas empiricamente accertata(viene dunque pensato l'essere in actu, non l'essere ut actus): onde la sua reazione ad Hegel è sana ma incompiuta, nel senso che la filosofia positiva dell'ultimo Schelling segna sì una linea di resistenza all'integrale logicizzazione dell'essere operata dalla dialettica (nonché una certa palinodia rispetto all'assunto delle Ricerche sull'essenza della libertà, che identificano essere e volere), ma attestandosi in una posizione in cui non si può a lungo dimorare.

Sembra infatti difficile mantenersi nell'idea schellinghiana che essenza ed esistenza stiano l'una accanto all'altra in modo fondamentalmente irrelato. La prima conosciuta dalla ragione, l'altra accertata dall'esperienza; di modo che essenza ed esistenza appaiono come due fonti indipendenti e questa sembrerebbe l'ultima parola della metafisica in proposito (29). Dualismo non risolto, che in certo modo riproduce quello kantiano, e che, pur non scivolando nella risoluzione razionalistico-dialettica dell'essere a concetto, sembra impossibile superare sinché si rimane dipendenti dall'idea che l'ente sia il concetto più alto di genere, e non il trascendentale supremo (30). Per dire in una formula troppo breve il nostro pensiero, sembra che in Schelling si realizzino due reazioni sane, nelle quali vengono rifiutati il logicismo dialettico e la concezione astratta e formalista dell'ente propria della Scolastica decadente, senza che con ciò venga attinta una visualizzazione dell'essere che non sia quella dell'infinito poter essere quale contenuto immediato della ragione. Perciò la sua reazione appare parziale e non risolutiva, e rimane come in Kant (seppure per motivi diversi) in una collocazione ancipite. E' assai verosimile che la schellinghiana filosofia della libertà e lo stesso metodo generale del suo sistema -, rimasto fondamentalmente immutato nelle varie fasi e che si potrebbe determinare come teologico-sintetico perché parte dall'Assoluto e cerca di descriverne il processo evolutivo ontogenetico, e lo scaturire del finito dall'infinito -, sarebbero risultati diversi se il sistema avesse integrato come tema cardinale la conoscenza teoretica dell'essere(31).

 

 

Conseguenze dell'essenzializzazione dell'esistenza

 

 

La possibilità che si intenda la metafisica quale scienza delle essenze, ossia scienza dei possibili completamente de-esistenzializzata, va considerato un rischio ritornante, da cui tenersi in guardia. Non si sarà mai finito con l'intento di escludere l'esistenza dalla ontologia e dalla metafisica, attraverso la riconduzione dei giudizi di esistenza esclusivamente a giudizi di attribuzione, nei quali il verbo "essere" svolge una funzione solo copulativa, collegando un predicato ad un soggetto. In tal caso si rende l'esistenza semplicemente una essenza, fallendo nel compito di pensarla come esistenza.

Del non-pensamento dell'esistenza e del correlato oblio dell'essere scaturiscono ramificate influenze su tutto l'arco delle questione filosofiche. Limitiamoci a due brevi cenni concernenti il problema del male e della tecnica. Il male rappresenta ad un tempo qualcosa di massimamente esistenziale e una realtà che le filosofie essenzialistiche maneggiano con permanente difficoltà. In virtù dell'idea che il livello più alto e compiuto dell'essere sia l'essenza, esse fanno coincidere la realtà con il positivo delle essenze e pongono il negativo come un puro fatto logico, non reale. Conseguentemente il male è inteso come un che di accidentale e transeunte, che non è in grado di attentare in modo efficace alla pienezza concettuale dell'essenza, in cui si colloca il veramente essente, l'ontos on. Equivoco funesto, poiché il male, privazione d'essere e di bene, è una ferita o una lacuna nell'esistenza, che aggredisce e genera dolore proprio in quanto raggiunge le radici della vita, mentre l'essenza non ne è toccata. La questione bruciante del male è la pierre de touche di ogni filosofia essenzialistica, e più esattamente la sua cattiva coscienza. Che esso sia prodotto o subito dalla creatura, prende comunque alla gola. Ma appunto alle filosofie essenzialistiche sfugge l'insidenza di una lacuna d'essere nel cuore dell'essente, dal momento che l'attenzione prioritaria volge verso l'essenza, che non ha negativo ed è sempre ciò che deve essere.

Il secondo cenno riguarda il problema della tecnica, e più esattamente la sua interpretazione ideologica oltranzista, mossa da volontà di dominio sull'essere. Essa diventa possibile se vengono a congiungersi vari eventi: la riduzione dell'esistenza a mero dato di fatto;la negazione di una scienza teoretico-contemplativa, e perciò rispettante, dell'essere; lo sfrenamento di un desiderio di disposizione sulle cose. Nel rapporto tra metafisica ed esistenza l'intelletto cerca di conoscere d'una conoscenza teoretica pura l'orizzonte dell'esistere così come è, lontano perciò da ogni intenzionalità manipolante, disponente, pragmatica. Quando Lévinas ci assicura che "l'ontologia come filosofia prima è una filosofia della potenza... [essa], che non mette in questione il Medesimo, è una filosofia dell'ingiustizia" (32), non si può non pensare che quanto viene qui colpito con tanta perentorietà è solo uno dei vari momenti dell'ontologia, quello in cui l'Io trascendentale digerisce compiutamente o addirittura pone l'Altro, riportandolo così senza residuo al Medesimo.

Questa è tuttavia soltanto una possibilità. Nel rapporto contemplativo con l'essere l'intelletto rispetta e riconosce, lasciando che l'altro sia l'altro e portandolo in se stesso come tale. Lungi dal porsi come un processo identitario che toglie il differente, il conoscere è un'azione che nell'identità intenzionale con l'altro ne mantiene integralmente la differenza, come già si è osservato. La riduzione cartesiana dell'esistenza corporea a mera estensione, l'inganno idealistico della soggettività costituente, che eleva il pensiero a soggetto e l'esistenza a suo semplice predicato, e contro cui ha lottato Adorno (33), la volontà di prassi e di potenza sono all'origine dell'ideologia della tecnica. Qui l'esistenza è null'altro che materia più energia, substrato amorfo, integralmente sottoposto al potere di disposizione del subjectum, che stabilisce l'ambito di oggettivazione di ogni ente.

 

 

Commiato

 

 

E' la filosofia moderna un'essenza univoca o composita? Ad una domanda tanto immensa non pare saggio rispondere con un sì o un no, che andrebbero lungamente argomentati. Accontentiamoci di osservare che l'indagine dovrebbe vertere sulle idee di essere, esistenza, realtà; e che nel corso del moderno la presenza attiva della filosofia dell'essere fu scarsa (anche per ignavia dei suoi cultori e per una certa qual loro renitenza a scendere dalle vette sacre della teologia verso un più intimo scambio con lo spirito e i problemi del tempo), sino a potersi sostenere che essa fu l'unica a non entrare in incroci, eclettismi e métissages con altre scuole.

Fra i sostenitori di quanto si chiama con una certa approssimazione il "pensiero tradizionale", esistono molteplici tentativi di valutare la filosofia moderna, non pochi dei quali assumono a centro dell'indagine il problema del teismo/ateismo, meno quello dell'essere e della sua conoscenza. Del Noce ha offerto una lettura problematicamente aperta della questione del teismo e dell'ateismo, nessuno dei due qualifica a suo giudizio il moderno in modo categorico. In Il problema dell'ateismo si riconferma l'imprescindibilità dell'inizio cartesiano, mentre si "esclude l'idea di un 'errore radicale della filosofia moderna'" (34). Questa, secondo tale lettura, ha percorso un cammino che da Cartesio conduce ad Hegel e infine a Marx (col capovolgimento della dialettica dell'Idea in quella della Materia) e all'attualismo di Gentile. Ed un'altra strada che attraverso Pascal, Malebranche e Vico, raggiunge Rosmini, ed in cui si è mantenuto il guadagno del teismo, dell'ontologismo, di un rapporto amico col cristianesimo. Altra è la diagnosi di Fabro secondo il quale "la 'valenza atea' del pensiero moderno... non è qualcosa di facoltativo ma di costitutivo nel senso che ogni concessione diretta e indiretta alla trascendenza è una deviazione e un'incomprensione di quell'immanenza con la quale si è voluto fare il primo passo... Perciò consideriamo inautentiche ed intruse tutte le forme di teismo apparse nel pensiero moderno ovvero, in forma positiva, affermiamo che il pensiero non può trascendere l'orizzonte umano che si è dato nel cogito"(35).

Il XX secolo ha reso chiaro che cosa è avvenuto nel XIX quanto a neutralizzazione dell'esistenza, oblio dell'essere, crescita del nichilismo col pensiero di Nietzsche e in parte non secondaria attraverso quello di Hegel. Accennando alla sua avanzata non viene emesso un giudizio in primo luogo morale, ma speculativo nel senso che il nichilismo che è andato imponendosi è di ordine metafisico, nel suo nucleo essenziale riportandosi ad un allontanamento di vario genere dall'esistenza. La filosofia del XIX secolo si è incagliata urtando contro la massima e certo modo unica domanda filosofica: che cosa è la realtà? Qual è il concetto di realtà? (o, il che viene a dire la stessa cosa, che cos'è l'esistenza/essere?). Marx, Kierkegaard e i posthegeliani avvertirono la posta in gioco e la sfida elevata dal concetto hegeliano di realtà. Finirono secondo distinti cammini per rifiutarlo, senza in fin dei conti riuscire a sostituirlo con uno più adeguato: onde una parte considerevole della filosofia del XIX secolo e del nostro si consumò in tale battaglia.

Hegel aveva presentato la realtà, - il cui concetto viene svolto nella dottrina dell'essenza quale secondo momento della dialettica triadica( essere, essenza, concetto) che nel suo insieme costituisce la scienza della logica -, come l'unità di essenza e di esistenza, dell'interno e dell'esterno (36). Nella formula si fa avanti una differenza fra realtà ed esistenza in cui quest'ultima, unità immediata dell'essere e della riflessione, è solo fenomeno, come più volte viene dichiarato da Hegel. Chi si pone su questa strada svolgerà una dottrina dell'esistere concentrandosi su analisi fenomeniche di singoli punti di attuosità esistenziali, senza poter attingere il livello dell'ente e della sua analogia.

Contro l' assunto hegeliano concentrarono l'attacco in molti: " Anche Marx e Kierkegaard hanno orientato la loro critica contro Hegel sul concetto di esistenza reale. Ruge si rivolge preferibilmente all'esistenza etico-politica della comunità, Feuerbach all'esistenza sensibile dell'uomo corporeo, Marx all'esistenza economica della massa e Kierkegaard a quella etico-religiosa dell'individuo. In Ruge l'esistenza storica si rivela nell''interesse' inteso politicamente, in Feuerbach l'esistenza reale in genere si ritrova nella sensazione e nella passione, in Marx l'esistenza sociale si svela nell'attività sensibile in quanto prassi sociale, ed in Kierkegaard la realtà etica si mostra nella passione dell'agire intimo"(37). Esistenza storica, reale, sociale, etica: si tratta di forme legittime di esistenza, male interpretate dal dialettismo, per cui la reazione era giustificata.

Si deve riconoscere che questa mole di critiche ha contribuito a sgomberare il terreno dal macigno del dialettismo. Ripulire il terreno non significa ancora avanzare o riprendere un cammino adeguato. Fra gli autori citati nessuno pervenne ad una scienza teoretica dell'essere, troppo pericolosa per l'ateismo di molti di loro perché presto o tardi conduce all'Esse ipsum per se subsistens. In Kiekegaard il riconoscimento dell'importanza reggente dell'"io esisto" contribuì a riaprire la strada e l'attenzione per l'esistenza nella forma però dell'interesse per il Singolo (38), non ancora per l'esistenza come tale. Ugualmente alta fu in Marx l'evasione dall'universo dell'Idea e dello Spirito per cercare un più diretto contatto con l'esistenza; e tale fu il senso più tipico del capovolgimento marxiano per cui la macchina della dialettica venne messa coi piedi per terra. Esigenza imprescindibile certo, che tuttavia in Marx soffre di un fatale equivoco, poiché nel suo pensiero si fa il cominciamento dall'equazione realtà (essere) = materia.

Senza escludere altre direzioni interpretative si potrebbe leggere una quota notevole del pensiero del '900 entro il tentativo di pervenire ad un concetto di realtà più adeguato e comunque lontano da quello che la fa consistere nell'unità di essenza e di esistenza, come inteso da Hegel. A dispetto delle irreconciliabili differenze che le denotano, le scuole del marxismo, della fenomenologia, del positivismo, dell'esistenzialismo potrebbero avere in comune proprio quell'intento. E le recenti diagnosi esplicite o implicite sulla fine della filosofia costituire un contraccolpo dei tentativi e degli scacchi incontrati nella strada verso un migliore concetto di realtà. Nonostante le apparenze, non siamo giunti alla morte della filosofia, quanto piuttosto alla crisi forse definitiva di taluni suoi filoni. La filosofia costituisce una possibilità infinita nel duplice senso che da un lato non terminerà mai il suo esercizio, e dall'altro non potrà mai dire: ecco la verità tutta intera! La filosofia possiede un fine - la conoscenza del vero - senza avere una fine.

Nelle prime pagine di questo saggio un pensiero di Kierkegaard ha offerto materia di riflessione. Nell'avviarci alla conclusione ci accompagna un'altra sua frase :"Il cristianesimo riguarda l'esistenza, l'esistere; ma l'esistenza, l'esistere sono precisamente l'antitesi della speculazione"(39), perché sono una comunicazione di vita. Quando vergava queste righe egli aveva dinanzi come avversario massimo e quasi ossessivo l'hegelismo. Questo e soltanto questo era per lui la speculazione, il cui metodo era (hegelianamente, appunto) individuato nella mediazione, in cui tutto viene fluidificato. Alla speculazione così intesa Kierkegaard contrappone il paradosso (e in specie il paradosso assoluto del Dio che si fa uomo, del "Dio nel tempo") quale metodo del cristianesimo. Paradosso contro mediazione: opposizione vera e autentica, ma infine non risolutiva, nella misura in cui Kierkegaard concepisce la speculazione esclusivamente al modo di Hegel, a cui si oppone con tutte le sue forze ma a cui rimane su questo punto subordinato nell'opposizione. In effetti rifiutando Hegel, Kierkegaard ha rifiutato tutta la speculazione come qualcosa di mortale per il cristianesimo, intendendola come diretta a superare quest'ultimo; e come qualcosa di mortale per l'esistenza che nel sistema hegeliano appare indifferente alla soggettività e all'interiorità. Quanto mancò almeno in parte a Kierkegaard, e che lo avrebbe reso ancor più grande di quanto già non sia, fu un'idea più autentica e compiuta di speculazione; fu l'idea che il compito della filosofia non è la mediazione dialettica ma la conoscenza reale dell'esistenza.

Circola forse più verità nel noto aforisma di Wittgenstein: "Non come il mondo sia, è ciò che è mistico, ma che esso sia" (40), che nelle pagine dell'autore del Cogito o della sua discendenza filosofica. Nell'aforisma si esprime lo stupore dinanzi all'esistenza: come è straordinario che il mondo sia! A partire da tale stupore originario, dall'emozione psicologica e intellettuale dinanzi all'evento per cui tutte le cose si collocano nell'immenso oceano dell'essere, la filosofia è posta nella strada del suo destino.

Non sarà a Hegel, e neppure a Kierkegaard nonostante la fondamentale sanità della sua reazione, che domanderemo di avviarci versouna scienza teoretica dell'essere, ma alla tranquilla luce che emana dalle formule speculative di Tommaso. In lui la metafisica non inizia con un atto di riflessione del pensiero su se stesso, con un atto di conoscenza della conoscenza, ma di conoscenza delle cose. Il segreto dell'essere si rivela a partire dall'intuizione sensibile, non a partire dal pensiero generale che impiega il termine essere come supremamente indifferenziato e vuoto, sboccando così nella generalità più indeterminata dove nulla di reale è pensato. "Egli [Tommaso] è dalla parte opposta di Hegel, che ha disgiunto e messo in lotta tutto, assumendo l'universalità dell'essere nella prospettiva antiesistenziale di un idealismo assoluto, e volendo sottomettere ogni cosa all'unità del Grande Idolo cosmogonico in cui i contraddittori si accoppiano per generare mostri, in cui l'Essere e il Nulla si identificano"(41). Solo la filosofia che si nutre di un'adeguata intuizione dell'esistenza/essere è in potenza attiva verso il futuro.

 

 

 

NOTE

(1) Nel presente saggio i termini "essere" ed "esistere/esistenza" vengono impiegati come sinonimi e denotanti tutto ciò che è o può essere. ( "A è" e "A esiste" sono dunque giudizi rigorosamente identici). Essi vengono intesi entro la ricerca metafisica di una scienza dell'essere/esistenza in quanto tale. Il verbo esistere, collegato al latino existere, viene dai linguisti fatto derivare da ex-sistere, con riferimento ad un "provenire da" (il verbo potrebbe anche esser inteso come ex alio sistere). Ciò non toglie che da alcuni secoli si sia verificato in filosofia un impiego crescente di esistere/existere al posto di essere, spesso con l'intento di attribuire maggior rilievo alla funzione esistenziale veicolata dal verbo.

In effetti con l'impiego di esistere sembra spiccare maggiormente tale funzione, in origine adempiuta dal verbo essere, ma che poi questo, impiegato nei modi più vari, ha quasi cessato di esercitare. Si ponga mente che al verbo essere spetta sia la funzione esistenziale (quando dico ad es. "Pietro è"), sia quella copulativa ("Pietro è bianco"), mentre al verbo esistere spetta soprattutto la prima. Si può dire in buona lingua "Pietro esiste", assai meno invece "Pietro esiste bianco", risultando di gran lunga preferibile la dizione "Pietro è bianco".

Con la scelta di impiegare come sinonimi "essere" ed "esistere" vengono lasciate da parte sia le posizioni dell'esistenzialismo del '900, che pur avendo eretto l'esistenza come centro delle sue preoccupazioni si è rivolto quasi solo all'esistenza umana e ha trascurato la scienza dell'ente in quanto tale, sia la riflessione heideggeriana sul Dasein e sulla sua esistenza quale luogo primario per la determinazione generale del senso dell'essere.

Naturalmente col ricorso al termine esistenza/existentia non si è ancora determinato il suo contenuto. Noi qui intenderemo l'existentia come sinonimo di esse o di actus essendi, entro il quadro della distinzione reale negli enti di essentia ed esse, e perciò allontanandoci dal formalismo che, lasciando da parte la metafisica dell'atto, aveva finito per intendere l'existentia come dato di fatto.

(2) Principia philosophiae, a cura di P. Cristofolini, CDE, Milano 1993, p. 85.

(3) Tutte le dimostrazioni procedono dal più conosciuto al meno conosciuto. Poiché dimostrare a priori significa assegnare la ragione necessaria per la quale il predicato della conclusione conviene al soggetto, occorre che si conosca l'essenza del soggetto, che costituisce la ragion d'essere della proprietà dimostrata. Qui dunque il più conosciuto (il S) è la ragion d'essere del meno conosciuto (il P).

Nella dimostrazione a posteriori, che parte da quanto è per noi più conosciuto e più vicino, quest'ultimo non è la ragion d'essere di ciò che ci fa conoscere, poiché ne dipende nell'ordine reale ed è solamente nell'ordine della conoscenza che è primo. L'effetto è più vicino a noi e più conosciuto della causa, ma non è la sua ragion d'essere. Nella dimostrazione a posteriori non si conosce perché (propter quid) il P appartenga al S, ma solo il quia, ossia che il P conviene al S. Essa non fa conoscere la ragion d'essere della cosa affermata, ma la necessità dell'affermazione della cosa.

E' fuor di dubbio che Cartesio non abbia sempre proceduto a priori (quantomeno nella Terza Meditazione l'idea di Dio (effetto) è causata da Dio stesso, con risalimento dunque dall'effetto alla causa), ma è altrettanto certo che tutto il suo desiderio andava in tale direzione: ossia a tenersi il più lontano possibile dal cielo, dall'aria, dalla terra, diciamo dall'esistenza, per procedere dal principio ai principiati.

(4) Meditazioni sulla filosofia prima, a cura di G. Brianese, Mursia, Milano 1994, p. 56 e p. 69.

(5) Ivi, p. 49.

 

(6) Principia philosophiae, lettera a Picot, p. 61.

(7) Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1988, p. 428.

(8) Cfr. Poema sulla natura, frammenti 3 e 8,34.

(9) Postilla..., p. 317.

(10) Ivi, p. 438.

(11) Conoscere è captare il reale, è "vederlo",portandolo spiritualmente in se stessi: per questo la conoscenza non è formatrice dell'oggetto, ma recettrice e da esso misurata. L'attività conoscitiva appartiene all'ordine esistenziale ed è una vita, costituendo con l'amore quanto di più perfetto vi sia.

(12) S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3m; Comm. al Liber de Causis, prop. 6; In I Sent., dist. 19, q. 5, a. 1; De Veritate, q. 1, a. 1, 3 sed contra.

(13) Cfr. Analitici posteriori, l. II, c. 7, 92 b 24s. Nello stesso testo si chiarisce che l’individuo è dato al di fuori di ogni concetto ed è oggetto di un thigein (cfr. 89 b 32s.).

(14) La funzione del giudizio si riporta ad una identificazione reale dei diversi nozionali, rappresentati dal soggetto e dal predicato. Ne segue che l'identità incorporata nel giudizio non è del tipo A = A, bensì A = B. La prima forma di identità, in quanto tautologica, veicola un modesto contenuto conoscitivo, mentre la seconda ne esprime uno specifico, quello per cui le nozioni del S e del P si identificano nella realtà (come accade quando si dice "Pietro è bianco"). La conoscenza progredisce tramite enunciazioni del tipo A = B, che estendono il campo del saputo e ciascuna delle quali costituisce una scoperta. Si raggiunge un ben magro esito col sostenere "uomo è uomo". Al contrario si fa un passo avanti col dire "uomo è animale razionale". Aggiungiamo che nella formula A = B l'appartenenza del P al S può essere di diverso genere e ciò stabilisce le diverse forme di predicazione.

(15) Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 1987, p. 16.

(16) In rapporto a questo aspetto si presenta una questione rilevante e difficile, a cui basterà qui accennare. Quando i filosofi hanno fatto riferimento ai fini essenziali della ragione, quando la filosofia dell'essere svolge le coordinate fondamentali della conoscenza ontologica dell'essere, si può domandare se essi siano rinchiusi in una sorta di solipsismo culturale, nel senso che il loro discorso possa essere compreso e accolto solo entro una determinata tradizione, quella latamente occidentale. Oppure sono le loro intuizioni dicibili in altre culture, perché esprimono qualcosa di universale e di transculturale, e solo accidentalmente non vi sono state dette? A nostro avviso si può sostenere una dicibilità universale dell'essere e una fondamentale invarianza dell'intelletto umano nel suo rapportarsi all'essere (ciò presuppone che l'umanità sia entrata nello stato logico-solare dell'esercizio dell'intelletto), e nel contempo riconoscere direzioni o interessi-guida della ricerca essenzialmente diversificate. Differente è la domanda che interroga sulla natura delle cose, dove l'interesse-guida è conoscitivo e teoretico, e quella che cerca una sapienza di liberazione dove l'interesse è in senso lato "salvifico". Una volta assunto che l'orientamento sia di tipo teoretico, non appaiono a priori le ragioni per cui una simile ricerca debba essere culturale, ossia dicibile solo entro una specifica cultura. La collocazione culturale e storicamente determinata di un asserto non implica la sua invalidità al di fuori di tale milieu.

(17) E. Gilson, L'essere e l'essenza, Massimo, Milano 1988, pp. 279, 301, 315, 316s,320.

(18) Philosophia prima sive Ontologia, § 134.

(19) Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 472 s.

(20) Enciclopedia delle scienze filosofiche, trad. B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1980, § 51, p. 66.

(21) Oltre tutto il niente non è alcunché di reale: è un ente di ragione o un'idea, che noi formiamo logicamente premettendo la negazione, ossia negando l'essere in totalità (ni-ente). Operare il cominciamento del sistema dalla dialettica di un essere che è perfettamente vuoto e di un nulla che è un ente di ragione, è una conferma in più che ci si muove a distanza siderale dall'esistenza.

(22) Enciclopedia, p. 44.

(23) Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 38.

(24) Qualche ulteriore spunto sulla dialettica hegeliana si trova nella mia introduzione al volume di H. R. Schmitz, Progresso sociale e rivoluzione. L'illusione dialettica, Massimo, Milano 1990, pp. 6-16, da cui riprendo un brano. "A differenza della logica dimostrativa quella dialettica non può andare al di là del verosimile e del probabile; il motivo più profondo ne è che il ragionamento dialettico procede ex communibus; è generico, non specifico, perché è derivato da principi estrinseci alla natura delle cose. La conoscenza reale è conoscenza ex principiis propriis della natura degli enti. Scrive Aristotele:" La sofistica e la dialettica si occupano dello stesso genere di cose di cui si occupa la filosofia, ma quest'ultima differisce dalla dialettica per il diverso grado del suo potere e differisce dalla sofistica per la scelta di vita; la dialettica infatti si propone di fare solo un assaggio di quelle cose che la filosofia vuole conoscere sino in fondo...".

(25) L'oblio dell'essere col suo esito ontofobico è nel razionalismo di vario genere il risultato di un insieme di equivoci, fra i quali occupa un posto non secondario l'impostazione della dottrina della scienza, formulata dal primo Schelling e da Hegel in un modo secondo il quale il trascendentale fondante è verum, non ens.

Costituirebbe impegno di rilievo andare alla ricerca degli esiti del razionalismo, vedendone il collegamento con la tesi che l'essere è concetto e con il suo generale metodo logicizzante. Qui ci limitiamo a elencare alcune dottrine del razionalismo in cui non è vietato rintracciare un influsso della sua posizione metafisica: l'idea di libertà come necessità riconosciuta e accolta; l'identità posta fra il reale e la formula che lo esprime, l'inimicizia verso l'esperienza e l'evidenza sensibile; (ri)costruzione del reale nel/col pensiero astratto; diffidenza e talvolta disprezzo dell'individuo concreto, del singolare; inimicizia fra filosofia e religione, sia nel senso che la prima mostra inutile o falsa la seconda, sia in quello per cui la filosofia risolve-dissolve in sé il contenuto della religione.

(26) "L'essere è assolutamente mediato...è, a sua volta, un sé, ovverosia concetto", Fenomenologia dello spirito, p. 29 s.

(27) Vl. Soloviev, La crisi della filosofia occidentale, a cura di A. Dell'Asta, La casa di Matriona, Milano 1989, p. 130 s.

(28) Il progredire che ha luogo nella filosofia hegeliana "fu considerato come una successiva autorealizzazione dell'Idea, mentre era soltanto una successiva elevazione ed incremento del concetto, che rimaneva, pur nella sua più alta potenza, concetto, senza che con ciò fosse dato un passaggio all'essere effettivo, all'esistenza", Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola, Zanichelli, Bologna 1972, vol. I, p. 163.

(29) Ivi, vol. I, pp. 149-163.

(30) "Questo Ens della Scolastica era qualcosa di totalmente morto - propriamente il concetto più alto di genere, Ens in genere... Nella filosofia wolffiana l'Ens, che gli Scolastici spiegavano come aptitudo ad existendum, fu spiegato come una mera non repugnantia ad existendum, ove l'incondizionata potenza è scolorata ed abbassata a semplice possibilità, con la quale naturalmente nulla può incominciare", ivi, p.155. In queste espressioni rivelatrici si fa chiaro che la Scolastica a cui Schelling allude sia quella tedesca del XVIII secolo e in specie quella wolffiana, in cui l'oblio dell'essere è massimo. Non vi si riscontra invece traccia del genuino insegnamento dell'Aquinate, da tempo oscuratosi nelle varie Scolastiche del XVII e XVIII secolo (salvo rare eccezioni, quali quelle di Banez e di Giovanni di san Tommaso), e che sempre escluse nella maniera più categorica che l'ente fosse un genere. Anche la riflessione più fuggitiva non potrà non percepire la notevole distanza fra la determinazione di ente come non repugnantia ad existendum ed una come aptitudo ad existendum; nonché l'abisso fra queste due e quella di ente come id quod habet esse.

(31) Anche per Heidegger, che sembra muoversi all'interno della comprensione formalistica e tardoscolastica dell'essenza e dell'esistenza, il concetto tradizionale di existentia significa realtà, e quello di essentia possibilità. Estranea rimane la metafisica dell'atto. L'interpretazione heideggeriana attribuisce alla tradizione l'idea che l'esistenza sia una sorta di modalità dell'essenza: "Existentia resta il nome che si dà alla realizzazione di ciò che una cosa è quando appare nella sua idea". Con tali premesse è quasi fatale che egli sostenga che per la metafisica da Platone in poi l'essenza precede l'esistenza (cfr. Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 280), posizione in cui sembra ribadito che la lettura heideggeriana della storia della metafisica ne colga solo la valenza essenzialistica.

(32) Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980, p. 44.

(33) "Da quando l'autore confidò nei propri impulsi intellettuali, sentì come proprio compito spezzare con la forza del soggetto l'inganno di una soggettività costitutiva", T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. XII.

(34) Il problema dell'ateismo, Il Mulino, Bologna 1990, p. 509.

(35) C. Fabro, Introduzione all'ateismo moderno, Studium, Roma 1969, vol. II, pp. 1091ss. Mentre in Del Noce la linea atea del moderno è vista come uno sviluppo del razionalismo religioso e del suo rifiuto senza prove del soprannaturale, e tale linea trova un argine nella presenza di pensatori autenticamente teisti, in Fabro dominante è la considerazione della coerenza atea del principio di immanenza, ritenuto essenziale al cogito. Tuttavia poiché gli autori a cui fa riferimento Del Noce (Pascal, Malebranche, Vico, Rosmini) risultano assenti dalla pagina di Fabro (perché appartenenti ad un'essenza filosofica classica e non moderna? perché estranei alla linea del cogito?), le due letture risultano diverse per quanto concerne la genesi dell'ateismo, ma non opposte.

(36) Cfr. Enciclopedia, § 142. "Nella vita ordinaria si chiama a casaccio realtà ogni capriccio, l'errore, il male e ciò che è su questa linea, come pure ogni qualsiasi difettiva e passeggera esistenza. In una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l'ho accuratamente distinta non solo dall'accidentale, che pure ha esistenza, ma altresì dall'essere determinato, dall'esistenza e da altri concetti" (ivi, § 6), frase che, riconfermando la distanza fra realtà ed esistenza, toglie al male il carattere di realtà. La sua irrealtà è corollario necessario della logicizzazione: "tutto il reale è idea" (ivi, § 213), la quale è un'essenza positiva, che allontana da sé la lacuna, il negativo, la privazione.

(37) K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1959, p. 233.

(38) "Bisogna fare a tutta la filosofia moderna l'obiezione che essa non ha un presupposto falso ma uno comico, in quanto ha dimenticato...ciò che significa essere uomo", Postilla ..., p. 323.

(39) Ivi, p. 468. Non si dice nulla di esagerato se si afferma che nel cristianesimo circola un'intuizione specifica dell'esistenza; che in nessun altro luogo forse la cura dell'esistenza è altrettanto intensa. Nella filosofia cristiana la meditazione sull'essere venne spinta tanto avanti per ragioni intrinseche, perché occorreva conoscere, incontrando l'esistenza, quel Dio che si era rivelato come l'Esistenza stessa infinita, eterna, ingenerata, come l'Ego sum qui sum.

(40) Tractatus, n. 6.44

(41) J. Maritain, Breve trattato dell'esistenza e dell'esistente, Morcelliana, Brescia 1965, p. 109.