Filosofare con i classici

Enrico Berti

La separazione tra l'insegnamento della filosofia e quello della storia della filosofia, tipica dell'ordinamento universitario italiano, non esiste in nessun altro paese del mondo in maniera così netta. Per esempio in Germania si è semplicemente professori di filosofia, il che non impedisce di sviluppare nell'insegnamento tematiche particolari. Altrettanto avviene nell'area anglo-americana ed in Francia.

In Italia invece la distinzione esiste da molto tempo: ad esempio cento anni fa nell'Università di Padova Roberto Ardigò teneva la cattedra di Storia della filosofia, anche se è certo che Ardigò non è passato alla storia come storico della filosofia più che come filosofo a titolo proprio. Invece la Filosofia teoretica era insegnata dall'altro cattedratico del momento, cioè Francesco Bonatelli, molto meno noto di Ardigò. Questa distinzione, dunque, esisteva già in età positivistica; essa non è stata superata nemmeno durante l'egemonia del neoidealismo ed oggi, poi, assistiamo ad una proliferazione di insegnamenti filosofici, contrapposti l'uno all'altro, nei quali però si trattano sempre più o meno gli stessi argomenti.

In tema di rapporti tra storia della filosofia e filosofia teoretica, credo che possa presentare un qualche interesse la considerazione della presenza in quest'ultima dei cosiddetti classici. Se consideriamo il dibattito filosofico contemporaneo, cioè quello condotto proprio da filosofi, nel quale si dovrebbe esprimere quanto c'è di più nuovo, di più originale dal punto di vista teoretico, vediamo che esso è costituito in gran parte da una discussione sui classici della filosofia e dal tentativo di appropriarsene più o meno parzialmente.

Le due correnti, certo tra quelle dominanti nel pensiero contemporaneo, che si distinguono in quest'opera di appropriazione, a volte esplicita, a volte tacita, ma non per questo meno reale, sono da un lato la cosiddetta filosofia analitica, diffusa soprattutto nell'area angloamericana, e dall'altro la cosiddetta ermeneutica, diffusa nella cultura filosofica continentale, specialmente in Germania, ma ormai anche in Italia. Credo che anche nel nostro paese, dopo la crisi dello storicismo, nel dibattito filosofico-teoretico sia stata rivolta un'attenzione maggiore che in qualsiasi altro momento ai classici della storia della filosofia.

Cominciando da lontano, addirittura da Parmenide, potremmo segnalare il caso di Severino, troppo noto perché ci sia bisogno di tornarci sopra. Invece vale pena di soffermarsi su Platone ed Aristotele, nei confronti dei quali, come ho avuto occasione di scrivere nella rivista "Elenchos" del 1989, sono in atto vere e proprie "strategie di appropriazione" da parte di alcuni filosofi contemporanei. Per quanto riguarda Platone, anche i non specialisti dello studio di questo autore hanno certamente percepito l'esistenza, manifestatasi in questi ultimi anni, di una nuova interpretazione ad opera della cosiddetta "Scuola di Tubinga", la quale in Germania è stata elaborata dagli allievi di Schadewaldt, cioè Hans Joachim Krämer e Konrad Gaiser, ed in Italia è stata ripresa e rilanciata con notevole vigore da Giovanni Reale, dell'Università cattolica di Milano.

Secondo me in questo caso siamo dinanzi ad una vera e propria appropriazione — termine da intendersi senza connotazioni etiche negative — di Platone, al quale viene attribuita una determinata filosofia con un impeto, un entusiasmo, una ricchezza di documentazione ed una così forte sottolineatura della sua originalità, da far pensare che essa sia condivisa dagli stessi interpreti che gliela attribuiscono. Si è giunti a parlare, a proposito di questa interpretazione, di un "nuovo paradigma", nel senso kuhniano del termine, cioè di una nuova teoria scientifica che rivoluziona la nostra visione della realtà, nel caso specifico la realtà del pensiero platonico. Insomma la filosofia in tal modo attribuita a Platone viene sostanzialmente presentata come la filosofia oggi più valida.

Si tratta chiaramente di una metafisica, anzi qualcuno ha usato a proposito di essa l'espressione "metafisica classica". Io, che sono affezionato da tempo alla "metafisica classica", con questa espressione intendevo qualcosa di diverso, cioè mi riferivo ad una determinata tradizione di pensiero, che ha avuto i suoi momenti culminanti in Aristotele, in Tommaso d'Aquino ed in alcuni pensatori più recenti. Perciò sono rimasto colpito da questa denominazione, perché essa viene usata proprio per sottolineare la classicità, ossia il valore perenne, e quindi anche attuale, di una metafisica che è diversa da quella tradizionalmente indicata come "metafisica classica", vale a dire la philosophia perennis .

La nuova metafisica attribuita a Platone è sostanzialmente una metafisica di tipo neoplatonizzante, il che non deve stupire, perché nella storia del pensiero occidentale il neoplatonismo è stato indubbiamente una delle voci più potenti, più insistenti e continue, che si è sviluppata non solo nell'antichità, ma anche nel medioevo e lungo tutta la filosofia moderna, fino ad arrivare alla filosofia contemporanea: non sarebbe difficile, infatti, mostrare la sopravvivenza del neoplatonismo anche nella filosofia odierna. La metafisica neoplatonica sotto molti aspetti, per la sua ispirazione religiosa, per il suo carattere coinvolgente anche dal punto di vista affettivo e per la sua capacità di entusiasmare, oggi forse può sembrare più attraente della metafisica classica intesa nel senso più tradizionale.

E' significativo, per esempio, che in una delle collane pubblicate dal Centro di metafisica dell'Università cattolica di Milano siano stati tradotti non solo i libri di tutti gli esponenti della Scuola di Tubinga, ma anche quelli di uno storico della filosofia di notevole statura, Werner Beierwaltes, che vogliono proprio mostrare la continuità tra il platonismo, il neoplatonismo antico e la filosofia moderna e contemporanea.

Nel libro Identità e differenza di Beierwaltes c'è un capitolo su Heidegger, che nell'edizione originale non stava all'ultimo posto, mentre nelle traduzione italiana è stato spostato e collocato all'ultimo posto, per mostrare che esso rappresenta proprio il punto di arrivo dell'intera vicenda. In esso Beierwaltes sostiene che, quando Heidegger accusa l'intera metafisica occidentale di "oblìo dell'essere", commette un solo errore storico inspiegabile, cioè ignora completamente Plotino e il neoplatonismo. Questa invece sarebbe, secondo Beierwaltes, l'unica filosofia non accusabile di avere dimenticato l'essere, perché nel neoplatonismo sarebbe appunto presente quella concezione dell'essere che viene riproposta da Heidegger, cioè quella che Heidegger accusa tutte le altre filosofie di avere dimenticato. Io qui non mi pronuncio circa il valore di questa interpretazione: registro un fatto come sintomo di una certa tendenza oggi diffusa. Questo, mi sembra, è un caso evidente di identificazione tra il lavoro storiografico ed il lavoro teoretico, poiché nel lavoro storiografico vengono proposte delle posizioni filosofiche come dotate di valore anche teoretico.

Certo, si potrebbe dire che nei confronti di Platone questa operazione è stata fatta sempre: già i neoplatonici hanno cercato di resuscitare Platone e la stessa cosa ha fatto il platonismo dell'umanesimo e del rinascimento, per non parlare del platonismo della Scuola di Cambridge, di un certo platonismo di Kant, del platonismo implicito nelle filosofie romantiche, ad esempio in Schelling, ma anche in Hegel. Quindi c'è sempre stato un platonismo perenne, ma oggi esso viene riproposto in modo esplicito, deciso, senza esitazioni, con un'operazione che forse un decennio fa sarebbe stata impensabile o sarebbe stata subito scoraggiata.

Un fenomeno analogo, di dimensioni ancora più vaste, si deve registrare a proposito di Aristotele. Quando, trentacinque anni fa, ho cominciato ad occuparmene, non avrei mai immaginato che negli anni Settanta ed Ottanta di questo secolo Aristotele sarebbe rientrato in maniera così prepotente nel dibattito filosofico attuale, costituendone uno dei principali punti di riferimento. Anche per Aristotele si può dire che c'è sempre stata, nella storia del pensiero, una serie di tentativi di riproporlo, specialmente ad opera della scolastica. Ma oggi ci troviamo di fronte ad una situazione curiosa, perché i tradizionali difensori di Aristotele, che erano i tomisti, prendono sempre più le distanze da questo pensatore e sottolineano, al contrario, l'originalità di san Tommaso, come se il rischio di passare per aristotelici li preoccupasse. Invece Aristotele viene riscoperto in aree culturali che tradizionalmente sembravano lontanissime dal suo orientamento.

Faccio soltanto due esempi, ma sono esempi significativi, perché riguardano l'ermeneutica e la filosofia analitica, cioè due fra le più importanti correnti del pensiero contemporaneo. All'origine dell'ermeneutica contemporanea c'è, come è noto, Heidegger. Franco Volpi, nel suo Heidegger e Aristotele (Padova, Daphne, 1984), ha dimostrato l'esistenza di un'appropriazione addirittura "vorace" di Aristotele da parte di Heidegger, verificatasi soprattutto nel corso degli anni Venti e Trenta, cioè nel periodo dei corsi di Marburgo e dei primi corsi di Friburgo, all'incirca fino al momento della famosa "svolta". Volpi ha mostrato come le diverse tappe dello sviluppo del pensiero di Heidegger coincidano con altrettanti tentativi, compiuti dal filosofo tedesco, di appropriarsi di quelli che per Aristotele erano i significati fondamentali dell'essere, disposti in ordine successivo.

Quando Heidegger era ancora cattolico, studiava teologia e filosofia scolastica ed aspirava a diventare gesuita - notizie interessantissime messe in luce dalla recente biografia di Hugo Ott — il libro fondamentale a cui egli si richiamava era quello di Franz Brentano sui molteplici significati dell'essere in Aristotele. Sulla scia di questo libro Heidegger credette di avere identificato nella sostanza (ousìa ) il senso autentico dell'essere. Poi conobbe Husserl, ebbe una trasformazione profonda nel suo pensiero, abbandonò questa posizione, cioè la scolastica, l'orientamentio metafisico che aveva caratterizzato i primi anni dei suoi studi filosofici, ma scoprì di nuovo in Aristotele un altro significato fondamentale dell'essere, assumendolo come espressione della propria stessa posizione, cioè l'essere come vero, la verità (alètheia ) intesa come svelamento, manifestazione.

Negli anni di insegnamento a Marburgo il filosofo di cui Heidegger parlava di più era Aristotele. Ci sono, a questo riguardo, testimonianze di Gadamer interessantissime: chi andava a Marburgo ad ascoltare Heidegger, lo faceva per sentire che cosa questi diceva di Aristotele. Sui banchi dell'aula di Marburgo c'erano Gadamer, Joachim Ritter, Hannah Arendt, Günther Anders, Karl Löwith, Hans Jonas ed altri tra quelli che sono diventati i maggiori filosofi contemporanei, e tutti seguivano i corsi di Heidegger su Aristotele. Poi avvenne l'incontro di Heidegger con Nietzsche, cioè la "svolta", ma ancora una volta Heidegger trovò in Aristotele uno dei significati fondamentali dell'essere, l'essere come atto (enérgeia), che poi egli interpretò come physis, cioè come nascere, come emergere, come uno svelarsi che è anche un donarsi, insomma come "evento" (Ereignis). Il seminario del 1940 sul II libro della Fisica di Aristotele, Sull'essenza e sul concetto della physis , mostra quanta importanza Heidegger attribuisse a queste nozioni, per non parlare dell'uso, appunto "vorace", della filosofia pratica di Aristotele e in particolare delle fondamentali categorie elaborate nell'Etica Nicomachea (theorìa, praxis, poiesis ) e del concetto di phrònesis , che si trova già in Essere e tempo .

Da quest'ultimo ha preso inizio la cosiddetta rinascita, o riabilitazione, della filosofia pratica di Aristotele, documentata dalla famosa raccolta curata da M. Riedel, che è stata uno dei fenomeni più significativi del dibattito filosofico in Germania negli anni Sessanta e Settanta. Nel 1960 Gadamer pubblicò Verità e metodo , dove c'è un capitolo dedicato alla filosofia pratica di Aristotele, presentata dall'autore come il modello della sua stessa ermeneutica. All'interno della filosofia pratica aristotelica Gadamer individua nel concetto di phrònesis il momento più alto, quello che per lui conserva un valore ancora oggi. Infatti nei suoi scolari, per esempio in Ruudiger Bubner, questo concetto viene riproposto.

L'attenzione per la filosofia pratica di Aristotele si ritrova anche nell'altra scuola che, contemporaneamente a quella di Gadamer, è tornata ad occuparsi di questi temi, cioè la scuola di Joachim Ritter, il quale, da neohegeliano, trova facilmente il modo di conciliare, in nome dell'eticità, l'ethos di Aristotele con la Sittlichkeit di Hegel. Negli scolari di Ritter, per esempio in Günther Bien e Andreas Kamp, il discorso continua e costituisce ancora oggi uno dei punti di riferimento della filosofia in Germania.

L'interesse per la filosofia pratica di Aristotele è conseguente alla crisi delle scienze sociali, prodotta dalla critica della Scuola di Francoforte alla sociologia weberiana di tipo avalutativo. Oggi c'è bisogno di fondare giudizi di valore, prese di posizione critiche, non solo descrittive, nei confronti della realtà politico-sociale. La rinascita di interesse per la filosofia pratica, che è stata chiamata, con un intento lievemente polemico, "riabilitazione" da parte di Riedel, il quale non la condivide, si è diffusa anche in altre aree culturali, ad esempio in quella inglese ed in quella nordamericana.

Per l'area inglese non si può parlare di una vera rinascita dell'interesse per Aristotele, perché in essa questo non era mai morto, era sempre esistito e quindi non poteva rinascere. Ma in Inghilterra e negli Stati Uniti filosofi come Williams, MacIntyre e Jonas ripropongono oggi nelle loro trattazioni di etica concetti che risalgono fondamentalmente ad Aristotele. In Dopo la virtù di Alasdair MacIntyre c'è proprio l'indicazione della posizione aristotelica come unica alternativa possibile a Nietzsche: questi ha distrutto il progetto illuministico di un'etica fondata razionalmente; l'unica alternativa ancora possibile, cioè non distrutta da Nietzsche, è Aristotele, vale a dire un'etica fondata sulla virtù intesa come abitudine, come tradizione, come consuetudine propria di una comunità (perciò questa filosofia è stata chiamata anche "comunitarismo").

Un discorso analogo fa Bernard Williams, quando sottolinea, in Sorte morale, l'importanza del carattere: il carattere è l'ethos di cui parlava Aristotele. Se si ha un carattere, dice Williams, non c'è bisogno di darsi un metodo, mentre "si on n'a pas de caractère, il faut se donner une méthode", come diceva Pascal. Insomma, secondo Williams, vanno alla ricerca di un'etica filosofica soltanto coloro che non hanno un ethos , un'etica vissuta: questo è il senso, in una certa misura aristotelico, della sua proposta.

Troviamo poi una presenza di Aristotele in un autore oggi tornato alla ribalta come moralista, dopo che negli anni Trenta aveva fatto studi di storia della filosofia ed in particolare sullo gnosticismo antico, Hans Jonas, scomparso nel febbraio 1993. Jonas, nel libro Il principio responsabilità, dichiara apertamente di rifarsi ad una visione teleologica della natura, che è quella di Aristotele e che è l'unica, a suo giudizio, capace di fornire degli orientamenti, dei criteri in materia di etica dell'ambiente e di bioetica.

Infine ho ritrovato una presenza di Aristotele persino in studiosi che non sono filosofi di professione, come l'economista di origine indiana, ma professore a Harvard, Amartya Sen. Questi polemizza con Rawls, insistendo sulla necessità di avere un concetto di "bene", non solo un concetto di "giusto", da proporre agli uomini. Secondo Rawls, che è un neocontrattualista di tendenza kantiana, nessuno ha il diritto di indicare agli altri quale è il bene, ossia in che consiste la felicità, perché ciascuno deve potersi scegliere il proprio bene da sé, secondo un proprio progetto di vita. Bisogna assicuare a ciascuno la libertà, cioè le condizioni che gli consentano di perseguire poi il bene che si sarà scelto.

Sen non è d'accordo con questo discorso e cita il caso di chi non ha avuto nessuna cultura, nessuna educazione. Egli porta l'esempio di certe donne che vivono in India e trascorrono l'intera vita senza maai uscire di casa: ad una persona che si trovi in queste condizioni, quale senso ha proporre semplicemente la libertà come possibilità di scelta, che cosa può mai scegliere chi si trova in una simile situazione? Perciò, conclude Sen, bisogna proporre un idale di vita nella quale si realizzino completamente le possibilità, anzi le capacità, che sono proprie degli esseri umani. Questo è il concetto aristotelico della vita buona, della vita perfetta, della felicità intesa come piena realizzazione della propria natura, ovvero delle proprie capacità. Quando a Sen è stato fatto notare che egli era aristotelico, si è messo a leggere Aristotele ed ha convenuto che questa era effettivamente la sua posizione.

Tutto questo è filosofia teoretica o storia della filosofia? L'una e l'altra cosa insieme, perché non c'è dubbio che studiosi come Williams, come MacIntyre, come Gadamer, ma prima ancora come Heidegger, siano anche dei validi storici della filosofia. Heidegger, ad esempio, era un filologo che non aveva nulla da imparare, che conosceva perfettamente gli strumenti del mestiere anche come filologo, come pure Gadamer. Le prime opere di Gadamer sono opere di filologia, cioè di storia della filosofia, eppure oggi Gadamer è considerato uno dei massimi filosofi viventi.

Gli esempi sipotrebbero moltiplicare. Prendiamo Kant. Anche Kant continua ad essere presente nel dibattito filosofico attuale, con tutte le sue opere. Per procedere molto sbrigativamente, basta ricordare che la Critica della ragion pura ha influenzato profondamente l'epistemologia di Popper, come Popper stesso riconosce, sottolineando l'importanza degli elementi teorici a priori che precedono l'osservazione empirica e condizionano la ricerca. La Critica della ragion pratica è alla base di varie correnti di etica specialmente in Germania, come l'etica della comunicazione di Apel e l'etica dell'argomentazione di Habermas: entrambe riconoscono infatti la necessità dell'universalizzabilità come criterio della moralità di una norma, cioè un criterio di origine chiaramente kantiana. Lo stesso richiamo al trascendentale, presente in Apel, è anch'esso un tratto di origine kantiana, esplicitamente riconosciuto da questo pensatore.

Si potrebbe citare anche la Critica del Giudizio : pensatori come Hannah Arendt e i suoi seguaci, Ernest Vollrath e Klaus Held, cercano nella "facoltà del Giudizio" scoperta da Kant il punto di riferimento non solo per il giudizio estetico e teleologico, come avveniva in Kant, ma anche per il giudizio pratico e specificamente etico. In Vollrath questa tendenza è evidentissima, ma pare che sia presente anche negli ultimi corsi di Hannah Arendt, relativi alla parte della Vita della mente che non è stata pubblicata dall'autrice. E' noto, infatti, che la Arendt ha pubblicato solo le parti relative al "pensare" ed al "volere", mentre la terza era proprio quella relativa al "giudicare", secondo la tripartizione delle Critiche kantiane.

Non parlo di Hegel, per il quale basta citare gli studi di M. Riedel, i quali documentano la presenza continua, quasi massiccia, del filosofo di Stoccarda nel dibattito filosofico del nostro secolo.

Un cenno soltanto alla filosofia analitica. Dopo l'ultimo Wittgenstein la filosofia analitica è divenuta analisi del linguaggio ordinario e non più soltanto del linguaggio scientifico. Pensatori come Austin, Ryle e Strawson, che formano la cosiddetta Scuola di Oxford, hanno immediatamente individuato nel pensiero di Aristotele l'apparato categoriale che fornisce gli strumenti più adeguati all'analisi del linguaggio ordinario. Penso all'articolo di Ryle, Categories , e al suo concetto di schemi categoriali, transcategoriali o transdipartimentali, di cui si egli si serve nell'analisi del linguaggio. Penso al libro di Strawson, Individuals , dove i cosiddetti particolari di base sono in definitiva proprio ciò che Aristotele chiamava le "sostanze prime", cioè gli individui situati nello spazio e nel tempo, a cui vengono riferiti i "sortali", cioè i generi e le specie, i concetti che li qualificano e ne consentono l'identificazione e la reidentificazione.

Il concetto aristotelico di sostanza individuale è alla base dell'opera di uno dei priù recenti esponenti della filosofia oxonienese, David Wiggins, autore del libro Sameness and Substance , relativo al problema dell'identità in generale e dell'identità personale in particolare, tema molto dibattuto nella tradizione filosofica inglese a partire da Locke e Hume. Wiggins si richiama esplicitamente ad Aristotele ed alle sue categorie per la soluzione dei suddetti problemi. Bisognerebbe segnalare infine l'uso dell'etica, cioè della filosofia pratica, di Aristotele che si è avuto in Inghilterra da parte degli allievi di Wittgenstein, cioè Elizabeth Anscombe, che nel libro Intention delinea la logica dell'agire rifacendosi al sillogismo pratico di Aristotele, e Georg H. von Wright, che per la distinzione fra Spiegazione e comprensione si richiama anch'egli continuamente ad Aristotele.

Mi domando se tutto ciò è storia della filosofia o filosofia teoretica: non è né storia fine a se stessa, né teoresi pura, priva di riferimenti storici, ma filosofia, cioè attività del filosofare, la quale non può essere altro che un "confilosofare" con i classici, cioè con i grandi filosofi del passato.