Il problema dell'essere

e le regioni dell'essere

Enrico Berti

 

La filosofia greca è stata la prima forma di cultura che ha esplicitamente tematizzato l'essere, inaugurando quel tipo di riflessione che poi, in età moderna, è stato chiamato "ontologia", cioè studio sull'essere (dal greco on-ontos = essere). La prima tematizzazione esplicita dell'essere, nella filosofia greca, si è avuta ad opera di Parmenide, per il quale il pensare e il dire sono necessariamente pensare e dire l'essere. In Parmenide, tuttavia, non si può parlare di una "questione dell'essere", perché l'essere non costituisce un problema, ma è l'unica possibilità che si offre al pensiero e al discorso umano; né, per la stessa ragione, si può parlare di "regioni dell'essere", perché l'essere è l'unica realtà, omogenea, indivisa, tutta uguale in ogni sua parte.

La questione dell'essere è stata formulata esplicitamente da Aristotele nei seguenti termini: "ciò che, sia in antico che oggi, è sempre ricercato e sempre discusso, ossia che cos'è l'essere" (Metaph. VII 1, 1028 b 2-4). Con tale formulazione Aristotele ha riconosciuto che la medesima questione si era posta anche in antico e che continuava a porsi anche al tempo suo. Anche Parmenide, infatti, aveva implicitamente risposto a tale questione, indicando, come abbiamo detto, un'unica realtà, l'essere stesso. A seconda che tale questione abbia ricevuto una risposta semplice, cioè univoca, oppure una risposta complessa, cioè articolata, l'essere è stato considerato una realtà unica o molteplice, omogenea o divisa in una pluralità di regioni.

I filosofi greci immediatamente posteriori a Parmenide e anteriori a Platone hanno condiviso la concezione parmenidea dell'essere, sottolineando l'unità e l'immutabilità di questo (Zenone) o attribuendogli un carattere materiale (Melisso); oppure hanno infranto l'unità dell'essere, conservando tuttavia l'omogeneità e l'immutabilità delle sue parti, fossero queste i quattro elementi (Empedocle), i semi di tutte le cose (Anassagora) o gli atomi (Leucippo e Democrito). La concezione di Parmenide è stata poi capovolta, e quindi rifiutata, ma conservata intatta intatta in tale rifiuto, da Gorgia, il quale ha negato che il pensiero e il discorso abbiano per oggetto l'essere, e ha fatto del logos una realtà assoluta, capace di produrre un'apparenza di essere, e quindi di prenderne il posto.

Platone è il primo che ha distinto più regioni dell'essere, o meglio ha distinto un essere in senso pieno, completo, assoluto, e un essere, per così dire, dimezzato, cioè a metà strada tra l'essere pieno e il nulla; più in generale egli ha introdotto nell'essere una distinzione di gradi, cioè di intensità, di valore, di perfezione, distribuendo le regioni dell'essere in una gerarchia di piani digradanti tra l'essere assoluto e il nulla. Aristotele ha fatto un altro tipo di operazione, cioè ha distinto non diversi gradi, ma diversi sensi dell'essere, e corrispondentemente diverse regioni, costituite da generi di essere diversi l'uno dall'altro, anche se pur sempre dipendenti l'uno dall'altro. Dopo Aristotele, tuttavia, e con l'eccezione degli Stoici, si è avuto nella filosofia greca sostanzialmente un ritorno alla concezione dell'essere di Platone, la quale, attraverso il medioplatonismo e il neoplatonismo, si è imposta ai filosofi delle grandi religioni monoteistiche, cioè il giudaismo (Filone), il cristianesimo (Agostino e poi la Scolastica medioevale) e l'islamismo (la filosofia medioevale araba).

 

 

1. La "scoperta" dell'essere e la sua negazione

La prima tematizzazione esplicita dell'essere, e perciò la sua "scoperta", è avvenuta, come abbiamo detto, ad opera di Parmenide. Questi ha presentato, infatti, come rivelazione di una "dea", da ritenersi quindi espressione della verità, l'affermazione che, in linea di principio, due sole "vie", cioè due possibilità, sarebbero aperte al pensiero: l'una consistente nel pensare "che è (estin) e che non è possibile che non sia", l'altra consistente nel pensare "che non è (ouk estin) e che è necessario che non sia". Ma subito dopo ha aggiunto, sempre per bocca della dea, che la prima via è quella conforme a verità, della quale dunque si deve essere persuasi, mentre la seconda è impercorribile, perché "il non essere" (to me eon) non può essere né pensato né detto (fr. 2 Diels-Kranz).

Probabilmente, identificando la prima via, cioè la via della verità, col pensare "che è", Parmenide si riferiva a tutti i pensieri espressi da affermazioni vere ed aventi il verbo essere in posizione tanto di copula quanto di predicato. Sarebbe anacronistico, infatti, supporre che egli avesse già chiara la distinzione tra copula e predicato, o quella tra predicato di tipo semplicemente attributivo, predicato di tipo esistenziale e predicato di tipo veritativo. Inoltre, come si desume dal motivo per cui giudicava impercorribile la seconda via, Parmenide riteneva che tali pensieri, o affermazioni, equivalessero a pensare e, rispettivamente, dire "l'essere" (to eon). In tal modo la copula o il predicato "è" venivano, per così dire, trasformati nell'indicazione di un oggetto esistente in sé, ovvero di una realtà oggettiva, la quale diventava a sua volta soggetto del verbo essere.

Ciò risulta chiaramente da un frammento successivo, dove Parmenide afferma: "è necessario dire questo e pensare questo: che l'essere è (eon emmenai); poiché è possibile [solo] che [l'essere] sia, mentre non è possibile che il niente [sia]" (fr. 6). Qui il pensare e dire "che è" diventa pensare e dire "che l'essere è", dove l'"essere", o "ente", è ciò che è, cioè è il soggetto di cui viene affermato, come predicato, l'essere inteso come verbo. Il motivo per cui si deve pensare e dire che l'essere è, è l'impossibilità di pensare e dire il nulla, ovvero il non-ente, anzi di pensare e dire che il nulla è. Ciò è ribadito da un altro frammento, famoso perché citato alla lettera tanto da Platone quanto da Aristotele, il quale recita: "infatti mai non domerai questo, che i non-enti siano" (fr. 7). Qui non è chiaro che cosa significhi "domare": può significare tanto "imporre con la forza" quanto "rendere accettabile". In ogni caso il significato complessivo della frase è l'impossibilità che i non-enti siano.

Se poi ci si chiede per quale ragione Parmenide avesse individuato nel verbo "essere" l'unico capace di esprimere la verità, e quindi nell'essere l'unico oggetto possibile del pensiero, è probabile che ciò sia dovuto al fatto che questo verbo è l'unico che, nella lingua greca, permette di esprimere, come predicato o come copula, tutte le verità. Dirà infatti più tardi Aristotele che espressioni come "uomo cammina" o "uomo taglia" sono perfettamente equivalenti a espressioni come, rispettivamente, "uomo è camminante" e "uomo è tagliante" (Metaph. V 7, 1017 A 27-307. Questo fatto, cioè la funzione, per così dire, di vicario universale di tutti i verbi, propria del verbo "essere", doveva essere nota già a Parmenide.

Ciò tuttavia che colpisce nella dottrina di Parmenide non è solo questa scoperta, cioè la scoperta che il pensare vero e il dire vero sono sempre un pensare e un dire l'essere, ma anche l'affermazione, ad essa immediatamente connessa, che la verità del pensare e del dire è sempre e soltanto una verità necessaria, cioè che il pensare e il dire l'essere non solo affermano come stanno le cose, ma anche affermano che esse non possono stare diversamente. Abbiamo visto, infatti, che per il filosofo di Elea la prima via, l'unica percorribile dal pensiero e dotata di verità, consiste non solo nel pensare "che è", ma anche nel pensare "che non è possibile che non sia". Ora, se tale pensare si esprime nella formula "l'essere è" (fr. 6 già citato), tale formula significa, in base alla precedente dichiarazione, anche che "l'essere non può non essere", cioè è necessariamente. Insomma Parmenide, nel momento in cui scopre l'essere, lo concepisce come un essere necessario, sia che si tratti dell'essere copulativo sia che si tratti di quello esistenziale o veritativo.

Non è chiaro quale sia la ragione di questa concezione, cioè che cosa abbia indotto Parmenide a pensare che l'essere, ossia tutto ciò che è, sia necessario, ossia non possa non essere. Qualcuno ha ritenuto che ciò dipenda dal fatto che il verbo essere in greco, come i verbi equivalenti nelle lingue indoeuropee, possiede un significato — nato forse da una contaminazione delle sue diverse radici — che si lascia sintetizzare intorno all'idea di "presenza perdurante", o di "permanenza", per cui si oppone al divenire (P. Aubenque, Syntaxe et sémantique de l'être dans le poème de Parménide, in Etudes sur Parménide, Paris, Vrin, 1987, II, pp. 132-133). Forse la stessa contrapposizione stabilita da Parmenide tra l'essere e il non essere ha indotto questo filosofo a credere che l'essere non possa in alcun modo non essere, cioè, per dirla in termini post-parmenidei, che l'essere sia un essere per essenza, abbia come sua unica essenza l'essere stesso.

In ogni caso questa concezione ha delle conseguenze molto importanti, che fanno della filosofia di Parmenide una filosofia del tutto particolare e diversa da ogni altra. L'essere di cui egli parla, infatti, è un essere eterno, di cui non si può dire né che era né che sarà, ma solo che "è ora", cioè in un presente intemporale; esso, inoltre, non si genera né si corrompe, perché dovrebbe generarsi dal non essere o corrompersi nel non essere, il quale invece non è. Tale essere inoltre è "uno", "continuo", cioè senza intervalli, "omogeneo", cioè tutto uguale, "compatto", "immobile", "permanente", cioè sempre uguale a se stesso, "finito", nel senso di perfetto, cioè non mancante di nulla, "simile alla massa di una sfera ben rotonda" (fr. 8).

Si comprende come, a causa di queste caratteristiche, l'essere di Parmenide sia stato considerato una specie di Dio, unico ed eterno, simile a quello delle religioni monoteistiche (questo del resto era il pensiero di Senofane, maestro o amico di Parmenide), con la differenza però che accanto a questo Dio, per Parmenide, non esiste niente altro, e quindi in un certo senso tutto è Dio. Il mondo, infatti, della molteplicità e del divenire, di cui abbiamo esperienza attraverso i sensi, per Parmenide è oggetto non di vera conoscenza, ma soltanto di opinione (doxa) del tutto priva di verità, cioè non possiede alcuna vera realtà, ma è soltanto apparenza. Di tale apparenza Parmenide cerca di rendere ragione, elaborandone, nella seconda parte del suo poema, una complessa spiegazione che la riconduce a due princìpi opposti, la luce e le tenebre.

Tra i discepoli di Parmenide qualcuno, come Zenone, tenterà di dimostrare, mediante i famosi argomenti di Achille e la tartaruga, della freccia, dello stadio, ecc., che il movimento non esiste e che non esiste nemmeno la molteplicità, perciò tutte le cose si riducono ad una sola, l'essere immobile e unico; qualcun altro, come Melisso, interpreterà l'eternità dell'essere di Parmenide come durata in un tempo infinito e vi aggiungerà l'infinità nello spazio, rivelando in tal modo la tendenza a considerare tale essere come materiale. Perciò Aristotele dirà che, mentre l'essere di Parmenide è "uno secondo la nozione", cioè ha un unico significato, ma non è materiale, quello di Melisso è "uno secondo la materia", cioè è un'unica massa di materia (Metaph. I 5, 986 b 18-21). In tutte queste dottrine non è il caso di parlare di "regioni" dell'essere e, se si deve cercare una risposta alla domanda, che sarà formulata da Aristotele, "che cos'è l'essere?", tale risposta non può che essere: "l'essere è una cosa sola, cioè l'essere stesso".

Questa concezione dell'essere come unico, omogeneo e tutto uguale, che si accompagna in Parmenide alla scoperta di esso, è anche ciò che ha reso possibile, nell'ambito della stessa filosofia precedente a Platone, la negazione più radicale dell'essere, della sua pensabilità e della sua dicibilità, che si sia mai avuta nella storia della filosofia occidentale, cioè quello che potremmo chiamare il nichilismo di Gorgia. Questi in un trattato che già nel titolo si contrapponeva a quelli dei filosofi eleati, cioè Sul non essere, ovvero sulla natura, sostenne appunto tre famose tesi, che sono il contrario esatto di quelle sostenute da Parmenide, cioè: 1) l'essere non è; 2) se anche fosse, non potrebbe essere pensato; 3) se anche potesse essere pensato, non potrebbe essere detto, cioè comunicato.

Come si desume dal trattato attribuito ad Aristotele De Melisso, Xenophane et Gorgia , che è la più antica testimonianza relativa al suo pensiero, Gorgia sosteneva la prima tesi, cioè che l'essere non è, con vari argomenti, desunti per lo più dai filosofi precedenti e consistenti nel mostrare le contraddizioni tra le concezioni dell'essere da questi professate. Ma prima di addurre questi argomenti Gorgia aveva formulato una propria dimostrazione di tale tesi, la quale suonava così: "Se il non essere è non essere, il non essere non sarà nulla di meno dell'essere. Il non essere, infatti, è non essere, così come l'essere è essere, sicché le cose non saranno per nulla essere più che non essere" (op. cit., 979 a 25-28). Da ciò Gorgia traeva la conseguenza che, se il non essere non è nulla meno dell'essere, allora esso è allo stesso titolo per cui è l'essere; ma, poiché l'essere è l'opposto del non essere, se il non essere è, allora l'essere non è, come volevasi dimostrare.

Qui, come si vede, Gorgia argomenta partendo esattamente dalle premesse poste da Parmenide, ossia che l'essere è essere, che il non essere è non essere, e che essere e non essere sono tra loro opposti. Il suo argomento consiste nel rilevare che la semplice identità con se stesso non conferisce all'essere nessun primato rispetto al non essere, perché essa vale anche per quest'ultimo, e dunque consente in definitiva l'identificazione tra i due opposti, ossia proprio ciò che Parmenide voleva evitare. E' singolare la coincidenza tra questa argomentazione e quella messa in atto da Hegel all'inizio della sua Logica, dove l'essere e il non essere vengono ugualmente identificati. Hegel tuttavia indica anche la ragione di questa identificazione, cioè l'assoluta indeterminatezza del concetto di essere, che equivale all'assoluta indistinzione dei suoi significati.

In Parmenide infatti, come in Gorgia, non esiste alcuna distinzione tra i diversi significati che possono appartenere all'essere e al non essere: ciò consente a Gorgia di confondere il significato copulativo con quello esistenziale, cioè di concludere che, se il non essere è non essere, esso è qualcosa, dunque esiste. Tale confusione sarà smascherata solo da Aristotele, grazie proprio alla sua teoria della distinzione tra i significati dell'essere. Questi infatti osserverà, con probabile allusione a Gorgia: "l'essere qualcosa (to einai ti) e l'essere [puro e semplice] non sono lo stesso, poiché non è vero che, se il non essere è qualcosa, esso sia anche semplicemente (kai estin haplôs)" (Soph. el. 25, 180 a 36-38).

La seconda tesi di Gorgia, cioè che l'essere non può essere pensato, veniva poi da lui dimostrata nel modo seguente: ciò che non è, può essere pensato, come ad esempio Scilla o la Chimera, che non sono e tuttavia sono da noi pensate; ma ciò che è, essendo l'opposto di ciò che non è, deve avere proprietà opposte, perciò, se ciò che non è, può essere pensato, ciò che è non può essere pensato (fr. 3 Diels-Kranz = Sesto Empirico, Adv. math. VII 80). La stessa dimostrazione è riferita nel De Melisso, Xenophane et Gorgia come segue: se solo l'essere può essere pensato, allora tutto ciò che può essere pensato, deve essere, compreso il non essere; infatti noi possiamo pensare dei cocchi che corrono a gara sulla superficie del mare, dunque questo dev'essere, mentre esso è manifestamente falso, cioè non è (op. cit., 980 a 9-14). Insomma, secondo Gorgia, la tesi di Parmenide, che identifica l'essere con ciò che può essere pensato, porta a negare l'esistenza del falso, il che è assurdo. Dunque non è vero che solo l'essere può essere pensato.

Infine la tesi che l'essere non può essere detto, cioè comunicato, è dimostrata da Gorgia mediante l'osservazione che le parole non comunicano le cose, perché sono anch'esse cose e, come tali, sono diverse dalle cose che dovrebbero comunicare: per esempio la parola che dovrebbe comunicare un colore è diversa dal colore, perché questo si vede, mentre quella si ode. Dunque gli uomini non possono comunicarsi tra di loro le cose che percepiscono (op. cit., 980 a 20-b 20). Come si vede, qui Gorgia ignora, o deliberatamente trascura, il carattere semantico delle parole, cioè la loro capacità di significare cose diverse da se stesse.

Questo lo induce a fare del linguaggio, anzi del discorso (logos), una realtà per così dire chiusa in se stessa, che non allude ad altro, ed ha pertanto un valore assoluto, come si desume dalla famosa affermazione contenuta nell'Encomio di Elena, secondo la quale Elena di Troia non fu colpevole dell'abbandono del marito, perché fu sedotta dal discorso di Paride, e "il discorso è un grande signore (dynastes mega), che con un corpo piccolissimo e invisibilissimo riesce a compiere cose divinissime" (fr. 11, Diels-Kranz, § 8). Questa dottrina giustifica la grande importanza attribuita da Gorgia alla retorica, che è appunto l'arte di produrre discorsi, i quali non comunicano l'essere, ma per così dire lo creano, e quindi ne prendono il posto. Se Parmenide, insomma, ha creato l'ontologia, Gorgia vi sostituisce, come è stato detto, la "logologia" (B. Cassin, L'effet sophistique, Paris, Gallimard, 1995).

2. Le regioni dell'essere e la partecipazione

La concezione dell'essere proposta da Parmenide viene in parte ripresa da Platone, nel senso che anche per questo filosofo l'essere in senso proprio è soltanto ciò che non muta, ma rimane stabile. Ma Platone introduce nella sua concezione dell'essere due importanti differenze rispetto a quella di Parmenide: l'essere in senso proprio, pur essendo immutabile, non è tuttavia uno, bensì è molteplice, cioè è costituito da una molteplicità di enti, diversi l'uno dall'altro; inoltre ciò che non è in senso proprio, vale a dire ciò che muta, ciò che diviene, non è puro nulla, o semplice apparenza, come per Parmenide, bensì è anch'esso essere, sia pure in un senso improprio, o in un grado inferiore. In Platone pertanto, o almeno nei suoi dialoghi della maturità, in cui viene esposta la cosiddetta dottrina delle idee, l'essere viene a essere diviso in due regioni: quella dell'essere immutabile, che ha diritto ad essere considerato essere di per se stesso, e quella dell'essere mutevole, che può essere considerato essere solo a causa del suo rapporto con il primo.

Platone riesce a concepire l'essere in senso proprio come immutabile e al tempo stesso come molteplice, perché considera l'essere non soltanto come essere puro e semplice, senza ulteriori specificazioni, bensì come "essere qualcosa" (einai ti), per esempio essere bello, essere buono, ecc. Ora, ciò che è bello, può essere bello sempre, oppure essere bello in un momento e non esserlo in un altro. Solo il primo di questi due enti, per Platone, è veramente bello, cioè è "il bello stesso" (autò to kalon), quello che può essere detto bello con verità. In generale, per Platone, una cosa è quello che è, solo quando lo è sempre, e quindi può essere conosciuta come tale in modo sicuro, mentre di ciò che non è mai allo stesso modo, non si può nemmeno dire che sia veramente quello che è, né si può avere conoscenza sicura, cioè stabile (Crat. 439 C-440 C).

Le cose che sono sempre quello che sono, cioè "il bello stesso", "il buono stesso", "il giusto stesso", cioè tutte quelle di cui possiamo dire che sono "ciò stesso che [la cosa] è" (auto ho esti), sono chiamate da Platone "idee" e formano la cosiddetta ousìa, sostantivo astratto derivato dal participio presente del verbo "essere", traducibile con "essenza", o "sostanza", o "realtà". Di esse Platone afferma che "sono quanto più è possibile" (einai hos oion te malista) ciò che sono, ossia che possiedono la caratteristica di cui sono espressione nel grado più alto, ovvero in modo perfetto (Phaedo 75 C-D, 76 D-77 A). Ad esempio "il bello stesso" è bello quanto più è possibile, cioè in grado massimo. Evidentemente esso è tale rispetto a ciò che, pur essendo bello, non è il bello stesso, e dunque è bello in un grado inferiore. Quest'ultimo è il bello mutevole, cioè le cose belle esistenti nel mondo sensibile.

Per Platone esistono quindi "due generi di enti" (dyo eide ton onton), l'uno invisibile e l'altro visibile. Il primo è "la realtà stessa (aute he ousia) della quale diamo il discorso dell' essere (logon ... tou einai)", ossia la definizione, la quale sta sempre nello stesso modo, ad esempio "il bello stesso", o in generale "ciò stesso che ciascuna cosa è" (auto hekaston ho esti), indicato da Platone anche semplicemente come "l'essere" (to on); il secondo è "ciascuna delle molte cose belle, uomini, cavalli, vestiti o altre cose simili", che hanno lo stesso nome delle prime e sono percepite per mezzo dei sensi (ibid. 78 D-79 A).

Il rapporto tra questi due generi è espresso da Platone mediante il concetto di "partecipazione" (methexis), ovvero di "presenza" (parousìa), o di "comunanza" (koinonia). Egli infatti afferma che, "se c'è qualche altra cosa bella all'infuori del bello stesso, per nessun'altra ragione essa è bella, se non perché partecipa (metechei) di quel bello"; oppure che "niente altro la rende bella, se non la presenza o la comunanza di quel bello" (ibid. 100 C-D). Non è chiaro che cosa significhi esattamente "partecipare": probabilmente prendere parte a qualcosa, o avere in sé una parte di qualcosa, o avere qualcosa in comune con qualcosa. Ma è chiaro che le cose sensibili hanno certi caratteri perché, in un certo senso, li ricevono, o ne ricevono una parte, dalle idee, le quali li possiedono in grado perfetto e dunque superiore. La differenza, tuttavia, che si stabilisce in virtù della partecipazione, è una differenza di grado, non di qualità: per esempio ciò che distingue il bello stesso dalle cose belle percepibili con i sensi, è il grado di bellezza, che nel primo è massimo e nelle seconde è inferiore, non una qualità diversa dalla bellezza.

Altrove Platone caratterizza il rapporto tra le idee e le realtà sensibili in altro modo, cioè mediante il concetto di "imitazione" (mimesis). Ad esempio nel Timeo egli distingue "ciò che è sempre e non diviene mai", ossia il mondo delle idee, da "ciò che diviene sempre e non è mai", ovvero da "ciò che si genera e si corrompe, e non è mai realmente (ontos dè oudepote on)", ossia il mondo sensibile, ed afferma che il primo costituisce il modello (paradeigma) di cui si è servito il demiurgo per fabbricare il secondo, il quale è immagine (eikon) del primo (Tim. 27 D-28 A, 29 B-C). Ma non sembra che tra la partecipazione e l'imitazione ci siano molte differenze: si può dire, infatti, che l'immagine partecipa del modello, nel senso che possiede i medesimi caratteri che il modello ha in grado massimo, ma li ha in grado inferiore.

La differenza tra i due generi di essere è esposta con la massima chiarezza nella Repubblica, dove Platone indica l'insieme delle idee con l'espressione "ciò che è perfettamente" (pantelos on), o anche "ciò che è puramente" (eilikrinos on), aggiungendo che esso è "perfettamente conoscibile" (pantelos gnoston), cioè è oggetto di scienza (episteme), e lo contrappone a "ciò che non è per nulla" (to medamei on), cioè al non essere, il quale è "completamente inconoscibile" (pantei agnoston). Le cose sensibili invece sono qualcosa di intermedio (metaxy) tra l'essere perfetto e il non essere, e sono oggetto di una conoscenza che è a sua volta intermedia tra la scienza e l'ignoranza, cioè l'opinione (doxa) (Resp. V, 477 A-B). Rispetto a Parmenide, dunque, Platone in qualche misura rivaluta il mondo sensibile, perché lo distingue dal non essere, facendone una specie di via di mezzo tra l'essere e il non essere, cioè una realtà dimidiata. D'accordo con Parmenide, invece, egli considera solo l'essere come oggetto di scienza, cioè di conoscenza necessariamente vera, e il mondo sensibile come oggetto di opinione, cioè di una conoscenza che può essere tanto vera quanto falsa.

Forse proprio in quest'ultima distinzione sta la ragione per cui Platone (ma prima di lui Parmenide) concepisce l'essere come immutabile. La scienza, infatti, è conoscenza di rapporti immutabili, che non solo stanno in un certo modo, ma non possono stare diversamente, e dei quali ha senso soltanto dire che "sono", mentre non avrebbe senso dire che "erano" o "saranno". Per esempio la geometria sa che, in un triangolo rettangolo, la somma dei quadrati dei cateti è uguale al quadrato dell'ipotenusa (teorema di Pitagora). Qui non avrebbe senso dire che "era" uguale o che lo "sarà": bisogna dire che lo "è", e che non può non esserlo, esattamente come insegnava la dea di Parmenide nella sua prima via.

Ma nella Repubblica Platone allude anche a qualcosa che è "al di sopra dell'essere", cioè all'idea del bene, "il più grande oggetto di conoscenza" (megiston mathema) per i filosofi, la quale svolge nei confronti delle idee le stesse funzioni che il sole svolge nei confronti delle realtà sensibili, cioè è causa del loro essere (einai) e del loro essere conosciute (gignoskesthai). "Per le realtà conosciute — afferma Platone — non solo il loro essere conosciute deriva dal bene, ma anche il loro essere e la loro essenza (to einai te kai ten ousian) derivano da quello, non essendo il bene un'ousia, ma qualcosa che ancora al di là dell'ousia la supera per anzianità e potenza" (Resp. VI, 504 E-509 B).

L'idea del bene non è solo un'idea, ma è anche principio di tutte le idee, cioè appunto causa del loro essere, perciò, se le idee sono l'essere, essa è al di sopra dell'essere, non nel senso che non sia, ma nel senso che è più dell'essere. Più avanti, infatti, Platone dichiara esplicitamente che essa è "il principio del tutto" (ten tou pantòs archen), cioè non solo il principio delle idee, ma anche, attraverso queste, che sono causa delle cose sensibili, il principio della realtà sensibile. Ma, poiché l'idea del bene è pur sempre un'idea, cioè qualcosa che possiede in grado massimo il carattere della cui presenza essa è causa nelle altre cose, cioè nella fattispecie la bontà, la sua differenza rispetto ad ogni altro essere è pur sempre una differenza di grado. Se essa fosse un essere, sarebbe l'essere supremo, ed essendo causa dell'essere per tutti gli esseri, avrebbe lo stesso essere in grado massimo, cioè sarebbe l'essere stesso.

E nel Timeo Platone allude anche ad un "terzo genere" (triton genos), oltre al modello intelligibile e all'immagine sensibile, cioè al mondo delle idee e al mondo delle cose, che sembra essere anch'esso, come i primi due, un genere di essere: si tratta del "ricettacolo" (hypodoche) di tutto ciò che si genera (Tim. 48 E-49 A), ossia dello "spazio" (chora) in cui si collocano le realtà sensibili. Anche questa realtà "è sempre" (ibid. 52 A), per cui potrebbe essere una terza regione dell'essere, ma Platone ci avverte che essa è "difficile e oscura", attingibile non per mezzo dei sensi, ma di un "ragionamento bastardo", per cui è meglio astenersi dal precisare quale sia il suo tipo di realtà.

Il dialogo in cui Platone tematizza più esplicitamente la questione dell'essere è il Sofista, che per questa ragione fu indicato tradizionalmente anche col titolo Sull'essere. Qui Platone sembra riallacciarsi direttamente alla critica rivolta da Gorgia a Parmenide, per difendere l'esistenza, la pensabilità e la comunicabilità dell'essere contro quella critica, anche a costo di alcune importanti correzioni alla dottrina di Parmenide, che inducono il protagonista del dialogo, un Eleate e quindi un figlio ideale di Parmenide, a parlare di "parricidio". L'ultima, e conclusiva, definizione del "sofista", cui Platone giunge nella prima parte del dialogo, è infatti quella di "creatore di apparenze", cioè di incantatore capace di fare apparire ciò che non è, ovvero di produrre il falso (Soph. 236 C-E). Sembra il ritratto di Gorgia, delineato da lui stesso mediante la sostituzione del logos all'essere.

A ciò Platone contrappone la dottrina di Parmenide, citando esplicitamente il fr. 7: "infatti mai non domerai questo, che i non-enti siano" (Soph. 237 A); ma si rende conto che, sulla base di essa, non è possibile ammettere l'esistenza del falso, cioè di un discorso che pensa e dice ciò che non è, discorso la cui possibilità invece è attestata dall'esistenza stessa del sofista. Perciò Platone fa dire all'Eleate che, "per difenderci", evidentemente dalla critica di Gorgia, bisogna infrangere il divieto di Parmenide, che è come compiere un parricidio, "e imporre con la forza che il non essere in un certo senso (kata ti) è, e l'essere in un certo senso (pei) non è" (ibid. 241 D).

Ma, per mostrare come ciò sia possibile, è necessario anzitutto esaminare che cos'è l'essere (ecco la "questione dell'essere"), cioè vedere come nella filosofia precedente sia stato definito "quanti e quali siano gli enti". Per quanto riguarda il primo problema, cioè quanti siano gli enti, Platone riferisce e critica sia la posizione dei monisti (gli Eleati), sia quella dei dualisti (che riducono tutte le cose a due contrari), manifestando una preferenza per quella dei pluralisti (Empedocle). Per quanto riguarda il secondo, egli riferisce e critica sia la posizione degli "amici delle idee", cioè di coloro che concepiscono l'essere esclusivamente come incorporeo ed immobile, sia quella dei "figli della terra", cioè di coloro che lo concepiscono esclusivamente come corporeo e mobile.

Ad entrambi questi ultimi schieramenti Platone oppone la sua concezione dell'essere come ciò che possiede la potenza sia di fare che di subire, dalla quale consegue che i corpi, per poter agire, devono possedere l'anima, la quale è incorporea, e che le idee, per poter essere conosciute, devono presupporre anch'esse l'esistenza dell'anima, la quale è mobile. Dunque, conclude Platone, "in ciò che è perfettamente (to pantelòs onti)" devono essere presenti il pensiero, perché le idee devono poter essere conosciute, la vita, perché il pensiero è una forma di vita, ed il movimento, perché la vita è una forma di movimento; cioè, in altre parole, deve essere presente l'anima (ibid. 248 D-249 A).

"Ciò che è perfettamente" non può essere che il mondo delle idee, come nella Repubblica. Il fatto che Platone introduca in esso l'anima, e quindi il pensiero, la vita e il movimento, non deve stupire, perché anche nel Timeo , dove egli considera il mondo sensibile come un'immagine del mondo delle idee, concepisce il primo come animato, e pertanto deve concepire come animato anche il secondo, cioè lo stesso mondo delle idee, che viene pertanto ad essere un "vivente perfetto (to pantelei zooi)" (Tim. 31 B). Entrambe le prime due regioni dell'essere, dunque, sono per Platone animate, cioè viventi.

Ora, se nell'essere perfetto ci sono le idee, che sono in quiete, e l'anima, che è in movimento, si dovrà dire che nell'essere ci sono tanto la quiete quanto il movimento, cioè che tanto la quiete quanto il movimento sono generi dell'essere. E se ciascuno di questi due generi è diverso dall'altro, ma identico a se stesso, si dovrà dire che nell'essere ci sono anche l'identico e il diverso, cioè che anche l'identico e il diverso, oltre alla quiete e al movimento, sono generi dell'essere. L'essere dunque è costituito, in tutto, da cinque sommi generi, cioè l'essere stesso, che comprende tutti gli altri, l'identico, il diverso, la quiete e il movimento (254 b-255 E).

Il non essere come diverso.