DIALOGO ED EVANGELIZZAZIONE

NEL MAGISTERO DI PAOLO VI

Ormai in procinto di essere avviato al servizio diplomatico della Santa Sede, così il ventiquattrenne Montini rifletteva sul nuovo ruolo che gli veniva affidato:

Quando penso a me stesso, [...] ancora non trovo la sicurezza di questa mia strada che troppe virtù e troppi sforzi di virilità cristiana domanda per essere pari alle sue mete. L’interpretare il Vangelo in questa lingua è, e dev’essere possibile, ma come, come difficile! Una costanza inflessibile nel vivere pensando il pensiero più complesso: l’evoluzione dell’umanità verso Cristo; un’umiltà fiera e morbida ma sincera, ma superiore, ma impossibile alla mia vanità sottile e volubile; una sicurezza di attesa, di lavoro, di giudizio; una pietà che non cede i suoi impulsi interiori alle infinite distrazioni del di fuori; una mortificazione di spirito che compensi il soverchio degli agi esteriori, una superiorità insomma, che assolutamente, radicalmente mi manca, sarebbero le doti necessarie per poter vivere questo programma con fiducia di non trovarsi in fine a mani vuote. Quanto più si è distanti dalle forme esteriori del Vangelo tanto più ne è necessaria la pratica dello spirito; ma se è difficile la pratica dei paradossi delle virtù cristiane, diventa quasi impossibile il praticarle con mezzi che esse contraddicono fondamentalmente. È vero però che ciò che "presso gli uomini è impossibile, è possibile presso Dio" e che qui si ha la sensazione di sentir pulsare il cuore della Chiesa, che vive di Dio, ma quanto più fortunati sono quelli per cui la Chiesa è il popolo, la folla fedele e senza nome, di quelli che la conoscono e la servono nel suo aspetto burocratico e giuridico!1.

Come si vede, già agli albori del suo ministero presbiterale erano presenti temi che ne avrebbero segnato per sempre la vita: la tensione ad annunciare il Vangelo anche là dove sembra arduo, lo sforzo di individuare le forme e i modi più adatti per quest’opera, l’ascesi che questo impegno comporta, la fiducia nel sostegno divino, il servizio del popolo di Dio... Parlare di dialogo e di evangelizzazione in Paolo VI significa dunque esaminare temi profondamente radicati nella spiritualità del pontefice e costantemente presenti nel suo magistero; temi che attraversano tutta la curva del pontificato, non solo perché punti di riferimento obiettivi e imprescindibili, ma soprattutto come elementi caratteristici e portanti del pensiero e dell’attività pastorale di papa Montini.

Ma come affrontare tale compito? Già ad una prima valutazione delle fonti e degli studi esistenti su tali soggetti erano emersi tre dati fondamentali:

1. vi era un’ingente mole di materiali da vagliare: sia pure trascurando la documentazione reperibile in altre sedi, i 16 volumi contenenti gli Insegnamenti2 e le encicliche3 constavano, da soli, di oltre 19.000 pagine, a cui bisognava aggiungere altri 1200 documenti e interventi ufficiali pubblicati negli "Acta Apostolicae Sedis". La difficoltà già di per sé costituita dalla quantità di fonti era inoltre acuita dalla scarsità e dall’inadeguatezza degli strumenti di lavoro: messi alla prova, ad esempio, gli indici analitici che corredano gli Insegnamenti si sono rivelati insufficienti, perché non sempre affidabili o rispondenti alle esigenze della ricerca, e comunque assai diseguali al loro interno;

2. in secondo luogo, a solo un ventennio dalla scomparsa del pontefice, era prematuro pensare di avvalersi di sintesi già elaborate, come pure di poter individuare un complesso di studi che toccasse l’intero arco di questioni attinenti il nostro soggetto. Numerosi centri, tra i quali spicca l’Istituto "Paolo VI", hanno profuso notevole impegno - di cui è fedele immagine l’Elenchus bibliographicus curato da p. Arató e da Nello Vian4, poi annualmente aggiornato nel "Notiziario" dell’istituto bresciano - nell’approfondire numerosi aspetti del pensiero e dell’opera montiniana, ma la ricerca, per giungere a risultati consolidati, dovrà attendere ancora diversi anni, anche in ragione dell’attuale indisponibilità di fonti archivistiche;

3. vi erano infine da considerare i caratteri intrinseci delle fonti. Se già abbiamo osservato la frequenza e l’ubiquità in Paolo VI dei temi che ci proponiamo di esaminare, ad una più attenta osservazione la riflessione del pontefice rivela inoltre una notevole plasticità e complessità, manifestandosi non solo con toni e modalità assai variegati, spesso dettati dalla tipologia degli interlocutori e dei contesti, ma sviluppando altresì una considerevole articolazione e contemplando all’interno una molteplicità di piani costitutivi e di punti di osservazione.

Così delineato il quadro di partenza, non era certo possibile sviluppare uno studio organico che mostrasse adeguatamente genesi e sviluppo del pensiero montiniano sul dialogo e sull’evangelizzazione: in questa sede abbiamo dunque preferito limitarci ad un saggio di analisi che, assumendo come base i due documenti specificamente dedicati al dialogo e all’evangelizzazione, cioè Ecclesiam suam ed Evangelii nuntiandi, tentasse di enuclearne i percorsi di fondo di tale riflessione, proponendo nel contempo una rilettura dall’interno: "Paulus sui ipsius interpres". Il presente contributo non ha quindi alcuna pretesa di completezza, bensì desidera favorire il desiderio di accostare direttamente l’insegnamento montiniano, mostrandone anche le feconde intuizioni, che hanno nutrito il pensiero e innervato la prassi della Chiesa post-conciliare,successivamente riprese e sviluppate in una pluralità di occasioni da papa Giovanni Paolo II, di cui ricordiamo il fausto 50° anniversario dell’ordinazione presbiterale, mentre ci prepariamo a celebrare il 20° anniversario dell’elevazione al soglio pontificio.

Giordano Monzio Compagnoni

 

1. TRA PIETRO E PAOLO.

I cardini del pontificato

 

1.1. Siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini

"Annuntio vobis gaudium magnum...". Il 21 giugno 1963 il cardinale camerlengo proclamava l’elezione di Giovanni Battista Montini come successore del compianto Giovanni XXIII. Nato nel 1897, di origine bresciana, subito dopo l’ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1920, era stato avviato alla formazione diplomatica e destinato dapprima alla nunziatura di Varsavia (1923) e poi alla Segreteria di Stato (1924). Qui, divenuto nel 1937 sostituto per gli affari ordinari, giungerà a ricoprire, 25 anni più tardi, la carica di pro-segretario di Stato. Eletto nel novembre 1954 da Pio XII a succedere al card. Schuster come arcivescovo di Milano e consacrato vescovo il mese successivo, fece il suo ingresso nell’immensa sede metropolitica il 6 gennaio 1955, ricevendo nel 1958 la porpora cardinalizia per mano di papa Giovanni XXIII, la cui pesante eredità egli sarebbe stato destinato, cinque anni più tardi, a raccogliere. Interveniva così un mutamento sostanziale:

Diletti fratelli e figli, dobbiamo meditare la grande e pur semplicissima novità sopraggiunta, che lascia un po’ attoniti e stupiti, lieti nel pianto e piangenti nella letizia. C’è stata una trasformazione: il Signore ha voluto collocare un peso ingente sulle mie povere spalle, forse perché erano le più deboli, le più idonee, dunque, a dimostrare che non è Lui a volere qualche cosa da me, ma desidera largheggiare in presenza ed assistenza, agendo nello strumento più debole per attestare l’infinito suo potere e beneplacito, l’inenarrabile sua misericordia. È accaduto un fatto prodigioso [...]: Simone trasformato in Pietro. Simone, discepolo cordiale ed ardente, talora volubile, eccitabile, anche debole e fragile, diviene Pietro, secondo il nome che il Signore gli impone, con la grazia speciale a lui largita, e col ministero delle somme chiavi del Regno affidatogli. È un mutamento che, per diversi aspetti, lascia sopravvivere Simone5.

Al momento dell’elezione egli si presentava dunque alla Chiesa e al mondo intero, focalizzando su di sé l’attenzione generale, non tanto, e non solamente per l’oggettiva importanza che, sotto più aspetti, qualsiasi cambio di pontificato riveste. Più specificamente, attorno alla sua elezione si concentrava una serie di attese, sia per quanto riguarda l’indirizzo che il nuovo pastore avrebbe intrapreso - sarebbe stato "pacelliano" o "roncalliano"? Avrebbe continuato o no il concilio? -, sia riguardo ai fermenti e alle aspirazioni emerse in quegli anni, che toccavano, ad esempio, i rapporti tra Chiesa e società, sollecitavano il rinnovamento della teologia, dell’apostolato, delle missioni ad gentes, la definizione della figura e del ruolo del laicato, l’aggiornamento delle strutture ecclesiali, lo sviluppo dell’attività ecumenica...

1.2. Cose nuove e cose antiche

"Vocabor Paulus". Di fronte ad attese così variegate e diffuse, e di fronte ad un contesto così complesso, la prima risposta del nuovo pontefice fu di assumere il nome di Paolo, chiaro indizio di un ministero che intendeva aprirsi all’insegna dell’evangelizzazione6. Come ebbe a dire alla stampa il giorno precedente la sua incoronazione, proprio questo era il motivo principale di tale scelta, che lo poneva sulle orme dell’Apostolo delle Nazioni, "s. Paolo, sotto la cui protezione ed ispirazione abbiamo voluto porre la Nostra funzione pontificale", aggiungendo:

L’ansia di evangelizzazione universale, propria dell’apostolo delle Genti, è fin d’ora nel Nostro cuore, mentre lo preghiamo umilmente di volerla rendere inestinguibile, operante ed efficace7.

Non saranno molte le occasioni in cui Paolo VI rileggerà il proprio ministero alla luce della figura di san Paolo; e tuttavia è significativo rilevare il ritratto dell’apostolo delineato nel 1975, in occasione dell’udienza concessa ai partecipanti al Congresso internazionale di missiologia:

Più si è agli avamposti della Chiesa e più bisogna prendersi cura dell’identità della fede, della comunione nella Chiesa, della fedeltà ai grandi cardini della Tradizione. [...] Bisogna unire il rigore nella fede e l’audacia apostolica di san Paolo. L’Apostolo dei Gentili non esitava a dire: "Guai a me se non predicassi il Vangelo" (1 Cor. 9,16), e "Se qualcuno vi predica un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema" (Gal. 1,9); ma confessava anche: "Mi sono fatto Giudeo con i Giudei ... con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge ... mi sono fatto tutto a tutti"! (1 Cor. 9,20-22)8.

È evidente tuttavia come nella mente del pontefice la prospettiva dottrinale e quella pastorale e missionaria non potessero andare disgiunte, se non a prezzo di gravi squilibri; le stesse istanze di rigore nella fede e di audacia apostolica erano già risuonate nel primo radiomessaggio augurale rivolto alla Chiesa e al mondo intero all’indomani dell’elezione. In quell’occasione egli aveva annunciato gli indirizzi prioritari del suo ministero, così delineandone l’opzione fondamentale, da cui sarebbe scaturita tutta la restante attività, a cominciare dalla prosecuzione del concilio ecumenico:

Intendiamo spendere tutte le energie che il Signore Ci ha dato, perché la Chiesa cattolica, che brilla nel mondo come il vessillo alzato su tutte le nazioni lontane (cfr. Is. 5,26), possa attrarre a sé tutti gli uomini, [...] venienti "ex omni tribu, et lingua, et populo, et natione" (Apoc. 5,9): questo sarà il primo pensiero del ministero pontificale, affinché sia proclamato, sempre più alto davanti al mondo, che solo nel Vangelo di Gesù è la salvezza aspettata e desiderata: "Poiché non c’è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, mercé il quale abbiamo ad essere salvati" (Act. 4,12)9.

Gli stessi concetti furono ripresi una settimana più tardi, il 30 giugno 1963, nel discorso tenuto durante il rito dell’incoronazione, durante il quale Paolo VI condensò in due verbi gli assi portanti della sua missione: tutelare il depositum fidei e diffondere la buona novella, non solo curando la parte già florida della Chiesa, ma dedicandosi altresì alla sua espansione:

Dio Ci ha affidato la Chiesa non solo con l’intenzione che Noi la conservassimo santa e florida, ma anche - come Cristo ordinò sempre a ciascuno dei suoi vicari - perché spendessimo per essa pensieri, sollecitudini e la stessa vita, se necessario, affinché la sua virtù, la sua luce, i suoi tesori - certamente divini e infiniti - si diffondano più ampiamente fra gli uomini10;

Noi abbiamo coscienza, in questo momento, di assumere un impegno, sacro, solenne e gravissimo: quello di continuare nel tempo e di dilatare sulla terra la missione di Cristo. Lo assumiamo di fronte alla storia della Chiesa che fu, derivata con vitale coerenza da Lui, Nostro Signore Gesù Cristo, che le diede origine e forma, e che vivo e misterioso con amore la fiancheggia nei secoli. Lo assumiamo di fronte alla storia della Chiesa che sarà, e che non altro attende da Noi, se non la perfetta fedeltà alla iniziale missione evangelica e alla tradizione autentica che ne scaturì. Lo assumiamo di fronte alla storia presente della Chiesa, di cui già conosciamo e sempre meglio Ci studieremo di conoscere le strutture, le vicende, le ricchezze, i bisogni, e di cui avvertiamo, quasi voci che Ci chiamano, la vitalità erompente, le sofferenze gravissime, l’ansia comunitaria e la fiorente spiritualità11.

La prospettiva "petrina", preoccupata di confermare e testimoniare la fede, e quella "paolina", a carattere missionario e sollecita del bene delle Chiese (cioè pastorale), che elabora e sperimenta nuovi linguaggi e nuovi modelli - intendevano quindi essere i cardini del pontificato che si apriva, come bene appare anche dall’invocazione dei due santi protettori:

Chiediamo aiuto all’apostolo Pietro, nel cui ufficio, quantunque di gran lunga impari per meriti, succediamo. Egli, sebbene talvolta vacillò, tuttavia ottenne la stabilità della pietra per la preghiera di Cristo, e parimenti ricevette dal divino Maestro le chiavi del sommo potere, non dimentichi - lo supplichiamo - di coprirCi con l’ombra della sua protezione. Infine ci rifugiamo da Paolo, da cui abbiamo preso il nome come augurio e come protezione. Egli, che amò Cristo sopra ogni cosa; egli, che desiderò e si adoperò perché il Vangelo di Cristo fosse portato a tutte le genti; egli, che sacrificò la propria vita per il nome di Cristo, dal cielo voglia essere a Noi modello e patrono in ogni tempo e in ogni circostanza12.

Non stupisce quindi la citazione neotestamentaria che, a partire dal 1964, figurerà costantemente nel frontespizio degli annuali volumi di Insegnamenti di Paolo VI, ove gli imperativi "state in guardia" (custodite) e "crescete" (crescite) possono essere assunti sia come leit-motiv che come chiave di lettura della dottrina e di tutta l’attività pastorale:

Voi dunque, carissimi, essendo stati preavvisati, state in guardia per non venir meno nella vostra fermezza, travolti anche voi dall’errore degli empi; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo13.

Saranno principi più volte ribaditi - ancorché in forme diverse - nel corso degli anni, come una puntuale escussione del magistero montiniano potrebbe agevolmente mostrare14. A noi, compiendo un lungo balzo in avanti, basterà osservare come nel 1978, a quindici anni di distanza dall’elevazione al soglio di Pietro, questi assunti non fossero affatto mutati nella mente del pontefice, che anzi riaffermava come obiettivi fondamentali della propria azione di governo la preservazione e la comunicazione della fede. In questo senso, a poco più di un mese dalla scomparsa, egli così rileggeva il proprio ruolo e tracciava un bilancio del cammino percorso:

Noi gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa; e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Matth. 16,16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede" (2 Tim. 4,7). Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli: (cfr. Luc. 22,32) e l’ufficio di servire la verità della fede, e questa verità offrire a quanti la cercano, secondo una stupenda espressione di san Pier Crisologo: "Beatus Petrus, qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem" (S. Petri Chrysologi Ep. ad Eutichen, inter Ep. S. Leonis Magni XXV, 2: PL 54, 743-744). Infatti la fede è "più preziosa dell’oro" (1 Petr. 1,7), dice san Pietro; non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà ("per ignem probatur" [ibid.]). Della fede gli apostoli sono stati predicatori anche nella persecuzione, sigillando la loro testimonianza con la morte, a imitazione del loro Maestro e Signore che, secondo la bella formula di san Paolo "testimonium reddidit sub Pontio Pilato bonam confessionem" (1 Tim. 6,13). Ora, la fede non è il risultato dell’umana speculazione (cfr. 2 Petr. 1,16), ma il "deposito" ricevuto dagli apostoli, i quali lo hanno accolto da Cristo che essi hanno "visto, contemplato e ascoltato" (1 Io. 1,1-3). Questa è la fede della Chiesa, la fede apostolica. L’insegnamento ricevuto da Cristo si mantiene intatto nella Chiesa per la presenza in essa dello Spirito Santo e per la speciale missione affidata a Pietro, per il quale Cristo ha pregato: "Ego rogavi pro te ut non deficiat fides tua" (Luc. 22,32) e al collegio degli apostoli in comunione con lui: "qui vos audit me audit" (ibid.). La funzione di Pietro si perpetua nei suoi successori, tanto che i vescovi del concilio di Calcedonia poterono dire dopo aver ascoltato la lettera loro mandata da papa Leone: "Pietro ha parlato per bocca di Leone" (cfr. H. Grisar, Roma alla fine del tempo antico, I, 359). E il nucleo di questa fede è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, confessato così da Pietro: "Tu es Christus, Filius Dei vivi" (Matth. 16,16). Ecco, Fratelli e Figli, l’intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. "Fidem servavi" possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito "il santo vero" (A. Manzoni)15.

 

2. UNA LUCE CELESTE PROIETTATA SUL MONDO.

Il volto della Chiesa

Il cuore del pontificato di Paolo VI fu dunque costituito dall’impegno per l’annuncio del Vangelo agli uomini del suo tempo, visto come attività che si svolge tra stabilità e dinamismo della fede; tra la difesa e la conservazione del depositum ricevuto, e la comunicazione e la diffusione di esso; tra fedeltà al kérigma e accessibilità del linguaggio16. Un intensa attività dispiegata non solo attraverso l’insegnamento, ma anche mediante una lunga serie di gesti, di segni e di viaggi, che non hanno certo bisogno di una presentazione né di una enumerazione. La chiave di comprensione di tutto ciò risiede in una precisa ecclesiologia, che si trova sostanzialmente delineata nell’enciclica programmatica Ecclesiam suam e che affonda le proprie radici - sia pure con apporti diversi, provenienti principalmente della riflessione teologica di matrice francofona - nell’insegnamento della Mystici corporis di Pio XII e, prima ancora, della Satis cognitum e della Divinum illud di Leone XIII. Solo gradualmente infatti si vedrà il pontefice far proprie le categorie ecclesiologiche scaturite dal lavoro sinodale, integrando ad esempio nella propria visione il concetto di "popolo di Dio": segni che testimoniano, in luogo di un mero ossequio e di una adesione puramente formale al pensiero conciliare, un effettivo cammino di rielaborazione personale dei frutti del Vaticano II che mirerà a comporre in un quadro unitario il piano storico-giuridico e societario con la dimensione sacramentale, l’aspetto pneumatologico con la tensione missionaria ed ecumenica.

2.1. Questo mistero è grande...

Non è nostro compito esaminare la visione ecclesiologica di Paolo VI; è però innegabile che la riflessione sul rapporto tra Chiesa-civiltà contemporanea debba anzitutto mettere al centro del discorso il mistero della Chiesa. È dunque naturale che la prima sezione di Ecclesiam suam sia dedicata a delineare l’identità profonda, "l’immagine ideale della Chiesa, quale Cristo volle, vide ed amò" e ad "approfondire la coscienza [che essa ha] di se stessa"17. La riflessione su se stessa e sul proprio mistero invita anzitutto la Chiesa ad un rinnovamento ad intra (seconda parte18) e poi, ad extra, al dialogo con il mondo contemporaneo e anche al proprio interno (terzo capitolo19). Sono i tre sentieri (spirituale, morale, apostolico) evidenziati dal pontefice stesso nella presentazione del documento ai fedeli:

Possiamo forse intitolare questa enciclica: le vie della Chiesa. E le vie da Noi indicate sono tre: la prima è spirituale; riguarda la coscienza che la Chiesa deve avere e deve alimentare su se stessa. La seconda è morale; e riguarda il rinnovamento ascetico, pratico, canonico, di cui la Chiesa ha bisogno per essere conforme alla coscienza sopraddetta, per essere pura, per essere santa, per essere forte, per essere autentica. E la terza via è apostolica; e l’abbiamo designata col termine oggi in voga: il dialogo; riguarda cioè questa via il modo, l’arte, lo stile, che la Chiesa deve infondere nella sua attività ministeriale nel concerto dissonante, volubile, complesso del mondo contemporaneo. Coscienza, rinnovamento, dialogo sono le vie che oggi si aprono dinanzi alla Chiesa viva, e che formano i tre capitoli dell’Enciclica20.

Già l’anno precedente, nel discorso di apertura della seconda sessione del concilio (che, in qualche modo, costituisce una prima redazione dell’enciclica), Paolo VI tracciando l’itinerario che i lavori avrebbero dovuto seguire, aveva evidenziato il nesso tra riflessione ecclesiologica e missione, tra la comprensione del mistero della Chiesa e l’esercizio della propria funzione:

Sarà [...] tema principale di questa sessione del presente concilio quello che riguarda la Chiesa stessa e che intende esplorarne l’intima essenza per darne, com’è possibile all’umano linguaggio, la definizione che meglio ci istruisca sulla sua reale e fondamentale costituzione e ci mostri la sua molteplice e salvifica missione21.

Sarà proprio la sensibilità alla dimensione del mistero - che, nella considerazione della realtà ecclesiale, alla prospettiva "orizzontale" privilegia quella "verticale" - a permettere un diverso approccio del rapporto Chiesa-missione. A questo riguardo, il magistero di Paolo VI sembra seguire principalmente un duplice itinerario: quello incentrato su uno schema di tipo trinitario, a cui si ricollega quello che assume Gesù Cristo e lo Spirito Santo come co-principi della Chiesa e della sua missione.

2.2. Vedere il riflesso della Trinità

Un primo sentiero, che parte dalla tradizionale teologia della Ecclesia de Trinitate, rilegge l’attività ecclesiale a partire dal coinvolgimento di Dio - del Dio trinitario - nel mondo:

Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, per comprendere quale rapporto tra noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare d’instaurare e di promuovere con l’umanità22.

La comunione delle persone della Trinità e le relazioni tra di esse vengono partecipate ad extra alla Chiesa da Cristo nello Spirito. L’unità e la vita trinitaria sono cioè comunicate all’organismo ecclesiale, la cui comunione e la cui attività sono quindi frutto dell’operazione divina. Questa prospettiva appare ad esempio in un discorso del 1966 sul rapporto Chiesa-Spirito Santo, ove il pontefice, dopo aver citato la costituzione conciliare Lumen gentium (§ 4), aggiunge:

Ci contentiamo di citare una frase d’un grande pensatore cattolico tedesco del secolo scorso, il quale, alla prima pagina d’un suo libro famoso sull’unità nella Chiesa, scrive con vigore sintetico: "Il Padre manda il Figlio; e il Figlio manda lo Spirito Santo. È così che Dio è venuto a noi. Ed è in senso inverso che noi arriviamo al Padre. Lo Spirito ci conduce al Figlio, e il Figlio al Padre" (Moehler). E ci basterà pensare allo Spirito Santo come al principio divino animatore della Chiesa, alla sua anima increata (cfr. Journet 1, 43, 665), che produce nel Corpo mistico del Signore l’animazione creata, cioè la grazia, i doni dello Spirito Santo, i frutti dello Spirito Santo (Gal. 5,22) [...]. E di più il carattere sacramentale non è un effetto dello Spirito Santo? E le sue ispirazioni che guidano le anime sulle vie della santità? E l’assistenza dello Spirito Santo, che dà al ministero della Chiesa la sua orientazione e la sua sicurezza, non è pure opera dello Spirito Santo?23.

Un decennio più tardi, aprendo il sinodo dei vescovi, papa Montini ribadì come, ex divino consilio, l’annuncio del Vangelo dipendesse per sua natura "secondo un disegno unitario dall’amore del Padre, dal mandato di Cristo e dalla missione dello Spirito Santo"24. L’attività della Chiesa ritrova la propria ragion d’essere nel dinamismo trinitario:

L’indagine adesso varca le soglie del mistero e va a rintracciare l’origine delle missioni nel disegno di Dio (1 Cor. 2,7; Eph. 3,9; Rom. 16,25), attuato da Cristo, per la salvezza dell’umanità: Cristo, Figlio di Dio, è stato mandato dal Padre "a portare la buona novella" (Luc. 4,18); Cristo è il primo e vero missionario, il messaggero e il mediatore del nuovo e soprannaturale rapporto degli uomini col Padre; Egli "e venuto a cercare e a salvare quello che era perduto" (Luc. 19,10). Venne come uomo, visibile, nella nostra terra e nella nostra storia. E dopo di Lui e da Lui un’altra divina missione è seguita, invisibile questa di per sé, interiore, nel cuore degli uomini, quella dello Spirito Santo, che già aveva "parlato per mezzo dei profeti", e che doveva animare tutto il Corpo mistico di Cristo. Il mistero della Santissima Trinità, svelato a noi da queste missioni divine, è perciò alla sorgente dell’economia missionaria della nostra salvezza. È lo Spirito Santo che suscita l’apostolato, altra missione, istituzione esteriore questa, ministeriale, collegata con la designazione degli apostoli e con la Pentecoste; missione destinata ad essere il canale distributore, nel tempo e nel mondo, della fede e della grazia, e a fungere da strumento edificatore della Chiesa (Io. 20,21; Gal. 4,4; 4,6; cfr. Congar, Esquisse du mystère de l’Eglise, Cerf 1953, p. 129 ss.; e il vol. Ecclesia Spiritu Sancto edocta, "Mélanges théol.", hommage à Mgr. Philips; Gembloux, Belgique 1970)25.

Anzi, in modo circolare, la stessa missione della Chiesa, esemplata sulle missioni trinitarie, ad essa riconduce:

Missionaria è essenzialmente la vocazione, la fisionomia, l’ansia della società fondata da Cristo, a prolungamento della propria opera di redenzione su la terra, fino alla fine dei tempi. Risuona tuttora nella Chiesa, e segna il ritmo del suo progrediente cammino, quella parola del Cristo, che tanto più profondamente le si è scolpita nello spirito in quanto è stata l’estrema consegna del Maestro, prima del suo ritorno al Padre: "Euntes docete omnes gentes, baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, docentes eos servare omnia, quaecumque mandavi vobis. Et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi" (Matth. 28,19-20). Questa è l’originaria missione della Chiesa, esemplata su un filo strettamente analogico con l’eterna generazione del Figlio dal seno del Padre, fondamento della sua missione redentiva nel mondo: "Sicut misit me Pater, et ego mitto vos" (Io. 20,21). È un flusso di vita divina, che, rivelata a noi nel Cristo, vuol ritornare nel seno della Trinità, trasportando con sé, congiunta in un unico amore, l’intera umanità redenta: euntes... docete... baptizantes. Ecco l’andare verso il mondo, per dilatare ognor più gli spirituali spazi della Chiesa; ecco il dovere imprescrittibile dell’insegnamento, opportune, importune (cfr. 2 Tim. 4,2), per rivelare a tutti gli uomini le insondabili ricchezze del Cristo, e seminare nel loro cuore, assetato d’infinito, una salutare inquietudine di ricerca, che li porti alla certezza e alla letizia della verità posseduta; ecco l’azione santificatrice dei sacramenti, i quali, iniziando col battesimo, fanno dell’umanità, disunita e profana, la famiglia dei figli di Dio26.

2.3. Le due mani di Dio

La prospettiva trinitaria sembra fondare un secondo percorso all’interno della riflessione montiniana,

anch’esso discendente dalla classica teologia romana e dalla Mystici corporis, che accentua i due principi della missione ecclesiale: quello cristologico - e, di conseguenza, quello gerarchico-istituzionale, che ne costituisce la continuazione e il prolungamento27 - insieme a quello pneumatologico. Cristo e lo Spirito, "le due mani di Dio", secondo le parole di Ireneo, operano incessantemente nella Chiesa: Cristo ha voluto assicurare la permanenza della sua azione di salvezza sulla terra stabilendo degli apostoli - germe della Chiesa, soprattutto vista in quanto gerarchia - incaricati di provvedere alla propria successione, affidando loro il deposito della rivelazione e istituendo i sacramenti, cioè i mezzi di grazia. Questo complesso di elementi costituisce la struttura permanente della Chiesa, che rende possibile il compimento della sua missione, e al quale è legata la promessa dello Spirito, che vivifica l’organismo ecclesiale.

Tale lettura "bipolare" circa l’origine della missione è in grado di spiegare perché Paolo VI richiami più volte come filoni imprescindibili per lo studio e per la spiritualità nel tempo post-conciliare il complesso costituito dalla dottrina sulla Chiesa - che, in filigrana, restituisce l’immagine del Christus totus28 -, su Cristo e sullo Spirito Santo. Ad esempio, in un passaggio del discorso per una udienza generale del febbraio 1974, parlando della conoscenza di Gesù, egli affermerà:

Gesù dev’essere studiato con tutta la tensione della nostra capacità comprensiva (e la capacità comprensiva dell’amore supera quella della pura intelligenza). E così fu per la Chiesa: ripensò studiò, discusse, ebbe per Sé la luce dello Spirito Santo; e con un cautissimo e fedelissimo travaglio di secoli riuscì a formulare la dottrina esatta, ma sempre sconfinante ed aperta sul mistero circa nostro Signore Gesù Cristo: chi Egli fu, che cosa fece per noi, poi come Egli a noi si concede e si concederà. Chiamiamo questo centrale capitolo della nostra religione "cristologia", e lasciamo pure che altri capitoli quali quelli della "ecclesiologia" (tanto studiato dal concilio), e quello della "pneumatologia", cioè relativo alla dottrina sullo Spirito Santo, ora impegnino il nostro studio e la nostra vita spirituale29.

In ogni caso, la dimensione cristocentrica di questa concezione è riscontrabile, ad esempio, nel discorso di apertura della seconda sessione del concilio, ove Paolo VI, domandandosi quale dovesse essere la sorgente, la norma e l’obiettivo del cammino conciliare (e pertanto tout-court ecclesiale), rispose:

Cristo! Cristo, nostro principio; Cristo nostra via e nostra guida: Cristo nostra speranza e nostro termine. Oh! abbia questo concilio piena avvertenza di questo molteplice e unico, fisso e stimolante, misterioso e chiarissimo stringente e beatificante rapporto tra noi e Gesù benedetto, fra questa santa e viva Chiesa, che noi siamo, e Cristo, da cui veniamo, per cui viviamo, ed a cui andiamo. Nessuna altra luce sia librata su questa adunanza, che non sia Cristo, luce del mondo; nessuna altra verità interessi gli animi nostri, che non siano le parole del Signore, unico nostro Maestro; nessuna altra aspirazione ci guidi, che non sia il desiderio d’esser a Lui assolutamente fedeli; nessuna altra fiducia ci sostenga se non quella che fiancheggia, mediante la parola di Lui, la nostra desolata debolezza: "Et ecce Ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi" (Matth. 28,20). [...] È opportuno, a Nostro avviso, che questo concilio muova da questa visione, anzi da questa mistica celebrazione, che confessa Lui, nostro Signor Gesù Cristo, essere il Verbo incarnato, il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo, Redentore del mondo, cioè la speranza dell’umanità e il suo solo sommo Maestro, Lui il Pastore, Lui il Pane della vita, Lui nostro Pontefice e nostra Vittima, Lui l’unico Mediatore fra Dio e gli uomini, Lui il salvatore della terra, Lui il Re venturo del secolo eterno; e che dichiara essere noi suoi chiamati, suoi discepoli, suoi apostoli, suoi testimoni, suoi ministri, suoi rappresentanti, e con tutti gli altri fedeli sue vive membra, compaginati in quell’immenso unico Corpo mistico, ch’Egli, mediante la fede e i sacramenti, sta formandosi nel succedersi delle generazioni umane, la sua Chiesa, spirituale e visibile, fraterna e gerarchica, oggi temporale e domani eterna30.

Di fronte al mistero di Cristo, è interessante notare l’atteggiamento contemplativo assunto dal pontefice. La lunga sequenza di titoli - di sapore quasi litanico: ma la litania non è una modalità espressiva dell’amore? - tenta via via di penetrarlo, esprimendone qualche aspetto alla luce della fede, pur nella consapevolezza della sua inesauribilità e irriducibilità a schemi umani. Ascoltiamo ancora la splendida proclamazione del mistero di Cristo - causa, origine e contenuto della missione - fatta a Manila nel 1970:

Io, Paolo, successore di San Pietro, incaricato della missione pastorale per tutta la Chiesa, non sarei mai venuto da Roma fino a questo Paese estremamente lontano, se non fossi fermissimamente persuaso di due cose fondamentali: la prima, di Cristo [...]. Di Cristo! Sì, io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo: "Guai a me se non proclamassi il Vangelo!" (1 Cor. 9,16). Io sono mandato da Lui, da Cristo stesso, per questo. Io sono apostolo, io sono testimonio. Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l’amore che a ciò mi spinge (cfr. 2 Cor. 5,14). Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (Matth. 16,16); Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d’ogni creatura, è il fondamento d’ogni cosa; Egli è il Maestro dell’umanità, è il Redentore; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l’amico della nostra vita; Egli è l’uomo del dolore e della speranza; è Colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicita. Io non finirei più di parlare di Lui: Egli è la luce, è la verità, anzi: Egli è "la via, la verità e la vita" (Io. 14,6). Egli è il Pane, la fonte d’acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete; Egli è il Pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Come noi, e più di noi, Egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore, disgraziato e paziente. Per noi, Egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore ed i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli. Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare; anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annuncio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega; Egli è il Re del nuovo mondo; Egli è il segreto della storia; Egli è la chiave dei nostri destini; Egli è il mediatore, il ponte, fra la terra e il cielo; Egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché Egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, e madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico. Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annuncio, e la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra (cfr. Rom. 10,18), e per tutta la fila dei secoli (Rom. 9,5). Ricordate e meditate: il Papa è venuto qua fra voi, e ha gridato: Gesù Cristo!31.

La prospettiva cristocentrica ritornerà anche durante la celebrazione di apertura del sinodo dei vescovi sull’evangelizzazione, ritrovando però la propria sorgente nel mistero trinitario:

Signore Gesù, [...] preferiamo [...] rivolgerci anzitutto a Te per confermare in noi questa prima certezza: che il fatto stesso dell’evangelizzazione nasce da Te, Signore, come un fiume, esso ha la sua sorgente e Tu, Cristo Gesù, sei questa sorgente. Tu sei la causa storica, Tu sei la causa efficiente e trascendente di questo prodigioso fenomeno: l’apostolato, da Te, Maestro; da Te, Salvatore; da Te, principio e modello; da Te, pontefice ed ostia della salvezza dell’umanità, è scaturito, è stato conferito agli eletti discepoli, da Te chiamati apostoli e dagli apostoli è arrivato a noi, vescovi, con infrangibile successione. La Tua parola, come fiamma che si propaga nel tempo e nelle stagioni della storia, arriva a noi, dolcissima e imperativa, sempre viva, sempre nuova, sempre attuale: Sicut misit me Pater, et Ego mitto vos (Io. 20,21; cfr. 15,22; 17,18). Perciò, o Signore, noi dovremo risalire fino al mistero della Santissima Trinità per rintracciare l’origine prima del mandato che urge sopra di noi, e per scoprire, nelle ininvestigabili profondità della vita divina, il disegno di amore, che investe, qualifica e sorregge la nostra missione apostolica32.

Accanto alla dimensione cristologica figura quella pneumatologica, anch’essa ricondotta alla sua origine trinitaria: ad una settimana dalla conclusione del sinodo dei vescovi Paolo VI - che, com’è noto, aveva giudicato la dottrina sullo Spirito Santo "uno degli insegnamenti più importanti, più caratteristici, più fecondi" del Vaticano II33 - indicava nello "Spirito Santo, procedente dal Padre, fonte prima della Verità, della Parola, che si è incarnata in Gesù Cristo, il Quale insieme col Padre manda appunto il Paraclito agli apostoli (Io. 16,7) e alla Chiesa (Act. 2,4)" "la causa prima dell’evangelizzazione"34. Già nel 1964 il pontefice aveva sottolineato come lo Spirito Santo costituisse il perenne principio vivificatore della Chiesa:

Lo Spirito Santo è il principio divino animatore della Chiesa. È vivificante, come cantiamo nel Credo della santa Messa. È unificante. È illuminante. È operante. È consolante. È santificante, in una parola: conferisce alla Chiesa questa nota, questa prerogativa, d’essere santa. È santa in due sensi; perché recettiva dello Spirito Santo, cioè pervasa dalla grazia, dalla vita soprannaturale, che rende le singole anime, che sono in grazia di Dio, un tempio della divina presenza, e fa di tutta la Chiesa la sede, la "casa di Dio" sulla terra: per di più lo Spirito Santo si serve della Chiesa come di suo organo, di suo strumento per comunicarsi alle anime, al mondo; e ciò specialmente formando nella Chiesa un ministero, un veicolo, un servizio, attraverso il quale normalmente, nell’azione sacramentale e nell’esercizio del magistero, lo Spirito Santo si diffonde nella Chiesa stessa, anima e santifica quella umanità, che è assunta a formare il Corpo mistico di Cristo35.

Così pure nel 1967, ricordando il testo della costituzione conciliare Lumen gentium (§ 4):

Come avete celebrato la festa di Pentecoste? Avete cercato di meditare come l’avvenimento prodigioso, narrato negli Atti degli apostoli (c. 2), sta all’origine della Chiesa, non solo come un fatto storico importante, ma come un principio vitale, come l’inizio della animazione soprannaturale della Chiesa, come la sorgente d’un miracolo permanente, quello dell’infusione dello Spirito Santo negli apostoli e nei credenti in ordine alla formazione di Cristo nelle loro singole vite e nell’intera comunità, unita ma internamente differenziata e gerarchica, che si chiama la Chiesa? Avete pensato che quel fatto continua, si distende nel tempo, si estende sulla terra, là dove arriva la fede e la grazia, e che interessa profondamente ciascuno di voi? Avete riflettuto che la effusione dello Spirito Santo è arrivata ad ognuna delle vostre anime, è penetrata nel giro interiore della vostra psicologia e vi ha acceso la vita divina? Una delle pagine più misteriose e più meravigliose del nostro catechismo è proprio quella che riguarda la comunicazione dello Spirito Santo ai fedeli, producendo in essi uno stato nuovo, lo stato di grazia con tutto il seguito delle attitudini operative, le virtù infuse, e i doni e i frutti spirituali, di cui quell’animazione divina arricchisce le anime, che hanno l’inestimabile fortuna d’essere invase dall’Amore vivificante e santificante36.

Questa visione permetteva di superare sterili e fallaci contrapposizioni tra carisma e istituzione, tra "la Chiesa, intesa come società visibile e gerarchica, dogmatica, sacramentale e canonica" e il Corpo mistico di Cristo:

La Chiesa, Corpo mistico di Cristo, non si distingue dalla Chiesa organizzata socialmente, che ci conferisce il nostro titolo di cattolici, che dà alle anime santificate dalla grazia la forma stessa della vita nuova cristiana, e che è lo strumento indispensabile, mediante il quale abbiamo la dottrina, abbiamo i sacramenti, abbiamo la guida che ci portano e ci conservano nella comunione con lo Spirito Santo. Apriamo, sì, la vela dell’anima al vento dello Spirito di Gesù, che soffia dove vuole (Io. 3,8) libero e misterioso; ma non abbandoniamo il timone della nostra barca, il timone del Pescatore apostolico, che ci governa a buon fine37.

La Chiesa, segno e strumento di salvezza, ha anzi necessità del soffio dello Spirito Santo, che la purifichi, la rinnovi e ne corrobori e rafforzi la missione:

La Chiesa ha bisogno della sua perenne Pentecoste; ha bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle labbra, di profezia nello sguardo. La Chiesa ha bisogno d’essere tempio di Spirito Santo (cfr. 1 Cor. 3,16-17; 6,19; 2 Cor. 6,16), cioè di totale mondezza e di vita interiore; ha bisogno di risentire dentro di sé, nella muta vacuità di noi uomini moderni, tutti estroversi per l’incantesimo della vita esteriore, seducente, affascinante, corruttrice con lusinghe di falsa felicità, di risentire, diciamo, salire dal profondo della sua intima personalità, quasi un pianto, una poesia, una preghiera, un inno, la voce orante cioè dello Spirito, che, come c’insegna s. Paolo, a noi si sostituisce e prega in noi e per noi "con gemiti ineffabili", e che interpreta Lui il discorso che noi da soli non sapremmo rivolgere a Dio (cfr. Rom. 8,26-27). Ha bisogno la Chiesa di riacquistare l’ansia, il gusto, la certezza della sua verità, (cfr. Io. 16,13) e di ascoltare con inviolabile silenzio e con docile disponibilità la voce, anzi il colloquio parlante nell’assorbimento contemplativo dello Spirito; il Quale insegna "ogni verità" (ibid.); e poi ha bisogno la Chiesa di sentir rifluire per tutte le sue umane facoltà l’onda dell’amore, di quell’amore che si chiama carità, e che appunto è diffusa nei nostri cuori proprio "dallo Spirito Santo che a noi è stato dato" (Rom. 5,5); e quindi, tutta penetrata di fede, la Chiesa ha bisogno di sperimentare un nuovo stimolo di attivismo, l’espressione nelle opere di questa carità (cfr. Gal. 5,6), anzi la sua pressione, il suo zelo, la sua urgenza (2 Cor. 5,14): la testimonianza, l’apostolato38.

 

3. L’EPIFANIA DELLA CARITÀ.

Il dialogo della Chiesa col mondo contemporaneo

Nella visione di Paolo VI, quale siamo venuti delineando, il mistero della Chiesa è un riflesso della vita trinitaria, che in Cristo ha l’origine, il cuore e il fine della propria missione e lo Spirito come principio animatore e vivificatore. Il dialogo - tema su cui insiste tutto il peso dell’enciclica Ecclesiam suam - sarà possibile solo a partire da una rinnovata autocoscienza39 che non si riduca ad un puro fatto intellettuale40, né richiuda la Chiesa in una celebrazione di se stessa, ma la confermi nella propria identità e faccia scaturire la consapevolezza che essa necessita di rinnovamento, indicandone le vie41. Così fu affermato anche nell’allocuzione durante l’ultima sessione publica del concilio (7 dicembre 1965):

Questa secolare società religiosa, che è la Chiesa, ha cercato di compiere un atto riflesso su se stessa, per conoscersi meglio, per meglio definirsi, e per disporre di conseguenza i suoi sentimenti ed i suoi precetti. È vero. Ma questa introspezione non è stata fine a se stessa, non è stata atto di pura sapienza umana, di sola cultura terrena; la Chiesa si è raccolta nella sua intima coscienza spirituale, non per compiacersi di erudite analisi di psicologia religiosa o di storia delle sue esperienze, ovvero per dedicarsi a riaffermare i suoi diritti e a descrivere le sue leggi, ma per ritrovare in se stessa vivente ed operante, nello Spirito Santo, la parola di Cristo, e per scrutare più a fondo il mistero, cioè il disegno e la presenza di Dio sopra e dentro di sè, e per ravvivare in sè quella fede, ch’è il segreto della sua sicurezza e della sapienza, e quell’amore che la obbliga a cantare senza posa le lodi di Dio: Cantare amantis est, dice s. Agostino (Serm. 336; PL 38, 1472)42.

3.1. Come un messaggero che giunge dopo lungo cammino...

Come Paolo VI dirà all’assemblea dell’ONU, la Chiesa è da due millenni portatrice di un messaggio:

Oh! Voi sapete chi siamo; e, qualunque sia l’opinione che voi avete sul pontefice di Roma, voi conoscete la Nostra missione; siamo portatori d’un messaggio per tutta l’umanità; e lo siamo non solo a Nostro nome personale e dell’intera famiglia cattolica, ma lo siamo pure di quei Fratelli cristiani, che condividono i sentimenti da Noi qui espressi, e specialmente di quelli da cui abbiamo avuto esplicito incarico d’essere anche loro interpreti. Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata; così Noi avvertiamo la fortuna di questo, sia pur breve, momento, in cui si adempie un voto, che Noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli. Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con Noi una lunga storia; Noi celebriamo qui l’epilogo d’un faticoso pellegrinaggio in cerca d’un colloquio con il mondo intero, da quando Ci è stato comandato: "Andate e portate la buona novella a tutte le genti ". Ora siete voi, che rappresentate tutte le genti. Noi abbiamo per voi tutti un messaggio, sì, un messaggio felice, da consegnare a ciascuno di voi43.

Qual è il messaggio felice, la buona notizia afidato alla Chiesa? E chi l’ha inviata?

La Chiesa è [...] sempre attiva e impegnata nella fatica di diffondere il suo messaggio di salvezza, la sua concezione della vita e del mondo, il suo Vangelo. Che cosa fa dunque la Chiesa? È chiaro: essa parla, essa predica, essa insinua, diffonde, proclama la dottrina di Cristo. Predica sopra i tetti, ciò che le è stato confidato all’orecchio. La Chiesa dov’è viva, dov’è capita, dov’è fedele al mandato di Cristo, ha una prima e indispensabile attività: quella dell’annuncio della Parola divina. La fede, radice di tutto il sistema dottrinale e morale del cristianesimo esige tale annuncio, esige la predicazione: "La fede - dice s. Paolo - deriva dall’ascoltazione, fides ex auditu" (Rom. 10,17). La catechesi - una catechesi esatta, fedele, ortodossa, non arbitraria, non mutevole - è il suo primo dovere. La liturgia della parola precede quella eucaristica. La Chiesa è l’eco continua, esatta e autorevole, degli insegnamenti del Signore. La Chiesa è un apostolato, è una scelta, è una "propagazione della fede", è uno sforzo, che arriva fino all’ostinazione (ricordate gli apostoli? "... Non possumus ... Non loqui" (At. 4,20), non possiamo tacere: fino al sacrificio (ricordate Stefano? E che cosa sono i martiri, se non predicatori, testimoni del Vangelo con il sangue?)44.

La comunità ecclesiale è dunque chiamata a "vivere la propria vocazione e offrire al mondo il suo messaggio di fraternità e di salvezza"45. Mediante la Chiesa, Dio offre la salvezza in Cristo a tutti gli uomini, senza distinzioni, richiedendo in cambio una risposta di conversione e di fede:

L’invito rivolto da Dio Padre a partecipare pienamente alla gioia di Abramo, alla festa eterna delle nozze dell’Agnello, è una convocazione universale. Ogni uomo, purché si renda attento e disponibile, può percepirla nell’intimo del proprio cuore [...]. "Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro" (At. 2,39)46.

E l’annuncio si fa invito, perché non si tratta di un’azione di propaganda o di proselitismo:

Che cosa fa la Chiesa? Possiamo rispondere: ella ci chiama. Ella è la ripetizione della Parola di Dio, ella è la continuazione della missione di Cristo, che dice agli apostoli singoli: "Vieni", e a tutti gli uomini di questo mondo bisognosi di conforto e di salvezza: "Venite a me voi tutti ...". Perciò la Chiesa è detta Lumen gentium, come Cristo, il faro dei popoli, il "sacramento di Cristo"; ella non solo rappresenta Cristo Signore, ma effonde altresì la sua luce e la sua grazia, il suo Spirito. Ella è un invito (cfr. Denz. Sch., 3014); un invito vivente e permanente, un richiamo, un amore che cerca, una responsabilità che ammonisce, una scelta da fare, una fortuna da possedere. È la chiamata apologetica, la chiamata pastorale, la chiamata missionaria. È l’offerta della verità, che placa e che salva; è il segno orientatore della storia umana, è la mano tesa per la redenzione e la felicità. [...] La Chiesa è una chiamata interiore: la voce non assorda, non impaurisce, non distrae, non offende, non sgrida; la voce sveglia, ridesta, riempie l’anima di verità, di certezza, di energia. Chiama il pensiero a pensare, la volontà a volere, il sentimento a cantare. È voce di vita, è voce di poesia, è voce di preghiera. Allarga, libera, svela. Alcune volte svela l’uomo a se stesso, gli fa comprendere il suo diritto, il suo dovere, il suo destino; diciamo pure: la sua vocazione. Questo, ancor oggi, fa la Chiesa: chiama47.

3.2. Questa terra dolorosa, drammatica e magnifica

L’altro partner del dialogo è il mondo. In linea con quanto afferma Gaudium et spes (§ 2), ma oltrepassando la definizione conciliare, papa Montini individua una triplice accezione della parola "mondo":

Vi è un termine, che il Leopardi riconobbe originale al Vangelo, e che definisce tale incompleta e perciò falsa e nociva concezione della vita modellata sull’ambiente; ed è il termine "mondo". Esso per noi dice tutto, in senso negativo e comparativo alla vita cristiana, perché il linguaggio consueto della predicazione religiosa ci ha abituati a darvi un significato ben noto, se non sempre preciso, quando lo intendiamo nella sua deteriore espressione. Mondo, in questo senso, è la porzione dell’umanità che ha rifiutato la luce del Vangelo: "Mundus eum non cognovit" (Io. 1,10), il mondo non conobbe Cristo venuto a portare la luce. È il regno dell’apparenza in confronto con quello della realtà, il regno delle finte virtù, dei valori mediocri e contingenti, delle passioni erette a principi, e perfino, nei casi tipici, delle perversioni ideali o morali legittimate, fino a fare scrivere all’evangelista Giovanni che tutto il mondo è posto sotto l’impero del maligno (1 Io. 5,19), dove il peccato trova libera cittadinanza e organizzazione seducente e potente. Ma nel linguaggio scritturale la parola mondo esprime due altre realtà, ben diversamente qualificate. Mondo è l’universo, il cosmo fisico, in cui la potenza e la sapienza creatrici si sono manifestate in maniera e in misura prodigiose, quali la scienza va ogni giorno maggiormente scoprendo, non per sostituire se stessa alla causalità generatrice dell’essere (follia questa altrettanto ingenua, quanto tentatrice), ma per avvertire l’invito, sempre più logico e pressante, alla ascensione metafisica verso la Causa prima e vivente, che chiamiamo Dio. E mondo è ancora l’umanità globalmente considerata, quel mondo "che Dio ha amato a tal punto da dare il suo Figlio unigenito" (Io. 3, 15) per la sua salvezza. Così che un triplice atteggiamento questa parola "mondo" C’impone in conformità al suo triplice significato: di diffidenza e di difesa, se per mondo intendiamo il "secolo", come s’usa a dire, emancipato o ribelle rispetto all’ordine spirituale e morale dell’economia cristiana; poi di stuclio, di ammirazione, di giusta valutazione, se per mondo intendiamo il quadro delle cose offerte alla nostra conoscenza e alla nostra conquista; e finalmente di ricerca, di servizio e di amore, se col termine mondo vogliamo indicare gli uomini nostri simili e nostri fratelli48.

Anche il mondo contemporaneo, come la Chiesa, è portatore di una visione della realtà, di una concezione globale dell’uomo e della storia. Ecclesiam suam indicherà i caratteri principali della cultura del tempo presente nella concezione profana della vita, nel naturalismo e nel relativismo:

Il fascino della vita profana oggi è potentissimo. Il conformismo sembra a molti fatale e sapiente. Chi non è ben radicato nella fede e nella pratica della legge ecclesiastica pensa facilmente essere venuto il momento di adattarsi alla concezione profana della vita, come se questa fosse la migliore, fosse quella che un cristiano può e deve far propria. Questo fenomeno di adattamento si pronuncia tanto nel campo fìlosofico (quanto può la moda anche nel regno del pensiero, che dovrebbe essere autonomo e libero, e solo avido e docile davanti alla verità e all’autorità di provati maestri!), quanto nel campo pratico, dove diventa sempre più incerto e difficile segnare la linea della rettitudine morale e della retta condotta pratica. Il naturalismo minaccia di vanificare la concezione originale del cristianesimo; il relativismo, che tutto giustifica e tutto qualifica di pari valore, attenta al carattere assoluto dei principi cristiani; l’abitudine di togliere ogni sforzo, ogni incomodo dalla pratica consueta della vita accusa d’inutilità fastidiosa la disciplina e l’ascesi cristiana; anzi talvolta il desiderio apostolico d’avvicinare ambienti profani o di farsi accogliere dagli animi moderni, da quelli giovanili specialmente, si traduce in una rinuncia alle forme proprie della vita cristiana e a quello stile stesso di contegno, che deve dare a tale premura di accostamento e di influsso educativo il suo senso ed il suo vigore49.

L’analisi del secolarismo da parte di Paolo VI, complessa e dettagliata, non si limita al documento programmatico, bensì si svolge lungo tutto il corso del pontificato, sebbene in modo non sistematico, ed è oggetto di continuo ripensamento. Il tempo presente vive "in una prospettiva abbagliante di umanesimo profano, legata ad una critica razionalistica e areligiosa con cui l’uomo vuol condurre a termine il suo perfezionamento personale e sociale unicamente con i propri sforzi"50. È la situazione

dell’umanità [...] avversa al lume della fede e al dono della grazia; dell’umanità, che si esalta in un ingenuo ottimismo credendo bastino a se stessa le proprie forze per dare di sé espressione piena, stabile e benefica; ovvero dell’umanità, che si deprime in un crudo pessimismo dichiarando fatali, inguaribili e fors’anche appetibili come manifestazioni di libertà e di autenticità i propri vizi, le proprie debolezze, le proprie morali infermità. Il Vangelo, che conosce e denuncia e compatisce e guarisce le umane miserie con penetrante e talora straziante sincerità, non cede tuttavia né all’illusione della bontà naturale dell’uomo quasi a sé sufficiente e di null’altro bisognoso che d’essere lasciato libero di effondersi arbitrariamente, né alla disperata rassegnazione alla corruzione insanabile dell’umana natura51.

Questo dà luogo non solo ad una legittima indipendenza delle singole discipline e delle attività umane, ma genera altresì posizioni culturali autonome, assolutamente separate da una dimensione religiosa connaturata all’uomo:

È marcata nella mentalità dell’uomo moderno la distinzione, anzi la separazione del cittadino del mondo profano da ogni riferimento di carattere religioso. Che un cittadino del mondo profano si appelli a principii dottrinali aprioristici, altrettanto impegnativi, quanto discutibili, sembra cosa del tutto normale, ansi onorifica per la coerenza risultante fra le idee e la maniera di applicarle; ma che un cristiano osi professarsi tale nell’esercizio delle funzioni sociali o professionali sue proprie, questo oggi troppo spesso sembra intollerabile, come una mancanza di buon senso e di buon gusto, come un clericalismo integrista oggi superato, come un ceppo da infrangere alla libertà di discussione e d’azione. Dopo il Concilio, si dice, la cultura profana, la scienza, l’attività temporale, la politica, la vita umana naturale, in una parola, sono affrancate dalla religione; essa rimane, ma ogni religione ha pari diritto di attestarsi come crede, perciò il ricorso al proprio carattere cristiano non ha più senso, se non forse nel foro segreto della coscienza, e se pur questa si ricorda che tale foro è tuttora aperto e giudicante. Qui siamo al punto decisivo della nostra conversazione con la mentalità del nostro tempo. Facciamo attenzione. Che la cultura, la scienza, l’attività profane abbiano una loro specifica libertà di svolgimento, secondo le leggi proprie del pensiero naturale e dell’ordine razionale, noi lo ammettiamo senz’altro; anzi sarà l’educazione cattolica stessa a promuovere e a difendere dalla invadenza di ideologie preconcette la cultura e la ricerca scientifica, affinché esse siano guidate da puri criteri razionali, propri del campo a cui sono rivolte. [...] Ma questo non significa che l’uomo, proprio in quanto tale, e tanto di più se egli è cristiano, non sia ordinato a Dio, non sia cioè inserito in un rapporto vitale con il Principio, con il Legislatore e con il Fine della nostra esistenza, non sia, in altri termini, gratificato da un vincolo religioso, che la secolarizzazione della vita pratica, e tanto meno il secolarismo teorico e pratico, che prescinde radicalmente e arbitrariamente dalla realtà ontologica, non hanno potere di distruggere, anche se hanno l’infelice potere di dimenticare, o di rinnegare. Un pesce non può prescindere dall’acqua in cui si trova; né l’uomo può prescindere dall’atmosfera in cui respira ed in cui si svolge la sua presente esistenza. Dio è "l’elemento" ineffabile, ma reale, dal quale la nostra vita trae origine, norma e termine: essa è immersa in Dio. Esulti chi ascolta: Dio è amore, oceano di amore52.

Tutto ciò, recidendo un vitale rapporto con il trascendente, causa la perdita della dimensione escatologica dell’esistenza e riduce l’orizzonte dell’esperienza umana all’immediato e al caduco: il mondo contemporaneo

non sa più come sfuggire alla legge della morte, che assale e consuma ogni suo valore puramente temporale, se non accelerando il suo moto, un moto spesso di fuga dalle cose che lo qualificano; ed ecco la rivoluzione come programma inesauribile della vita politica e sociale; ecco la "moda" in ogni cosa a cui non è più concesso di vivere, che l’espace d’un matin...53.

"La mentalità moderna, abituata a giudicare ogni cosa sotto l’aspetto del valore"54 riduce qualsiasi considerazione al piano utilitaristico, che diviene così il principale motore del processo di rinnovamento:

Cui bono? A che serve Dio nella vita nostra? Tutti i nostri giudizi sottostanno alla misura del profitto immediato e personale. Siamo antropocentrici; cioè a noi più preme il nostro io, che l’onore e il servizio di Dio; siamo utilitaristi, siamo egoisti. Più che all’essere e al dover essere noi badiamo al valore, cioè al rapporto di utilità; e ancora sulla bilancia dei valori, delle cose preziose, le nostre cose, i nostri interessi, i nostri piaceri tendono a prevalere sul sommo bene, ma tanto per noi misterioso, tanto irriducibile alla nostra consueta esperienza, il Quale si chiama Dio55;

a che cosa serve la religione? Siamo infatti abituati a giudicare ogni cosa dalla sua utilità. Il nostro mondo è ricco di attività, di opere, di imprese. Per ciascuna, ci si chiede di solito quale sia la sua funzione; e questo interrogativo non risparmia la religione, la fede, la Chiesa. Che utilità v’è nel costruire una chiesa per radunare la gente, per far sì che si preghi? Tanti, purtroppo, rispondono che non serve a niente, che nel nostro tempo non c’è bisogno della religione. Si può vivere bene - sostengono - anche senza questa espressione dello spirito umano, senza questa organizzazione sociale che compone la comunità, cioè senza la Chiesa. Sembra che il mondo, anche prescindendo dalla fede, vada avanti lo stesso. Si compiono infatti opere grandi; gigantesche realizzazioni coprono la faccia della terra. L’industria, il commercio, la cultura, la scuola, la scienza, la sanità sono tutti campi dell’attività umana dove la religione non appare direttamente. Oggi si cerca di secolarizzare la vita, di renderla cioè spoglia di tutti i vincoli, di tutti i ricordi che possono unirla a una fede religiosa. Vogliono liberare (così dicono) il mondo da questa sopravvivenza, che le generazioni venute prima di noi hanno tanto amato e professato, e reso celebre con chiese, monumenti e opere d’arte56.

Se così è, l’unica prospettiva possibile sembra quella del materialismo, che però dà vita a fenomeni che avviliscono e mortificano l’uomo nei suoi desideri profondi e autentici:

La condizione dell’uomo è tremendamente aleatoria: la violenza, in tutte le forme, lo avvilisce e degrada al rango di pedina di un gioco cieco, e non di rado lo distrugge spietata e crudele; l’influsso determinante dei mass-media lo manovra dal di fuori, lo condiziona sovente nei suoi sentimenti e pensieri, si sostituisce a lui facendolo ragionare a senso unico in un pericoloso e contrastante livellamento delle personalità; la società dei consumi lo rende schiavo dei bisogni procurati ad arte; una concezione alienante della vita lo assorbe totalmente, proiettandolo non di rado fuori della vera dimensione umana, che è libertà, autodeterminazione, vita intellettuale e spirituale, gioia di vivere. L’uomo è soprattutto condizionato oggi da un’atmosfera materialistica, dalla quale non riesce a liberarsi: visione della storia, concezione della vita, tempo libero, svago e spettacolo, sono non di rado totalmente pieni di edonismo, di determinismo, di materialismo; perfino la scienza è spesso impostata in modo tale che, invece di liberare autenticamente l’uomo, lo spinge ancora più profondamente in questa corrente materialistica, la cui forza è caratterizzante della storia e della cultura contemporanea57.

Inoltre il razionalismo propugnato dalla ricerca scientifica e tecnologica come unica prospettiva di senso si fonda su un malinteso, che la dimensione religiosa avversi il progresso nelle sue varie manifestazioni:

La scienza basta. La ragione rifugge dal mistero. E non è vero; anzi chi ama la scienza e ne avverte la sua profondità e il suo rigore non può, non deve sbarrare al pensiero le sue esplorazioni metafisiche e mistiche; e chi vuole non mortificare la ragione nei confini dei suoi trattati convenzionali deve ammettere la necessità e la gioia di trascenderli per cercare almeno, o per sperimentare, e godere se possibile, l’incontro con una Sapienza, con un Verbo, che mentre lo curva all’adorazione religiosa, lo innalza ai preludi d’un dialogo superrazionale e inebriante, la preghiera. Questo solenne malinteso fra il pensiero scientifico e il pensiero religioso (quello cristiano) scuote ogni nostra sicurezza mentale, che diventerà incertezza morale e inquietudine sociale. È il grande problema della nostra età. Non dobbiamo spaventarci, non solo perché la nostra mentalità religiosa non ha nulla di preconcetto o di contrario al progresso scientifico, sia speculativo che pratico e tecnico, ma perché al contrario lo favorisce e lo integra, tanto oggettivamente che soggettivamente con il suo culto della Verità totale, quale appunto è cercata, professata, proclamata col nostro Credo. E procuriamo di non sentirci soddisfatti d’una formazione mentale puramente ed esclusivamente "laica", che prescinda cioè sistematicamente e in ogni campo del pensiero e della vita da un logico riferimento religioso, per non cadere, senza avvedercene, in quell’ateismo, che giustamente temiamo come sovvertitore d’ogni ordine, e per erigere la legittima autonomia delle realtà terrene in esclusivo criterio di verità (cfr. Lumen gentium, 36 et Gaudium et spes, 36)58.

L’ottimismo dell’uomo moderno, il cui pensiero "si curva facilmente su se stesso, e allora gode di certezza e di pienezza, quando s’illumina nella propria coscienza", è fondato sul culto del progresso e su un umanesimo antropocentrico:

La mentalità moderna, tutta imbevuta di razionalismo scientifico, soddisfatta dei risultati del campo di cognizioni, che le danno la soddisfazione non solo di capire ciò ch’essa studia, ma di convertire il suo sapere nell’operare e nel trarre vantaggi dalle sue cognizioni, nel godere delle conquiste del proprio studio e del proprio lavoro, non chiede altro. Anzi, proclamata l’inutilità di Dio, essa afferma, si vive meglio; si guadagna tempo, si concentra l’attenzione e l’attività su cose delle quali si misura la realtà, si risolvono problemi che sembrano i soli veri e interessanti, quelli economici innanzi tutto, poi quelli sociali, quelli politici, e così via; si rompono tanti vincoli ormai superflui per l’uomo adulto e progredito, convenzionali, superstiziosi, noiosi. Sarebbero da citare certe antiche espressioni dei Salmi: non est Deus, non c’è più Dio (cfr. Ps. 13,1; 52,1). Su questa affermazione, speculativa o empirica che sia, circa l’inutilità di Dio, e perciò della religione, della fede, dell’orazione, e alla fine del confronto della propria coscienza con una eventuale e inesorabile esigenza di legge divina, si potrebbe costruire in cento diverse figure la fisionomia tipica di moltissima gente del nostro tempo, che incontriamo nel mondo in cui viviamo, e troviamo dipinta in tante pagine della letteratura moderna; l’indifferentismo, l’agnosticismo il pessimismo, l’irrazionalismo, l’anticlericalismo, l’ateismo, ecc., di cui è tessuta la psicologia di molti nostri contemporanei, si alimentano spesso da questa medesima radice della presunta vanità d’un concludente e proficuo problema teologico59.

Questa visione produce "tanti malanni e tanti pericoli che gravano sulla società contemporanea", profondi squilibri a livello nel tessuto politico, economico e sociale oltre ad innescare dinamiche negative all’interno dell’individuo:

Alludiamo alle inquietudini che travagliano non poche nazioni, con agitazioni e guerriglie, con discordie ed opposizioni che minacciano la pace e compromettono la tranquilla convivenza, interna ed esterna, dei popoli; alludiamo a certe crisi della pubblica moralità, e all’insorgenza e alla diffusione della delinquenza, per cui non può non essere pensieroso chiunque ami l’onestà e la dignità del pubblico costume; alludiamo alla fame, ch’è tuttora nel mondo60;

Alludiamo specialmente alla crisi del senso morale, che sembra cedere ad un’indifferenza permissiva, complice e fautrice di licenzioso costume e di delinquenza crescente e organizzata; sembra dimenticare i doveri supremi della giustizia e della pace, per lasciare risorgere i criteri pericolosi degli interessi egoistici e degli equilibri delle forze micidiali, e sembra prescindere sempre di più dalle esigenze assolute e obiettive di una norma divina. E ciò per un presunto culto all’uomo com’è e come vuol essere nell’espressione più spontanea dei suoi istinti, scambiati per la sua coscienza61.

Nasce così "la tentazione caratteristica del nostro tempo: il dubbio sistematico, la critica della propria identità, il desiderio di cambiare, l’indipendenza e l’individualismo"62, essenzialmente imperniata su un soggettivismo che ha perso qualsiasi riferimento assiale. Questo mostra, ad esempio, la riflessione sulla psicologia dell’uomo odierno63, che mostra inequivocabili segni di incertezza e di crisi di identità:

Come classificare questa incertezza? [...] Noi ci limitiamo all’indicazione d’un fenomeno oggi abbastanza diffuso, che dà un titolo a cotesta incertezza; chiamiamolo una "crisi di identità". Che cosa vogliamo dire? Vogliamo dire che spesso quest’analisi soggettiva sopra la propria esistenza sfocia nel vuoto, cioè in un dubbio. E il dubbio, quando non sia semplicemente metodico e ipotetico, cioè un mezzo di ricerca e di processo cogitativo, ma sia una contestazione interiore, pessimista, della propria abituale certezza, può diventare una voragine che scuote ed inghiotte il castello logico e morale della propria consueta mentalità. Il dubbio, in questo caso, invece di portare all’esplorazione della verità, porta all’oscurità spirituale, alla tristezza, alla noia, all’audacia iconoclasta contro la stessa propria personalità. Il dubbio, strano a dirsi nel nostro secolo illuminista, fiero e sicuro delle proprie conquiste scientifiche, è un morbo contagioso e assai diffuso nel pensiero speculativo, e perciò anche religioso, del nostro tempo. [...] Lo stato mentale del dubbio è diventato comune e ancor oggi di moda, quasi un’elegante modestia del pensiero, pago di opinioni, più che di verità, e disponibile a sostituire empiricamente i "luoghi comuni" della mentalità corrente alle esigenze logiche di una più sicura dottrina; produce perciò effetti gravi e imprevisti. [...] Così che dubitare oggi è diventato atteggiamento abituale e generale; tutto è messo in questione. La smania del cambiamento sembra offrire rimedio alla incertezza e alla sfiducia, che invadono la pubblica mentalità; e ciò spesso non senza giovamento operativo e progresso pratico: il mondo così cambia e progredisce; ma il cuore dell’uomo piuttosto ne soffre, e inconsciamente sospira a quella verità e a quell’amore, che non gli può dare il mondo esteriore, ma solo il Maestro interiore, che viene in cerca di noi sulle vie della ragione, illuminate dalla fede (cfr. S. Aug. De vera religione, 39, 73: PL 34, 154 e De civ. Dei, 11, 26: PL, 41, 340)64.

Questa crisi diviene poi una irrefrenabile smania di novità, a volte semplicemente iconoclasta:

L’età nostra segna una stagione storica di grandi cambiamenti e di profondo rinnovamento, che toccano ogni forma di vita: il pensiero, il costume, la cultura, le leggi, il tenore economico e domestico, i rapporti umani, la coscienza individuale e collettiva, la società intera. Gi siamo abituati a questo grande fenomeno di trasformazione, che investe ogni cosa, ogni strumento, ogni persona, ogni istituzione; ed in maniera così rapida e universale, che tutti si ha l’impressione d’essere trascinati e travolti da una corrente irresistibile, come da un fiume che ci investe e ci porta via. È anzi da notare che la presente generazione è come inebriata da questa mutazione; la chiama progresso e vi partecipa, anzi vi collabora con forza e con entusiasmo, e spesso senza alcuna riserva: il passato è dimenticato, la tradizione interrotta, le abitudini abbandonate. Anzi si notano segni di impazienza e di intolleranza, là dove una qualche stabilità, una qualche lentezza tende ad evitare o a frenare in qualche settore la trasformazione, che si vuole generale, e che si crede in ogni caso necessaria, benefica, liberatrice. Così si parla sempre di rivoluzione, così si solleva oggi in ogni campo la "contestazione", senza spesso che ne sia giustificato né il motivo, né lo scopo. Novità, novità; tutto è messo in questione, tutto dev’essere in crisi. E siccome tante cose hanno bisogno reale di correzione, di riforma, di rinnovamento, e siccome oggi l’uomo ha acquistato la coscienza sia delle deficienze in cui si svolge la sua vita, sia delle possibilità prodigiose con cui si possono produrre mezzi e forme nuove di esistenza, egli non sta più tranquillo; una frenesia lo prende, una vertigine lo esalta, e talora una follia lo invade per tutto rovesciare (ecco la contestazione globale) nella cieca fiducia che un ordine nuovo (parola vecchia), un mondo nuovo, una palingenesi ancora non bene prevedibile sta per sorgere fatalmente65.

Anche l’individualismo è una nota caratteristica del nostro tempo, il quale vive nel "freddo squallore di un mondo raggelato dall’egoismo e dai miti odierni dell’incomunicabilità e della protesta" ed è ostacolato da "barriere che rendono l’uomo di oggi indifferente ai fratelli"66. Il mondo contemporaneo è tuttavia marcato anche da aspetti positivi, che però non bastano ad esaurire la sete dell’uomo:

Non vogliamo però, in questo fugace sguardo sul mondo, chiudere gli occhi sullo spettacolo meraviglioso delle cose grandi, nuove e magnifiche, che il panorama moderno Ci presenta. Un processo immenso e travolgente sta cambiando la faccia della terra, quasi che l’uomo compisse oggi in pieno il primissimo precetto biblico: "Riempite la terra e soggiogatela" (Gen. 1,28). Ecco: si inventano strumenti nuovi e prodigiosi, d’ogni sorta, si potenzia come non mai il lavoro umano e lo si idealizza, si moltiplicano a dismisura le ricchezze e i beni fungibili, si diffonde dappertutto la cultura, si combattono le malattie e la fame, si sviluppano vertiginosamente i trasporti, si esplorano le ampiezze spaziali, si avvicinano i commerci ed i popoli, si affrancano le nazioni, si proclamano la libertà e la giustizia, si aspira come a ideale supremo alla pace. Questo è stupendo. Noi benediciamo Iddio e Ci congratuliamo con l’uomo. Ma qualche cosa manca ancora, tragicamente: la concordia, la stabilità, la felicità. Il cuore dell’uomo nasconde e lui che spesso lo - confessa - il dubbio, l’inquietudine, e poi l’odio, e l’assurdo, e la disperazione, e la morte, e il nulla!67.

 

3.3. Farsi parola, messaggio, colloquio

Se dunque, come abbiamo visto, un fenomeno caratteristico della nostra epoca e che assume dimensioni planetarie è la crescente estraneità spirituale e culturale tra Chiesa e società, ciò non significa che i due interlocutori, sebbene distinti, siano totalmente estranei e incomunicanti o, addirittura, contrapposti. La possibilità di un incontro tra la Chiesa e il mondo contemporaneo parte, da un lato, dalla coscienza di una reciprocità che ancora esiste, sebbene in forme mutevoli e con gradazioni diverse:

Terzo pensiero Nostro, e vostro certamente, sorgente dai primi due sopra enunciati, è quello delle relazioni che oggi la Chiesa deve stabilire col mondo che la circonda ed in cui essa vive e lavora. Una parte di questo mondo, come ognuno sa, ha subìto profondamente l’influsso del cristianesimo e l’ha assorbito intimamente più che spesso non si avveda d’essere debitore delle migliori sue cose al cristianesimo stesso, ma poi s’è venuto distinguendo e staccando, in questi ultimi secoli, dal ceppo cristiano della sua civiltà; e un’altra parte, e la maggiore di questo mondo, si dilata agli sconfinati orizzonti dei popoli nuovi, come si dice; ma tutto insieme è un mondo che non una, ma cento forme di possibili contatti offre alla Chiesa, aperti e facili alcuni, delicati e complicati altri, ostili e refrattari ad amico colloquio pur troppo oggi moltissimi. Si presenta cioè il problema, così detto, del dialogo fra la Chiesa ed il mondo contemporaneo68.

Sebbene Chiesa e mondo contemporaneo siano portatori di differenti concezioni che li separano e a volte li contrappongono, un secondo punto fermo perché il dialogo sia proficuo consiste non solo nell’avvertire tale estraneità come errata, ma soprattutto - come afferma Ecclesiam suam - nella coscienza di "quanto, da una parte, sia importante per la salvezza dell’umana società, e dall’altra quanto stia a cuore alla Chiesa che ambedue s’incontrino, si conoscano, si amino"69 e nel cogente desiderio di superare lo stallo; un desiderio che diviene imperativo70:

Suppone pertanto il dialogo uno stato d’animo in noi, che intendiamo introdurlo e alimentarlo con quanti ci circondano: lo stato d’animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell’umano discorso71.

La Chiesa si coinvolge in questa relazione, in cui " si realizza l’unione della verità e della carità; dell’intelligenza e dell’amore"72, perché, pur non appartenendo al mondo, non gli è estranea, anzi è a servizio di esso e favorisce lo sviluppo della società e della civiltà:

La Chiesa è, sì, essenzialmente un’istituzione a sé stante, che trae da se stessa le sue ragioni di vita, le sue energie spirituali, le sue norme d’azione; si ricordi san Paolo: "Che cosa ha a che fare il fedele con l’infedele"? (2 Cor. 6,15); ma la Chiesa non è un "ghetto", non è una società chiusa, non è un ente che bada solo a se stesso, che si isola assolutamente dall’ambiente umano in cui si trova; un ente che non possiede il senso storico del divenire e del moltiplicarsi delle forme culturali; che si contenta di rapporti occasionali e inevitabili col mondo. La Chiesa è nel mondo, non del mondo, ma per il mondo. La Chiesa non prescinde da questo dato di fatto fondamentale; che essa è immersa nella società umana, la quale, esistenzialmente parlando, la precede, la condiziona, la alimenta; e ciò costituisce, a bene osservare, un rapporto degnissimo e fecondissimo fra la Chiesa e il mondo. Sarà sul filo di questo rapporto che la Chiesa tesserà la sua prima trama col mondo; ella non sarà mai antisociale, antistatale, anticulturale e, aggiungiamo pure, antimoderna; la Chiesa non sarà mai forestiera là dove mette radice, perché la Chiesa sorge dall’umanità; è l’umanità stessa elevata ad un grado superiore di vita nuova73.

Il dialogo implica una reciprocità tra i due soggetti implicati. Esso si svolge pertanto in una duplice direzione: anzitutto la Chiesa deve porsi in costante ascolto del mondo, scrutando i "segni dei tempi", ascoltandone attentamente le domande, rispondendo alle attese più vere e profonde:

Com’è chiaro, i rapporti fra la Chiesa ed il modo possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente parlando, la Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono rincontrarsi, anatematizzandoli e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via. Sembra a Noi invece che il rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma adattato all’indole dell’interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è infatti il dialogo con un fanciullo, ed altro con un adulto; altro con un credente, ed altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall’abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, non che dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo74.

Il mondo moderno - ove "l’umanesimo laico profano", rinunciatario "alla trascendenza delle cose supreme", "è apparso nella [sua] terribile statura" - si incontra così con la Chiesa,

la religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perchè tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto.

L’attenzione si è invece incentrata sulla "scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra)". Il fulcro di tale incontro è perciò costituito dalla considerazione dell’uomo75, "l’eterno bifronte suo viso: la miseria e la grandezza dell’uomo, il suo male profondo, innegabile, da se stesso inguaribile, ed il suo bene superstite, sempre segnato di arcana bellezza e di invitta sovranità". Da un lato vi è

l’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sè, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze; [...] l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sè, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa il "filius accrescens" (Gen. 49,22); e l’uomo sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del suo dolore; l’uomo individualista e l’uomo sociale; l’uomo "laudator temporis acti" e l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo...

ma anche la "faccia felice dell’uomo", la sua

vocazione fondamentale ad una pienezza di diritti e ad una trascendenza di destini; le sue supreme aspirazioni all’esistenza, alla dignità della persona, alla onesta libertà, alla cultura, al rinnovamento dell’ordine sociale, alla giustizia, alla pace76.

"La religione cattolica e la vita umana riaffermano così la loro alleanza, la loro convergenza in una sola umana realtà: la religione cattolica è per l’umanità; in un certo senso, essa è la vita dell’umanità". Sebbene i cristiani siano "più di tutti, [...] i cultori dell’uomo" e la Chiesa sia "esperta in umanità", la comunità cristiana - lo si è già rilevato - ha un messaggio specifico e uno specifico servizio verso il mondo:

Noi vogliamo anzitutto presentarci [...] a quel mondo in mezzo al quale ci troviamo. Noi siamo i rappresentanti e i promotori della religione cristiana. Noi abbiamo la certezza di promuovere una causa che viene da Dio; noi siamo i discepoli, gli apostoli, i missionari di Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, il Messia, il Cristo. Noi siamo i continuatori della sua missione, gli araldi del suo messaggio, i ministri della sua religione, che noi sappiamo possedere tutte le garanzie divine della verità. Noi non abbiamo altro interesse che quello d’annunciare la nostra fede. Noi non domandiamo nulla se non la libertà di professare e di proporre a chi lo vuole, in tutta libertà, di accogliere questa religione, questo nuovo legame instaurato fra gli uomini e Dio da Gesù Cristo, nostro Signore. Noi vogliamo poi aggiungere un altro punto che preghiamo il mondo di voler lealmente considerare. Si tratta dello scopo immediato della nostra missione, e che è il seguente: Noi desideriamo lavorare per il bene del mondo, per il suo interesse, per la sua salvezza. E Noi riteniamo anche che la salvezza che gli offriamo gli sia necessaria. Questa affermazione ne implica molte altre. Così: Noi guardiamo il mondo con immensa simpatia. Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo, quale che sia l’aspetto sotto cui quest’ultimo si presenta e quale che sia l’atteggiamento che esso adotta verso di essa. Il mondo lo sappia dunque: i rappresentanti e i promotori della religione cristiana hanno stima per esso e l’amano di un amore superiore e inesauribile: l’amore che la fede cristiana pone nel cuore della Chiesa; essa non fa altro che fungere da intermediario all’amore immenso e meraviglioso di Dio verso gli uomini. Ciò vuol dire che la missione del cristianesimo è una missione d’amicizia fra i popoli della terra, una missione di comprensione, d’incoraggiamento, di promozione, di elevazione; e, diciamolo ancora una volta, una missione di salvezza. Noi sappiamo che l’uomo moderno è fiero di fare le cose da sé; egli inventa del nuovo e realizza cose stupefacenti. Ma tutte queste realizzazioni non lo rendono né migliore, né più felice; esse non apportano ai problemi dell’uomo una soluzione radicale, definitiva e universale. L’uomo, Noi lo sappiamo ancora, lotta contro se stesso; egli conosce dubbi atroci. Noi sappiamo che la sua anima è invasa dalle tenebre e assediata dalle sofferenze. Noi abbiamo da comunicargli un messaggio che crediamo liberatore. E Noi ci crediamo tanto più autorizzati a proporlo perché è pienamente umano. È il messaggio dell’Uomo all’uomo. Il Cristo che noi portiamo all’umanità è "il Figlio dell’uomo", come egli stesso si è chiamato. Egli è il primogenito, il prototipo dell’umanità nuova; egli è il fratello, è il compagno, è l’amico per eccellenza. Di lui solo si può dire in tutta verità che "sapeva ciò che c’è in ogni uomo" (Io. 2,25). Egli è l’inviato di Dio, ma non per condannare il mondo, per salvarlo (cfr. Io. 3,17)77.

È evidente come dialogo e missione della Chiesa siano intimamente connessi, anzi siano coestesi: il rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo è "un modo d’esercitare la missione apostolica; è un’arte di spirituale comunicazione"78 e si dà nella forma della martyria, della testimonianza e dell’annuncio della fede, e il dialogo ne è la modalità costitutiva79:

Se davvero la Chiesa [...] ha coscienza di ciò che il Signore vuole ch’ella sia, sorge in lei una singolare pienezza e un bisogno di effusione, con la chiara avvertenza d’una missione che la trascende, d’un annuncio da diffondere. È l’ufficio apostolico. Non è sufficiente un atteggiamento di fedele conservazione. Certo, il tesoro di verità e di grazia, a noi venuto in eredità dalla tradizione cristiana, dovremo custodirlo, anzi dovremo difenderlo. Custodisci il deposito, ammonisce s. Paolo (1 Tim. 6,20). Ma né la custodia, né la difesa esauriscono il dovere della Chiesa rispetto ai doni che essa possiede. Il dovere congeniale al patrimonio ricevuto da Cristo è la diffusione, è l’offerta, è l’annuncio, ben lo sappiamo: Andate, dunque, istruite tutte le genti, (Matth. 28,19) è l’estremo mandato di Cristo ai suoi apostoli. Questi nel nome stesso di apostoli definiscono la propria indeclinabile missione. Noi daremo a questo interiore impulso di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo. La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio80.

Quest’opera, sia quanto alla sua vocazione divina, sia quanto alla sua destinazione, assume i contorni di un "dramma delle sproporzioni". Ascoltiamo la parabola dell’oceano, della formica e dell’Altro:

Quando Dio entra in scena, nella nostra scena umana, terrena e storica, quale equilibrio di proporzioni vi può essere? Se l’uomo stesso è un nodo di sproporzioni (cfr. Pascal, Pensées, 72), che sarà la sua statura quando egli viene in confronto e in combinazione con Dio, anche se Dio si è fatto uomo per stare con noi a nostro livello? (cfr. Bar. 3,38). E potremmo figurarci per comodità concettuale, questo quadro cos’: lo scenario è la storia, questa nostra storia, questo nostro tempo, nel quale stiamo cercando "i segni dei tempi"; uno scenario disuguale, pieno di luce e di tenebre, devastato da raffiche d’uragano che sembrano irresistibili, le ideologie moderne; e da qualche fresca brezza di primavera, i soffi dello Spirito, che "soffia dove vuole" (Gv. 3,8).

Su questo scenario tre personaggi: uno, che tutto lo occupa, la moltitudine incalcolabile degli uomini di oggi, crescenti, salienti, coscienti, come non lo erano stati mai, carichi di strumenti formidabili che danno loro potenza, che sa di prodigio, angelico o diabolico, salutare o micidiale, e che li rende dominatori della terra e del cielo e spesso schiavi di se stessi; giganti sono, e barcollano deboli e ciechi, agitati e furiosi in cerca di quiete e di ordine, sapienti su ogni cosa e scettici su tutto e sul proprio destino, sfrenati nella carne e folli nello spirito... Un carattere pare per tutti comune: sono infelici, manca loro qualche cosa di essenziale. Chi li può avvicinare? Chi istruire sulle cose necessarie alla vita, quando tante ne conoscono di superflue? Chi li può interpretare e può sciogliere in verità i dubbi che li tormentano? Chi svelare ad essi la vocazione, che essi hanno implicita nei loro cuori? Sono oceano queste folle, sono l’umanità. Essa occupa tutta la scena, essa vi passa lentamente e tumultuosamente; è lei che fa la storia.

Ma ecco un altro personaggio. Piccolo come una formica, debole, minimo fino alla quantité négligeable. Egli cerca di farsi largo in mezzo alla marea delle genti, tenta di dire una parola, si fa ostinato, cerca di farsi ascoltare e assume aspetto di maestro, di profeta; assicura di non proferire parole sue, ma una parola arcana e infallibile, una parola dai mille echi, che risuona nei mille linguaggi degli uomini. Ma ciò che piœ colpisce dal confronto che si è prodotto con questa presenza, ecco, è la sproporzione: sproporzione del numero, sproporzione di quantità, di potenza, di mezzi, sproporzione d’attualità. Ma il piccolo uomo, e voi avete compreso chi è: è l’apostolo, è il messaggero del Vangelo, è il testimonio; in questo caso, s’, il papa, che osa misurarsi con gli uomini. Davide e Golia? Altri dirà: Don Chisciotte... Scena irrilevante. Scena superata. Scena imbarazzante. Scena pericolosa. Scena ridicola. Cos’ si sente dire! E le apparenze sembrano giustificare questi commenti. Ma il piccolo uomo, quando riesce ad ottenere un po’ di silenzio e qualche ascoltatore, parla con un tono di certezza tutto suo; dice però cose inconcepibili, misteri d’un mondo invisibile, e pur vicino, il mondo divino, il mondo cristiano, ma misteri... E alcuni ridono, altri gli dicono: Ti ascolteremo un’altra volta, come capitò a san Paolo nell’Areopago di Atene (At. 17,32-33).

Però qualcuno lo ha ascoltato e sempre ascolta e si accorge che di quella flebile e sicura parola si distinguono due accenti singolari e dolcissimi, i quali risuonano meravigliosamente nel fondo del loro spirito: l’accento di verità e l’accento di amore. Si accorgono che la parola non è che strumentalmente di colui che la pronuncia: è una Parola a sé, una Parola d’un Altro. Dov’era e dov’è quest’Altro? Chi era e chi è questo Altro? Non poteva e non può essere che un essere vivo, una persona essenzialmente Parola, un Verbo fatto uomo, il Verbo di Dio. Dov’era e dov’è il Verbo di Dio fatto carne? Perche ormai era ed è chiaro che Egli era ed è presente! E questo è il terzo personaggio della scena del mondo: il personaggio che la sovrasta e la occupa tutta là dove gli è fatta accoglienza, per una via distinta, ma non insolita al sapere umano, per via di fede81.

Sul piano trascendente, il dialogo è fondato sul desiderio di Dio di entrare in contatto con l’uomo:

Ecco, Venerabili Fratelli, l’origine trascendente del dialogo. Essa si trova nell’intenzione stessa di Dio. La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l’uomo. La preghiera esprime a dialogo tale rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con l’umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell’incarnazione e quindi nel Vangelo. Il colloquio paterno e santo, interrotto tra Dio e l’uomo a causa del peccato originale, è meravigliosamente ripreso nel corso della storia. La storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l’uomo varia e mirabile conversazione. i! in questa conversazione di Cristo fra gli uomini (cfr. Bar. 3,38) che Dio lascia capire qualche cosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima nell’essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto; amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è il nostro comandamento supremo. Il dialogo si fa pieno e confidente; il fanciullo vi è invitato, il mistico vi si esaurisce82.

Anche il dialogo che la Chiesa deve cercare di instaurare con il mondo moderno ha le sue radici in quello che "Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo" - è il dinamismo trinitario che gia sopra abbiamo notato - ha "offerto e stabilito con noi"83. È da questo fondamentale rapporto che vengono dedotti i caratteri intrinseci di quello che la Chiesa deve creare con l’umanità: la spontaneità, l’ardore e la gratuità, l’illimitatezza e l’abnegazione, la libertà e la rispettosità, l’universalità, la gradualità, la pazienza e la tempestività:

Il dialogo della salvezza fu aperto spontaneamente dalla iniziativa divina: Egli (Dio) per primo ci ha amati (1 Io. 4,10): toccherà a noi prendere l’iniziativa per estendere agli uomini il dialogo stesso, senza attendere d’essere chiamati. Il dialogo della salvezza partì dalla carità, dalla bontà divina: Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo unigenito (Io. 3, 16), non altro che amore fervente e disinteressato dovrà muovere il nostro. Il dialogo della salvezza non si commisurò ai meriti di coloro a cui era rivolto, e nemmeno ai risultati che avrebbe conseguito o che sarebbero mancati: Non hanno bisogno del medico i sani (Luc. 5,31): anche il nostro dev’essere senza limiti e senza calcoli. Il dialogo della salvezza non obbligò fisicamente alcuno ad accoglierlo; fu una formidabile domanda d’amore, la quale, se costituì una tremenda responsabilità in coloro a cui fu rivolta (cfr. Matth. 11,21), li lasciò tuttavia liberi di corrispondervi o di rifiutarla, adattando perfino la quantità dei segni (cfr. Matth. 12,38 ss.) alle esigenze e alle disposizioni spirituali dei suoi uditori e la forza probativa dei segni medesimi (cfr. Matth. 13,13 ss.), affinché fosse agli uditori stessi facilitato il libero consenso alla divina rivelazione, senza tuttavia perdere il merito di tale consenso. Così la nostra missione, anche se è annuncio di verità indiscutibile e di salute necessaria, non si presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell’umana educazione, dell’interiore persuasione, della comune conversazione offrirà il suo dono di salvezza, sempre nel rispetto della libertà personale e civile. Il dialogo della salvezza fu reso possibile a tutti; a tutti senza discriminazione alcuna destinato (cfr. Col. 3,11); il nostro parimente dev’essere potenzialmente universale, cattolico cioè e capace di annodarsi con ognuno, salvo che l’uomo assolutamente non lo respinga o insinceramente finga di accoglierlo. Il dialogo della salvezza ha conosciuto normalmente delle gradualità, degli svolgimenti successivi, degli umili inizi prima del pieno successo (cfr. Matth. 13,31); anche il nostro avrà riguardo alle lentezze della maturazione psicologica e storica e all’attesa dell’ora in cui Dio lo renda efficace. Non per questo il nostro dialogo rimanderà al domani ciò che oggi può compiere; esso deve avere l’ansia dell’ora opportuna e il senso della preziosità del tempo (cfr. Eph. 5,16). Oggi, cioè ogni giorno, deve ricominciare; e da noi prima che da coloro a cui è rivolto84.

Cioè,

questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità di inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell’interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni85.

Di qui debbono scaturire quelle attitudini di chiarezza, di mitezza, di fiducia, di prudenza pedagogica che sono i segni distintivi del missionario e dell’evangelizzatore:

La chiarezza innanzi tutto; il dialogo suppone ed esige comprensibilità, è un travaso di pensiero, è un invito all’esercizio delle superiori facoltà dell’uomo; basterebbe questo suo titolo per classifìcarlo fra i fenomeni migliori dell’attività e della cultura umana; e basta questa sua iniziale esigenza per sollecitare la nostra premura apostolica a rivedere ogni forma del nostro linguaggio: se comprensibile, se popolare, se eletto. Altro carattere è poi la mitezza, quella che Cristo ci propose d’imparare da Lui stesso: Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore (Matth. 11,29); il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l’esempio che propone; non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è paziente; è generoso. La fiducia, tanto nella virtù della parola propria, quanto nell’attitudine ad accoglierla da parte dell’interlocutore: promuove la confidenza e l’amicizia; intreccia gli spiriti in una mutua adesione ad un Bene, che esclude ogni scopo egoistico. La prudenza pedagogica infine, la quale fa grande conto delle condizioni psicologiche e morali di chi ascolta (cfr. Matth. 7,6): se bambino, se incolto, se impreparato, se diffidente, se ostile; e si studia di conoscere la sensibilità di lui, e di modificare, ragionevolmente, se stesso e le forme della propria presentazione per non essergli ingrato e incomprensibile86.

A queste potremmo aggiungere una quinta caratteristica, che - senza attentare all’integrità dell’annuncio cristiano o pregiudicare la verità e rifiutando ogni compromesso ideologico87 - in qualche modo unifica e costituisce il presupposto delle altre: la simpatia, l’amicizia.

Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi. Bisogna, ancora prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremmo ricordare e studiarci di praticare secondo l’esempio e il precetto che Cristo ci lasciò (cfr. Io. 13,14-17)88.

Ecco perché la Chiesa è per tutti; e la diakonia che essa esercita nei confronti del mondo, dei suoi problemi e delle sue attese, è radicata nella suo essere cattolica:

Bisogna capire la novità psicologica e morale che un tal nome porta con sé: calato nel cuore degli uomini, il nome cattolico vi trova, sì, una naturale capacità d’espansione, un profondo ma vago istinto di dilatazione universale: "homo sum, et nil humani a me alienum puto". Ma vi trova soprattutto una terribile angustia, una ristrettezza che non lo lascia entrare; il cuore dell’uomo è piccolo, è egoista, non ha posto che per sè e per poche persone, quelle della propria famiglia e della propria casta; e quando, dopo nobili sforzi lunghi e faticosi, si allarga un po’, arriva a comprendere la propria patria e la propria classe sociale? ma sempre cerca barriere e confini, entro cui misurarsi e rifugiarsi. Ancor oggi il cuore dell’uomo moderno dura fatica a valicare questi interiori confini; e all’invito che il progresso civile gli rivolge di allargare le capacità dell’amore verso il mondo risponde con incertezza e a condizione, tuttora egoista, di avere in ciò il proprio vantaggio. L’utilità, il prestigio, quando ancora non sia la smania di dominare e di asservire gli altri a sé, governano il cuore dell’uomo. Ma se il nome di cattolico vi penetra davvero, ogni egoismo è superato, ogni classismo è elevato a piena solidarietà sociale, ogni nazionalismo è compaginato nel bene della comunità mondiale, ogni razzismo è condannato, come ogni totalitarismo è svelato nella sua inumanità; il cuore piccolo si spezza; o meglio, acquista una sconosciuta capacità di dilatazione. Parola di s. Agostino: "Dilatentur spatia caritatis". Cuore cattolico vuol dire cuore dalle dimensioni universali. Cuore che ha vinto l’egoismo, l’angustia radicale, che esclude l’uomo dalla vocazione dell’Amore supremo. Vuol dire cuore magnanimo, cuore ecumenico, cuore capace di accogliere il mondo intero dentro di sè. Non per questo sarà cuore indifferente alla verità delle cose e alla sincerità delle parole; non confonderà la debolezza con la bontà, non collocherà la pace nella viltà e nell’apatia. Ma saprà pulsare nella mirabile sintesi di s. Paolo: "Veritatem facientes in caritate" (Eph. 4, 15). Figli carissimi, comprendete che cosa vuol dire essere cattolici? comprendete a quale pedagogia, a quale sforzo d’amore questo nome vi sottoponga? Comprendete come nessuno meglio di voi può andare incontro alle aspirazioni universalistiche del mondo moderno, e nessuno meglio di voi può offrirgli l’esempio ed il segreto del sentimento dell’amore all’uomo perchè uomo? Perchè Figlio di Dio?89.

La Chiesa è dunque aperta ad ogni uomo: "Nessuno è estraneo al suo cuore. Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo. Non indarno si dice cattolica; non indarno è incaricata di promuovere nel mondo l’unità, l’amore, la pace"90. Essa

con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate. Non promette così la felicità terrena, ma offre qualche cosa - la sua luce, la sua grazia - per poterla, come meglio possibile, conseguire; e poi parla agli uomini del loro trascendente destino. E intanto ragiona ad essi di verità, di giustizia, di pace, di civiltà. Sono parole queste, di cui la Chiesa conosce il segreto; Cristo glielo ha confidato. E allora la Chiesa ha un messaggio per ogni categoria di uomini: lo ha per i bambini, lo ha per la gioventù, lo ha per gli uomini di scienza e di pensiero, lo ha per il mondo del lavoro e per le classi sociali, lo ha per gli artisti, lo ha per i politici e per i governanti. Per i poveri specialmente, per i diseredati, per i sofferenti, perfino per i morenti. Per tutti91.

Ma come si colloca l’umanità rispetto alla Chiesa? E come rapportarsi ad una immensa varietà di destinatari del suo messaggio, per ciascuno dei quali è necessario studiare un approccio particolare? Prima di rispondere a questi interrogativi, è importante affrontare il tema dell’evangelizzazione, il secondo pilastro della nostra disamina.

 

4. COME UN OSTENSORIO DEL MISTERO.

L’evangelizzazione nel mondo contemporaneo

Alle soglie del pontificato, nell’enciclica Ecclesiam suam Paolo VI aveva riletto complessivamente la missione della Chiesa mediante la categoria del dialogo, inteso come modalità universale di servizio nei confronti del mondo contemporaneo; un’attività che ha il suo fondamento trascendente nella dinamica trinitaria. Nel giro di un decennio, la riflessione montiniana sulla missione ecclesiale sembra però avere subito un ulteriore approfondimento. Nel 1975 infatti, al termine dell’Anno Santo, il pontefice emanava l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: essa costituiva non solo il documento conclusivo dei lavori della III assemblea generale del sinodo dei vescovi, tenutasi l’anno precedente e dedicata all’"evangelizzazione nel mondo contemporaneo", ma rispondeva anche all’esigenza di sintetizzare e di ordinare il magistero conciliare - in particolare quello contenuto nella costituzione Lumen gentium, nella Gaudium et spes e nel decreto Ad gentes92-, in un testo che costituì la magna charta dell’annuncio del Vangelo agli uomini d’oggi. Anche in questo caso il cuore del testo è costituito dal binomio Chiesa-missione, ma con due significative novità rispetto a dieci anni prima.

4.1. Lo Spirito del Signore è sopra di me

Anzitutto è importante notare il diverso modo di delineare l’origine della missione ecclesiale: se, delle due modalità di leggere il rapporto Chiesa-annuncio del Vangelo sopra delineate, Ecclesiam suam prediligeva la lettura de Trinitate, Evangelii nuntiandi recepirà la seconda, caratterizzata dal bipolarismo Cristo-Spirito. L’opzione a favore di questo schema teologico, sia pure ancora filtrata attraverso un’impostazione trinitaria, aveva già fatto capolino nel corso dell’omelia di apertura del sinodo, il 27 settembre 1974:

Signore Gesù! Eccoci pronti a partire per annunciare ancora il Tuo Vangelo al mondo, nel quale la Tua arcana, ma amorosa provvidenza ci ha posti a vivere! Signore, prega, come hai promesso, il Padre (Io. 16, 26) affinché Egli, Te mediante, ci mandi lo Spirito Santo, lo Spirito di verità e di fortezza, lo Spirito di consolazione, che renda aperta, buona ed efficace la nostra testimonianza; e sii con noi, o Signore, per renderci tutti uno in Te e idonei, per Tua virtù, a trasmettere al rnondo la Tua pace e la Tua salvezza. Amen93.

Coerentemente con la struttura cristologico-pneumatologica, il documento si dedica anzitutto ad illustrare l’opera di Gesù Cristo: "Gesù medesimo, Vangelo di Dio (cfr. Marc. 1,1; Rom. 1,1-3), è stato assolutamente il primo e il più grande evangelizzatore. Lo è stato fino alla fine: fino alla perfezione e fino al sacrificio della sua vita terrena"94:

La testimonianza che il Signore dà di se stesso e che san Luca ha raccolto nel suo Vangelo - "Devo annunziare la buona novella del Regno di Dio" (Luc. 4,43) - ha senza dubbio una grande portata, perché definisce con una parola la missione di Gesù: "Per questo sono stato mandato" (ibid.). Queste parole acquistano tutta la loro significazione, se si accostano ai versetti precedenti, dove il Cristo aveva applicato a se stesso l’espressione del profeta Isaia: "Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto annuncio" (Luc. 4,18; cfr. Is. 61,1). Proclamare di città in città, soprattutto ai più poveri, spesso più disposti, il gioioso annuncio del compimento delle promesse e dell’alleanza proposta da Dio: tale è la missione per la quale Gesù si dichiara inviato dal Padre. E tutti gli aspetti del suo ministero la stessa incarnazione, i miracoli, l’insegnamento, la chiamata dei discepoli, l’invio dei Dodici, la croce e la risurrezione, la permanenza della sua presenza in mezzo ai suoi-sono componenti della sua attività evangelizzatrice95.

Gesù rivela il Padre; egli annuncia in parole ed opere, con la predicazione e con i gesti96, il regno di Dio e la salvezza:

Evangelizzatore, il Cristo annunzia prima di tutto un Regno, il Regno di Dio, il quale è tanto importante, rispetto a lui, che tutto diventa "il resto", che è "dato in aggiunta" (cfr. Matth. 6,33). Solo il Regno è dunque assoluto e rende relativa ogni altra cosa. Il Signore si compiace di descrivere sotto innumerevoli forme diverse, la felicità di appartenere a questo Regno, felicità paradossale fatta di cose che il mondo rifiuta (cfr. Matth. 5,3-12); le esigenze del Regno e la sua magna charta (cfr. ibid. 5-7), gli araldi del Regno (cfr. ibid. 10), i suoi misteri (cfr. ibid. 13), i suoi piccoli (cfr. ibid. 18), la vigilanza e la fedeltà richieste a chiunque attende il suo avvento definitivo (cfr. ibid. 24-25). Come nucleo e centro della buona novella, il Cristo annunzia la salvezza, dono grande di Dio, che non solo è liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, ma è soprattutto liberazione dal peccato e dal maligno nella gioia di conoscere Dio e di essere conosciuti da lui, di vederlo, di abbandonarsi a lui. Tutto ciò comincia durante la vita del Cristo, è definitivamente acquisito mediante la sua morte e la sua risurrezione, ma deve essere pazientemente condotto nel corso della storia, per essere pienamente realizzato nel giorno della venuta definitiva del Cristo, che nessuno sa quanto avrà luogo, eccetto il Padre (cfr. ibid. 24,36; Act. 1,7; 1 Thess. 5,1-2)97.

È dall’opera e dal mandato di Gesù - nel quale in modo singolare coincidono evangelizzatore e vangelo, annunciatore e messaggio, rivelatore e rivelazione - che scaturisce la missione originaria degli apostoli, i primi ad accogliere la buona novella98, e poi di tutta la Chiesa, che a sua volta accoglie e poi trasmette un messaggio di salvezza a lei affidato:

Coloro che accolgono con sincerità la buona novella, proprio in virtù di questo accoglimento e della fede partecipata, si riuniscono nel nome di Gesù per cercare insieme il Regno, costruirlo, viverlo. L’ordine dato agli Apostoli - "Andate, proclamate la Buona Novella" - vale anche, sebbene in modo differente, per tutti i cristiani. È proprio per ciò che Pietro chiama questi ultimi "Popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose" (cfr. 1 Petr. 2,9), quelle medesime meraviglie che ciascuno ha potuto ascoltare nella propria lingua (cfr. Act. 2,11). Del resto, la buona novella del Regno, che viene e che è iniziato, è per tutti gli uomini di tutti i tempi. Quelli che l’hanno ricevuta e quelli che essa raccoglie nella comunità della salvezza, possono e devono comunicarla e diffonderla. La Chiesa lo sa. Essa ha una viva consapevolezza che la parola del Salvatore - "Devo annunziare la buona novella del Regno di Dio" (Luc. 4,43) - si applica in tutta verità a lei stessa. E volentieri aggiunge con s. Paolo: "Per me evangelizzare non è un titolo di gloria, ma un dovere. Guai a me se non predicassi il Vangelo!" (1 Cor. 9,16). [...] Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio del Cristo nella S. Messa che è il memoriale della sua morte e della sua gloriosa risurrezione. Chiunque rilegge, nel Nuovo Testamento, le origini della Chiesa, seguendo passo passo la sua storia e considerandola nel suo vivere e agire, scorge che è legata all’evangelizzazione da ciò che essa ha di più intimo:

- La Chiesa nasce dall’azione evangelizzatrice di Gesù e dei dodici. Ne è il frutto normale, voluto, più immediato e più visibile: "Andate dunque, fate dei discepoli in tutte le nazioni" (Matth. 28,19). Ora, "coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e circa tremila si unirono ad essi... E il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati" (Act. 2,41.47).

- Nata, di conseguenza, dalla missione, la Chiesa è, a sua volta, inviata da Gesù. La Chiesa resta nel mondo, mentre il Signore della gloria ritorna al Padre. Essa resta come un segno insieme opaco e luminoso di una nuova presenza di Gesù, della sua dipartita e della sua permanenza. Essa la prolunga e lo continua. Ed è appunto la sua missione e la sua condizione di evangelizzatore che, anzitutto, è chiamata a continuare (cfr. Lumen gentium, 8: AAS 57, 1965, p. 11; Ad gentes, 5: AAS 58, 1966, pp. 951-952). Infatti la comunità dei cristiani non è mai chiusa in se stessa. In essa la vita intima - la vita di preghiera, l’ascolto della Parola e dell’insegnamento degli Apostoli, la carità fraterna vissuta, il pane spezzato (cfr. Act. 2,42-46; 4,32-35; 5,12-16) - non acquista tutto il suo significato se non quando essa diventa testimonianza, provoca l’ammirazione e la conversione, si fa predicazione e annuncio della buona novella. Così tutta la Chiesa riceve la missione di evangelizzare, e l’opera di ciascuno è importante per il tutto.

- Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunita d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo c’ò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore. Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare "le grandi opere di Dio" (cfr. ibid. 2,11; 1 Petr. 2,9) che l’hanno convertita al Signore, e d’essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo. [...]

- La Chiesa è depositaria della buona novella che si deve annunziare. Le promesse della Nuova Alleanza in Gesù Cristo, l’insegnamento del Signore e degli apostoli, la Parola di vita, le fonti della grazia e della benignità di Dio, il cammino della salvezza: tutto ciò le è stato affidato. Il contenuto del Vangelo, e quindi dell’evangelizzazione, essa lo conserva come un deposito vivente e prezioso, non per tenerlo nascosto, ma per comunicarlo.

- Inviata ed evangelizzata, la Chiesa, a sua volta, invia gli evangelizzatori. Mette nella loro bocca la Parola che salva, spiega loro il messaggio di cui essa stessa è depositaria, dà loro il mandato che essa stessa ha ricevuto e li manda a predicare: ma non a predicare le proprie persone o le loro idee personali (cfr. 2 Cor. 4,5; S. Augustini Sermo XLVI, De pastoribus: CCL XLI, pp. 529-530), bensì un Vangelo di cui né essi, né essa sono padroni e proprietari assoluti per disporne a loro arbitrio, ma ministri per trasmetterlo con estrema fedeltà.

C’è dunque un legame profondo tra il Cristo, la Chiesa e l’evangelizzazione. Durante questo tempo della Chiesa è lei che ha il mandato di evangelizzare. Questo mandato non si adempie senza di essa, né, e ancor meno, contro di essa99.

Tale missione - che comprende sia il lieto annuncio della salvezza che l’attività che rende operante e viva questa salvezza - è direttamente dipendente dalla volontà e dal comando di Cristo; essa non è facoltativa per l’organismo ecclesiale, bensì (come già il dialogo) si dà come imperativo, poiché in difetto la Chiesa sarebbe infedele al proprio mandato:

La presentazione del messaggio evangelico non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati. Sì, questo messaggio è necessario. È unico. È insostituibile. Non sopporta né indifferenza, né sincretismi, né accomodamenti. È in causa la salvezza degli uomini. Esso rappresenta la bellezza della rivelazione. [...] Esso è la Verità. Merita che l’apostolo vi consacri tutto il suo tempo, tutte le sue energie, e vi sacrifichi, se necessario, la propria vita100.

La necessità e la cogenza dell’annuncio già era stata affermata dal pontefice durante il sinodo dei vescovi del 1974, come una delle caratteristiche salienti dell’opera di evangelizzazione:

Evangelizzare non è per noi invito facoltativo, ma è dovere stringente, come si esprime, con monito quasi minaccioso - e parlava a se stesso! - l’Apostolo delle Genti, che dell’evangelizzazione fu appassionato maestro e ministro: Grava su di me una stretta obbligazione: e guai a me, se non farò opera di evangelizzazione (1 Cor. 9,16). Questo guai, tanto rigido e duro, può a prima vista sembrare in contraddizione con la temperie suadente e dolcissima dell’annuncio evangelico, ma, in realtà, è salutare e opportuno: esso fa riflettere, deve far riflettere sull’imperativo permanente dell’opera di evangelizzazione e sulle relative responsabilità di tutti coloro che, nella compagine ben articolata del popolo di Dio, partecipano, in vario modo, dell’unico ed indiviso ministero apostolico. Evangelizzare non è, dunque, opera occasionale o temporanea, ma impegno stabile e costituzionale necessità della Chiesa: dall’andate, ammaestrate tutte le genti (cfr. Matth. 28,18-20; Marc. 16,15) del suo Fondatore, alla parola incisiva di Paolo, a quella, parimenti ferma, di Pietro e Giovanni (Noi non possiamo non parlare di quel che abbiamo visto ed udito - Act. 4, 20), il mandato perdura coerente e cogente fino al più recente concilio101.

Se questo impegno è stabile, il nostro, in particolare, si caratterizza come tempo dell’evangelizzazione:

Il Maestro ci dice di andare in mundum universum (Marc. 16,15), e noi sappiamo bene come è da questo preciso mandato che il nostro ministero si qualifica universale e cattolico, anzi - é lecito aggiungere sulla base del termine greco - cosmico. Non ha, dunque, limiti geografici l’evangelizzazione: potenzialmente, essa tende e deve comprendere tutto il mondo, il mondo umano prima di tutto, ma, per la centralità dell’uomo nella realtà della creazione, per la funzione rappresentativa e sacerdotale ch’egli vi esercita, anche il mondo inanimato delle cose tutte. Questo panorama del mondo, sul quale s’affaccia la responsabilità di noi evangelizzatori, ci dà l’idea dell’immensità, ci fa toccare con mano il peso della nostra missione. Quanto, quanto c’è ancora da fare! Ne risulta a prima vista un’inferiorità schiacciante, un’inadeguatezza da parte nostra che può sembrare insufficienza totale. Ma è per questo che deve affermarsi e confermarsi il nostro impegno: lo sguardo sul mondo e sull’avvenire non deve generare l’accidia, propria dell’uomo che non attinga al fonte della grazia apostolica il proprio giudizio sul mondo ed il metro per valutare le reali possibilità della sua missione. Tutt’altro: lungi dal ripiegarci in noi stessi, appunto per reagire alla tentazione dell’inerzia, noi dobbiamo esser certi che la "virtù", ossia la forza, l’aiuto, il soccorso del Signore è con noi. Ce lo garantisce lo stesso Gesù nel passo conclusivo parallelo a questo del primo Vangelo: Et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus (Matth. 28,20), e l’esame della scena mobile della storia moderna ce ne offre la conferma. Gli uomini oggi si staccano dalla religione, e non ascoltano facilmente il nostro messaggio perché sono convinti, a torto, che l’immenso progresso della civiltà razionale, quale risulta dalla tecnologia e dalla scienza, annulla il bisogno della religione, mentre a chi ben osserva la realtà dei fenomeni umani, si fa più chiara una duplice conseguenza di tale progresso. Da una parte, le religioni create dall’uomo non gli bastano, mentre l’uomo progredito si crede soddisfatto e sostituisce la fiducia nella fecondità meravigliosa del proprio lavoro guidato dalla scienza, alla mentalità religiosa che così è dissolta dall’ateismo. Dall’altra, però, e nello stesso tempo egli si sente inesorabilmente più bisognoso di conoscere il mistero, anzi i misteri del cosmo, del pensiero, della vita, e sperimenta fatalmente la propria delusione radicale, privo com’è della verità religiosa. E questa, a sua volta, s’imporrebbe come enigma perenne, se essa stessa non fosse sostenuta da una Parola misteriosa, e sola capace di sorreggere dall’alto l’edificio della scienza umana, la quale più progredisce e più postula il soccorso di questa Parola dall’alto, purché vera, purché certificata da un Maestro capace d’introdurre il pensiero umano nella sfera più elevata della verità suprema e del destino "soprannaturale" dell’uomo. Il bisogno di questa Parola, che esige la fede da parte dell’uomo, è al giorno d’oggi più forte e tormentoso che mai; e solo quando esso sia soddisfatto dal Vangelo, ch’è verità non contraria a quella scientifica, ma superiore, la luce ritorna sulla terra. Se così è, carissimi Fratelli - come l’esperienza pastorale ed una non difficile indagine psicologica ci attestano - la nostra missione può tuttora trovare una felicissima accoglienza. Ad un tale livello, non superficiale, non esterno, questo non è da considerare tempo d’ateismo, ma piuttosto tempo di fede, tempo della nostra fede, ch’è la vera102.

La seconda sorgente e, insieme, il telos della missione della Chiesa è lo Spirito Santo, disceso su Gesù al momento del battesimo, donato da Cristo ai discepoli nella Pentecoste, conforto e ispiratore degli apostoli e dei discepoli. È lo "Spirito dell’evangelizzazione" che, oggi come allora, sostiene e illumina l’annuncio della fede:

L’evangelizzazione non sarà mai possibile senza l’azione dello Spirito Santo. Su Gesù di Nazareth, lo Spirito discende nel momento del battesimo, quando la voce del Padre - "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto" (Matth. 3,17) - manifesta in modo sensibile la sua elezione e la sua missione. "Condotto dallo Spirito", egli vive nel deserto la lotta decisiva e la prova suprema prima di iniziare tale missione (ibid. 4,1). "Con la potenza dello Spirito" (Luc. 4,14) egli ritorna in Galilea, e a Nazareth dà inizio alla sua predicazione, applicando a se stesso il brano di Isaia: "Lo Spirito del Signore è sopra di me". "Oggi - egli proclama - si è adempiuta questa Scrittura" (Luc. 4,18.21; cfr. Is. 61,1) o ai discepoli, quando è sul punto di inviarli, dice alitando su di loro: "Ricevete lo Spirito Santo" (Io. 20,22). Di fatto, soltanto dopo la discesa dello Spirito Santo, nel giorno della Pentecoste, gli apostoli partono verso tutte le direzioni del mondo per cominciare la grande opera di evangelizzazione della Chiesa, e Pietro spiega l’evento come realizzazione della profezia di Gioele: "Io effonderò il mio Spirito" (Act. 2,17). Pietro è ricolmato di Spirito Santo per parlare al popolo su Gesù, Figlio di Dio (cfr. ibid. 4,8). Paolo, a sua volta, è riempito di Spirito Santo (cfr. ibid. 9,17) prima di dedicarsi al suo ministero apostolico, come pure lo è Stefano quando è scelto per esercitare la diaconia, e più tardi per la testimonianza del martirio (cfr. ibid. 6,5.10; 7,55). Lo stesso Spirito che fa parlare Pietro, Paolo o gli altri apostoli, ispirando loro le parole da dire, discende anche "sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso"(cfr. ibid. 10,44). "Colma del conforto dello Spirito Santo", la Chiesa "cresce" (cfr. ibid. 9,31). Lo Spirito è l’anima di questa Chiesa. È lui che spiega ai fedeli il significato profondo dell’insegnamento di Gesù e del suo mistero. È lui che, oggi come agli inizi della Chiesa, opera in ogni evangelizzatore che si lasci possedere e condurre da lui, che gli suggerisce le parole che da solo non saprebbe trovare, predisponendo nello stesso tempo l’animo di chi ascolta perché sia aperto ad accogliere la buona novella e il regno annunziato. Le tecniche dell’evangelizzazione sono buone, ma neppure le più perfette tra di esse potrebbero sostituire l’azione discreta dello Spirito. Anche la preparazione più raffinata dell’evangelizzatore, non opera nulla senza di lui. Senza di lui la dialettica più convincente è impotente sullo spirito degli uomini. Senza di lui, i più elaborati schemi a base sociologica, o psicologica, si rivelano vuoti e privi di valore. Noi stiamo vivendo nella Chiesa un momento privilegiato dello Spirito. Si cerca da per tutto di conoscerlo meglio, quale è rivelato dalle Sacre Scritture. Si è felici di porsi sotto la sua mozione. Ci si raccoglie attorno a lui e ci si vuol lasciar guidare da lui. Ebbene, se lo Spirito di Dio ha un posto eminente in tutta la vita della Chiesa, egli agisce soprattutto nella missione evangelizzatrice: non a caso il grande inizio dell’evangelizzazione avenne il mattino di Pentecoste, sotto il soffio dello Spirito. Si può dire che lo Spirito Santo è l’agente principale dell’evangelizzazione: è lui che spinge ad annunziare il Vangelo e che nell’intimo delle coscienze fa accogliere e comprendere la parola della salvezza (cfr. Ad gentes, 4: AAS 58, 1966, pp. 950-951). Ma si può parimente dire che egli è il termine dell’evangelizzazione: egli solo suscita la nuova creazione, l’umanità nuova a cui l’evangelizzazione tende a provocare nella comunità cristiana. Per mezzo di lui il Vangelo penetra nel cuore del mondo, perché egli guida al discernimento dei segni dei tempi - segni di Dio - che l’evangelizzazione discopre e mette in valore nella storia103.

4.2. Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura

Se nel 1964 l’enciclica Ecclesiam suam aveva definitivamente stabilito la corrispondenza tra missione della Chiesa e dialogo, visto come modalità globale del rapporto tra annuncio della salvezza e mondo contemporaneo, nel 1975 l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi comportò una seconda acquisizione di tipo terminologico: l’evangelizzazione. Sebbene sporadicamente presente anche in precedenza, solo in concomitanza con il sinodo dei vescovi (1974), tale espressione sembra essere sistematicamente adottata - con un guadagno irreversibile - per definire in modo comprensivo l’attività e, nel contempo, l’identità della Chiesa: operari sequitur esse.

Ma cosa significa evangelizzare? Paolo VI si mostra molto cauto nel dare una definizione, a motivo della complessità di tale opera, sovente frammentata in una molteplicità di elementi che poi non costituiscono un complesso unitario:

Nell’azione evangelizzatrice della Chiesa, ci sono certamente degli elementi e degli aspetti da ritenere. Alcuni sono talmente importanti che si tende ad identificarli semplicemente con l’evangelizzazione. Si è potuto così definire l’evangelizzazione in termini di annuncio del Cristo a coloro che lo ignorano, di predicazione, di catechesi, di battesimo e di altri sacramenti da conferire. Nessuna definizione parziale e frammentaria può dare ragione della realtà ricca, complessa e dinamica, quale è quella dell’evangelizzazione, senza correre il rischio di impoverirla e perfino di mutilarla. È impossibile capirla, se non si cerca di abbracciare con lo sguardo tutti gli elementi essenziali104;

l’evangelizzazione [...] è un processo complesso e dagli elementi vari: rinnovamento dell’umanità, testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento dei segni, iniziative di apostolato. Questi elementi possono apparire contrastanti e persino esclusivi. Ma in realtà sono complementari e si arricchiscono vicendevolmente. Bisogna sempre guardare ciascuno di essi integrandolo con gli altri105.

L’evangelizzazione è anzitutto l’annuncio della buona novella e del regno di Dio per rinnovamento dell’umanità intera, nella sua varia configurazione e composizione:

Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la buona novella in tutti gli strati dell’umanità, e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa: "Ecco io faccio nuove tutte le cose" (Apoc. 21,5; cfr. 2 Cor. 5,17; Gal. 6,15). Ma non c’è nuova umanità, se prima non ci sono uomini nuovi, della novità del battesimo (cfr. Rom. 6,4) e della vita secondo il Vangelo (cfr. Eph. 4,23-24; Col. 3,9-10). Lo scopo dell’evangelizzazione è appunto questo cambiamento interiore e, se occorre tradurlo in una parola, più giusto sarebbe dire che la Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama (cfr. Rom. 1,16; 1 Cor. 1,18; 2,4), cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri106.

Universalismo della fede non significa pertanto semplice espansione geografica, bensì trasformazione profonda, mediante il Vangelo, non solo degli uomini, complessivamente e singolarmente considerati, ma anche di tutto ciò che è propriamente umano:

Strati dell’umanità che si trasformano: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo così: occorre evangelizzare - non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell’uomo107.

La trasformazione della cultura e della società moderna non avviene però in modo generalizzato, ma passa attraverso la coscienza del singolo che decide di aderire alla salvezza e di cambiare vita. L’evangelizzazione tende all’adesione alla Parola di Dio e alla metanoia, cioè alla rottura col passato e all’apertura al futuro offerto da Dio nel Cristo risorto, come risposte all’annuncio evangelico:

Questo Regno e questa salvezza, parole-chiave dell’evangelizzazione di Gesù Cristo, ogni uomo può riceverli come grazia e misericordia, e nondimeno ciascuno deve, al tempo stesso, conquistarli con la forza - appartengono ai violenti, dice il Signore (cfr. Matth. 11,12; Luc. 16,16) - con la fatica e la sofferenza, con una vita secondo il Vangelo, con la rinunzia e la croce, con lo spirito delle beatitudini. Ma, prima di tutto, ciascuno li conquista mediante un totale capovolgimento interiore che il Vangelo designa col nome di "met‡noia", una conversione radicale, un cambiamento profondo della mente e del cuore (cfr. Matth. 4,17)108.

Si sarà già compresa l’importanza del passaggio segnato da Evangelii nuntiandi: il documento offre non solo (come già avveniva con Ecclesiam suam) un punto di vista complesivo per considerare in termini pastorali la missione dell’intera Chiesa, ma permette anche di rileggere in modo organico una serie di attività (annuncio, predicazione, catechesi, conferimento dei sacramenti...) prima concepite in modo quasi indipendente e parallelo, e che ora divengono modalità espressive dell’identico sforzo di diffusione del Vangelo. Per questa via vengono inoltre superate una serie di separazioni, quando non di contrapposizioni, ad esempio tra apostolato, testimonianza e missione, oppure tra paesi già cristianizzati (e, a loro volta, di antica o recente cristianizzazione) e terre di missione. Il nuovo modo di accostare la dinamica dell’evangelizzazione permette altresì di eliminare false comprensioni, che riguardano tanto i soggetti coinvolti in tale opera, quanto il termine ad quod essa è destinata: così, se non è più possibile concepire attività ecclesiali che non mirino, secondo specifiche modalità, all’annuncio della buona novella, egualmente è escluso che vi siano delle aree dell’attività umana che non debbano costituire oggetto di evangelizzazione o che siano ad essa impermeabili o che l’adesione al Vangelo avvenga definitivamente e una volta per tutte, in luogo di stare sotto la categoria del "già e non ancora", che richiede una continua conversione.

 

5. UN ALBERO DALLA SICURA E FECONDA RADICE.

I contenuti dell’annuncio

Dopo aver compreso cosa significhi "evangelizzazione", è necessario domandarsi quali siano i contenuti imprescindibili del messaggio di cui la Chiesa è depositaria e annunciatrice, dell’evangelizzazione, "il contenuto essenziale, la sostanza viva, che non si può modificare né passare sotto silenzio, senza snaturare gravemente la stessa evangelizzazione"109. Evangelii nuntiandi risponderà in modo assai sintetico e denso, indicando principalmente tre temi: il disegno d’amore di Dio, la salvezza che ci è data in Gesù Cristo e la dimensione escatologica dell’esistenza.

5.1. Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro

L’annuncio della buona novella deve mettere anzitutto a tema il disegno di salvezza di Dio Padre sul mondoe sull’uomo, creati per amore e indefettibilmente amati lungo i tempi:

Non è superfluo ricordarlo: evangelizzare è anzitutto testimoniare, in maniera semplice e diretta, Dio rivelato da Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Testimoniare che nel suo Figlio ha amato il mondo; che nel suo Verbo incarnato ha dato ad ogni cosa l’essere ed ha chiamato gli uomini alla vita eterna. Questa attestazione di Dio farà raggiungere forse a molti il Dio ignoto, (cfr. Act. 17,22-23) che essi adorano senza dargli un nome, o che cercano per una ispirazione segreta del cuore allorquando fanno l’esperienza della vacuità di tutti gli idoli. Ma è pienamente evangelizzatrice quando manifesta che, per l’uomo, il Creatore non è una potenza anonima e lontana: è il Padre. "Siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1 Io. 3,1; cfr. Rom. 8,14-17), e siamo dunque fratelli gli uni gli altri in Dio110.

È Gesù Cristo - "la prima "esegesi" del Padre, la sua "Parola", quella che ce lo manifesta, ed ogni ulteriore parola su Dio e sul Cristo si basa su questa prima rivelazione del Padre"111 - a rivelarci l’esistenza di Dio e a metterci in contatto con lui:

Che Gesù non sia soltanto il rivelatore di Se stesso (la grande capitale questione del Vangelo: "Chi è il Figlio dell’uomo?", Matth. 16,13. "Tu, chi sei?", Io. 8,25), ma altresi il rivelatore di Dio, si sa (cf. Matth. 11,27); ma ciò che oggi interessa gli studiosi è l’osservare che Gesù rivela Dio in Gesù stesso; chi vede Lui (lo dice Gesù stesso), vede il Padre (cf. Io. 14,9); Egli, due volte asserisce s. Paolo, "è l’immagine di Dio" (2 Cor. 4,4; Col. 1,15; cf. Feuillet: Le Christ Sagesse de Dieu, p. 113 ss.); forse che non dobbiamo andare oltre nella nostra ricerca di Dio, e che dobbiamo rinunciare alla pretesa di mirare alla trascendenza di Dio, con tutto ciò che di sacro, di teologico, di mistico, d’ineffabile essa porta con sé, per fermarci alla visione del volto umano del Signore e alla coscienza del nostro comune destino con Lui?112

Come si ritrova nella solenne professione di fede pronunciata a conclusione dell’Anno della fede 1968, Gesù rivela il volto del "Dio-essere" e, insieme, del "Dio-amore":

Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni, nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosè (cfr. Ex. 3,14); è amore, come ce lo insegna l’apostolo Giovanni (cfr. 1 Io. 4,8): cosicché questi due nomi, essere e amore, esprimono ineffabilmente la stessa realtà divina di Colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che "abitando in una luce inaccessibile" (cfr. 1 Tim. 6,16) è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata113.

Il Dio-essere, nel Verbo fatto uomo crea e fa sussistere ogni cosa:

Le cose, quanto più perfettamente sono conosciute, parlano, "annunciano la gloria di Dio" (Ps. 18,2), si dichiarano da sé effetti d’una causa superiore, ci dimostrano da sé d’essere segni d’un pensiero dominante, ci avvicinano da sé a quell’unico e sommo essere, che, secondo la celebre sintesi di s. Agostino, è "causa della esistenza, ragione della conoscenza, e ordine dell’azione" (De civ. Dei, VIII, 4; PL 41, 228)114.

Cristo è dunque la sorgente e il telos di tutta la creazione e di tutto l’universo, è il cardine dell’ordine cosmico:

Chi è Cristo? Ecco la questione decisiva. Risponde san Giovanni, al primo capitolo del suo Vangelo: è il Verbo, è Dio, è Colui per virtù del Quale tutte le cose furono fatte. E san Paolo confermerà: è Colui che "è avanti a tutte le cose; e tutte le cose sussistono per lui" (Col. 1,17); ed è Colui che un giorno, il giorno finale "della restaurazione di tutte le cose" (della "apocatastasi" Act. 3,21) nel quale Egli con la sua potenza "assoggetterà a sé tutte le cose" (Phil. 3,21). Cioè Cristo è l’alfa e l’omega, il principio e il fine (cfr. Apoc. 1,8; 21,6; 22,13), non solo per i destini dell’uomo, ma per il cosmo intero, che in Lui ha il suo punto focale, donde ogni senso, ogni luce, ogni ordine, ogni pienezza115.

In relazione a Cristo è pertanto necessario rivedere "le dimensioni della nostra filosofia, della nostra concezione del mondo, della storia della nostra personale esistenza"116: il nostro rapporto con Dio, che si svolge lungo il filo dei giorni dell’esistenza, non si dà come accessorio o estemporaneo, bensì ne è dimensione costitutiva ed essenziale:

La nostra umana esistenza nasce, vive, si svolge e tramonta in un rapporto esistenziale e morale con Dio. Qui è tutta la sapienza della vita; qui la filosofia della verità, qui la teologia del nostro destino. Noi nasciamo creature di Dio; noi siamo ontologicamente da Lui dipendenti; e, volere o no, noi siamo davanti a Lui responsabili. Siamo costruiti così. Intelligenza, volontà, libertà, cuore, amore e dolore, tempo e lavoro, relazioni umane e sociali, la vita, in una parola, ha una derivazione variamente determinata, ed ha una finalità, pure variamente definita, in rapporto con Dio. L’uomo non è adeguatamente concepibile senza questo riferimento essenziale con Dio. Per quanto misterioso e trascendente, e perciò ineffabile sia il Dio eterno principio dell’universo, Egli incombe sopra di noi, ci conosce, ci osserva, ci penetra, ci conserva continuamente; è il Padre della nostra vita. Lo possiamo ignorare, dimenticare, disconoscere, negare e rinnegare; Egli è. È vivo, è vero. "In Lui noi viviamo, ci muoviamo, ed esistiamo", come afferma s. Paolo all’Areopago d’Atene (Act. 17,28)117.

Inoltre nel suo Figlio Gesù Cristo, il Dio-amore ama il mondo. Questo è l’annuncio sconvolgente che attraversa i tempi e giunge fino a noi:

Dio è Amore (1 Io. 4,8. 16; Io. 3,16). Questa è l’estrema rivelazione su Dio la quale appare nella notte della negazione e della disperazione, nelle nubi dell’ignoranza e del dubbio, nei lampi del timore e della terribilità del Dio giudice e vindice nello stordimento stesso d’una verità così impensata ed abbagliante: Dio è Amore! (cfr. 1 Io 4,10; Rom. 5,8; cfr. le parabole della misericordia: Lc. 15 spec. quella del figliol prodigo; etc.). Questa centralità dell’amore di Dio per noi ha espressioni che superano ogni dimensione e ogni capacità di comprensione (cfr. Eph. 3,17-19), e ci offre ineffabili incontri con la Divinità, misteriosa sempre, ma accessibile ormai sopra un piano soprannaturale, che eleva quello naturale a insperate fortune, come nell’incarnazione (Io. 3,16), nella redenzione (2 Thess. 2,16), nell’Eucaristia (Io. 6,32), nella Pentecoste e in tutta l’economia della grazia (Rom. 8,30; 1 Io. 3,1). Siamo amati da Dio! Questa è una rivelazione, una scoperta, che sta alla base del Nuovo Testamento, e che dobbiamo trasferire da una semplice nozione verbale a cardine portante di tutta la nostra concezione religiosa e morale; dobbiamo far nostra, profondamente, l’affermazione dell’evangelista Giovanni, nella sua prima Epistola: "Noi abbiamo creduto alla carità che Dio ha per noi", credimus caritati (1 Io. 4,16); e perciò una reciprocità, per quanto sproporzionata si impone: "Noi dunque dobbiamo amare Dio, perché Egli per primo ci amò" (ibid. 19)118.

Gesù ci rivela quindi una divinità che non solo possiede tutti i caratteri già noti all’indagine filosofica, ma soprattutto un Dio che ci è Padre: il Creatore non è più una potenza anonima e lontana, ma l’oggetto - non sempre riconosciuto - del desiderio dell’uomo e il senso ultimo della sua vita:

Gesù ci ha rivelato il volto di Dio: Dio è Padre! (cfr. Matth. 11,25 ss.). [...] Ecco Gesù, ecco il Maestro, che ci infonde l’indiscutibile certezza su Dio! La certezza che Dio è, ch’Egli è infinitamente personale e vivente, ch’Egli è l’assoluto e il necessario, ch’Egli è creatore con atto trascendente e onnipotente, e ch’Egli è conservatore con atto immanente e provvidenziale per ogni altro essere, che creatura si chiama; e finalmente ch’Egli ha un nome sovrano e dolcissimo, radicato nel nostro essere stesso: è Padre! (cfr. spec. "Discorsi dell’ultima Cena"; Eph. 1)119;

Gesù è venuto e ci ha insegnato un nome semplicissimo, desunto dalla nostra esperienza umana, ma elevato a vertici senza confine. Iddio lo chiamerai Padre. E cioè riconoscerai in Lui la sorgente della vita, dell’amore: Colui che veglia sopra di te, Colui del quale non puoi fare a meno. La tua esistenza non ha senso, né possibilità di affermarsi, senza postulare la sua divina origine e senza dirigere i suoi passi verso il suo eterno fine. Dio è il tuo Padre. Ciò vuol dire che un rapporto di amore è stabilito fra questo Principio dell’esistenza da cui tutti gli esseri derivano, e te stesso. Tu sei parente di Dio, figlio di Dio! Dovremmo qui commentare quale sia il conforto derivante alla scienza, allo studio, al pensiero umano, quando abbiamo sopra di noi questo unico Sole a rischiarare il nostro orizzonte e a dare il senso alle cose, all’universo, alla vita, al tempo, a tutte le nostre vicende: all’amore, al dolore, alla morte. Sempre Dio è la luce, la spiegazione, il rifugio, il sollievo. Egli è l’oggetto, inconsapevolmente, forse, da parte nostra, del nostro amore120.

Se dunque gli uomini hanno in Dio un solo Padre, essi sono tutti fratelli:

Nella paternità di Dio sta il principio supremo della fraternità umana; se, per cercare l’umanità, perdessimo la fede e la grazia della paternità divina, perderemmo insieme la ragione prima di chiamare fratelli gli uomini. No; bisogna ricordare che Cristo è la via che ci introduce nel mondo divino, così com’è la via che si apre sugli orizzonti della vita umana; l’una e l’altra si toccano e si comunicano all’incontro, che s. Agostino ha più volte descritto nelle due famose parole: miseria e misericordia (cf. Enar. in Ps. 32; PL 36, 287; cf. Congar: Jésus Christ, I)121.

La scoperta dell’universale figliolanza divina e, di riflesso, della comune fraternità, apre così nuove prospettive e nuovi orizzonti per la convivenza umana:

Un senso di profonda simpatia Ci ha confermato allora ciò che il cristianesimo dice da secoli, e che l’evoluzione della civiltà va lentamente e gradualmente riconoscendo e proclamando: gli uomini sono fratelli. I rapporti fra gli uomini diventano così facili e molteplici da doversi risolvere in amore. Le distanze sono così abbreviate e quasi abolite, che l’amore deve diventare universale; la nozione di prossimo, che già il Vangelo del Samaritano allargava oltre i confini convenzionali, investe l’intera umanità: tutti sono nostro prossimo. L’evidenza, da un lato, dei bisogni altrui si fa così palese e implorante, e la possibilità di soccorrerli, dall’altro, cresce oggi in così abbondanti proporzioni, che si fa luce lo scopo verso cui deve oggi rivolgersi la costruzione della civiltà: organizzare la solidarietà fra gli uomini, affinché nessuno manchi di pane e di dignità, e affinché tutti abbiano come supremo interesse il bene comune. Il progresso civile viene scoprendo come esigenza, come conquista, ciò che Cristo, fattosi uomo come noi e nostro maestro, già ci aveva insegnato dalle pagine, non mai pienamente comprese, non ancora universalmente applicate, del suo Vangelo: "Voi siete tutti fratelli" (Matth. 23,8); cioè eguali, cioè solidali, cioè obbligati a riconoscere in ciascun di voi riflessa l’immagine dello stesso Padre celeste, e a promuovere scambievolmente il raggiungimento dei medesimi destini: la pienezza umana e la figliolanza divina per la grazia, in questa vita, la beatitudine eterna nella vita futura. Oggi la fratellanza s’impone; l’amicizia è il principio d’ogni moderna convivenza umana. Invece di vedere nel nostro simile l’estraneo, il rivale, l’antipatico, l’avversario, il nemico, dobbiamo abituarci a vedere l’uomo, che vuol dire un essere pari al nostro, degno di rispetto, di stima, di assistenza, di amore, come a noi stessi. Ritorna a risonare al nostro spirito la parola stupenda del santo dottore africano: "Dilatentur spatia caritatis", che i confini dell’amore si allarghino (Sermo 69,1; PL 38, 440). Bisogna che cadano le barriere dell’egoismo; e che l’affermazione di legittimi interessi particolari non sia mai offesa per gli altri, né mai negazione di ragionevole socialità. Bisogna che la democrazia, a cui oggi si appella la convivenza umana, si apra ad una concezione universale, che trascenda i limiti e gli ostacoli ad un’effettiva fratellanza122.

5.2. Cristo, nostra Pasqua

Il cuore del messaggio cristiano è costituito dall’annuncio della salvezza che Dio ci dona in Gesù Cristo:

La evangelizzazione conterrà sempre anche - come base, centro e insieme vertice del suo dinamismo - una chiara proclamazione che, in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, morto e risuscitato, la salvezza è offerta ad ogni uomo, come dono di grazia e misericordia di Dio stesso (cfr. Eph. 2,8; Rom. 1,16 et Sacrae Congregationis pro Doctrina Fidei Declaratio ad fidem tuendam in mysteria Incarnationis et SS. Trinitatis a quibusdam recentibus erroribus [21 Februarii 1972]: AAS 64, 1972, pp. 237-241). E non già una salvezza immanente, a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell’esistenza temporale e si identificano totalmente con i desideri, le speranze, le occupazioni, le lotte temporali, ma altresì una salvezza che oltrepassa tutti questi limiti per attuarsi in una comunione con l’unico Assoluto, quello di Dio: salvezza trascendente, escatologica, che ha certamente il suo inizio in questa vita, ma che si compie nell’eternità123.

La sorgente, il culmine e la forza stessa dell’annuncio del Vangelo non risiedono in una dottrina o in una ideologia, ma in una persona, Gesù, nella sua opera, nella sua morte e risurrezione:

Accogliete, [...] quasi librata sulla fuggente storia del mondo, la Nostra sempre eguale, sempre nuova testimonianza: sappiate voi tutti che quel Gesù, nato da Maria Vergine, erede della promessa del Testamento antico, "uomo profeta, potente nell’azione e nella parola davanti a Dio e a tutto il popolo" (Luc. 24,19), quel Gesù che fu condannato, crocifisso e sepolto, quel Gesù è risorto! È vivo! Siede alla destra del Padre nei cieli, Dio lo ha "fatto Signore e Cristo" (cfr. Act. 2,29 ss.)124.

L’evento Gesù Cristo ha come estremi da un lato l’incarnazione e, dall’altro, la redenzione. Come Paolo VI dirà ai parrocchiani di S. Atanasio a Roma, richiamando le tematiche fondamentali della predicazione del loro patrono:

Gesù Cristo è Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre, Dio vero da Dio vero [...]. Solo se si accetta questo insegnamento si può parlare di redenzione, di salvezza, di ristabilimento della comunione tra uomo e Dio. Solo il Verbo di Dio redime perfettamente; senza l’incarnazione, l’uomo rimarrebbe nello stato di natura corrotta, da cui la stessa penitenza non potrebbe liberarlo (cfr. De incarnatione: PG 25, 144, 119)125.

Anzi, la contemplazione dell’amore di Dio che ha fatto sì che, nella pienezza dei tempi, il Verbo si incarnasse, converge verso il mistero pasquale e vi sfocia:

Non dice, ad esempio, s. Paolo, che "quando ancora eravamo peccatori ... e nemici, siamo stati riconciliati a Dio?" (Rom. 5,8-10); e che "noi eravamo figli d’ira, ... e che Dio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava, pur essendo noi morti per le nostre colpe ci richiamò a vita in Cristo ..." (Eph. 2,4-5)? Egli ci parla di questo amore di Dio per noi, qualificandolo un amore che sorpassa ogni scienza (Eph. 3,19); e ci dirà l’evangelista s. Giovanni che: "In questo si manifesta la carità (di Dio), perché Egli per primo ci ha amati, e ha mandato il suo Figlio come propiziazione per i nostri peccati" (1 Io. 4,10). Potremmo continuare. Ma questi accenni scritturali ci orientano verso il punto focale del mistero cristiano, e che nella celebrazione del Natale deve illuminare ogni effusione religiosa ed umana che dal Natale deriva: esso è un mistero d’amore di Dio, in Cristo, per noi. Chi non avverte questa folgorazione dell’amore di Dio nel Natale, che precede e prepara la Pasqua, è come cieco davanti al sole. Questa è la rivelazione cristiana. Noi dobbiamo far nostra la parola, ancora di s. Giovanni: "Noi abbiamo conosciuto e creduto alla carità che Dio ha per noi" (Ibid., 16)126.

In Gesù Cristo la salvezza - massima espressione del suo amore per l’uomo: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal. 2,20) - è offerta ad ogni uomo, ed è un dono di grazia e di misericordia del Padre. Dio invia il suo unico Figlio non "per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv. 3,17). Con la morte e la risurrezione di Gesù tutti sono chiamati alla vita eterna:

"Cristo non è l’unico risorto, Cristo è primizia; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo" (1 Cor. 15,20-22). Cristo è pasqua di risurrezione anche per noi (cfr. ibid. 5,7). La morte non è più il confine della nostra esistenza. Cristo è la porta (Io. 10,9). Un’escatologia, cioè una porta d’entrata in un regno che non è consumato dal tempo, è aperta davanti a noi. Chi è morto in Cristo, in Cristo risorgerà. La morte corporale non è l’inesorabile fine della nostra esistenza; è il sonno che precede una nuova giornata senza tramonto. Meraviglia! Meraviglia! Sì, ma così è127.

E ancora:

La Pasqua [...] è al centro della nostra religione, sia per il mistero di Cristo, di cui la Pasqua è memoria e attualità perenne, cioè la redenzione da Lui operata, sia per la relazione che tale mistero ha con la Chiesa e col mondo, con tutta l’umanità, per cui Egli, il Signore, è morto e risorto; una relazione, che si fa personale per ciascuno di noi, che voglia davvero, cioè vitalmente, partecipare alla salvezza operata da Cristo, vale a dire alla comunione, all’inserimento della propria vita in quella infinita di Dio. La Pasqua è, dunque, per noi per eccellenza, un avvenimento personale; è la riconciliazione, il ricongiungimento della nostra anima con la pienezza dell’Essere divino, in misura ed in forma superiore ai limiti della nostra natura, in modo cioè soprannaturale; è la inaugurazione iniziale della vita eterna, quale speriamo raggiungere pienamente e godere nell’eternità. La Pasqua è la festa della vita, per la nostra vita128.

A questa pienezza di vita, aperta sul futuro di Dio, l’uomo è già fin d’ora chiamato,

Cristo è risorto! [...] Questo, sì, è il grido della fede; ma esso è testimonianza d’una verità reale, che riempie il mondo della gloria di nostro Signore Gesù Cristo, e riempie gli uomini di luce e di speranza! Esso è il principio d’una vita nuova, d’una rigenerazione dell’umanità, d’una risurrezione da ogni nostra infermità personale e sociale! Esso è il centro d’attrazione per la vera, fraterna e feconda unità della famiglia umana129.

È lo sguardo offertoci anche dall’ultimo discorso per l’Angelus, del 6 agosto 1978, che Paolo VI, a causa della malattia, non poté leggere:

La trasfigurazione del Signore [...] getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra. Sulla cima del Tabor, Cristo disvela per qualche istante lo splendore della sua divinità, e si manifesta ai testimoni prescelti quale realmente egli è, il Figlio di Dio, "l’irradiazione della gloria del Padre e l’impronta della sua sostanza" (cfr. Hebr. 1,3); ma fa vedere anche il trascendente destino della nostra natura umana, ch’egli ha assunto per salvarci, destinata anch’essa, perché redenta dal suo sacrificio d’amore irrevocabile, a partecipare alla pienezza della vita, alla "sorte dei santi nella luce" (Col. 1,12). Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo "partecipi della natura divina" (2 Petr. 1,4)130.

Sul fondamento della fede pasquale anche la morte, sebbene non sia ancora scomparsa, non fa più paura, perché illuminata dalla vittoria di Cristo:

Come [...] dare [...] alla morte un potere di luce, mentre di per sé la morte è la grande tenebra, "umbra mortis" (Luc. 1,79; Matth. 4,16), ed è la nostra suprema nemica, "novissima inimica", la dice s. Paolo (1 Cor. 15,26)? Questa prodigiosa accensione è possibile, e facile anzi al cristiano che considera la morte nel quadro dei nuovi rapporti che Cristo ha stabilito fra noi e Lui, e, Lui mediatore, fra noi e Dio. Sarà utile, per studio di semplicità, classificare tali rapporti secondo il trinomio delle virtù teologali, chiedendo a ciascuna delle tre virtù, che hanno Dio come principio e come termine, di parlarci sulla nostra morte; e vedremo che questo fatale e orrendo episodio della nostra esistenza, questo tremendo castigo, cambierà aspetto, rimanendo materialmente, ma provvisoriamente lo stesso. La fede ci dirà che Dio è la vita, e che Cristo, vita Lui stesso, ha inserito la nostra umile, effimera, corruttibile vita in quella divina; ci parlerà della risurrezione di Cristo e della nostra; ci parlerà dell’eterna beatitudine, alla quale, se fedeli, se santamente operosi, siamo destinati. E la speranza, fondata sulla bontà traboccante di Dio, sulla sua infallibile promessa, sulla misericordia a noi ottenuta da Cristo, ci anticiperà il senso reale delle acquisizioni future, ci farà garanzia oltre le nostre forze di poter meritare la fortuna sperata, e placherà la ribellione del nostro dolore per l’oltraggio, l’irrisione, l’assurdo della morte a tutti i nostri istinti vitali, con non fallace conforto. E la carità finalmente - la carità che "umquam excidit", che non verrà meno giammai (1 Cor. 13,8) - ci farà intravvedere la mano amorosa del Padre, anche quando il suo gesto misterioso è per noi acerbissimo strappo, c’insegnerà a collegare la nostra morte a quella di Cristo, alla sua immolazione infinitamente amorosa e a farne oblazione umile e magnanima; e con tante altre lezioni ci ammonirà a vedere nella morte un obbligante invito alla bontà, umile, saggia, sollecita, generosa131;

la gioia del Regno portato a compimento non può scaturire che dalla celebrazione congiunta della morte e della risurrezione del Signore. È il paradosso della condizione cristiana, che illumina singolarmente quello della condizione umana: né la prova né la sofferenza sono eliminate da questo mondo, ma esse acquistano un significato nuovo nella certezza di partecipare alla redenzione operata dal Signore, e di condividere la sua gloria. Per questo il cristiano, sottoposto alle difficoltà dell’esistenza comune, non è tuttavia ridotto a cercare la sua strada come a tastoni, né a vedere nella morte la fine delle proprie esperienze . Come lo annunciava il profeta: "Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia" (Is. 9,12). L’Exsultet pasquale canta un mistero realizzato al di là delle esperienze profetiche: nell’annuncio gioioso della risurrezione, la pena stessa deIl’uomo si trova trasfigurata, mentre la pienezza della gioia sgorga dalla vittoria del Crocifisso, dal suo Cuore trafitto, dal suo Corpo glorificato, e rischiara le tenebre delle anime: "Et nox illuminatio mea in deliciis meis" (Praeconioum paschale)132.

La stessa luce ritroviamo, a sostenere la fiducia del pontefice, nel testamento:

Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia. Avverto la verità, che per me si è sempre riflessa sulla vita presente da questo mistero, e benedico il vincitore della morte per averne fugate le tenebre e svelata la luce. Dinanzi perciò alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, Ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita133.

5.3. Un nuovo cielo e una nuova terra

Ma cosa si intende per salvezza? È noto come, durante i lavori del sinodo sull’evangelizzazione, in assemblea fosse emersa una frattura fra la prospettiva occidentale e quella terzomondista circa il rapporto tra fede e sviluppo-promozione umana-liberazione dei popoli, che rispettivamente escludeva o prendeva in considerazione anche la via dell’impegno politico. La soluzione offerta dal pontefice, cui fu demandato di comporre la divergenza, fu di richiamare in primo luogo il carattere trascendente ed escatologico della salvezza: essa, con la risurrezione di Cristo, inaugura l’eschaton, un rinnovato rapporto con Dio e una realtà nuova e definitiva della storia. L’economia di salvezza ha un carattere trascendente ed escatologico, che avrà il suo compimento nella definitiva comunione con il Signore: essa è sospesa tra "già e non ancora" e attende la sua piena realizzazione nell’eternità, ma è già presente e operante in questa vita. Per questo non è possibile ridurre la salvezza ad un fatto immanente che, pragmaticamente, si curi semplicemente di condurre a soluzione le difficoltà e di rispondere ai bisogni insorti, ripiegando in ultima analisi l’uomo su se stesso e limitando l’orizzonte esclusivamente all’attualità. Tutto ciò era già stato affermato nella Professione di fede del 1968:

Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondamente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire - ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi - al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L’intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in Lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l’ardore dell’attesa del suo Signore e del Regno eterno134.

Dunque, quale salvezza annunciare? Nella visione di Paolo VI - che abbiamo osservato già in Ecclesiam suam - i bisogni, i desideri, le attese, le attività e l’impegno dell’uomo contemporaneo non possono evidentemente essere ignorati o disattesi da una Chiesa dialogante; debbono però essere inseriti e riletti in una prospettiva più ampia, che eviti di ridurre l’opera di evangelizzazione alla civilizzazione, ad un progetto semplicemente temporale e ad una prospettiva di tipo meramente economico, sociale o politico. All’interno dell’evangelizzazione, tuttavia, anche la compagine ecclesiale è chiamata a dare il proprio contributo specifico in questi ambiti, promuovendo la libertà e la digbità dell’uomo, favorendo lo sviluppo, la liberazione dei popoli e la promozione umana, come già aveva sostenuto, ad esempio, l’enciclica Populorum progressio:

La situazione attuale del mondo esige un’azione d’insieme sulla base di una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali. Esperta in umanità, la Chiesa, lungi dal pretendere minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati, "non ha di mira che un unico scopo: continuare, sotto l’impulso dello Spirito consolatore, la stessa opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità, per salvare, non per condannare, per servire, non per essere servito" (Gaudium et spes, n. 3, § 2). Fondata per porre fin da quaggiù le basi del regno dei cieli e non per conquistare un potere terreno, essa afferma chiaramente che i due domini sono distinti, così come sono sovrani i due poteri, ecclesiastico e civile, ciascuno nel suo ordine (cfr. Litt. enc. Immortale Dei, 1 novembre 1885, Acta Leonis XIII, t. V, 1885, p. 127). Ma, vivente com’è nella storia, essa deve "scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo" (Gaudium et spes, n. 4, § 1). In comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle insoddisfatte, essa desidera aiutarle a raggiungere la loro piena fioritura, e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità. Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica, Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: "noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità tutta intera " (L.-J. Lebret o.p., Dynamique concrète du développement, Paris, Economie et humanisme, Les Editions Ouvrières, 1961, p. 28)135.

Da un lato, l’intervento della Chiesa dovrà però avvenire senza trascurare la specificità del messaggio di cui essa è portatrice:

La evangelizzazione, di conseguenza, non può non contenere l’annuncio profetico di un al di là, vocazione profonda e definitiva dell’uomo, in continuità e insieme in discontinuità con la situazione presente: al di là del tempo e della storia, al di là della realtà di questo mondo la cui figura passa, e delle cose di questo mondo, del quale un giorno si manifesterà una dimensione nascosta; al di là dell’uomo stesso, il cui vero destino non si esaurisce nel suo aspetto temporale, ma sarà rivelato nella vita futura (cfr. 1 Io. 3,2; Rom. 8,29; Phil. 3,20-21 et Lumen gentium, 48-51: AAS 57, 1965, pp. 53-58)136.

D’altra parte, la diffusione del Vangelo non avviene mai in astratto o in assoluto, bensì in un preciso milieu geografico, sociale, economico. Di esso si dovrà imprescindibilmente tenere conto nell’opera di annuncio, sia per quanto riguarda l’adattamento - oggi diremmo inculturazione - del messaggio che per quanto concerne l’attualizzazione:

Ma l’evangelizzazione non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello, che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell’uomo. Per questo l’evangelizzazione comporta un messaggio esplicito, adattato alle diverse situazioni, costantemente attualizzato, sui diritti e sui doveri di ogni persona umana, sulla vita familiare senza la quale la crescita personale difficilmente è possibile (cfr. Gaudium et spes, 47-52: AAS 58, 1966, pp. 1067-1074, Pauli pp. VI Humanae vitae: AAS 60, 1968, pp. 481-503), sulla vita in comune nella società, sulla vita internazionale, la pace, la giustizia, lo sviluppo; un messaggio, particolarmente vigoroso nei nostri giorni, sulla liberazione137.

In conclusione, mentre viene recuperato il piano storico, valorizzando l’aspetto dell’impegno dei cristiani nel mondo e della responsabile costruzione del futuro, viene tuttavia riaffermato il profondo dinamismo insito nella vicenda umana, che dischiude orizzonti più vasti. Presente e futuro sono sì intimamente legati, ma vi è un dislivello fra l’attuale situazione e la sorte finale dell’uomo, tra la realtà presente e il regno eterno. L’annuncio del Vangelo non può quindi prescindere dalla proclamazione di un al di là, come ciò che può restituire all’uomo e al mondo, al tempo e alla storia quella pienezza di senso e di profonda identità già in parte possedute e delle quali vi è una grande sete, quella autentica comunione e vera libertà che transitorie configurazioni economiche, sociali e politiche non sono in grado di offrire, quella integrale realizzazione tanto desiderata che il tempo presente non è in grado di offrire.

5.4. Mentre conseguite la meta della vostra fede

La contemplazione del disegno di salvezza di Dio in Gesù Cristo, che non si limita al presente storico dell’uomo, ma conduce verso un "di più" e un "oltre", genera frutti di speranza e di amore, ma anche di riconoscimento del peccato e di impegno nel bene, oltre che di ricerca di Dio, e nel contempo arricchisce e precisa ulteriormente i contenuti dell’annuncio affidato alla Chiesa:

L’evangelizzazione contiene dunque anche la predicazione della speranza nelle promesse fatte da Dio nella nuova Alleanza in Gesù Cristo; la predicazione dell’amore di Dio verso di noi e del nostro amore verso Dio; la predicazione dell’amore fraterno per tutti gli uomini - capacità di dono e di perdono, di abnegazione, di aiuto ai fratelli - che, derivando dall’amore di Dio, è il nucleo del Vangelo; la predicazione del mistero del male e della ricerca attiva del bene. Predicazione, ugualmente - e questa è sempre urgente - della ricerca di Dio stesso attraverso la preghiera principalmente adorante e riconoscente, ma anche attraverso la comunione con quel segno visibile dell’incontro con Dio che è la Chiesa di Gesù Cristo, e questa comunione si esprime a sua volta mediante la realizzazione di quegli altri segni del Cristo, vivente ed operante nella Chiesa, quali sono i sacramenti. Vivere in tal modo i sacramenti, sì da portare la loro celebrazione ad una vera pienezza, non significa, come taluno pretenderebbe, mettere un ostacolo o accettare una deviazione dell’evangelizzazione, ma darle invece la sua completezza. Perché l’evangelizzazione nella sua totalità, oltre che nella predicazione di un messaggio, consiste nell’impiantare la Chiesa, la quale non esiste senza questo respiro, che è la vita sacramentale culminante nell’Eucaristia (cfr. Sacrae Congregationis pro Doctrina Fidei Declaratio circa Catholicam Doctrinam de Ecclesia contra nonnullos errores hodiernos tuendam [24 iunii 1973]: AAS 65, 1973, pp. 396-408)138.

Non può certo sfuggire l’insistenza posta sul termine "predicazione", che Paolo VI ritiene, accanto ad altri strumenti più moderni e pur legittimi, il canale principale dell’azione pastorale nella civilità dell’immagine139:

Lasciamo perciò questo tema per limitarci a ricordare ancora una volta la somma importanza che la predicazione cristiana conserva, ed assume oggi maggiormente, nel quadro dell’apostolato cattolico, e cioè, per quanto ora ci riguarda, del dialogo. Nessuna forma di diffusione del pensiero, anche se tecnicamente assurta, con la stampa e con i mezzi audiovisivi, a straordinaria potenza, la sostituisce. Apostolato e predicazione, in un certo senso, si equivalgono. La predicazione è il primo apostolato. Il nostro, Venerabili Fratelli, è innanzi tutto ministero della Parola. [...] Dobbiamo ritornare allo studio non già dell’umana eloquenza, o della vana retorica, ma della genuina arte della parola sacra140.

In modo non dissimile egli si esprimerà nella lettera inviata ai vescovi degli Stati Uniti in occasione del bicentenario dell’indipendenza americana, affermando, insieme all’Eucaristia e alla riconciliazione, in ordine all’evangelizzazione, il valore preminente rivestito dalla predicazione, in quanto annuncio della Parola di Dio:

Nel perseguire la causa dell’evangelizzazione, siamo tutti memori della preminenza della Parola di Dio. Il messaggio che noi predichiamo è Cristo; proclamiamo al mondo che il culmine della "sapienza e potenza di Dio" (1 Cor. 1,18) è il mistero della Croce di Cristo. Con s. Paolo, scongiuriamo ancora una volta ciascuno di voi: "Annunzia la parola, insisti in ogni occasione, opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina" (2 Tim. 4,2). E ad ognuno di voi diciamo: "Vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero" (ibid. 4,5)141.

La predicazione ha dunque al centro la Parola di Dio, la rivelazione, che in Gesù Cristo, svela il volto di Dio e il volto dell’uomo, e fa incontrare l’umano e il divino:

Nel Vecchio Testamento noi osserviamo come il Signore abbia parlato agli uomini non soltanto con indicazioni verbali, ma con i fatti, con la storia, finché è venuto (anche qui dovremmo sostare per comprendere bene il senso di ogni espressione) il Verbo. La Parola di Dio si è fatta uomo. Come si chiama il Verbum caro factum est? Gesù Cristo. Per parlarci il Signore si è fatto nostro fratello, come uno di noi: Dio parlante si è concretato, ha preso immagine reale, ha preso voce come uno di noi. Questa presenza - ecco il più sublime atto nella storia dell’umanità -, la realtà di Dio parlante nel mondo è Gesù Cristo. Infatti come volle egli chiamarsi, allorché era in mezzo a noi? Con l’appellativo di Maestro, cioè colui che parla, colui che insegna, colui che svela il perché della vita. Gesù ci ha donato una doppia scienza. Anzitutto la scienza di Dio, spiegandoci qualche cosa su Dio e la sua essenza. È come se avesse acceso il sole sopra di noi, poiché tutto l’orizzonte umano ne resta illuminato. Gesù poi ci ha detto chi siamo noi. Così Dio e l’uomo sono gli oggetti precipui, centrali, della divina rivelazione142.

In Cristo si compiono le promesse di Dio e, insieme, le attese dell’umanità:

Egli è stato desiderato, aspettato, invocato lungo tutti i secoli dell’Antico Testamento; Egli è stato "il desiderato da tutte le genti"; Egli è venuto a soddisfare le aspirazioni messianiche d’un popolo eletto ed educato da Dio per attendere, per prefigurare, per annunciare, per accogliere l’inviato da Dio; Egli è stato fatto intravvedere da lontano all’"uomo dei desideri" (Dan. 9, 3; e 10, 19), il profeta Daniele: Egli è il termine della tensione storica e spirituale dell’umanità; verso di Lui si rivolge la timida, ma ormai fiduciosa domanda dei Gentili stessi, capitati nella sfera della sua presenza: "Volumus Iesum videre", vogliamo vedere Gesù (Io. 12,21)143.

Di fronte alla situazione dell’umanità, l’annuncio della salvezza portata dal Messia diviene anzitutto sorgente di speranza:

E allora dov’è, uomo fratello, la tua speranza? [...] L’esperienza della condizione drammatica, e per sé disperata, della vita umana, esperienza che il progresso moderno, lungi dal sopprimere, spesso acuisce ed esaspera, ci deve ricondurre all’ammissione d’un insopprimibile bisogno, che l’umanità, in forme e in gradi diversi, ha sempre portato in fondo alla sua coscienza: il bisogno d’essere salvata. Sì, abbiamo bisogno tutti d’essere salvati. Con le nostre sole forze non ci riusciamo (cfr. ad Rom. 7,15 ss.). Il nostro presuntuoso affanno di salvarci da soli accresce alla fine l’osservazione della nostra radicale incapacità. Diciamo di più, autorizzati dalla conoscenza dell’uomo e della storia: abbiamo bisogno d’un Salvatore. Di un Messia. Il nome di Gesù significa Salvatore; e Cristo significa Messia. Questo nome "Gesù Cristo" è l’annunzio della nostra salvezza; è la promessa che fonda la nostra speranza. Abbiamo bisogno di Cristo. Occorre che Egli abbia una potenza divina, perché nessun’altra potenza vincerebbe i nostri mali. Occorre che Egli abbia una fratellanza umana, perché, se fratello non fosse, noi non lo potremmo bene capire. Ancora è il pontefice del mistero di Cristo, san Leone, che parla: " Se (Cristo) non fosse Dio vero, non potrebbe recare rimedio; se non fosse uomo vero, non ci sarebbe di esempio; nisi enim esset Deus verus, non afferret remedium; nisi esset homo verus, non praeberet encemplum " (Serm. XXI; PL 54, 192)144;

La speranza scaturisce non solo dal mistero dell’incarnazione, ma anche e soprattutto dall’annuncio pasquale. La passione, morte e risurrezione di Gesù rappresentano il culmine dell’incontro tra Dio e l’uomo:

Il preconio pasquale [...] non apporta a noi soltanto la coscienza beatificante dei beni conseguiti mediante la resurrezione del Signore, ci apporta il presagio di altri beni da conseguire; non è l’annuncio pasquale un semplice annuncio di gioia; è anche un annuncio di speranza. Gaudium et spes! Sì, la speranza nascente dalla resurrezione di Cristo Noi vi vogliamo oggi comunicare; e a compiere questo ministero non basta il discorso, che dovrebbe estendersi su ogni umana e anche su ogni creata realtà: la resurrezione di Cristo è l’inaugurazione d’un ordine nuovo e universale; un’energia nuova è infusa nella creazione e una palingenesi liberatrice sta preparandosi, e "noi stessi, che abbiamo in noi le primizie dello Spirito, gemiamo, aspettando l’adozione, cioè la redenzione del nostro corpo (mortale): nella speranza siamo stati salvati" (Rom. 8,23-24). Così l’Apostolo; così Noi, mentre il Nostro pensiero corre verso quanti hanno bisogno di speranza. Noi abbiamo un dono di speranza pasquale per tutti: per voi, dilettissimi, che Ci ascoltate; non lasciate intristire i vostri animi alla visione della avversità delle cose di questo diffiicile mondo, alla inanità degli sforzi del bene, alla crescente "potestas tenebrarum", alla caducità delle speranze fondate sulla rena mobile del tempo che passa; fondate la vostra speranza nella Parola che non passa, nei beni che valgono veramente la pena di essere desiderati, nella vita superiore e ulteriore a cui ci invita la vocazione cristiana. Nutrite i vostri spiriti della fiducia nel bene e abbiate il coraggio di esserne sempre gli assertori e i promotori. E per voi, che soffrite, per voi che siete umili e poveri, per voi che piangete, per voi che avete fame e sete di giustizia, per voi che volete essere operatori di pace, per voi che per la vostra fede soffrite il peso della costrizione, Noi vi ricordiamo il messaggio della grande e invitta speranza, lanciato da Cristo, nel mondo e nei secoli, col cantico delle beatitudini evangeliche145.

Il secondo frutto della contemplazione del disegno di salvezza è la scoperta - che diviene annuncio - dell’amore di Dio verso di noi:

Qual è la scoperta che il fedele riesce a fare cercando il senso totale e profondo della divina rivelazione? La scoperta è l’amore. Dio si è soprattutto rivelato in amore. Tutta la storia della salvezza è amore. Tutto il Vangelo. Potremmo citare tante parole della Sacra Scrittura a questo riguardo. Una Ci viene alle labbra, dell’Antico Testamento: "Da lontano il Signore si è fatto vedere a me: d’un amore eterno. Io ti ho amato e perciò ti ho attirato a me pieno di compassione" (Ger. 31,3). Tutta l’epopea della redenzione è amore, è misericordia, è effusione della carità di Dio verso di noi. E la storia di Cristo è riassunta nella celebre sintesi di san Paolo: "Vivo nella fede che io ho nel Figlio di Dio, il Quale mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal. 2,20). Bisogna capire! Raccomandiamo agli spiriti attenti un’altra pagina meravigliosa Dell’apostolo: "Che voi possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza l’altezza e la profondità (noi oggi diremmo le dimensioni, e qui sono quattro!), e intendere questo amore di Cristo che sorpassa ogni scienza, affinché siate ricolmi della pienezza di Dio" (Eph. 3,17-19)146.

Di conseguenza, la rivelazione che "Dio [...] ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv. 3,16) diviene per noi stimolo ad amare. Questa scoperta

ci tocca, ci commuove, ci sconvolge. Se uno riesce a capire d’essere stato amato; amato fino ad un grado supremo e impensabile, fino alla morte, silenziosa, gratuita, crudele e sofferta fino ad una consumazione totale (cfr. Io. 19,30) da Chi nemmeno noi conoscevamo, e conosciutolo l’abbiamo negato e offeso, se uno, diciamo, comprende d’essere oggetto di tale amore, di tanto amore, non può più restare tranquillo. Lo diceva anche Dante: "Amor che a nullo amato amar perdona" (Inf. 5, 103); lo dice l’inno liturgico: "Quis non amantem redamet?"147.

La risposta d’amore dell’uomo assume pertanto una duplice direzione, verticale e orizzontale; essa si dirige dapprima verso Dio, alla ricerca del suo volto:

Non sarebbe il caso di metterci, o di rimetterci alla sua ricerca? Alla ricerca di Dio? [...] Metterci coscientemente alla ricerca approfondita e quindi alla presenza di questa suprema realta, ch’è Dio? "Alla presenza", qui, equivale avvertire, in qualche modo, la sua infinità, la sua totalità, la sua alterità, la sua trascendenza e la sua immanenza, il suo mistero, il suo essere assoluto e necessario, la sua vita personalissima e beatissima? Cioè sperimentare la tensione, in cui questo atto di ragione e di fede ci pone, la tensione, l’ansia, la gioia di proclamare, di celebrare, di adorare Lui, nostro principio, Lui, nostro fine; una tensione che ci attrae, perché Lui è, per Chi Lui è, e che insieme tenta di distrarci e tirarci via, per la nostra sproporzione incalcolabile, e per la nostra inguaribile indegnità (cfr. Luc. 5,8; Gen. 18,27)? E che faremo quando sapremo che dobbiamo chiamare Dio nostro Padre, la Bontà somma, in Sé e per noi? Potremo mai essere inerti e tiepidi, o non sentiremo il dovere di cercarlo, di cercarlo con quell’impegno, che si chiama amore? L’amore è "studio", l’amore è ricerca. La Bibbia è piena di questo imperativo invito: "Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre la sua faccia" (1 Par. 16,11)148.

La ricerca di Dio, mossa dal desiderio e dall’amore per lui, è insita nell’uomo (Paolo VI citerà più volte l’agostiniano "Tu, o Dio, ci hai fatti per te; ed il nostro cuore è inquieto finché in Te non riposi": Conf., 1, 1) e passa attraverso i due canali della sensibilità e della volontà, sfociando nell’amore per l’uomo:

L’amore vero è l’atto cosciente e volontario verso il bene. La natura ci aiuta a dirigerci verso il bene; l’inclinazione, amore istintivo e sensitivo, si fa atto di volontà; diventa vero amore; si tratta allora d’una duplice operazione: la scelta e la forza. Dobbiamo scegliere (in ordine intentionis) il sommo Bene, quello che solo e davvero è proporzionato all’insaziabile ampiezza del nostro potere di desiderare e di amare; e poi dobbiamo far convergere tutte le nostre forze spirituali e sentimentali verso il Bene supremo ch’è Dio. E da questo compimento del primissimo dovere, lo sforzo composito d’intelligenza e di volontà, che fissa in Dio, Lui stesso amore supremo, la nostra gravitazione morale, anzi trae da Lui la nostra energia operativa, deriva la capacità di compiere ogni altro dovere (ordo executionis), che si pianifica su quel primo e assume la sua onestà, la sua dignità, la sua forma di conversazione della creatura col Creatore, del figlio col Padre (cfr. S. Th. I-IIae, 1, 4; E. Neuhausler, Exigence de Dieu et morale chrétienne, Cerf, 1971; e poi sempre i grandi maestri dell’amore: s. Bernardo, s. Francesco di Sales, ecc.). Tutta la vita diventa amore. Amore vero, amore puro, amore forte, amore felice. E a questa prima dilezione, ch’è religiosa, come vedete, e non può essere altrimenti, è connessa la seconda, la dilezione del prossimo, sia come scala per salire all’amor di Dio (cfr. 1 Io. 4,20; S. Aug. Tract. in Io., 17, 8); sia come motivo per applicare l’attività propria a servizio e a beneficio del prossimo (cfr. Rom. 13,8-10; 1 Tim. 1,5)149.

L’amore per il fratello - che assume volta a volta le tonalità dell’oblatività, del perdono, del servizio e sul quale si fonda la possibilità di risolvere le questioni sociali nella pace e nella giustizia - non solo esprime l’amore verso Dio, ma ne è l’attualizzazione:

La logica dell’amore reclama amore da noi! Mentre la nostra stessa inettitudine ad esprimere in linguaggio religioso e mistico l’amore, che dovremmo a Dio senza avere di lui esperienza diretta, ci aiuta a compiere il grande precetto, riversando sui fratelli, sugli uomini, la dilezione dovuta al Signore; precetto nuovo e chiamato da Cristo a causa di un "come" che ne estende la misura oltre misura : "Io vi dò un precetto nuovo, disse Gesù nell’ultima cena, che vi amiate a vicenda, come Io ho amato voi" (Io. 13,34). E immetteva così una fonte incontenibile e inesauribile di carità, non più specificamente religiosa, ma umana, nel cuore dei suoi seguaci, che della carità verso il prossimo avrebbero dovuto essere i più generosi e ingegnosi professionisti, fino a estasiarsi nell’esercizio penoso e gioioso della carità, che nel fratello sofferente contempla il rappresentante, quasi un sacramento, dice Bossuet, di Gesù Cristo stesso: tale carità, mihi fecistis (Matth. 25,40), a me è stata prodigata. Lezione statutaria del cristianesimo, quella dell’amore di Dio sopra ogni cosa, e, in virtù di tale amore religioso, quella dell’amore dinamico fino alla parità, anzi fino al sacrificio, verso gli uomini, tutti nostri fratelli (Matth. 2,37-40; 5,43-48)150.

È questa la testimonianza che precede e convalida l’opera di evangelizzazione, poiché "l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri, è perché essi sono dei testimoni"151:

Si ripete spesso, oggi, che il nostro secolo ha sete di autenticità. Soprattutto a proposito dei giovani, si afferma che hanno orrore del fittizio, del falso e ricercano sopra ogni cosa la verità e la trasparenza. Questi "segni dei tempi" dovrebbero trovarci all’erta. Tacitamente o con alte grida, ma sempre con forza, ci domandano: Credete veramente a quello che annunziate? Vivete quello che credete? Predicate veramente quello che vivete? La testimonianza deIla vita è divenuta più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione. Per questo motivo, eccoci responsabili, fino ad un certo punto, della riuscita del Vangelo che proclamiamo. [...] Il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l’Invisibile (cfr. Hebr. 11,27). Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda152.

5.5. Miseria e misericordia

A giusto titolo lo stupore per la creazione e per l’economia di salvezza inducono ad esaltare la sapienza e l’amore di Dio che ne sono all’origine:

Invitiamo il vostro [pensiero] ad aprirsi alla luce della fede sulla visione della vita umana, visione che da questo osservatorio spazia immensamente e penetra in singolari profondità. E, per verità, il quadro che siamo invitati a contemplare con globale realismo è molto bello. È il quadro della creazione, l’opera di Dio, che Dio stesso, come specchio esteriore della sua sapienza e della sua potenza, ammirò nella sua sostanziale bellezza (cfr. Gen. 1,10, etc.). Poi è molto interessante il quadro della storia drammatica della umanità, dalla quale storia emerge quella della redenzione, quella di Cristo, della nostra salvezza, con i suoi stupendi tesori di rivelazione, di profezia, di santità, di vita elevata a livello soprannaturale, di promesse eterne (cfr. Eph. 1,10). A saperlo guardare questo quadro non si può non rimanere incantati (cfr. S. Aug. Soliloqui): tutto ha un senso, tutto ha un fine, tutto ha un ordine, e tutto lascia intravedere una presenza-trascendenza, un pensiero, una vita, e finalmente un amore, così che l’universo, per ciò che è e per ciò che non è, si presenta a noi come una preparazione entusiasmante e inebriante a qualche cosa di ancor più bello ed ancor più perfetto (cfr. 1 Cor. 2,9; 13,12; Rom. 8,19-23). La visione cristiana del cosmo e della vita è pertanto trionfalmente ottimista; e questa visione giustifica la nostra gioia e la nostra riconoscenza di vivere per cui celebrando la gloria di Dio noi cantiamo la nostra felicità (cfr. il Gloria della Messa)153.

"Al grido di gloria verso Dio creatore e Padre succede il grido che invoca misericordia e perdono"154: una visione corretta e organica della realtà - e, di conseguenza, un corretto annuncio - non potranno tuttavia limitarsi ad un ingenuo ottimismo, ma dovranno includere anche il mistero del male attualmente presente e operante nella natura e nell’uomo:

Ma è completa questa visione? È esatta? Nulla ci importano le deficienze che sono nel mondo? Le disfunzioni delle cose rispetto alla nostra esistenza? Il dolore, la morte? La cattiveria, la crudeltà, il peccato, in una parola, il male? E non vediamo quanto male è nel mondo? Specialmente, quanto male morale, cioè simultaneamente, sebbene diversamente, contro l’uomo e contro Dio? Non è forse questo un triste spettacolo, un inesplicabile mistero? E non siamo noi, proprio noi cultori del Verbo, i cantori del Bene, noi credenti, i più sensibili, i più turbati dall’osservazione e dall’esperienza del male? Lo troviamo nel regno della natura, dove tante sue manifestazioni sembrano a noi denunciare un disordine. Poi lo troviamo nell’ambito umano, dove incontriamo la debolezza, la fragilità, il dolore, la morte, e qualche cosa di peggio; una duplice legge contrastante, una che vorrebbe il bene, l’altra invece rivolta al male, tormento che s. Paolo mette in umiliante evidenza per dimostrare la necessità e la fortuna d’una grazia salvatrice, della salute cioè portata da Cristo (cfr. Rom. 7); già il poeta pagano aveva denunciato questo conflitto interiore nel cuore stesso dell’uomo: Video meliora proboque, deteriora sequor (Ovidio, Met. 7, 19). Troviamo il peccato, perversione della libertà umana, e causa profonda della morte, perché distacco da Dio fonte della vita (Rom. 5,12), e poi, a sua volta, occasione ed effetto d’un intervento in noi e nel nostro mondo d’un agente oscuro e nemico, il demonio155.

La salvezza, in senso negativo, si configura come liberazione dal male, soprattutto nell’uomo, sotto un duplice aspetto,

la condizione esistenziale dell’uomo, una condizione infelicissima, qual è quella d’una creatura mancata, vivente cioè in una natura decaduta e viziata, operante in un suo anormale funzionamento, ereditata dalla nascita stessa e aggravata di solito da falli personali e responsabili; la condizione cioè del peccato originale peggiorata dalle colpe volontarie, incapace di per sé di ridare al proprio essere uno stato d’innocenza e quindi di rapporti positivi e felici con Dio, a cui noi saremmo destinati come a nostra vera vita e a nostra perfetta beatitudine156.

È evidente come il peccato abbia senso e acquisti rilievo solo all’interno del rapporto tra uomo e Dio, in quanto ne costituisce la violazione e richiede un salvatore:

Dove non è religione, il peccato non ha più senso d’essere. Perché esso consiste nella violazione dell’ordinato rapporto, che congiunge l’uomo a Dio. Anche qui è sempre valida la definizione classica del peccato, data da s. Agostino e dopo di lui dai maestri del pensiero cristiano: esso è un atto, un fatto, una parola e anche solo un cattivo desiderio contrario alla legge eterna di Dio, cioè a quella divina ragione che stabilisce l’ordine essenziale insito nella natura delle cose (cfr. S. Aug., Contra Faustum, 22, 27; PL 42, 418; e S. Th. I-IIae, 71, 6). Non parliamo qui del peccato originale, che costituisce un fondamentale capitolo della nostra teologia e dell’antropologia cattolica; ma il solo ricordo di questa triste e fatale eredità ci dice come nella nostra concezione della vita non possiamo prescindere da un inestinguibile bisogno di salvezza, e dall’impossibilità di conseguirla con le nostre sole forze: a nulla ci gioverebbe l’essere nati, se non ci fosse data la fortuna di rinascere (cfr. l’Exultet della notte pasquale)157.

Il peccato che l’uomo commette è l’eredità della colpa di Adamo. Così Paolo VI nel "Credo del popolo di Dio" presenterà il dogma del peccato originale:

Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male nè la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, "non per imitazione, ma per propagazione", e che esso pertanto è "proprio a ciascuno" (Dz.-Sch. 1513). Noi crediamo che nostro Signore Gesù Cristo mediante il sacrificio della croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che secondo la parola dell’Apostolo "là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rom. 5,20)158.

Un altro testo meglio ne esplicita il nesso con il peccato attuale commesso dall’uomo:

La parola libertà è polivalente. Essa acquista significato in relazione alle varie forme di costrizione, alle quali possiamo essere soggetti. Intanto: noi ben sappiamo che la dottrina cristiana ammette e difende l’esistenza della libertà nell’uomo, contro i sostenitori d’un connaturato determinismo interiore (vuoi naturale, psicologico, o biologico, vuoi conseguente alla natura decaduta dell’uomo), e c’insegna che l’uomo è dotato della facoltà di scegliere; il rapporto fra l’intelligenza, vincolata alla verità, e la volontà capace di autodeterminarsi non è costringente; abbiamo potere di scegliere ciò che vogliamo fare, siamo liberi e padroni e perciò responsabili delle nostre azioni, anche se questa scelta, cioe questa libertà, puo essere soggetta a diversi influssi, sia interiori, che esteriori. Siamo liberi, per dono di natura. Ma poi, in realtà, la natura umana, - ancora c’insegna la nostra dottrina -, è decaduta, è viziata; l’innesto dell’intelligenza illuminante e della volontà agente si è guastato; così che proprio quando usiamo della nostra liberta spesso, molto spesso sbagliamo, per difetto di luce, cioè di verità circa il bene da scegliere, siamo fallibili; ovvero per difetto di energia, non sappiamo compiere il bene, che pur conosciamo, oppure per difetto di rettitudine, cioè non vogliamo il vero bene, ma un bene incompleto e falso, cioè pecchiamo: ahime! pecchiamo, perché siamo liberi! Tremenda perversione del dono divino della libertà!159.

Con tutta evidenza questa presentazione è conforme alla consueta impostazione preconciliare di tipo "discendente", che deduce l’effetto dalla causa, cioè dalla trasgressione di Adamo; sia pure all’interno di questo schema, ha modo di emergere il fondamentale ruolo di Cristo salvatore:

A questo punto della nostra elementarissima analisi si presenta la nuova libertà, procurataci da Cristo Redentore; ed è la libertà dal peccato e dalla sua fatale conseguenza, che è la morte (cfr. Rom. 8,2). Qui dovremmo ricordare la famosa dottrina, oggi tanto chiamata in causa, del peccato originale, un peccato non personale, ma per reato di colpa, e di pena ereditato da Adamo col nascere da Adamo; cioè l’insegnamento biblico e teologico delle conseguenze universali, trasmesse per via di generazione, per causa della trasgressione del primo uomo, "in cui tutti hanno peccato" (Rom. 5,12) conseguenze che sono, prima, l’inimicizia di Dio: "Eravamo - dice s. Paolo con forte espressione - per natura figli d’ira" (Eph. 2,3), poi il disordine nel nostro equilibrio umano (cfr. Rom. 6,20), e infine la perdita dell’immortalità, che era un privilegio conferito all’uomo mortale, quando si trovava in stato d’innocenza e elevato ad un più alto livello che non quello naturale, cioè quello soprannaturale (cfr. Denz.-Sch., 3705). Eravamo schiavi, soggetti ad una triste sorte di distacco da Dio, di infermità morale e di morte. Ebbene, Cristo ci ha liberato da questi mali col battesimo, cioè con la nostra partecipazione al mistero della sua morte e della sua risurrezione - il mistero pasquale -, dal peccato originale, e ci ha dato la grazia per liberarci, cioè per preservarci, ed anche poi per risollevarci dal peccato personale e attuale, ed in più ci ha dato la promessa di vincere la morte, un giorno, con la risurrezione160.

Dunque, è proprio una retta considerazione del peccato e dei suoi effetti ad illuminare il disegno di salvezza di Dio:

Non si può prescindere da questo fatto tragico, che parte dalla rovina iniziale del genere umano, il peccato originale, e che si ripercuote in tutta l’immensa e successiva rete delle sventure umane e delle nostre fatali responsabilità, che sono i nostri peccati personali, se si vuole capire qualche cosa della missione di Cristo e della economia di salvezza da Lui istituita, e se vogliamo esserne noi stessi partecipi. Non possiamo entrare nel santuario orante e sacramentale della liturgia, specialmente quando essa celebra non solo la memoria del racconto evangelico della passione, della morte e della risurrezione di nostro Signore, ma il compimento del mistero della redenzione, alla quale tutta l’umanità è interessata, se non abbiamo presente l’antitesi di questo dramma, ch’è appunto il peccato. Il peccato è il nodo negativo di questa dottrina e di questo perdurante intervento salvifico, che ci fa acclamare Cristo liberatore e che ci dà coscienza della nostra sorte, infelicissima prima, beatissima poi rispetto al mistero pasquale quando noi vi siamo associati161.

Di più, sarà proprio tale coscienza a farci avvertire la necessità della salvezza e ad aprirci alla redenzione operata da Cristo:

Un’affermazione fondamentale s’impone: tutti abbiamo bisogno di salvezza (Lumen gentium, 53; 1 Tim 2,4); nascendo, noi siamo naufraghi in questa inevitabile avventura; dimenticarla è cecità; rifiutarla è perdizione. Dobbiamo salvarci. Ed allora un’altra logica conclusione: noi dobbiamo avere coscienza di questo bisogno; e cioè, dobbiamo avere coscienza del male; del male nostro, del male che è nel mondo. Non è pessimismo disperato, è realismo; e per noi credenti nella salvezza, che ci viene da Cristo Salvatore, è la diagnosi sincera e salutare, che precede la terapia della salute. [...] Noi che cosa faremo per entrare nel cono di luce della salvezza cristiana? Accetteremo la luce. La quale, proiettando i raggi dello sguardo divino sopra di noi, svela a noi stessi la nostra multiforme rovina; ci dà una previa e salutare, come dicevamo, coscienza del male. Il nostro bene comincia dalla conoscenza del nostro male162.

In positivo, salvezza significa ricerca e conseguimento del bene. Una antropologia equilibrata, oltre al peccato presente nell’uomo, dovrà considerare anche la sua originaria apertura al bene:

Che cosa intendiamo per senso morale? Domanda importante. È l’innata coscienza del bene e del male; confortata dal giudizio rivolto non soltanto a ciò che è bene e ciò che è male, ma altresì a ciò che deve essere bene per noi e che deve essere evitato perché male per noi. È un concetto nodale, che implica intelligenza e volontà circa le cose da farsi e da non farsi; implica il gioco decisivo della libertà, quello perciò del dovere, e quello successivo della legge, della norma direttiva delle nostre azioni, e quindi quello dell’autorità da cui emana la legge. Possiamo dire (prescindendo ora dalle esigenze verbali filosofiche) che è l’avvertenza, cioè la coscienza dell’ordine da compiere dentro e fuori di noi. Questo istinto, questo orientamento spontaneo dapprima, pensato e voluto poi, dell’obbligazione morale, convalidata da un magistero estrinseco e sociale, ovvero da quello religioso, e rivolta all’azione conforme ad un piano naturale, esso stesso intuito come riflesso di una intenzione trascendente, e noi la chiamiamo moralità. Quali sono le forze, gli stimoli, che entrano in gioco? Il dovere? Le passioni? Gli interessi? Il costume? L’abitudine? L’esempio? Il comando? Il timore? ... È tutta una gamma che l’educatore ben conosce, e che la coscienza, cioè la riflessione personale è chiamata a valutare nella sua onestà e a dosare con scelta volontaria nell’efficienza dei suoi influssi esecutivi. Accenniamo soltanto a questo complesso groviglio operativo perché ci possiamo rendere conto della densità di significato della comunissima e stupenda espressione: "essere buoni", che vuol dire essere positivamente morali; e perché non ci sorprenda il fatto del facile disordine che può introdursi nel complicato meccanismo psicologico dell’agire umano; disordine, ahimé!, che esiste già allo stato potenziale nell’uomo dopo il guasto introdotto dal peccato originale, con efficacia più o meno contenuta e contenibile. Ed allora ci domandiamo: è possibile essere buoni? Conformi alla legge del bene, e vittoriosi di fronte alle tentazioni del male? Questo è il dramma quotidiano d’ogni essere umano; questa è la prova a cui è sottoposta la nostra vita presente. Ma noi dobbiamo essere ottimisti, e dobbiamo rispondere che sì, è possibile (cfr. 1 Cor. 10,13); l’uomo è di natura sua orientato verso il bene163.

Tuttavia la consecuzione del bene è legata alla volontà e, in ultima analisi, alla libertà dell’uomo:

Una sola osservazione aggiungeremo qui, quella che riguarda il rapporto fra l’intelletto e la volontà nell’azione. L’intelletto non è libero; esso è obbligato dalla verità; ora, non è l’intelletto che guida la volontà? Ma poi, non è la verità che ci fa liberi, come dice il Vangelo (cfr. Io. 8,32)? Non è perciò la volontà, al tempo stesso, liberata e vincolata dal pensiero? Sì; ma bisogna fare attenzione alla diversità dell’influsso che reciprocamente esercitano nel loro stupendo gioco psicologico l’intelletto sulla volontà, e la volontà sull’intelletto. L’intelletto presenta alla volontà, senza obbligarla, il bene, l’oggetto, a cui essa dovrebbe rivolgersi; importantissima fase della vita morale; fase didattica e pedagogica: ragionare bene (cfr. Pascal) cioè chiarire le idee, e offrire alla volontà l’argomento razionale per la sua decisione; ma non è fase decisiva, perché non obbligante; è la volonta, a sua volta, muove l’intelletto all’esercizio del pensiero, a tale, o tale altro studio; e in questo senso possiamo parlare di "liberta di pensiero" (cfr. S. Th. I, 79, 11, ad 2; e I-IIae, 9, 1, ad 3; cfr. Sertillanges, La Phil. mor. de St. Th., p. 5). E questo per concludere alla basilare verità: che noi possiamo agire. Siamo liberi. Liberi per fare il bene, si capisce; ma - ahimé! liberi e capaci anche di non fare il bene. È drammatico, ma è così. "La libertà dell’arbitrio consiste nel potere peccare o nel non peccare", ci insegna, riassumendo tutta la umana esperienza dopo s. Agostino (PL 44, 917), s. Anselmo (cfr. Dialogus de libero arbitrio, PL 158, 489)164.

5.6. Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"

Infine, conclude Evangelii nuntiandi, l’opera di evangelizzazione dovrà insegnare a ricercare Dio stesso. È un’esigenza già insita nella natura umana:

Dobbiamo cercare Iddio! Cercarlo, perché? Oh! Come sarebbe lungo rispondere bene a questa domanda! Dovremmo innanzi tutto riflettere sul fatto fondamentale che la vita è una ricerca: tutti gli uomini sono dei ricercatori di qualche cosa. L’amore, che qualifica e riempie la vita dell’uomo, è una ricerca. La vita è qualificata, definita e misurata da ciò che ricerca. Oggi l’uomo più che mai è alla ricerca di cose nuove, di pienezza nuova. L’ansia, che caratterizza l’attività del nostro tempo, non è che una ricerca diventata assorbente, febbrile, sempre più interessante, più feconda, e insieme più problematica, più faticosa e spesso più sconfortata e delusa. Cercare, cercare, è il programma della cultura, della scienza, del lavoro, della politica. Più si trova, e più si cerca. Più si è trovato, più si desidera e si spera trovare. È segno che manca sempre qualche cosa all’uomo, se sempre vuole e deve cercare. Nulla gli basta. Avesse tutto, cercherebbe ancora, perché l’uomo è così: deve crescere, deve conquistare, deve dilatarsi continuamente. [...] Ma Noi ora diciamo: dobbiamo cercare Iddio! E la prima ragione è estremamente ovvia. Perche Egli è nascosto. "Dio non è un’invenzione, è una scoperta" (Zundel, Recherche du Dieu inconnu, 7). [...] L’uomo in tutto il suo essere spirituale, cioè nelle sue supreme facoltà di conoscere e di amare, è correlativo a Dio; è fatto per Lui; e ogni conquista dello spirito umano accresce in lui l’inquietudine, e accende il desiderio di andare oltre, di arrivare all’oceano dell’essere e della vita, alla piena verità, che sola dà la beatitudine. Togliere Dio come termine della ricerca, a cui l’uomo è per natura sua rivolto, significa mortificare l’uomo stesso. [...] La ragione, sorretta dalla fede, e la fede dalla grazia, camminano senza posa verso il Dio invisibile (cfr. S. Agostino, De videndo Deo, Ep. 147; PL 3, 596 ss.); e questo cammino è polarizzato, in tante diverse maniere, verso la meta centrale della nostra vocazione umana e cristiana (cfr. s. Benedetto: Si vere Deum quaerit..., Reg. 58); ed anche in questo continuo e faticoso nostro itinerario verso la Verità, ch’è la Vita, la ricerca ha un suo dinamismo, che la ristora e la rinfranca, per la felicità della incipiente scoperta: "Si cerca Dio - dice ancora s. Agostino - per trovarlo più dolcemente, e lo si trova per cercarlo ancora più avidamente: quaeritur ut inveniatur dulcius, et invenitur ut quaeratur avidius" (De Trin. 15, 2; PL 42, 1058)165.

La ricerca di Dio poggia su un triplice fondamento: la Scrittura, i sacramenti e la Chiesa. Cristo, sacramento originario di salvezza, prolunga la propria azione nella Chiesa, sacramento derivato, che partecipa alla vita e all’essere del suo Signore e ne manifesta la presenza tra gli uomini. Per condurre l’umanità all’incontro con Cristo in Dio, essa annuncia la salvezza e ne rende possibile l’esperienza. La Parola annunciata e testimoniata sbocca nel sacramento; chi accoglie la Parola di salvezza, ne è reso partecipe mediante i sacramenti, che lo mettono in comunione con Cristo e con la comunità dei credenti, la Chiesa:

Durante la nostra vita temporale a noi non è dato "vedere" le realtà divine (cfr. Io. 20,29); è dato "sapere"; ed anche questo sapere deriva non da una conoscenza naturale e normale, ma dalla fede; l’uomo credente procede "come se vedesse l’invisibile" (Hebr. 11,27; cfr. Loew, Comme s’il voyait l’invisible, riferito all’apostolato); e la sicurezza, in via ordinaria, gli è data da segni, da certi segni sacri, simbolo e causa strumentale di ciò che rappresentano, i sacramenti. Il mistero della salvezza a noi è comunicato mediante due vie: quella obiettiva della Parola di Dio, cioè soggettivamente della fede; e quella dell’azione sacramentale. Alle quali vie una terza possiamo aggiungere, quella della Chiesa, quel grande sacramento che tutti gli altri contiene e dispensa, e che stilizza cristianamene la nostra vita e ci offre l’atmosfera dello Spirito, di cui essa è anima e che a noi, se fedeli, fa respirare166.

Nel messaggio inviato ad un gruppo di studenti universitari francesi, Paolo VI traccerà un sintetico itinerarium ad Deum, affermando che la ricerca di Dio richiede amore e fiducia, e passa attraverso i sentieri della preghiera, della fraternità e dell’ecclesialità, dell’Eucaristia:

Come cercare Dio, cari amici, se non con una grande fiducia? Lungi dall’essere un oggetto che si possiede, Dio è un amore a cui ci si apre, poiché egli si dà come una persona viva, come un Padre, come un fratello, come uno Spirito d’amore. Si accoglie la sua luce. Ci si lascia attrarre da lui, polo sempre attivo della nostra esistenza, come di tutto l’universo. Lo si cerca nella riflessione, la condivisione fraterna, la contemplazione fervente, con "gli occhi illuminati del cuore" (cfr. R.P. Carré, Paris, Cerf 1970). Come potrebbe rivelarsi a chi non prega? E per venire più sicuramente alla luce, "fate la verità" (Io. 3,21). La volontà d’amore fraterno vi guiderà sul suo cammino quando il vostro cuore sarà dilatato, purificato e illuminato. "Nesuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi" (1 Io. 4,12). Con san Paolo, ve ne assicuriamo: "Non è lontano da ciascuno di noi" (Act. 17,27). E con san Pietro, a cui il Cristo ha affidato il compito di confermare i suoi fratelli nella fede (cfr. Luc. 22,31), Noi ve lo diciamo: "Stringetevi a lui" (1 Petr. 2,4). Lo riconoscerete allo spezzare del pane (cfr. Luc. 24,31), e voi saprete che "conoscere Dio significa essere conosciuti da lui" (cfr. Dieu aujourd’hui, Semaine des intellectuels catholiques, Recherches et débats, 52, Paris, Desclée de Brouwer, 1965, p. 175)167.

Il primo itinerario per giungere ad un reale incontro con Dio è dunque la preghiera, che si configura come dialogo d’amore:

La preghiera è un dialogo, una conversazione con Dio. E subito vediamo che essa dipende dal senso di presenza di Dio, che noi riusciamo a rappresentare al nostro spirito, sia per intuito naturale, sia per una certa figurazione concettuale, sia per un atto di fede; il nostro è un atteggiamento come quello d’un cieco che non vede, ma sa d’avere davanti a se un essere reale, personale, infinito, vivo che osserva, ascolta, ama l’orante. Allora la conversazione nasce. Un Altro è qui; e quest’Altro è Dio. Se mancasse questa avvertenza che Uno, che cioè Lui, Dio, è in qualche misura in comunicazione con l’uomo che prega, questi si effonderebbe in un monologo, non intesserebbe un dialogo; non si tratterebbe per lui d’un vero atto religioso, ch’esige d’essere a due, fra l’uomo e Dio, ma di un monologo, bello, forse, superlativo alle volte, come un supremo sforzo di volare verso un cielo opaco e senza sponde, ma acclamante e, in questo caso, spesso piangente nel vuoto. Saremmo nel regno della più lirica e più profonda fenomenologia dello spirito, ma senza certezza, senza speranza; desolazione piuttosto, musica spenta. Non è così per noi, che sappiamo essere la preghiera, cioè l’incontro con Dio, una comunicazione possibile ed autentica. Mettiamo questa affermazione fra le certezze indiscutibili della nostra concezione della verità, della realtà in cui viviamo. In termini semplici: la religione è possibile; e la preghiera è per eccellenza un atto di religione (cfr. S. Th. II-IIae, 3). [...] Uno stato d’animo primordiale e importantissimo può prodursi in colui che prega, risultante dalla sintesi di due sentimenti diversi apparentemente opposti, quello della trascendenza di Dio, abbagliante, soverchiante (cfr. Gen. 18,27; Luc. 5, 8), e quello della sua immanenza, cioè della sua immediata vicinanza, della sua ineffabile presenza; due sentimenti che si integrano nella piccola e povera cella del nostro spirito, e vi accendono subito una straordinaria vivacità religiosa, la quale può subito balbettare la sua duplice espressione orante, la lode e l’invocazione, ovvero può in certe anime mistiche rimanere assorta in un silenzio contemplativo, quasi indescrivibile (cfr. H. Bremond, Introduction a la philosophie de la prière)168.

"Alla gratitudine succede il pentimento"169: la preghiera è un colloquio che assume i caratteri non solo della lode e del ringraziamento, ma anche della supplica e della richiesta:

La preghiera è il primo dialogo, che l’uomo può ambire di tenere con Dio. Ammessa l’esistenza d’un rapporto con Dio, cioè una religione, nasce spontaneo e poi doveroso il bisogno di rivolgere a Lui una nostra parola. Essa, più che dal sentimento, o dall’ignoranza, o dall’interesse, come spesso si afferma, sgorga da un fondamentale atto d’intelligenza, quasi istintivo, quasi intuitivo: se Dio c’è, se Dio è a me accessibile, io gli devo una parola, una espressione mia; è una necessità spirituale e morale (cfr. S. Th. II-IIae 83, 2); è un atteggiamento normale e abituale, che deriva dal rapporto metafisico del mio essere di creatura rispetto a Colui ch’è principio sommo e necessario, e che corrisponde al precetto evangelico: "Bisogna sempre pregare, e non cessare mai" (Luc. 18,1). Del resto, le due forme essenziali, in cui la preghiera si esprime, giustificano questa abituale esigenza, potenziale almeno, di preghiera: la lode e la domanda. Dio può essere l’oggetto della nostra lode, della nostra "elevazione della mente" verso di Lui, un’elevazione, che per sé, non dovrebbe mai venir meno; fa parte della nostra concezione della vita, della nostra coscienza di creatura, della nostra avvertenza d’essere sempre sospesi alla onnipotente e gratuita azione generatrice della causa prima. Così Dio può essere oggetto della nostra implorazione supplicante l’azione soccorritrice della divina Provvidenza170,

ed è disponibilità e apertura all’azione trasformante di Dio, che opera nell’intimo dell’uomo:

Ci basti ricordare, con un celebre pensiero di s. Agostino (intus eras, et ego foras; Conf. 10, 27; PL 32, 795), che il punto d’incontro essenziale col mistero religioso, con Dio, e dentro di noi, è nella cella interiore del nostro spirito, è in quella attività personale, che chiamiamo orazione. È in questa attitudine di ricerca, di ascoltazione, di supplica, di docilità (cfr. Io. 6,45), che l’azione di Dio ci raggiunge normalmente, ci dà luce, ci dà senso delle cose reali e invisibili del suo regno; ci fa buoni, ci fa forti, ci fa fedeli, ci fa come Lui ci vuole171.

Un secondo percorso passa attraverso la comunione con quel segno visibile dell’incontro con Dio - secondo quanto era stato affermato dalla costituzione Lumen gentium (§ 1), esplicitamente richiamata da papa Montini - che è la Chiesa di Gesù Cristo:

Questa parola "Chiesa" condensa in sé, come in un punto focale, tutta la ricchezza, l’originalità, la verità della religione e dei destini umani. Se la chiamata viene da Dio, sua è l’iniziativa, suo il piano che ne risulta, suo l’amore che subito in esso si rivela. Bisogna rileggere la lettera di s. Paolo agli Efesini, specialmente ai capi primo e secondo; bisogna leggere la costituzione dogmatica Lumen gentium, anch’essa ai primi capitoli, per avere un’idea della Chiesa, come d’una chiamata di Dio, d’una religione che non parte dall’uomo, ma parte da Dio, e che non rimane, come i tentativi religiosi umani, unilaterale, incompleta e troppo spesso inefficace ed errata, ma costituisce un rapporto sicuro, un dialogo vero, e infine una comunione, e perciò una salvezza e una beatitudine172.

Essa non è quindi "uno schermo che ci impedisca di arrivare a Cristo e di salire a Dio [...] ma è lo specchio - il segno sacro - in cui dobbiamo vedere Cristo e in Lui Iddio"173 e, sebbene un simile contatto possa avvenire in molti modi che solo la libertà dello Spirito è in grado di suscitare, la via regia è costituita proprio dalla Chiesa in tutte le sue dimensioni, ivi compresa quella gerarchica e istituzionale:

L’incontro con Dio può avvenire al di fuori d’ogni nostro preventivo; l’agiografia ce ne offre esempi mirabili, e le cronache del nostro tempo ne registrano alcune clamorose (cfr. ad es. A. Frossard, Dieu existe, je l’ai rencontré, Fayard 1969), e innumerevoli altre silenziose. Siamo nella sfera carismatica, di cui oggi tanto si parla: lo Spirito soffia dove vuole. Non saremo certo noi a spegnerlo, ricordando le parole di s. Paolo: "Non vogliate spegnere lo Spirito" (1 Thess. 5,19). Solo dovremo insieme ricordare le altre seguenti dello stesso Apostolo: "Tutto esaminate; ritenete ciò che è bene" (ibid. 21); la celebre "discrezione degli spiriti" s’impone in un campo dove l’illusione può essere facilissima. [...] La struttura ordinaria istituzionale della Chiesa è sempre la via maestra, attraverso la quale lo Spirito arriva a noi (cfr. 1 Cor. 4,1; 2 Cor. 6,4). Anche oggi. E più che mai. Solo bisogna che l’idea di Chiesa, il sensus Ecclesiae sia in noi ristabilito, rettificato, approfondito. Chi altera la concezione della Chiesa con l’intento di rinnovare la religione nella società moderna guasta per ciò stesso il canale dello Spirito stabilito da Cristo, compromette la religione del popolo (cfr. J.A. Jungmann, Tradition liturgique et problèmes actuels de pastorale, pp. 271 ss., Mappus 1962)174.

L’edificio ordinato e strutturato della Chiesa è però anche una comunione nello Spirito Santo. Parlare di koinonia significa sottolinearne la funzione, annunciare e significare che Cristo è la salvezza dell’umanità; annunciare e anticipare, realizzandola, la salvezza:

Dei aedificatio estis, (cfr. 1 Cor. 3,9) voi siete l’edificio di Dio, sentenzia s. Paolo, nella cui espressione, eco del pensiero del Signore, alcuni concetti costituzionali della Chiesa sono espressi, quello dell’origine divina del mistico edificio, del suo incremento parimente divino; della sua composizione umana e sociale; della sua intima e strutturale adesione (cfr. L. Cerfaux, La Théologie de l’Eglise, suivant St. Paul, Paris 1948). Una parola oggi molto usata sembra riassumere ed esprimere questo aspetto della Chiesa, ed è la parola comunione nel suo duplice riferimento a Dio e ai cristiani fra loro. Il concilio l’adopera sovente: la Chiesa è una comunione di fede e di carità (cfr. Lumen gentium, 4, 9 spec., 13, 23, 49; etc.). Ed è questa una bellissima parola, che bene si applica all’edificio, che sotto la mano operatrice di Cristo, noi siamo chiamati a comporre; comunione, causa ed effetto della sua consistenza, della sua solidità, e, poiché si tratta d’un edificio vivente, qual è un corpo sociale, della sua vitalità. Comunione vuol dire, nel nostro studio, la grazia, quando indica il rapporto unitivo con Dio; vuol dire dilezione fraterna nella partecipazione della medesima fede, della medesima speranza e della medesima carità, quando indica il rapporto con i fratelli; e come la circolazione del sangue in un uomo vivente e sano. È un fattore d’unità spirituale e sociale in un organismo composito. s. Paolo sigilla il concetto ed il precetto della comunione cristiana nella magnifica raccomandazione: "Cercate di conservare l’unità dello Spirito nel vincolo della pace" (Eph. 4,3). La comunione è dunque il cemento unitivo che collega le singole parti dell’"edificio Chiesa", sia nella sua composizione mistica, la comunione dei santi, sia nella sua espressione comunitaria, la comunione cattolica, l’inserzione cioè organica e canonica nel corpo visibile della Chiesa stessa175.

Da questo punto di vista, la Chiesa appare come una casa e come un tempio, nel quale si realizza l’incontro tra Dio e i credenti:

A quali concetti dottrinali ci guida allora questa immagine della Chiesa-casa di Dio? Difficile dire in poche parole; ma ciascuno di voi può trovarli, quasi da sé. Per esempio: la casa non è una dimora? Non indica un’interiorità? Un’abitazione dove una famiglia s’incontra? Non dice una unità interiore, un’intimità vissuta e protetta? Applicata ad una pluralità di persone, l’immagine della casa non c’insegna che questa pluralità deve formare comunità? Che essa deve essere unita nell’amore, nella concordia, nell’identità di pensieri e di sentimenti? Come potrebbe essere altrimenti la Chiesa di Cristo, concepita come la casa di Dio? E se questa casa non è destinata soltanto a riunire la società ecclesiale, che vi abita, ma è destinata a rendere possibile, a provocare, in un certo senso, l’incontro dei fortunati inquilini con Dio, quella casa ci appare sacra, diventa tempio, ci mostra come la Chiesa è luogo vero e necessario per comunicare con Dio, e il punto focale della sua luce, è il posto dove Egli ci attende, dove Egli a noi si concede, dove gli possiamo parlare con fiducia, dove possiamo godere della sua presenza, dove si può vivere il "mistero" del rapporto istituito da Cristo fra Dio e gli uomini. Nella Chiesa diventiamo "domestici Dei, familiari a Dio" (Eph. 2,19)176.

La massima espressione di comunione con la Chiesa - e di conseguenza, come si è visto, con Dio in Gesù Cristo - è costituito dai sacramenti, espressioni sensibili e tangibili di una realtà colta e significata, percepita e comunicata, pur senza identificarla o catturarla; espressione della tensione fra umano e divino, fra visibile e invisibile, fra pienezza e partecipazione; mediazione che manifesta e che non coincide del tutto con la grazia:

Che cosa vuol dire "sacramento"? La parola è diventata d’uso piuttosto comune; ma il significato rimane recondito, anche perché non è sempre univoco; e anche quando esprime il concetto catechistico, che nel nostro comune discorso è prevalso di segno sacro santificante (S. Th. III, 60, 2), o meglio di segno sensibile, religioso, che ha meravigliosa virtù di significare, di contenere, di conferire la grazia di Dio, noi rimaniamo più stupiti, che istruiti; ed abbiamo bisogno di analizzare più attentamente ciò che affermiamo per scoprire nel sacramento un segno, che ci vuole ricordare la passione di Cristo, dimostrare e comunicare la sua azione salvatrice, cioè la sua grazia, e preannunziare una pienezza di vita, che solo nella gloria della vita futura potremmo conseguire. Diciamo più in breve: un segno misterioso (in greco appunto il sacramento si chiama "mistero"), che per divina disposizione significa sensibilmente un fatto divino interiormente operante (cfr. L. Ciappi, De sacramentis in communi)177.

Il vertice del settenario sacramentale è costituito dall’Eucaristia, nel quale si ha una particolarissima presenza di Cristo. Basti qui richiamare la visione offerta dall’enciclica Mysterium fidei:

In modo ancora più sublime Cristo è presente alla sua Chiesa che in suo nome celebra il sacrificio della Messa e amministra i sacramenti. [...] Nessuno poi ignora che i sacramenti sono azioni di Cristo, il quale li amministra per mezzo degli uomini. Perciò i sacramenti sono santi per se stessi e per virtù di Cristo, mentre toccano i corpi, infondono grazia alle anime. Queste varie maniere di presenza riempiono l’animo di stupore e offrono alla contemplazione il mistero della Chiesa. Ma ben altro è il modo, veramente sublime, con cui Cristo è presente alla sua Chiesa nel sacramento dell’Eucaristia, che perciò è tra gli altri sacramenti "più soave per devozione, più bello per l’intelligenza, più santo per il contenuto" (Aegid. Rom. Theoremata de Corpore Christi, theor. 50, Venezia 1521, p. 127); contiene infatti lo stesso Cristo ed è "quasi la perfezione della vita spirituale ed il fine di tutti i sacramenti" (Summa Theol. III, q. 73, a. 3)178.

Vi è dunque un inscindibile legame tra Chiesa e sacramenti - e ciò vale in particolar modo per l’Eucaristia -, che sono una particolare attuazione della Pasqua e mediante i quali Cristo costruisce, unifica e santifica la comunità cristiana:

Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i sacramenti, che emanano dalla sua pienezza (cfr. Lumen gentium, 7, 11). È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del mistero della morte e della resurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione (cfr. Sacrosanctum concilium, 5, 6; Lumen gentium, 7, 12, 50)179;

L’annuncio, in effetti, non acquista tutta la sua dimensione, se non quando è inteso, accolto, assimilato e allorché fa sorgere in colui che l’ha ricevuto un’adesione del cuore. Adesione alle verità che, per misericordia, il Signore ha rivelate. Ma più ancora, adesione al programma di vita - vita ormai trasformata - che esso propone. Adesione, in una parola, al Regno, cioè al "mondo nuovo", al nuovo stato di cose, alla nuova maniera di essere, di vivere, di vivere insieme, che il Vangelo inaugura. Una tale adesione, che non può restare astratta e disincarnata, si rivela concretamente mediante un ingresso visibile nella comunità dei fedeli. Così dunque, quelli, la cui vita si è trasformata, penetrano in una comunità che è di per sé segno di trasformazione e di novità di vita: è la Chiesa, sacramento visibile della salvezza (cfr. Lumen gentium, 119, 48: AAS 57, 1965, pp. 5, 12-14, 53-54; Gaudium et spes, 42, 45: AAS 58, 1966, pp. 1060-1061, 1065-1066; Ad gentes, 1, 5: AAS 58, 1966, pp. 947, 951-952). Ma, a sua volta, l’ingresso nella comunità ecclesiale si esprimerà attraverso molti altri segni che prolungano e dispiegano il segno della Chiesa. Nel dinamismo dell’evangelizzazione, colui che accoglie il Vangelo come Parola che salva (cfr. Rom. 1,16; 1 Cor. 1,18), lo traduce normalmente in questi gesti sacramentali: adesione alla Chiesa, accoglimento dei sacramenti, che manifestano e sostengono questa ade sione mediante la grazia, che conferiscono180.

I sacramenti rappresentano pertanto il culmine dell’evangelizzazione: se essa in ultima analisi mira all’implantatio Ecclesiae, ciò avviene in primo luogo annunciando il Vangelo e poi incorporando alla Chiesa mediante il battesimo chi ha aderito alla fede perché, insieme a tutta la comunità, possa lodare Dio e partecipare alla mensa del Signore, l’Eucaristia, cardine e radice della Chiesa. Il rapporto tra sacramenti, evangelizzazione e comunità è bene delineato in una lettera inviata nel 1977 dal card. Giovanni Villot, segretario di Stato, a mons. Romeu Alberti, vescovo di Apucarana e presidente del Dipartimento di liturgia del CELAM, in occasione dell’incontro dei rappresentanti delle Commissioni liturgiche dell’America latina svoltosi a Caracas; lettera alla cui stesura Paolo VI non fu certo estraneo:

È evidente che nell’opera di evangelizzazione la liturgia occupa uno spazio di somma importanza, sia perché costituisce il momento culminente in cui si realizza il mistero della salvezza annunciata, sia perché pastoralmente offre all’evangelizzazione momenti privilegiati e una base sicura ed efficace. Inoltre, evangelizzazione e liturgia, o come comunemente si dice, evangelizzazione e sacramentalizzazione non si escludono, anzi si completano reciprocamente. In effetti, sarebbe incompleta e inefficace una celebrazione del sacramento senza l’evangelizzazione che la preceda e la prepari; e parimenti sarebbe incompleta una evangelizzazione che non sfociasse del tutto naturalmente nella celebrazione del sacramento. Il sacramento, in quanto sacramento della fede, richiede una evangelizzazione previa che prepari la fede di chi va a riceverlo, perché egli possa comprendere, vivere, tradurre nella realtà ciò che celebra. Tuttavia il sacramento, come pure la celebrazione liturgica in generale, diviene mezzo ed elemento di evangelizzazione quando lo sforzo pastorale conduce la comunità a comprendere il valore dei segni, dei gesti, delle parole, degli elementi che costituiscono la celebrazione, e quando l’evangelizzazione procura di partire dai riti e dai testi, dal contenuto del mistero, dal ciclo delle celebrazioni, legando il lavoro di formazione alla vita dell’azione liturgica. In tal modo, la ripetizione del gesto e il ritorno della celebrazione liturgica e sacramentale aiutano gradualmente a completare l’evangelizzazione e la formazione della comunità cristiana, ad approfondire ogni volta di più il contenuto delle formule e dei riti e a viverli come espressione di fede, anzi come espressione di fede della Chiesa. Questo ritorno aiuta pure l’evangelizzazione a far sì che il messaggio ricevuto nella liturgia per mezzo della parola e del gesto sacramentale abbia la sua applicazione nella vita181.

In modo non dissimile Evangelii nuntiandi aveva presentato il rapporto tra evangelizzazione e sacramenti:

Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l’evangelizzazione non si esaurisce nella predicazione e nell’insegnamento di una dottrina. Essa deve raggiungere la vita: la vita naturale alla quale dà un senso nuovo, grazie alle prospettive evangeliche che le apre; e la vita soprannaturale, che non è la negazione, ma la purificazione e la elevazione della vita naturale. Questa vita soprannaturale trova la sua espressione vivente nei sette sacramenti e nella loro mirabile irradiazione di grazia e di santità. L’evangelizzazione dispiega così tutta la sua ricchezza quando realizza il legame più intimo e, meglio ancora, una intercomunicazione ininterrotta, tra la Parola e i sacramenti. In un certo senso, è un equivoco l’opporre, come si fa talvolta, l’evangelizzazione e la sacramentalizzazione. È vero che un certo modo di conferire i sacramenti, senza un solido sostegno della catechesi circa questi medesimi sacramenti e di una catechesi globale, finirebbe per privarli in gran parte della loro eflicacia. I1 compito dell’evangelizzazione è precisamente quello di educare nella fede in modo tale che essa conduca ciascun cristiano a vivere i sacramenti come veri sacramenti della fede, e non a riceverli passivamente, o a subirli182.

 

6. LA GIOIA DI SERVIRE IL POPOLO DI DIO

I destinatari dell’evangelizzazione

L’enciclica Ecclesiam suam tracciava una geometria del dialogo che, ponendo come soggetto dialogante la Chiesa, aveva interlocutori solo all’esterno, costituenti come tre cerchi concentrici attorno ad essa, anzitutto il "mondo profano e [...] quello senza Dio" (§§ 101-110), in secondo luogo il "mondo [...] delle religioni non cristiane" (§§ 111-112) e infine il "coro [...] delle Chiese tuttora separate dalla Chiesa cattolica" (§§ 113-116)183. I prodromi di questa visione si possono ravvisare già nel primo radiomessaggio e nell’discorso nel giorno della coronazione, nei quali furono esplicitamente richiamati l’impegno per la salvezza dell’umanità nella pace e nello sviluppo e per il dialogo ecumenico184, specificandosi poi l’anno seguente, nell’appello pronunciato a Betlemme in occasione della visita in Terra Santa, ove furono esplicitamente menzionati i cattolici, i cristiani delle Chiese separate, il mondo contemporaneo e coloro che professano le religioni monoteiste185.

Evangelii nuntiandi presenterà invece una nuova e più complessa geometria dell’evangelizzazione che, dettata dall’ansia universalistica della fede (§§ 49-50), guarda dapprima a coloro che non conoscono il Vangelo (§ 51), poi a coloro che praticamente ignorano gli impegni derivanti dal proprio battesimo o godono di un insufficiente approfondimento della fede (§ 52), e ai seguaci delle religioni non cristiane (§ 53), culminando in coloro che - appartenenti alla Chiesa cattolica o alle altre Chiese cristiane - sono fedeli all’insegnamento evangelico (§ 54), per poi ritornare a coloro che oppongono resistenza all’annuncio del Vangelo: i non credenti e in particolare gli atei (§ 55) e i cristiani non praticanti (§ 56), rivolgendosi infine all’intera umanità (§ 57). Questo itinerario descrive come una parabola, che così possiamo delineare:

i lontani le masse

â á

il mondo scristianizzato i non praticanti

â á

i non cristiani i non credenti

æ å

i cristiani (cattolici e non cattolici)

6.1. Fino ai confini del mondo

Come è stato più volte ripetuto, l’annuncio del Vangelo fino ai confini della terra scaturisce dal comando di Gesù agli apostoli, passato poi alla Chiesa intera:

Le ultime parole di Gesù nel Vangelo di Marco conferiscono alla evangelizzazione, di cui il Signore incarica gli apostoli, una universalità senza frontiere: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura" (Marc. 16,15). I Dodici e la prima generazione dei cristiani hanno ben compreso la lezione di questo testo e di altri simili; ne hanno fatto un programma di azione. La stessa persecuzione, disperdendo gli apostoli, ha contribuito a disseminare la Parola e a far impiantare la Chiesa in regioni sempre più lontane. L’ammissione di Paolo al rango degli apostoli e il suo carisma di predicatore ai pagani - non giudei - della venuta di Gesù Cristo ha ulteriormente sottolineato questo universalismo186,

un mandato che ostacoli e tentazioni, persecuzioni e contrasti anche al presente non possono infrangere né spegnere187:

Nonostante tali avversità, la Chiesa ravviva sempre la sua ispirazione più profonda, quella che le viene direttamente dal Maestro: A tutto il mondo! A tutte le creature! Fino agli estremi confini della terra! Essa lo ha fatto di nuovo nel recente Sinodo, come un appello a non imprigionare l’annuncio evangelico limitandolo a un settore dell’umanità o a una classe di uomini, o a un solo tipo di cultura.188.

La Chiesa rivolge il proprio annuncio ad ogni uomo anche in forza della comune umanità, mirando unicamente al suo bene e con assoluta gratuità:

Vi è un primo, immenso cerchio, di cui non riusciamo a vedere i confini; essi si confondono con l’orizzonte; cioè riguardano umanità in quanto tale, il mondo. Noi misuriamo la distanza che da noi lo tiene lontano; ma non lo sentiamo estraneo. Tutto ciò ch’è umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi. Siamo pronti a condividere questa prima universalità; ad accogliere le istanze profonde dei suoi fondamentali bisogni, ad applaudire alle affermazioni nuove e talora sublimi del suo genio. E abbiamo verità morali, vitali, da mettere in evidenza e da corroborare nella coscienza umana, per tutti benefìche. Dovunque è l’uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro. Se esiste nell’uomo un’anima naturalmente cristiana, noi vogliamo onorarla della nostra stima e del nostro colloquio. Noi potremmo ricordare a noi stessi e a tutti come il nostro atteggiamento sia, da un lato, totalmente disinteressato: non abbiamo alcuna mira politica o temporale; dall’altro, sia rivolto ad assumere, cioè ad elevare a livello soprannaturale e cristiano, ogni onesto valore umano e terreno; non siamo la civiltà, ma fautori di essa189.

Il panorama dei detinatari dell’evangelizzazione appare però assai vasto e complesso. In forza del mandato di Cristo, la Chiesa trasmette la rivelazione anzitutto "a coloro, che non hanno mai inteso la buona novella di Gesù, oppure ai fanciulli" (osservazione significativa, soprattutto in funzione della prassi dell’iniziazione cristiana)190. Questa trasmissione avviene in forma graduale, perché il soggetto familiarizzi lentamente con la fede e si disponga ad un assenso consapevole, e utilizza una pluralità di strumenti:

Un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità d’uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglimento, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono. Ecco: essi irradiano, inoltre, in maniera molto semplice e spontanea, la fede in alcuni valori che sono al di là dei valori correnti, e la speranza in qualche cosa che non si vede, e che non si oserebbe immaginare. Allora con tale testimonianza senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della buona novella. Vi è qui un gesto iniziale di evangelizzazione. Forse tali domande saranno le prime che si porranno molti non cristiani, siano essi persone a cui il Cristo non era mai stato annunziato, battezzati non praticanti, individui che vivono nella cristianità, ma secondo principi per nulla cristiani, oppure persone che cercano, non senza sofferenza, qualche cosa o Qualcuno che essi presagiscono senza poterlo nominare. Altre domande sorgeranno, più profonde e più impegnative, provocate da questa testimonianza che comporta presenza, partecipazione, solidarietà, e che è un elemento essenziale, generalnzente il primo, nella evangelizzazione (cfr. Tertulliani Apologeticum, 39: CCL I, pp. 150-153; Minucii Felicis Octavius 9 et 31: CSLP, Augustae Taurinorum 19632, pp. 11-13, 47-48). A questa testimonianza tutti i cristiani sono chiamati e possono essere, sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori191.

Sebbene non ancora in forma matura, questa attività è però già parte dell’opera di evangelizzazione:

Rivelare Gesù Cristo e il suo Vangelo a quelli che non li conoscono, questo è, fin dal mattino della Pentecoste, il programma fondamentale che la Chiesa ha assunto come ricevuto dal suo fondatore. Tutto il Nuovo Testamento, e in modo speciale gli Atti degli Apostoli, testimoniano un momento privilegiato e, in un certo senso, esemplare di questo sforzo missionario che si riscontrerà poi lungo tutta la storia della Chiesa. Questo primo annuncio di Gesù Cristo, essa lo realizza mediante un’attività complessa e diversificata, che si designa talvolta col nome di "pre-evangelizzazione", ma che è già, a dire il vero, l’evangelizzazione, benché al suo stadio iniziale ed ancora incompleto. Una gamma quasi infinita di mezzi, la predicazione esplicita, certamente, ma anche l’arte, l’approccio scientifico, la ricerca filosofica, il ricorso legittimo ai sentimenti del cuore umano possono essere adoperati a questo scopo192.

In tutti costoro rivivono le folle incontrate da Gesù, nei cui confronti la Chiesa prova la stessa ansia missionaria del suo fondatore, e per raggiungere le quali si avvale dell’opera delle comunità cristiane:

Come Cristo durante il tempo della sua predicazione, come i Dodici al mattino della Pentecoste, anche la Chiesa vede davanti a sé una immensa folla umana che ha bisogno del Vangelo e vi ha diritto, perché Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1 Tim. 2,4). Conscia del suo dovere di predicare la salvezza a tutti, sapendo che il messaggio evangelico non è riservato a un piccolo gruppo di iniziati, di privilegiati o di eletti, ma destinato a tutti, la Chiesa fa propria l’angoscia di Cristo di fronte alle folle sbandate e sfinite "come pecore senza pastore" e ripete spesso la sua parola: "Sento compassione di questa folla" (Matth. 9,36; 15,32). Ma è anche cosciente che, per l’efficacia della predicazione evangelica, nel cuore delle masse, essa deve indirizzare il suo messaggio a comunità di fedeli, la cui azione può e deve giungere agli altri193.

L’annuncio della fede avviene però anche attraverso percorsi individuali, che il discernimento pastorale sarà in grado di discernere e attivare:

Accanto alla proclamazione fatta in forma generale del Vangelo, l’altra forma della sua trasmissione, da persona a persona, resta valida ed importante. Il Signore l’ha spesso praticata - come ad esempio attestano le conversazioni con Nicodemo, Zaccheo, la Samaritana, Simone il fariseo e con altri - ed anche gli apostoli. C’è forse in fondo, una forma diversa di esporre il Vangelo, che trasmettere ad altri la propria esperienza di fede? Non dovrebbe accadere che l’urgenza di annunziare la buona novella a masse di uomini facesse dimenticare questa forma di annuncio mediante la quale la coscienza personale di un uomo è raggiunta, toccata da una parola del tutto straordinaria che egli riceve da un altro. Noi non potremmo lodare a sufficienza quei sacerdoti che, attraverso il sacramento della penitenza o attraverso il dialogo pastorale, si mostrano pronti a guidare le persone nelle vie del Vangelo, a confermarle nei loro sforzi, a rialzarle se sono cadute, ad assisterle sempre con discernimento e disponibilità194.

L’icona di questo "farsi tutto a tutti" della Chiesa è senza dubbio costituita dall’Ite missa est del concilio - già parzialmente delineato nel discorso di apertura della seconda sessione195 -, ove la conclusione della celebrazione sinodale sfocia nella missione e mira a stringere nuovi legami con il mondo contemporaneo:

Venerabili fratelli, l’ora della partenza e della dispersione è suonata. Fra qualche istante, voi lascerete l’assemblea conciliare per andar incontro all’umanità per portarle la buona novella del Vangelo di Cristo e del rinnovamento della sua Chiesa, per il quale abbiamo lavorato insieme durante quattro anni. Momento unico questo; momento di un significato e di una ricchezza incomparabili! In questo raduno universale, in questo punto privilegiato del tempo e dello spazio, convergono nello stesso tempo il passato, il presente e l’avvenire. Il passato: infatti è riunita qui la Chiesa di Cristo, con la sua tradizione, la sua storia, i suoi concili, i suoi dottori, i suoi santi... Il presente: infatti noi ci lasciamo per andare verso il mondo di oggi, con le sue miserie, i suoi dolori, i suoi peccati, ma anche con le sue prodigiose conquiste, i suoi valori, le sue virtù... L’avvenire, infine, è là nell’appello imperioso dei popoli ad una maggiore giustizia, nella loro volontà di pace, nella loro sete cosciente o incosciente di una vita più alta: quella precisamente che Cristo può e vuole dar loro. Ci sembra di sentire alzarsi d’ogni parte del mondo un immenso e confuso rumore: l’interrogazione di tutti coloro che guardano verso il concilio e ci domandano con ansietà: non avete voi una parola dirci?... A noi governanti?... A noi, intellettuali, lavoratori, artisti?... A noi donne? A noi giovani, a noi ammalati, a noi poveri? Queste voci imploranti non resteranno senza risposta. Da quattro anni il concilio lavora per tutte le categorie umane; è per loro che ha elaborato quella "costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo", che abbiamo promulgato ieri tra gli applausi entusiasti della vostra assemblea. Dalla nostra lunga meditazione sul Cristo e sulla sua Chiesa deve zampillare in questo momento una prima parola annunciatrice di pace e di saluto per le moltitudini in attesa. Il concilio, prima di separarsi, vuole adempiere a questa funzione profetica...196.

Sorprendentemente, il primo messaggio conciliare fu rivolto "con deferenza e fiducia a coloro che hanno nelle loro mani il destino degli uomini su questa terra, a tutti i depositari del potere temporale", la cui autorità viene ricondotta alla sua sorgente divina (ritorna qui il tema della paternità di Dio e della fraternità di tutti gli uomini in Cristo), la quale a sua volta fonda, conferma e compie gli sforzi umani verso la verità, il bene comune, la pace e il dialogo. Per questo, in forza della propria natura e della propria missione di salvezza e di promozione umana, la Chiesa reclama una presenza libera e solidale in seno alla società:

Noi lo proclamiamo altamente: noi rendiamo onore alla vostra autorità e alla vostra sovranità; noi rispettiamo la vostra funzione; noi riconosciamo le vostre giuste leggi; noi stimiamo coloro che fanno e coloro che le applicano. Noi abbiamo una parola sacrosanta da dirvi, eccola: Dio solo è grande. Dio solo è il principio e la fine. Dio soltanto è la sorgente della vostra autorità ed il fondamento de vostre leggi. Spetta a voi di essere sulla terra i promotori dell’ordine e della pace tra gli uomini. Ma non dimenticatelo: è Dio, il Dio vivente e vero, che è il Padre degli uomini. È Cristo, il suo Figlio eterno, che è venuto a dirci e ad insegnarci che noi siamo tutti fratelli. È lui il grande artefice dell’ordine e della pace sulla terra, perché è lui che guida la storia umana e che solo può indurre i cuori a rinunciare alle cattive passioni che generano la guerra e la sventura. È Lui che benedice il pane dell’umanità, che santifica il suo lavoro e la sua sofferenza, che le dona quelle gioie che voi non potete darle e la conforta nel dolore che voi non potete consolare. Nella vostra città terrena e temporale Cristo costruisce misteriosamente la sua città spirituale ed eterna, la sua Chiesa. E che cosa vi chiede questa Chiesa, dopo quasi duemila anni di vicissitudini di ogni genere nei suoi rapporti con voi, potenze della terra? Che cosa vi chiede oggi? [...] Non vi chiede che la libertà. La libertà di credere e di predicare la sua fede, la libertà di amare il suo Dio e di servirlo, la libertà di vivere e di portare agli uomini il suo messaggio di vita. Non abbiate timore della chiesa. Essa è fatta ad immagine del suo Maestro, la cui azione misteriosa non usurpa le vostre prerogative, ma guarisce l’umano della sua fatale caducità, lo trasfigura, lo riempie di speranza, di verità e di bellezza. Lasciate che Cristo eserciti questa azione purificatrice nella società. Non crocifiggetelo di nuovo: sarebbe un sacrilegio perché egli è il Figlio di Dio; sarebbe un suicidio perché egli è il Figlio dell’uomo. E a noi, suoi umili ministri, permettete che diffondiamo ovunque e senza ostacoli la "buona novella" del Vangelo della pace [...]. I vostri popoli ne saranno i primi beneficiari, poiché la Chiesa prepara per voi dei cittadini leali, amici della pace sociale e del progresso197.

Il messaggio rivolto agli intellettuali e agli scienziati individuerà il punto nodale del rapporto tra Chiesa e sapere nella ricerca della verità. Il pensiero, la ricerca scientifica e tecnologica sono fondati su quella facoltà umana che è l’intelligenza, ma non possono essere fini a se stessi: il desiderio di conoscere è insito nell’uomo, ma il suo svolgimento deve essere posto a servizio di tutti e illuminato dalla fede. Se la conoscenza del mondo conduce l’uomo alle soglie del mistero di Dio, accanto al libro della natura è necessario quello della Scrittura, accanto al lume naturale della ragione vi deve essere quello divino della fede:

Un saluto tutto speciale a voi, cercatori della verità, a voi uomini di pensiero e di scienza, esploratori dell’uomo, dell’universo e della storia, a tutti voi, pellegrini in marcia verso la luce, e un saluto anche a coloro che si sono arrestati nel cammino, stanchi e delusi per una vana ricerca. [...] Noi non potevamo non incontrarvi. Il vostro cammino è il nostro. I vostri sentieri non sono mai estrani ai nostri. Noi siamo gli amici della vostra vocazione di ricercatori, gli alleati delle vostre fatiche, gli ammiratori delle vostre conquiste e, se necessario, i consolatori dei vostri scoraggiamenti e dei vostri insuccessi. Anche per voi [...] abbiamo un messaggio, ed è questo: continuate a cercare, senza stancarvi, senza disperare mai della verità! Ricordatevi la parola di uno dei vostri grandi amici, s. Agostino: "Cerchiamo con il desiderio di trovare, e troviamo con il desiderio di cercare ancora". Felici coloro che, possedendo la verità, la cercano ancora, per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri. Felici coloro che, non avendola ancora trovata, camminano verso di lei con un cuore sincero: che essi cerchino la luce di domani con la luce di oggi, fino alla pienezza della luce! Ma non dimenticatelo: se pensare è una grande cosa, pensare è anzitutto un dovere; guai a colui che chiude volontariamente gli occhi alla luce! Pensare è anche una responsabilità; guai a coloro che oscurano lo spirito con mille artifici che lo deprimono, lo inorgogliscono, lo fanno errare, lo deformano! Qual è il principio di base degli uomini di scienza, se non sforzarsi di pensare rettamente? Per questo, senza ostacolare i vostri passi, senza abbagliare i vostri sguardi, noi veniamo ad offrirvi la luce della nostra lampada misteriosa: la fede. Colui che ce l’ha affidata è il Maestro sovrano del pensiero, Colui del quale noi siamo gli umili discepoli, il solo che abbia detto e che abbia potuto dire: "Io sono la luce del mondo, io sono la via, la verità e la vita". Questa parola vi riguarda. Mai forse, grazie a Dio, è apparsa così evidente come oggi la possibilità di un accordo profondo tra la vera scienza e la vera fede, ancelle l’una e l’altra dell’unica verità. Non impedite questo prezioso incontro! Abbiate fiducia nella fede, questa grande amica dell’intelligenza! Illuminatevi alla sua luce per raggiungere la verità, tutta la verità!198.

Anche agli artisti verrà richiamato come la loro missione sia da secoli strettamente congiunta a quella della Chiesa, in quanto mediazione tra visibile e invisibile, sintesi tra percepibilità e spiritualità. L’arte si costituisce dunque come autentica testimonianza del divino, portando al mondo quella verità e quella bellezza - riflesso del divino - di cui esso ha bisogno:

Ora a voi tutti, artisti, che siete innamorati della bellezza e che lavorate per essa: poeti e gente di lettere, pittori, scultori, architetti, musicisti, uomini di teatro e cineasti... [...] Se siete gli amici della vera arte, siete anche nostri amici! La Chiesa ha fatto da tempo alleanza con voi. Voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l’avete aiutata a tradurre il suo divino messaggio nel linguaggio delle forme e delle figure, adatto a rendere avvertibile un mondo invisibile. Oggi come ieri, la Chiesa ha bisogno di voi e si volge verso di voi. Essa vi dice con la nostra voce: lalasciate che non si rompa una alleanza tra le più feconde! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! Questo mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani... Che queste mani siano pure e disinteressate! Ricordatevi che siete i custodi della bellezza del mondo: che ciò è sufficiente ad affrancarvi dai gusti effimeri e senza vero valore, a liberarvi dalla ricerca di espressioni strane e sconvenienti. Siate sempre e ovunque degni del vostro ideale, e sarete degni della Chiesa199.

In continuità con il magistero della Chiesa, che ha sempre mirato alla promozione della donna, anche il messaggio conciliare accoglie, riconosce e favorisce lo sviluppo della partecipazione femminile alla vita sociale, rifuggendo da strumentalizzazioni che ne determinino la decadenza spirituale e morale. In questo senso viene richiamata la specificità dei ruoli e delle funzioni svolte nell’ambito familiare e civile, sottolineandone il contributo nell’odierno contesto culturale:

Ed ora, è a voi che noi ci rivolgiamo, donne di ogni condizione, figlie, spose, madri e vedove; e anche a voi, vergini consacrate e donne solitarie: voi siete la metà dell’immensa famiglia umana! La Chiesa è fiera, voi ben lo sapete, d’aver esaltato e liberato la donna, d’aver fatto risplendere nel corso dei secoli, nella diversità dei caratteri, la sua eguaglianza fondamentale con gli uomini. Ma viene l’ora, anzi l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si compie nella pienezza, l’ora in cui la donna acquista nella società un’influenza, uno sviluppo, un potere mai raggiunti fino ad ora. Per questo, nel momento in cui l’umanità conosce una così profonda trasformazione, le donne ripiene dello spirito del Vangelo possono molto per aiutare l’umanità ad attingere alla sua finalità. Voi donne, avete sempre in retaggio la cura del focolare, l’amore della vita, il senso delle culle. Siete presenti al mistero della vita che comincia. Consolate nel momento della morte. La nostra tecnica rischia di diventare inumana. Riconciliate gli uomini con la vita. E soprattutto vegliate, noi ve ne supplichiamo, sull’avvenire della nostra specie. Trattenete la mano dell’uomo che, in un momento di follia, tentasse di distruggere la civiltà umana. Spose, madri di famiglia, prime educatrici del genere umano nel segreto dei focolari, trasmettete ai vostri figli e alle vostre figlie le tradizioni dei vostri padri nel momento stesso in cui li preparate all’insondabile avvenire. Ricordatevi sempre che una madre appartiene, per mezzo dei suoi figli, a questo avvenire che essa, forse, non vedrà. E anche voi, donne solitarie, sappiate che potete compiere tutta la vostra vocazione di dedizione. La società vi chiama da ogni parte. E anche le famiglie non possono vivere senza gli aiuti di coloro che non hanno famiglia. Soprattutto voi, vergini consacrate, in un mondo in cui l’egoismo e la ricerca del piacere vorrebbero dettare legge, siate le custodi della purezza, del disinteresse, della pietà. Gesù, che ha dato all’amore coniugale tutta la sua pienezza, ha anche esaltato la rinuncia a questo amore umano, quando essa è fatta per l’Amore infinito e per il servizio di tutti. Infine voi, donne nella prova, che ve ne state dritte sotto la Croce ad immagine di Maria, voi che, così spesso, nella storia avete dato agli uomini la forza di lottare fino alla fine, di testimoniare fino al martirio, aiutateli ancora una volta a conservare l’audacia delle grandi imprese e, nello stesso tempo, la pazienza e i1 senso degli umili inizi. Donne, voi che sapete rendere la verità dolce, tenera, accessibile, impegnatevi a far penetrare lo spirito di questo Concilio nelle istituzioni, nelle scuole e nelle case, nella vita di ogni giorno. Donne di tutto il mondo, cristiane o non credenti, a cui è affidata la vita in questo momento così grave della storia, spetta a voi salvare la pace del mondo!200.

Ai lavoratori viene espresso l’interesse per il loro stato e le loro aspirazioni e la gratitudine per la loro opera, di cui beneficia tutta la società; è tuttavia necessario operare una riconciliazione tra Chiesa e mondo del lavoro, ripristinare un dialogo interrotto, favorire la mutua comprensione, perché solo la fede è in grado di aprire orizzonti più vasti al desiderio dell’uomo contemporaneo:

Figli carissimi, siate assicurati innanzitutto che la Chiesa conosce le vostre sofferenze, le vostre lotte, le vostre speranze; che essa apprezza altamente le virtù che rendono nobili le vostre anime: il coraggio, la devozione, la coscienza professionale, l’amore della giustizia; che essa riconosce pienamente gli immensi servizi che, ciascuno al suo posto e, spesso nei posti più oscuri e più disprezzati, voi rendete all’intera società. La Chiesa ve ne è grata e vi ringrazia con la nostra voce. In questi ultimi anni, essa non ha mai smesso di avere davanti al suo pensiero i problemi, di una complessità continuamente crescente, del mondo del lavoro. [...] Di questo amore della Chiesa per voi, lavoratori, vogliamo essere anche noi testimoni presso di voi, e vi diciamo con tutta la convinzione dei nostri animi: la Chiesa è vostra amica. Abbiate fiducia in essa! Tristi malintesi, nel passato, hanno troppo spesso mantenuto la sfiducia e l’incomprensione tra noi; la Chiesa e la classe operaia ne hanno sofferto entrambe. Oggi l’ora della riconciliazione è suonata e la Chiesa del Concilio vi invita a celebrarla senza secondi fini. La Chiesa cerca di capirvi sempre meglio. Ma voi dovete, da parte vostra, cercare di capire cosa è la Chiesa per voi, lavoratori, che siete i principali artefici delle prodigiose trasformazioni che il mondo di oggi conosce: perchè voi ben sapete che se non le anima un potente soffio spirituale, esse faranno l’infelicità degli uomini, invece di fare la loro felicità. Non è l’odio che salva il mondo! Non è solo il pane della terra che può sfamare l’uomo. Dunque accogliete il messaggio della Chiesa. Accogliete la fede che essa vi offre per rischiarare la vostra strada: è la fede del successore di Pietro e dei duemila vescovi riuniti in concilio, è la fede di tutto il popolo cristiano. Che essa vi illumini! Che essa vi guidi! Che essa vi faccia conoscere Gesù Cristo, vostro compagno di lavoro, il Maestro, il Salvatore di tutta l’umanità201.

I poveri, gli ammalati, gli emarginati, i perseguitati, i non amati sono i privilegiati del regno di Dio. La Chiesa non ha il potere di mutare la loro condizione, ma annuncia loro il mistero di Cristo: "è il paradosso della condizione cristiana, che illumina singolarmente quello della condizione umana: né la prova né la sofferenza sono eliminate da questo mondo, ma esse acquistano un signifìcato nuovo nella certezza di partecipare alla redenzione operata dal Signore, e di condividere la sua gloria. Per questo il cristiano, sottoposto alle difficoltà dell’esistenza comune, non è tuttavia ridotto a cercare la sua strada come a tastoni, né a vedere nella morte la fine delle proprie esperienze. [...] L’Exultet pasquale canta un mistero realizzato al di là delle esperienze profetiche: nell’annuncio gioioso della risurrezione, la pena stessa dell’uomo si trova trasfigurata, mentre la pienezza della gioia sgorga dalla vittoria del Crocifisso, dal suo cuore trafitto, dal suo corpo glorificato, e rischiara le tenebre delle anime: "Et nox illuminatio mea in deliciis meis" (Praeconium paschale)"202. Essi, vivente immagine del Cristo, sono a lui associati nell’opera di salvezza del mondo:

Per tutti voi, fratelli provati, visitati dalla sofferenza in mille modi, il Concilio ha un messaggio tutto speciale. Il Concilio sente fìssi sopra di sé i vostri occhi imploranti, accesi dalla febbre o spenti dalla fatica, sguardi che interrogano, che cercano invano il perché della sofferenza umana e che domandano ansiosamente quando e da dove verrà il conforto... Fratelli carissimi, noi sentiamo risonare profondamente nei nostri cuori di padri e di pastori i vostri gemiti e i vostri pianti. E la nostra pena si accresce al pensiero che non è in nostro potere darvi, né la salute del corpo, né la diminuzione dei vostri dolori fisici che medici, infermieri e tutti coloro che si consacrano ai malati, si sforzano di alleviare facendo del loro meglio. Ma noi abbiamo qualche cosa di più profondo, di più prezioso da darvi: la sola verità capace di rispondere al mistero della sofferenza e di apportarvi un sollievo senza illusione: la fede e l’unione all’Uomo dei dolori, al Cristo, Figlio di Dio, messo in croce per i nostri peccati e per la nostra salvezza. Il Cristo non ha abolito la sofferenza; e non ha neppure voluto interamente svelarcene il mistero; l’ha presa su di lui e ciò è sufficiente perché noi ne comprendiamo tutto il valore. Oh, voi tutti che sentite più gravemente il peso della croce, voi che siete poveri e abbandonati, voi che piangete, voi che siete perseguitati per la giustizia, voi sui quali si tace, voi che siete gli sconosciuti del dolore, riprendete coraggio: voi siete i preferiti del regno di Dio, il regno della speranza, della bontà e della vita; voi siete fratelli del Cristo sofferente e con Lui, se voi lo volete, voi salvate il mondo! Ecco la scienza cristiana della sofferenza, la sola che dà la pace. Sappiate che voi non siete soli, né separati, né abbandonati, né inutili. Voi siete chiamati da Cristo, voi siete la sua vivente e trasparente immagine203.

L’ultimo messaggio è per i giovani, i destinatari dell’opera di rinnovamento inauguratasi con il concilio: ad essi viene proposto Cristo - presente nella Chiesa - come fondamento per la costruzione di quella società giusta e umana a cui aspirano e la fede come sorgente di forza e di gioia per la vita, che permette di non cedere alle illusioni dell’edonismo, dell’egoismo, del nichilismo, dell’ateismo... ma pone al servizio del mondo per la sua trasformazione:

È a voi, infine, giovani e fanciulle del mondo intero, che il Concilio vuole rivolgere il suo ultimo messaggio. Perchè siete voi che vi accingete a ricevere la fiaccola dalle mani dei vostri maggiori e a vivere nel mondo nel momento delle più gigantesche trasformazioni della sua storia. Siete voi che, raccogliendo il meglio dell’esempio e dell’insegnamento dei vostri genitori e dei vostri maestri, vi preparate a formare la società di domani: voi vi salverete o perirete con lei. La Chiesa, per quattro anni, ha lavorato per ringiovanire il suo volto, per meglio rispondere al disegno del suo fondatore, la vita vera, il Cristo eternamente giovane. E alla fine di questa imponente "revisione di vita" essa si volge verso di voi. È per voi, soprattutto per voi, giovani, che essa ha acceso, con il suo concilio, una luce: luce che rischiara l’avvenire, il vostro avvenire. La Chiesa si preoccupa che questa società che voi costituite rispetti la dignità, la libertà, il diritto delle persone: e queste persone, siete voi stessi. Essa si preoccupa soprattutto che questa società permetta di diffondere il suo tesoro sempre antico e sempre nuovo: la fede, e che le le vostre anime possano attingere liberamente alla sua chiarezza benefica. Essa è sicura che troverete una tale forza ed una tale gioia che non sarete neppure tentati, come alcuni dei vostri padri, di cedere alla seduzione delle filosofie dell’egoismo e del piacere, o a quelle della disperazione e del nulla; e che di fronte all’ateismo, fenomeno di rilassatezza e di vecchiaia, saprete affermare la vostra fede nella vita ed in ciò che dà un significato alla vita: la certezza dell’esistenza di un Dio giusto e buono. Ed è in nome di Dio e di suo figlio Gesù che vi esortiamo ad allargare i vostri cuori alle dimensioni del mondo, ad ascoltare l’appello dei vostri fratelli e a mettere coraggiosamente al loro servizio le vostre giovani energie. Lottate contro ogni egoismo, rifiutate di dar libero corso agli istinti di violenza e di odio che provocano le guerre ed i loro cortei di miseria. Siate generosi, puri, rispettosi, sinceri. E costruite nell’entusiasmo un mondo migliore di quello dei vostri maggiori. La Chiesa vi guarda con fiducia e con amore. Ricca di un lungo passato sempre vivo in lei, e camminando verso la perfezione umana nel tempo e verso i destini ultimi della storia e della vita, essa è la vera giovinezza del mondo. Essa possiede ciò che fa la forza e la bellezza dei giovani: la capacità di rallegrarsi per ciò che comincia, di darsi con generosità, di rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste. Guardatela e troverete in lei il volto del Cristo, il vero eroe, umile e saggio, il profeta della verità e dell’amore, il compagno ed amico dei giovani. Ed è in nome del Cristo che vi salutiamo, vi esortiamo, e vi benediciamo204.

6.2. Hanno fatto naufragio nella fede

Nel mondo contemporaneo non vi è tuttavia solo chi riceve il Vangelo per la prima volta, ma anche chi, già appartenente alla compagine ecclesiale, per vari motivi deve essere rievangelizzato: sono i "non praticanti", che "oppongono [...] all’evangelizzazione resistenze non trascurabili": "la resistenza dell’inerzia, l’atteggiamento un po’ ostile di qualcuno che si sente di casa, che afferma di saper tutto, di aver gustato tutto, di non credervi più"205. Il fenomeno dell’indifferenza e della disaffezione alla pratica religiosa nasce, da un lato, all’interno dell’uomo ma, dall’altro, si rafforza a contatto con l’odierno contesto culturale:

Una seconda sfera è quella dei non praticanti, oggi un gran numero di battezzati che, in larga misura, non hanno rinnegato formalmente il loro battesimo, ma ne sono completamente al margine, e non lo vivono. Il fenomeno dei non praticanti è molto antico nella storia del cristianesimo. È legato ad una debolezza naturale, ad una profonda incoerenza che, purtroppo, ci portiamo dentro di noi. Esso presenta tuttavia oggi delle caratteristiche nuove. Si spiega spesso mediante gli sradicamenti tipici della nostra epoca. Nasce anche dal fatto che i cristiani oggi vivono a fianco con i non credenti e ricevono continuamente i contraccolpi della non credenza. D’altronde, i non praticanti contemporanei, più di quelli di altri tempi, cercano di spiegare e di giustificare la loro posizione in nome di una religione interiore, dell’autonomia o dell’autenticità personali206.

I non praticanti sono diffusi trasversalmente: "si trovano presso gli adulti e presso i giovani, presso l’élite e nelle masse, in tutti i settori culturali, nelle antiche come nelle giovani Chiese". La loro situazione è però dovuta non solo a scelte personali o all’influsso del mondo contemporaneo, ma anche a fattori interni alle comunità cristiane, quali un insufficiente approfondimento della fede o in un insegnamento religioso che solo di rado ha oltrepassato la soglia della catechesi per bambini:

Questo primo annuncio [...] si dimostra [...] sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri207;

Noi, come quanti con Noi, Vescovi, sacerdoti, insegnanti, genitori, hanno il dovere di trasmettere agli altri la dottrina della fede, la dottrina che salva, proviamo grande pena nel vedere come la gente del nostro tempo ben poco si cura di ascoltare la Nostra voce, ben poco le importa dell’istruzione religiosa, tanto che alle volte pare a Noi di parlare al vento. Il turbine della vita moderna tanto attrae e travolge gli uomini d’oggi, tanto li impressiona, li riempie d’immagini, di pensieri, di passioni, di desideri, di godimenti, di movimenti, che essi non hanno tempo né modo, pare, di ascoltare l’annuncio di Cristo; e se qualche cosa di esso hanno ascoltato, a scuola o in chiesa, si tratta per loro di un tema così difficile, così sconnesso, e apparentemente così inutile, che spesso più ne riportano noia, che gioia, più idee strane, che luce di guida per l’anima e per la vita. E questo, carissimi Figli, costituisce il primo ostacolo a quella fede cristiana, che a Noi preme soprattutto insegnare e diffondere208.

È dunque particolarmente urgente impegnarsi a ricercare "i modi più adatti e più efficaci per comunicare il messaggio evangelico agli uomini del nostro tempo"209, "cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo"210. E sarà uno sforzo che non consente di attestarsi su posizioni consolidate, bensì richiede un incessante esercizio di creatività pastorale, di innesto del messaggio cristiano:

L’importanza evidente del contenuto dell’evangelizzazione non deve nasconderne l’importanza delle vie e dei mezzi. Questo problema del "come evangelizzare" resta sempre attuale perché i modi variano secondo le circostanze di tempo, di luogo, di cultura, e lanciano pertanto una certa sfida alla nostra capacità di scoperta e di adattamento211.

6.3. Entreranno fra voi lupi rapaci

Accanto all’ateismo pratico degli indifferenti e dei non praticanti, che vivono etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, vi è quello ideologico e militante, che si manifesta non solo come convinzione personale, ma anche come sistema politico e culturale, soprattutto nei paesi del socialismo reale:

Noi sappiamo però che in questo cerchio sconfinato [del mondo contemporaneo] sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione; sappiamo anzi che molti, in diversissime forme, si professano atei. E sappiamo che vi sono alcuni che della loro empietà fanno professione aperta e la sostengono come programma di educazione umana e di condotta politica, nella ingenua ma fatale persuasione di liberare l’uomo da concezioni vecchie e false della vita e del mondo, per sostituirvi, dicono, una concezione scientifica e conforme alle esigenze del moderno progresso. È questo il fenomeno più grave del nostro tempo212.

Eliminare la dimensione religiosa significa per il pontefice deprivare l’uomo della sua dignità e minare il corpo sociale, inoculandovi elementi di instabilità e di debolezza:

Siamo fermamente convinti che la teoria su cui si fonda la negazione di Dio è fondamentalmente errata, non risponde alle istanze ultime e inderogabili del pensiero, priva l’ordine razionale del mondo delle sue basi autentiche e feconde, introduce nella vita umana non una formula risolutrice, ma un dogma cieco che la degrada e la rattrista, indebolisce alla radice ogni sistema sociale che su di esso pretende fondarsi. Non è una liberazione, ma un dramma che tenta di spegnere la luce del Dio vivente213.

Ciononostante, la Chiesa, fedele alla propria missione e preoccupata del bene dell’uomo, non rinuncia all’annuncio della fede, sia pure nella sofferenza, cui si accompagna "quella d’una società compressa e avvilita, dove i diritti dello spirito sono soverchiati da quelli di chi dispone delle sue sorti"214:

Noi resisteremo con tutte le nostre forze a questa irrompente negazione, nell’interesse supremo della verità, per l’impegno sacrosanto alla confessione fedelissima di Cristo e del suo Vangelo, per l’amore appassionato e irrinunciabile alle sorti dell’umanità, e nella speranza invincibile che l’uomo moderno sappia ancora scoprire nella concezione religiosa, a lui offerta dal cattolicesimo, la sua vocazione alla civiltà che non muore, ma che sempre progredisce verso la perfezione naturale e soprannaturale dello spirito umano, abilitato, per grazia di Dio, al pacifico e onesto possesso dei beni temporali e aperto alla speranza dei beni eterni215.

Paolo VI proseguì la via tracciata dal predecessore, distinguendo tra "i sistemi ideologici negatori di Dio e oppressori della Chiesa, sistemi spesso identificati in regimi economici, sociali e politici"216 e coloro che vi aderivano, come pure tra ideologia e movimento, ricordando che "le dottrine di tali movimenti, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse, ma che i movimenti stessi non possono non evolversi e non andare soggetti a mutamenti anche profondi"217.

Tale distinzione richiedeva, da un lato, la condanna e la deplorazione dei sistemi218 che riducevano al silenzio e all’impotenza la Chiesa; anzi, è il loro stesso operato a suscitare lamentele: "non tanto da parte nostra viene la loro condanna, quanto da parte dei sistemi stessi e dei regimi che li personificano viene a noi radicale opposizione di idee e oppressione di fatti. La nostra deplorazione è, in realtà, lamento di vittime ancor più che sentenza di giudici"219. In questo contesto, data l’impossibilità di un dialogo vero e proprio220 per l’assenza di un fondamentale criterio di verità oltre ad ostacoli di indole morale ("la mancanza di sufficiente libertà di giudizio e di azione e per l’abuso dialettico della parola, non già rivolta alla ricerca e all’espressione della verità obbiettiva, ma posta al servizio di scopi utilitari prestabiliti"221), "la testimonianza che ancora la Chiesa può dare e che nemmeno la morte può soffocare" consisteva solo nel "silenzio, grido, pazienza, e sempre amore"222, pur non rinunciando alla speranza di intavolare un dialogo su basi pragmatiche223.

D’altra parte, non vi era una "preconcetta esclusione verso le persone che professano i suddetti sistemi e aderiscono ai regimi stessi. Per chi ama la verità, la discussione è sempre possibile"224. Di qui scaturisce una fondamentale attenzione alla persona dell’ateo, alle domande e alle istanze di cui essa è portatrice, suscettibili di purificazione e di evangelizzazione:

Non è senza pastorale riflessione che noi cerchiamo di cogliere nell’intimo spirito dell’ateo moderno i motivi del suo turbamento e della sua negazione. Li vediamo complessi e molteplici, così da renderci cauti nel giudicarli e più efficaci nel confutarli; li vediamo nascere talora dall’esigenza d’una presentazione del mondo divino più alta e più pura, che non quella forse invalsa in certe forme imperfette di linguaggio e di culto, forme che dovremmo studiarci di rendere quanto più possibile pure e trasparenti per meglio esprimere quel sacro di cui sono segno. Li vediamo invasi dall’ansia, pervasa da passionalità e da utopia, ma spesso altresì generosa, d’un sogno di giustizia e di progresso, verso finalità sociali divinizzate, surrogati dell’assoluto e del necessario, che denunciano il bisogno insopprimibile del principio e del fine divino, di cui toccherà al nostro paziente e sapiente magistero svelare la trascendenza e l’immanenza. Li vediamo valersi, talora con ingenuo entusiasmo, d’un ricorso rigoroso alla razionalità umana nell’intento di dare una concezione scientifica dell’universo; ricorso tanto meno discutibile, quanto più profondo sulle vie logiche del pensiero non dissimili spesso da quelle della nostra classica scuola, e trascinato, contro la volontà di quelli stessi che pensano trovarvi un’arma inespugnabile per il loro ateismo, per la sua intrinseca validità, trascinato - diciamo - a procedere verso una nuova e finale affermazione sia metafisica, che logica del sommo Iddio: non sarà tra noi chi possa aiutare questo obbligato processo del pensiero, che l’ateo-politico-scienziato arresta volutamente ad un dato punto spegnendo la luce suprema della comprensibilità dell’universo, a sfociare in quella concezione della realtà oggettiva dell’universo cosmico, che rimette nello spirito il senso della presenza divina, e sulle labbra le umili e balbettanti sillabe d’una felice preghiera? Li vediamo anche talvolta mossi da nobili sentimenti, sdegnosi della mediocrità e dell’egoismo di tanti ambienti sociali contemporanei, e abili ad usurpare al nostro Vangelo forme e linguaggio di solidarietà e di comprensione umana: non saremo un giorno capaci di ricondurre alle sorgenti, che pur sono cristiane, tali espressioni di valori morali?225

Anche Evangelii nuntiandi, prendendo in considerazione "il progressivo aumento della non credenza nel mondo moderno", oltre a rilevare le radici culturali e gli effetti sulla società umana di tale fenomeno, ne svelò la domanda nascosta:

Il sinodo ha cercato di descrivere questo mondo moderno: sotto questo nome generico, quante correnti di pensiero, valori e contro-valori, aspirazioni latenti o semi di distruzione, convinzioni antiche che scompaiono e convinzioni nuove che si impongono! Dal punto di vista spirituale, questo mondo moderno sembra dibattersi in quello che un autore contemporaneo ha chiamato "il dramma dell’umanesimo ateo" (Henri De Lubac, Le drame de l’humanisme athée, Ed. Spes, Paris 1945). Da una parte, si è obbligati a costatare nel cuore stesso di questo mondo contemporaneo il fenomeno che diviene quasi la sua nota più sorprendente: il secolarismo. Noi non parliamo della secolarizzazione, che è lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede o con la religione, di scoprire nella creazione, in ogni cosa o in ogni evento dell’universo, le leggi che li reggono con una certa autonomia, nell’intima convinzione che il Creatore vi ha posto queste leggi. Il recente Concilio ha affermato, in questo senso la legittima autonomia della cultura e particolarmente delle scienze (cfr. Gaudium et spes, 59: AAS 58, 1966, p. 1080). Noi vediamo qui un vero secolarismo: una concezione del mondo, nella quale questo si spiega da sé senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio, divenuto in tal modo superfluo ed ingombrante. Un simile secolarismo, per riconoscere il potere dell’uomo, finisce dunque col fare a meno di Dio ed anche col negarlo. Nuove forme di ateismo - un ateismo antropocentrico, non più astratto e metafisico ma pragmatico, programmatico e militante - sembrano derivarne. In connessione con questo secolarismo ateo, ci vengono proposti tutti i giorni, sotto le forme più svariate, la civiltà dei consumi, l’edonismo elevato a valore supremo, la volontà di potere e di dominio, discriminazioni di ogni tipo: altrettante inclinazioni inumane di questo umanesimo. In questo stesso mondo moderno d’altra parte, paradossalmente, non si può negare l’esistenza di veri addentellati cristiani, di valori evangelici, per lo meno sotto forma di un vuoto o di una nostalgia. Non sarebbe esagerato parlare di una possente e tragica invocazione ad essere evangelizzato226.

L’uomo contemporaneo è alla ricerca di gioia, di speranza e d’amore:

L’esperienza della finitudine, che ogni generazione ricomincia per proprio conto, obbliga a costatare e a scandagliare lo iato immenso che sempre sussiste tra la realtà e il desiderio di infinito. Questo paradosso, questa difficoltà di raggiungere la gioia ci sembrano particolarmente acuti oggi. È il motivo del nostro messaggio. La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale. Il denaro, le comodità, l’igiene, la sicurezza materiale spesso non mancano; e tuttavia la noia, la malinconia, la tristezza rimangono sfortunatamente la porzione di molti. Ciò giunge talvolta fino all’angoscia e alla disperazione, che l’apparente spensieratezza, la frenesia di felicità presente e i paradisi artificiali non riescono a far scomparire. Forse ci si sente impotenti a dominare il progresso industriale, a pianificare la società in maniera umana? Forse l’avvenire appare troppo incerto, la vita umana troppo minacciosa? O non si tratta, soprattutto, di solitudine, di una sete d’amore e di presenza non soddisfatta, di un vuoto mal definito? Per contro, in molte regioni, e talvolta in mezzo a noi, la somma di sofferenze fisiche e morali si fa pesante: tanti affamati, tante vittime di sterili combattimenti, tanti emarginati! Queste miserie non sono forse più profonde di quelle del passato; ma esse assumono una dimensione planetaria; sono meglio conosciute, illustrate dai "mass media", non meno delle esperienze di felicità; opprimono la coscienza, senza che appaia molto spesso una soluzione umana alla loro dimensione. Questa situazione non può tuttavia impedirci di parlare della gioia, di sperare la gioia. È nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto. Noi abbiamo profonda compassione della pena di coloro sui quali la miseria e le sofferenze di ogni genere gettano un velo di tristezza. Noi pensiamo in particolare a quelli che si trovano senza risorse, senza soccorso, senza amicizia, che vedono annientate le loro speranze umane. Essi sono più che mai presenti alla nostra preghiera, al nostro affetto. Noi non vogliamo certo che nessuno si abbatta. Cerchiamo, al contrario, i rimedi capaci di portare la luce227.

A questa sete, Paolo VI proporrà una triplice risposta: anzitutto la giustizia e la solidarietà, poi una rieducazione alla gioia naturale e umana, e infine la ricostruzione della spiritualità, fondata sulla buona novella dell’amore di Dio:

Gli uomini devono evidentemente unire i loro sforzi per procurare almeno il minimo di sollievo, di benessere, di sicurezza, di giustizia, necessari alla felicità, a numerose popolazioni che ne sono sprovviste. Una tale azione solidale è già opera di Dio; essa corrisponde al comandamento di Cristo. Essa procura già la pace, ridona la speranza, rinsalda la comunione, apre alla gioia, per colui che dona come per eolui ehe rieeve, perehé vi è più gioia nel dare che nel rieevere (cfr. At. 20, 35). [...] Non ci si dimentichi di questo dovere primordiale dell’amore del prossimo, senza il quale sarebbe sconveniente parlare di gioia. Ci sarebbe anche bisogno di un paziente sforzo di educazione per imparare o imparare di nuovo a gustare semplicemente le molteplici gioie umane che il Creatore mette già sul nostro cammino: gioia esaltante dell’esistenza e della vita: gioia dell’amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle, completarle, sublimarle: non può disdegnarle. La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali. Molto spesso partendo da queste, il Cristo ha annunciato il Regno di Dio. Ma [...] il problema ci appare soprattutto di ordine spirituale. È l’uomo, nella sua anima, che si trova sprovvisto nell’assumere le sofferenze e le miserie del nostro tempo. Esse lo opprimono quanto più gli sfugge il senso della vita; non è più sicuro di se stesso, della sua vocazione e del suo destino, che sono trascendenti. Egli ha desacralizzato l’universo ed ora l’umanità; ha talora tagliato il legame vitale che lo univa a Dio. Il valore degli esseri, la speranza non sono più sufficientemente assicurati. Dio gli sembra astratto, inutile: senza che lo sappia esprimere, il silenzio di Dio gli pesa. Sì, il freddo e le tenebre sono anzitutto nel cuore dell’uomo che conosce la tristezza. Si può accennare qui alla tristezza dei non credenti, allorché lo spirito umano, creato a immagine e a somiglianza di Dio, e perciò a lui orientato come al proprio bene supremo, unico, resta senza conoscerlo chiaramente, senza amarlo, e di conseguenza senza provare la gioia, che arrecano la conoscenza benché imperfetta di Dio e la certezza di avere con lui un vincolo che nemmeno la morte potrebbe infrangere. Chi non ricorda la parola di sant’Agostino: "Tu ci hai creati per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te"? (S. Agostino, Confessionum lib. I, 1; CSEL 33, p. 1) Perciò, è col diventare maggiormente presente a Dio, e con lo staccarsi dal peccato che l’uomo può veramente entrare nella gioia spirituale. Senza dubbio, "la carne e il sangue" ne sono incapaci (cfr. Mt. 16,17; 1 Cor. 15,50). Ma la rivelazione può aprire questa prospettiva e la grazia operare questo rovesciamento228.

E ricevendo i partecipanti al Simposio sulla cultura della non credenza, il pontefice traccerà le linee direttrici per la comprensione e il dialogo con i negatori di Dio:

Il Segretariato che è chiamato per i Non credenti fu istituito, prima di tutto, allo scopo di promuovere lo studio di quegli atteggiamenti di negazione che l’uomo moderno assume - nelle espressioni culturali, nei termini sociologici e politici o in modi pratici e irriflessi - riguardo al fatto che la religione crede in un Dio trascendente, personale, inizio e fine dell’intero universo, incluso l’uomo, e riguardo al fatto che la religione trova in Cristo la soluzione del grande problema del Dio vero e vivo, il Dio d’amore della nostra salvezza. Perciò ne deriva che noi dobbiamo riconoscere molti aspetti e molti motivi di non credenza; dobbiamo accogliere le molte obiezioni che la non credenza ci propone; dobbiamo rispettare i contributi scientifici che permettono lo studio del problema religioso con argomenti tratti da scienze indiscutibili come la psicologia e la sociologia; dobbiamo ammettere le difficoltà erette oggi da parte del contesto pedagogico-sociale, particolarmente nelle giovani menti impegnate negli studi scientifici, e nell’impiego della conoscenza sensibile a preferenza della conoscenza speculativa quando ha a che fare con la mentalità religiosa tradizionale. Noi vorremmo anche ammettere che frequentemente quella forma a-religiosa che si definisce come secolarizzazione, ed è così larfamente diffusa oggi, non è in sé antireligiosa; piuttosto, essa tende a rivendicare per le forze autonome della ragione umana la conoscenza e lo sfruttamento del mondo come sono proposti alla diretta esperienza dell’uomo. In una parola, cioè, noi siamo favorevoli,e in parte assentiamo, circa i "non credenti". Tuttavia, talvolta anche noi dobbiamo dire di essere "non credenti". Per esempio, noi non crediamo che lo sviluppo del pensiero moderno, a condizione di essere coerente con le sue esigenze intrinseche, conduca alla necessità della negazione di Dio. Inoltre, sebbene noi ammettiamo che la conoscenza di Dio richieda un’assistenza che solo Dio può dare (cfr. Ps. XXXV, 10; Denz.-Sch., n. 2732), non crediamo che la certezza dell’esistenza di Dio sia inaccessibile allo spirito umano (cfr. Rom. 1,20; Denz.-Sch., n. 3004); ciò significa dire che non crediamo che la scienza e la fede in Dio siano termini antitetici, mutualmente escludentisi l’un l’altro; noi non crediamo che le forme teoretiche e pratiche della moderna negazione di Dio siano benefiche al progresso della cultura e della felicità umana; noi non crediamo che la liberazione economica, sociale e civile dell’uomo richieda la necessità di bandire la religione come se fosse una deviazione dallo sforzo di fissare veramente le dimensioni umane e di costruire la città terrena (cfr. Gaudium et spes, n. 21); e infine, noi non crediamo che l’ineffabile, mistoriosa, trascendente e sconosciuto Dio sia inaccessibile e distante (cfr. Atti 17,22-28; De Lubac: Sur les chemins de Dieu, p. 112). In questo, anche noi siamo "protestanti"! Noi siamo protestanti perché vorremmo rialzare l’idea di Dio dalla degradazione nella quale è caduta insieme a molti uomini del nostro tempo, e dalla fantastica, superstiziona o idolatrica contraffazione che spesso incontriamo, anche nella vita moderna, come pure dalla disperazione, dall’angoscia, dal vuoto che la sua assenbza produce nel cuore dell’uomo229.

6.4. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annunzio

I non cristiani costituiscono il secondo gruppo di interlocutori individuato dall’enciclica Ecclesiam suam; un gruppo assai variegato, che comprende anzitutto i seguaci dell’ebraismo e dell’islamismo:

Intorno a noi vediamo delinearsi un altro cerchio, immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini innanzi tutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo; alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento; e poi agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana specialmente, meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio vi è di vero e di buono; e poi ancora i seguaci delle grandi religioni afro-asiatiche. Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose, né possiamo rimanere indifferenti, quasi che tutte, a loro modo, si equivalessero, e quasi che autorizzassero i loro fedeli a non cercare se Dio stesso abbia rivelato la forma, scevra d’ogni errore, perfetta e definitiva con cui Egli vuole essere conosciuto, amato e servito; ché anzi, per dovere di lealtà, noi dobbiamo manifestare la nostra persuasione essere unica la vera religione ed essere quella cristiana, e nutrire speranza che tale sia riconosciuta da tutti i cercatori e adoratori di Dio230.

Già il 29 settembre 1963, Paolo VI aveva affrontato il tema del dialogo interreligioso, pur non parlandone esplicitamente:

La Chiesa cattolica guarda più in là, oltre i confini dell’orizzonte cristiano. Come potrebbe mettere limiti al suo amore, se essa deve far suo quello di Dio Padre, che sparge su tutti le sue grazie (cfr. Matth. 5,48), e che così ha amato il mondo da dare per esso il suo unigenito Figlio? (cfr. Jo. 3,16). Guarda dunque oltre la propria sfera; e vede quelle altre religioni, che conservano il senso ed il concetto di Dio, unico, creatore, provvido, sommo e trascendente, che, professano il culto a. Dio con atti di sincera pietà e che su queste credenze e pratiche fondano i principii della vita morale e sociale. La Chiesa cattolica scorge indubbiamente, e con suo dolore, lacune, insufficienze ed errori in tante espressioni religiose come quelle indicate, ma non può fare a meno di rivolgere anche ad esse un suo pensiero, per ricordare loro che per tutto ciò che in esse è di vero, di buono e di umano, la religione cattolica ha l’apprezzamento che meritano, e che per conservare nella società moderna il senso religioso ed il culto di Dio - dovere e bisogno della vera civiltà - essa è in prima linea come la più valida sostenitrice dei diritti di Dio sull’umanità231.

Si comprende dunque come un tale desiderio di dialogo, corroborato dalla riflessione conciliare, avesse potuto condurre alla fondazione di specifici organismi incaricati di promuovere la mutua comprensione e la collaborazione fra cristiani e credenti di altre religioni. Nel 1968, rivolgendosi alla comunità ebraica di Bogotà, richiamerà gli stretti legami fra ebraismo e cristianesimo:

Fra le ricchezze di questo grande patrimonio comune, desideriamo ricordare oggi la fede in un unico Dio, che trascende tutte le categorie umane e che, al medesimo tempo, si è rivelato come Padre (cfr. Is. 63,16). Dio creò l’uomo a sua immagine e noi condividiamo la fede da cui siamo chiamati - secondo il grande comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (cfr. Deut. 6,5; Lev. 19,18) concretizzato nelle "dieci parole" e in altre regole di vita (cfr. deut. 5 e Lev. 19) - a compiere la volontà divina e a metterci gli uni a servizio degli altri. Dio faccia che in questo modo giungiamo tutti a partecipare un giorno della gloria piena, in un cielo nuovo e su una nuova terra (cfr. Is. 65,17). Chiediamo a Dio che benedica i nostri sforzi di fruttuosa collaborazione per il bene dell’umanità intera, perché venga il giorno in cui tutti i popoli invocheranno il Signore con una medesima voce e lo serviranno sotto un solo giogo (cfr. Soph. 3,9; dichiar. "Nostra aetate")232.

E anche agli inizi del 1975, incontrando il Comitato internazionale di collegamento tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo mondiale, Paolo VI esprimeva chiaramente l’esigenza di sviluppare il dialogo e la mutua conoscenza fra ebrei e cristiani:

Noi formuliamo, signori, l’augurio sincero che, in modo adeguato alla nostra epoca e dunque in un campo che in qualche modo supera l’ambito limitato degli scambi puramente speculativi e razionali, si instauri un vero dialogo fra il giudaismo e il cristianesimo. La vostra presenza qui, come rappresentanti, fra i più autorevoli, del giudaismo mondiale, testimonia che quest’augurio trova in voi qualche eco. I termini in cui Noi l’esprimiamo [...] vi dicono abbastanza con quale lealtà e decisione collegiale la Chiesa cattolica desidera che si sviluppi attualmente quel dialogo con il giudaismo a cui ci ha invitato il concilio Vaticano secondo con la dichiarazione "Nostra aetate" (cfr. Nostra aetate, 4). Noi speriamo che un tale dialogo, condotto in un grande rispetto reciproco, ci aiuterà a meglio conoscerci e ci condurrà anche gli uini e gli altri a meglio conoscere l’Onnipotente, l’Eterno, a seguire più fedelmente le vie che ci ha segnato colui che, secondo le parole del profeta Osea (Os. 11,9), è il Santo in mezzo a noi, che non ama distruggere. Noi osiamo pensare che la recente solenne riaffermazione del rifiuto da parte della Chiesa cattolica di ogni forma di antisemitismo, e l’invito che abbiamo lanciato a tutti i fedeli della Chiesa cattolica di mettersi in ascolto per "imparare a meglio conoscere mediante quali tratti essenziali gli ebrei stessi si definiscano nella loro realtà religiosa vissuta", pongano da parte cattolica le condizioni di sviluppi benefici, e Noi non dubitiamo che, da parte vostra, corrisponderete, secondo le vostre proprie prospettive, al nostro sforzo, che può avere senso e fecondità solo nella reciprocità233.

È evidente come queste parole contenessero tutto un programma d’azione nelle relazioni fra ebrei e cristiani; in termini egualmente intensi, e per di più innovatori, sarà espressa la posizione della Chiesa nei confronti dell’Islam, come mostrano ad esempio le brevi parole rivolte nel 1967 al muftì di Istanbul:

Noi ci teniamo a dirvi la nostra stima per i mussulmani, "che adorano il Dio uno, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini", come ha bene espresso il recente concilio, che ci ha esortati a promuovere insieme, su questa base, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà (cfr. dichiarazione Nostra aetate, n. 3). Tutti coloro che adorano il Dio uno e unico sono chiamati a stabilire un ordine di giustizia e di pace sulla terra234.

La comune fede in Dio conduce non solo ad una precisa visione dell’uomo come creatura, ma impegna tutti, cristiani e mussulmani, a riconoscere le rispettive differenze e a lavorare insieme per la giustizia, la misericordia, la libertà, la fraternità e la pace. Accando al’ebraismo e all’islamismo, vi sono però le altre grandi religioni afro-asiatiche, con cui, volta a volta, sarà possibile un dialogo sulla base dei valori condivisi dagli interlocutori, nel rispetto della persona e di ciò che ne costituisce la cultura:

Ma non vogliamo rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane; vogliamo con esse promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficenza sociale e dell’ordine civile. In ordine a questi comuni ideali un dialogo da parte nostra è possibile; e noi non mancheremo di offrirlo là dove, in reciproco e leale rispetto, sarà benevolmente accettato235.

In questo senso, il messaggio Africae terrarum riconosceva nei valori tradizionali dei popoli africani la base, da rispettare e da rinnovare, per il dialogo e il fondamento su cui innestare l’annuncio evangelico:

Fondamento costante e generale della tradizione africana è la visione spirituale della vita. Non si tratta semplicemente della concezione cosiddetta "animistica", nel senso che a questo termine venne dato nella storia delle religioni alla fine del secolo scorso. Si tratta invece di una concezione più profonda, più vasta e universale, secondo la quale tutti gli esseri e la stessa natura visibile sono considerati legati al mondo dell’invisibile e dello spirito. L’uomo, in particolare, non è mai concepito solamente come materia, limitato alla vita terrena, ma in lui si riconosce la presenza e l’efficacia di un altro elemento spirituale, per cui la vita umana è sempre posta in rapporto con la vita dell’aldilà. Di questa concezione spirituale, elemento comune importantissimo è l’idea di Dio, come causa prima e ultima di tutte le cose. Questo concetto, percepito più che analizzato, vissuto più che pensato, si esprime in modo assai diverso da cultura a cultura. In realtà, la presenza di Dio permea la vita africana, come la presenza di un essere superiore, personale e misterioso. A lui si ricorre nei momenti solenni e più critici della vita, quando l’intercessione di ogni altro intermediario è considerata inutile. Quasi sempre, deposto il timore della sua onnipotenza, Dio è invocato come Padre. Le preghiere che a Lui si rivolgono, individuali o collettive, sono spontanee e talora commoventi; mentre tra le forme di sacrificio emerge per purezza di significato il sacrificio di primizie. Altra caratteristica comune della tradizione africana, è il rispetto per la dignità umana. È vero che ci furono aberrazioni e anche riti, che sembrano in stridente contrasto con il rispetto dovuto alla persona umana; ma si tratta di aberrazioni sofferte dagli stessi protagonisti, le quali, grazie a Dio, come è avvenuto della schiavitù, sono del tutto scomparse o stanno per scomparire. Il rispetto dell’uomo si coglie nelle forme, sia pur non sistematiche, dell’educazione familiare tradizionale, nelle iniziazioni sociali e nella partecipazione alla vita sociale e politica, secondo l’ordinamento tradizionale proprio di ogni gente. Elemento proprio della tradizione africana è ancora il senso della famiglia. A tale riguardo Ci preme mettere in risalto il valore morale ed anche religioso dell’attaccamento alla famiglia, provato altresì dal legame con gli antenati, che trova espressione in tante e così diffuse manifestazioni di culto. Per gli Africani, la famiglia viene così ad essere l’ambiente naturale, nel quale l’uomo nasce e agisce, trova la necessaria protezione e sicurezza, e ha, infine, la sua continuità oltre la vita terrena, per mezzo dell’unione con gli antenati. Nell’ambito familiare, poi, è da notare il rispetto della funzione e dell’autorità del padre di famiglia, il cui riconoscimento, anche se non avviene dappertutto nella stessa misura, è così straordinariamente diffuso e radicato che, giustamente, è da considerare come un segno caratteristico della tradizione africana in genere. La patria potestas viene profondamente rispettata anche in quelle società africane rette a matriarcato, dove, pur essendo regolate nell’ambito della casa materna la proprietà dei beni e la condizione sociale dei Egli, rimane tuttavia intatta l’autorità morale del padre nell’organizzazione domestica. Dallo stesso concetto discende anche il fatto che in alcune culture africane, al padre di famiglia viene attribuita una funzione tipicamente sacerdotale, per cui agisce come mediatore non solo tra gli antenati e la sua famiglia, ma anche tra essa e Dio, compiendo gli atti di culto stabiliti dalla consuetudine. Quanto, poi, alla vita comunitaria - che nella tradizione africana era quasi l’estensione della famiglia stessa - notiamo che la partecipazione alla vita della comunità, sia nell’ambito della parentela, sia nell’ambito della vita pubblica, viene considerata un preciso dovere e un diritto di tutti. Ma all’esercizio di questo diritto si giunge solo dopo la preparazione maturata attraverso una serie di iniziazioni, che hanno per scopo di formare il carattere dei giovani candidati e di istruirli sulle tradizioni e sulle norme consuetudinarie della società236.

Un caso emblematico nel dialogo interreligioso è offerto dall’Indonesia, "un Paese dove si affiancano molte razze, molte culture, molte religioni: vi si incontrano tutte le grandi credenze del mondo: musulmani, buddisti, indù, confucianisti e cristiani; tutte religioni ufficialmente riconosciute dalla Costituzione del Paese, che pone, inoltre, come uno dei cinque pilastri della nazione, la fede in una "divina Onnipotenza"", e nella quale si ha un "bell’esempio dato al mondo di un alto senso religioso, di una collaborazione e di un arricchimento reciproco nella diversità"237:

La Chiesa "guarda con stima ai musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, Creatore del cielo e della terra e che ha parlato agli uomini" (Nostra aetate, 3). Essa ammira nell’induismo "coloro che ceroano la liberazione dalle angosce della nostra condizione, sia attraverso gli esercizi della vita ascetica, sia con la meditazione profonda, sia con il rifugio in Dio nell’amore e nella confidenza" (ibid., 2). Essa riconosÏ che nel buddismo "l’insufficienza radicale di questo mondo mutevole è riconosciuta, che vi si insegna una vita per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, potranno sia acquistare lo stato di liberazione perfetta, sia pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o grazie ad un soccorso venuto dall’alto" (ibid., 2)238.

Evangelii nuntiandi avrà infine cura di precisare i rapporti tra dialogo interreligioso ed evangelizzazione, che non si danno come termini reciprocamente distinti o in contrasto, bensì il dialogo costituisce una una espressione autentica dell’annuncio del Vangelo, che porta a compimento un secolare itinerasrio di ricerca di Dio testimoniato dal patrimonio religioso di ogni fede:

Esso [l’annuncio cristiano] si rivolge anche a immense porzioni di umanità che praticano religioni non cristiane, che la Chiesa rispetta e stima perché sono l’espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani. Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare. Sono tutte cosparse di innumerevoli "germi del Verbo" (cfr. S. Iustini I Apologia, 46, 1-4; II Apologia, 7 (8), 1-4; 10, 1-3; 13, 3-4: Florilegium patristicum II, Bonn 1911, pp. 81, 125, 129, 133; Clementis Alexandrini Stromata I, 19, 91, 94: S. Ch. 30, pp. 117-118, 119-120; Ad gentes, 11: AAS 58, 1966, p. 960; Lumen gentium, 17: AAS 57, 1965, p. 21) e possono costituire una autentica "preparazione evangelica" (Eusebii Caesariensis Praeparatio evangelica, 1, 1: PG 21, 26-28; cfr. Lumen gentium, 16: AAS 57, 1965, p. 20), per riprendere una felice espressione del concilio Vaticano II tratta da Eusebio di Cesarea. Tale situazione suscita, certamente, questioni complesse e delicate, che conviene studiare alla luce della Tradizione cristiana e del magistero della Chiesa per ofirire ai missionari di oggi e di domani nuovi orizzonti nei loro contatti con le religioni non cristiane. Vogliamo rilevare, soprattutto oggi, che né il rispetto e la stima verso queste religioni, né la complessità dei problemi sollevati sono per la Chiesa un invito a tacere l’annuncio di Cristo di fronte ai non cristiani. Al contrario, essa pensa che queste moltitudini hanno il diritto di conoscere la ricchezza del mistero di Cristo (cfr. Eph. 3,8), nella quale noi crediamo che tutta l’umanità può trovare, in una pienezza insospettabile, tutto ciò che essa cerca a tentoni su Dio, sull’uomo e sul suo destino, sulla vita e sulla morte, sulla verità. Anche di fronte alle espressioni religiose naturali più degne di stima, la Chiesa si basa dunque sul fatto che la religione di Gesù, che essa annunzia mediante l’evangelizzazione, mette oggettivamente l’uomo in rapporto con il piano di Dio, con la sua presenza vivente, con la sua azione; essa fa così incontrare il mistero della paternità divina che si china sull’umanità; in altri termini, la nostra religione instaura effettivamente con Dio un rapporto autentico e vivente, che le altre religioni non riescono a stabilire, sebbene esse tengano, per così dire, le loro braccia tese verso il cielo. Per questo la Chiesa mantiene vivo il suo slancio missionario, e vuole altresì intensificarlo nel nostro momento storico. Essa si sente responsabile di fronte a popoli interi. Non ha riposo fin quando non abbia fatto del suo meglio per proclamare la buona novella di Gesù Salvatore. Prepara sempre nuove generazioni di apostoli. Lo costatiamo con gioia nel momento in cui non mancano di quelli che pensano ed anche dicono che l’ardore e lo slancio apostolico si sono esauriti, e che l’epoca delle missioni è ormai tramontata. Il sinodo ha risposto che l’annuncio missionario non si inaridisce e che la Chiesa sarà sempre tesa verso il suo adempimento239.

6.5. Sono usciti di mezzo a noi

L’interlocutore più prossimo alla Chiesa è però costituito dalle diverse confessioni e denominazioni che a Cristo e al Vangelo si riferiscono. La carta fondamentale dell’ecumenismo di Paolo VI fu enunciata durante l’allocuzione di apertura della seconda sessione del Vaticano II:

Vi è un terzo scopo che interessa questo Concilio e ne costituisce, in un certo senso, il suo dramma spirituale; ed è quello [...] che riguarda "gli altri cristiani", coloro cioè che credono in Cristo, ma che noi non abbiamo la fortuna di annoverare con noi compaginati nella perfetta unità di Cristo, che solo la Chiesa cattolica può loro offrire, mentre col battesimo di per sè sarebbe già da loro dovuta ed è già virtualmente desiderata. Infatti i movimenti recenti e tuttora in pieno sviluppo in seno alle comunità cristiane da noi separate dimostrano all’evidenza due cose: che la Chiesa di Cristo è una sola, e per ciò dev’essere unica; e che questa misteriosa e visibile unione non si può raggiungere che nell’identità della fede, nella partecipazione ai medesimi sacramenti e nell’armonia organica di un’unica direzione ecclesiastica, anche se ciò può avvenire col rispetto ad una larga varietà di espressioni linguistiche, di forme rituali, di tradizioni storiche, di prerogative locali, di correnti spirituali, di istruzioni legittime, di attività preferite240.

La visione del movimento ecumenico da parte di Paolo VI è evidentemente di tipo unionistico:

Qual è l’atteggiamento del concilio a riguardo di queste immense schiere di fratelli separati e di questo possibile pluralismo nelle esplicazioni dell’unità? È chiaro. La convocazione di questo concilio è caratteristica anche sotto questo aspetto. Esso tende ad un’ecumenicità, che vorrebbe essere totale, universale. Almeno nel desiderio, almeno nell’invocazione, almeno nella preparazione. Oggi nella speranza, perchè sia domani nella realtà. Cioè, questo concilio, mentre chiama e conta e chiude nell’ovile di Cristo le pecore che lo compongono e gli appartengono a titolo giusto e pieno, apre le porte, alza la voce, attende ansioso le tante pecore di Cristo, che nell’unico ovile tuttora non sono. È un concilio, perciò, di invito, di attesa, di fiducia verso una più larga e più fraterna partecipazione alla sua autentica ecumenicità241.

È tuttavia interessante notare anche gli altri elementi costitutivi della concezione montiniana: il comune riferimento al mistero di Cristo e la fondamentale comunione che intercorre fra tutti i cristiani in forza del battesimo sono rimando all’unica fede e all’unico Signore e, insieme, spingono verso la realizzazione - non ancora compiuta - dell’unica Chiesa, che trova la sua piena espressione nell’unità nella fede, nei sacramenti e nell’autorità, oltre che in una identità di missione. Così Paolo VI affermerà visitando il Consiglio mondiale delle Chiese, che è manifestazione del movimento, già in atto, verso l’unità242:

Noi scorgiamo in questo gesto un segno manifesto della fraternità cristiana che esiste già tra tutti i battezzati e, pertanto, tra le Chiese che fanno parte del Consiglio ecumenico e la Chiesa cattolica. La comunione esistente attualmente tra le Chiese e comunità cristiane non è, purtroppo, che imperfetta; ma, come noi tutti crediamo, è il Padre delle misericordie che, per mezzo del suo Spirito, ci conduce e ci ispira. Egli guida tutti i cristiani nella ricerca della pienezza dell’unità che Cristo vuole per la sua Chiesa una e unica, affinché meglio possa.riflettere l’ineffabile unione del Padre e del Figlio (Io. 17, 21) e meglio compiere la sua missione in questo mondo di cui Gesù è il Signore: "affinché il mondo creda" (ibid.)243.

Il dialogo con le altre Chiese sarà quindi possibile solo a partire da ciò che unisce e che fa sì che gli interlocutori non siano reciprocamente estranei, come dirà al primate anglicano Ramsey:

Noi vogliamo che Ella abbia questa prima impressione varcando le soglie della Nostra dimora: i Suoi passi non arrivano in una casa straniera; essi giungono in una casa che Ella per sempre validi titoli può dire anche Sua; Noi siamo lieti di aprirLe le-porte, e con le porte il Nostro cuore; perché Noi siamo contenti ed onorati, applicando a questa circostanza una parola di S. Paolo, di accoglierLa "non come ospite e forestiero, ma come concittadino dei santi e della famiglia di Dio" (cfr. Eph. 2, 19-20)244.

Certo, è nella Chiesa cattolica che è presente in pienezza (subsistit) la Chiesa; essa è depositaria della verità tutta intera e perciò si fa carico di testimoniare ai fratelli separati l’autentico deposito della fede:

La Chiesa cattolica ha egualmente una viva sollecitudine per i cristiani che non sono in piena comunione con essa: mentre prepara con loro l’unità voluta dal Cristo, e precisamente per realizzare l’unità nella verità è consapevole che mancherebbe gravemente al suo dovere se non testimoniasse presso di loro la pienezza della rivelazione, di cui custodisce il deposito245.

Un autentico ecumenismo richiederà quindi di non transigere sul depositum fidei, per non sacrificare la verità, pur mostrando elasticità e disponibilità sul piano disciplinare, accettando legittime diversità:

Volentieri facciamo nostro il principio: mettiamo in evidenza anzitutto ciò che ci è comune, prima di notare ciò che ci divide. È questo un tema buono e fecondo per il nostro dialogo. Siamo disposti a proseguirlo cordialmente. Diremo di più: che su tanti punti differenziali, relativi alla tradizione, alla spiritualità, alle leggi canoniche, al culto, Noi siamo disposti a studiare come assecondare i legittimi desideri dei fratelli cristiani, tuttora da noi separati. Nulla tanto ci può essere più ambito che di abbracciarli in una perfetta unione di fede e di carità. Ma dobbiamo pur dire che non è in Nostro potere transigere sull’integrità della fede e sulle esigenze della carità. Intravediamo diffidenze e resistenze a questo riguardo. Ma ora che la Chiesa cattolica ha preso l’iniziativa di ricomporre l’unico ovile di Cristo, essa non cesserà di procedere con ogni pazienza e con ogni riguardo; non cesserà di mostrare come le prerogative, che tengono ancora da lei lontani i fratelli separati, non sono frutto d’ambitione storica o di fantastica speculazione teologica, ma sono derivate dall volontà di Cristo, e che esse, comprese nel loro vero significato, sono a beneficio di tutti, per l’unità comune, per la libertà comune, per la pienezza cristiana comune; la Chiesa cattolica non cesserà di rendersi idonea e degna, nella preghiera e nella penitenza, dell’auspicata riconciliazione246.

Il dialogo ecumenico deve dunque avvenire nella gratuità e senza alcuna polemica; esso passa attraverso il riconoscimento del patrimonio comune a tutte le confessioni cristiane, la consoscenza reciproca e soprattutto nella consapevolezza che il compimento dell’unità è un segreto di Dio:

Il Nostro linguaggio verso di loro vuol essere pacifico e assolutamente sincero e leale. Non nasconde insidie, non temporali interessi. Noi dobbiamo alla nostra fede, che crediamo divina, la più schietta e la più ferma adesione; ma siamo convinti che essa non è un ostacolo all’intesa auspicata con fratelli separati, appunto perchè è verità del Signore, e perciò principio d’unione e non di distinzione o di separazione. Ad ogni modo noi non vogliamo fare della nostra fede motivo di polemica verso di loro. In secondo luogo guardiamo con riverenza al patrimonio religioso originario e comune, conservato e in parte anche bene sviluppato presso i fratelli separati. Vediamo con compiacenza lo studio di coloro che cercano onestamente di metere in evidenza ed in onore i tesori di verità e di vita spiriuale autentici, posseduti dai medesimi fratelli separati, allo scopo di migliorare i rapporti nostri con loro. Vogliamo sperare che essi pure con pari desiderio vorranno studiare meglio la nostra dottrina e la sua logica derivazione dal deposito della divina rivelazione, come vorranno conoscere meglio la nostra storia e la nostra vita religiosa. Diremo infine a questo riguardo che, consapevoli delle enormi difficoltà tuttora frapposte all’unificazione desiderata, noi poniamo umilmente la nostra confidenza in Dio. Continueremo a pregare. Cercheremo di meglio testimoniare il nostro sforzo di genuina vita cristiana e di fraterna carità. E ricorderemo, quando la realtà storica cercasse di deludere la nostra speranza, le parole confortatrici di Cristo: "Quae impossibilia sunt apud homines, possibilia sunt apud Deum" (cf. Luc. 18,27)247.

Per questo la base indispensabile e la condizione di base di ogni altra azione o iniziativa sarà di natura spirituale: il dialogo, "prima di svolgersi in fraterne conversazioni si esprime a colloquio col Padre celeste in effusione di preghiera e di speranza"248. Inoltre, poiché la divisione dei cristiani è frutto del peccato, richiede la purificazione del cuore e della memoria, riconoscendo i propri peccati e le proprie mancanze:

Qui il Nostro discorso si rivolge con riverenza ai rappresentanti delle denominazioni cristiane separate dalla Chiesa cattolica, i quali però sono stati da esse inviati per assistere, in qualità di osservatori, a questa solenne assemblea. Noi li salutiamo di cuore. Noi li ringraziamo di questo loro intervento. Noi mandiamo attraverso la loro presenza il Nostro messaggio di paternità e di fraternità alle venerabili comunità cristiane, che essi qui rappresentano. La Nostra voce trema, il Nostro cuore palpita, perché tanto la loro odierna vicinanza è per Noi ineffabile consolazione e dolcissima speranza, quanto la loro persistente separazione profondamente ci addolora. Se alcuna colpa fosse a noi imputabile per tale separazione, noi ne chiediamo a Dio umilmente perdono e domandiamo venia altresì ai fratelli che si sentissero da noi offesi; e siamo pronti, per quanto ci riguarda, a condonare le offese, di cui la Chiesa cattolica è stata oggetto, e a dimenticare il dolore che le è stato recato nella lunga serie di dissensi e separazioni. Che il Padre celeste accolga questa Nostra dichiarazione, e tutti ci restituisca ad una pace veramente fraterna!249.

La via spirituale non può tuttavia andare disgiunta dall’approfondimento teologico e dalla ricerca della verità:

Noi teniamo a sottolineare che "le divergenze profonde che si sono manifestate fra la Chiesa cattolica romana e le Chiese luterane non debbono esere passate sotto silenzio. Ch’esse siano apertamente riconosciute e che siano prese in seria considerazione [...]". Noi abbiamo d’altronde la speranza che nuove vie e nuove possibilità di comprensione e di comune visione si apriranno sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, a condizione che affrontiamo le difficoltà con pazienza, serietà, lealtà e in un’atmosfera di carità. Pieni di fiducia nell’amore del Padre per noi, quell’amore che ha trovato la sua espressione più sublime nella croce di Cristo, Noi preghiamo di poter essere tutti condotti a questa unità come Nostro Signore l’ha desiderata250.

Questo comporta un’adeguata conoscenza delle difficoltà e delle questioni ancora aperte, dei termini in cui esse si pongono, delle conseguenze e delle implicazioni, ed evitando semplificazioni nocive dei problemi:

Restano, lo sappiamo, gravi e complicate questioni obbiettive da studiare, da trattare e da risolvere. Vorremmo che ciò subito fosse, a causa della carità di Cristo che "urget nos"; ma siamo persuasi che simili problemi esigono molte condizioni per essere appianati e risolti; condizioni oggi non ancora mature; e noi non abbiamo timore di attendere pazientemente l’ora benedetta della perfetta riconciliazione251.

Uno di questi ostacoli era certamente costituito dal ministero petrino. Gelando l’assemblea, così Paolo VI aveva affermato dinanzi ai rappresentanti delle Chiese riuniti a Ginevra:

Il Nostro nome è Pietro. E la Scrittura ci dice quale significato Cristo ha voluto attribuire a questo nome, quali doveri esso Ci impose: le responsabilità dell’apostolo e dei suoi successori. Ma permetteteCi di ricordare anche altri nomi che il Signore ha voluto dare a Pietro per significare altri carismi. Pietro è pescatore di uomini. Pietro è pastore. Per ciò che riguarda Noi, siamo convinti che il Signore Ci ha concesso, senza alcun merito da parte Nostra, un ministero di comunione. Certamente non per isolarCi da voi egli Ci ha dato questo carisma, né per escludere tra noi la comprensione, la collaborazione, la fraternità e fnalmente la ricomposizione dell’unità, ma bensì per lasciarCi il precetto e il dono dell’amore, nella verità e nella umiltà (cfr. Eph. 4, 15; Io 13, 14)252.

E nell’enciclica Ecclesiam suam riconoscerà che

proprio Noi, fautori di tale riconciliazione, siamo, da molti fratelli separati, considerati l’ostacolo ad essa, a causa del primato d’onore e di giurisdizione, che Cristo ha conferito all’apostolo Pietro, e che Noi abbiamo da lui ereditato. Non si dice da alcuni che, se fosse rimosso il primato del papa, l’unificazione delle Chiese separate con la Chiesa cattolica sarebbe più facile? Vogliamo supplicare i fratelli separati a considerare la inconsistenza di tale ipotesi; e non già soltanto perché senza il papa, la Chiesa cattolica non sarebbe più tale; ma perché, mancando nella Chiesa di Cristo l’ufficio pastorale sommo, efficace e decisivo di Pietro, la unità si sfascerebbe; e indarno poi si cercherebbe di ricomporla con criteri sostitutivi di quello autentico, stabilito da Cristo stesso: vi sarebbero nella Chiesa tanti scismi quanti sono i sacerdoti, scrive giustamente s. Girolamo (Dial. contra Luciferianos, PL 23, 173). E vogliamo altresì considerare che questo cardine centrale della santa Chiesa non vuole costituire supremazia di spirituale orgoglio e di umano dominio, ma primato di servizio, di ministero, di amore. Non è vana retorica quella che al vicario di Cristo attribuisce il titolo: il servo dei servi di Dio253.

Accanto all’ecumenismo spirituale e a quello del dialogo teologico si colloca la collaborazione nella carità, come docilità all’azione dello Spirito Santo e come testimonianza verso il mondo:

Dobbiamo coraggiosamente proseguire e sviluppare lo sforzo da una parte e dall’altra, quanto è possibile in contatto e in una cooperazione, le cui forme dovrebbero essere fissate in comune. Molto più che per mezzo di una discussione sul passato è in una collaborazione positiva, in vista di rispondere a quello che lo Spirito domanda oggi alla Chiesa, che noi arriveremo a sormontare quello che ancora ci separa. Se vediamo negli sforzi di rinnovamento un segno dell’azione dello Spirito che ci stimola a ristabilire tra di noi la piena comunione e vi ci prepara, il mondo di oggi invaso da una incredulità multiforme, ci richiama anch’esso in maniera imperiosa il bisogno della nostra unità. Se l’unità dei discepoli di Cristo è stata data come il grande segno che deve sollecitare la fede del mondo, l’incredulità di molti dei nostri contemporanei è anch’essa una voce con la quale lo Spirito parla alle Chiese e fa loro prendere nuova coscienza dell’urgenza di realizzare quel precetto di Cristo, il quale è morto "per stringere nell’unità i figli di Dio che erano dispersi" (In. 11, 52). Questa testimonianza comune, una e varia, decisa e persuasiva, di una fede umilmente sicura di se stessa, zampillante in amore e raggiante la speranza, è ciò che lo Spirito domanda innanzi tutto oggi alle Chiese254.

La collaborazione nasce inoltre dalla fede comune:

La Nostra prima preoccupazione è maggiormente la qualità di questa multiforme cooperazione che la semplice moltiplicazione delle attività. "Ecumenismo vero non c’è senza interiore conversione - dice il Decreto conciliare. - Poiché il desiderio dell’unità nasce e matura dal rinnovamento della mente (cfr. Eph. 4, 23) dall’abnegazione di se stesso e dal pieno esercizio della carità" (De Oecumenismo, n. 7). La fedeltà a Cristo e alla sua parola, l’umiltà di fronte all’azione del suo Spirito in noi, il servizio di tutti e di ciascuno, ecco in effetti le virtù che daranno alla nostra riflessione e al nostro lavoro la sua qualificazione cristiana. Allora soltanto la cooperazione di tutti i cristiani esprimerà vivamente l’unione, che già vige tra di loro e porrà in più piena luce il volto di Cristo Servo (cfr. ibid., n. 12)255.

Infine, la testimonianza di fraternità offerta dalle Chiese non può non avere riverberi sul contesto sociale in cui esse si trovano a vivere, nella forma di un servizio al mondo:

Vediamo l’importanza civile che questo esempio di ben avviata concordia e questo proposito di pratica collaborazione possono avere per la pace fra le Nazioni nel mondo e per la promozione della cristiana fratellanza fra gli uomini256.

6.6. Rimani saldo in quello che hai imparato

Nella struttura delineata in Ecclesiam suam, la Chiesa, dopo aver riflettuto su se stessa, approfondendo la propia immagine e la propria missione e individuando gli aspetti da purificare ed emendare, si poneva come interlocutore principale, rivolgendosi rispettivamente al mondo contemporaneo, ai non cristiani e ai non cattolici. Solo in ultimo compariva un accenno al dialogo interno, sottolineando l’esigenza di unità, carità e obbedienza, come atteggiamenti che garantiscono la vitalità e la compattezza della compagine ecclesiale257. Sembrava però che l’annuncio del Vangelo dovesse attuarsi solo ad extra. Dieci anni più tardi, Evangelii nuntiandi sottolineò come fosse necessaria una continua cura e formazione anche di coloro che già hanno hanno ascoltato il kerigma o la Parola ed hanno deciso di convertirsi:

La Chiesa non si sente dispensata da una attenzione altrettanto infaticabile nei confronti di coloro che hanno ricevuto la fede e che, spesso da generazioni, sono a contatto col Vangelo. Essa cerca così di approfondire, consolidare, nutrire, rendere sempre più matura la fede di coloro che si dicono già fedeli e credenti, affinché lo siano maggiormente. Questa fede è quasi sempre, oggi, posta a confronto col secolarismo, anzi con l’ateismo militante: è una fede esposta alle prove e minacciata: di più, una fede assediata e combattuta. Essa rischia di perire per asfissia o per inedia se non è continuamente alimentata e sostenuta. Evangelizzare comporta dunque, molto spesso, comunicare alla fede dei credenti - particolarmente mediante una catechesi piena di linfa evangelica e corredata da un linguaggio adatto ai tempi e alle persone - questo necessario alimento e questo sostentamento258.

La catechesi, concerne la trasmissione viva del deposito della fede e si configura come ministero della Parola e si colloca quindi in continuità con l’opera di evangelizzazione che impegna la Chiesa intera. La catechesi - congiuntamente alla partecipazione alla preghiera liturgica e all’esercizio della carità - ne costituisce tuttavial’approfondimento e lo sviluppo sul piano intellettuale ed esperienziale allo scopo di formare il credente e di renderlo maturo nella fede, abilitandolo alla vita teologale nelle situazioni concrete dell’esistenza:

Il ministero della Parola si colloca [...] nel centro stesso dell’azione apostolica quotidiana di tutta la Chiesa, cosicché è su tutta la catechesi, si tratti del modo con cui il popolo di Dio, insieme riunito, celebra l’Eucaristia, o canta le lodi di Dio o vive quotidianamente la sua fede. Non è forse la Chiesa un mistero che ci fa sempre più scoprire "in una maniera sperimentale ed esistenziale" "... nella vitalità segreta che le è propria, che fa del suo passato una sorgente del suo perenne rinascere e del suo avvenire, mediante la fedeltà viva e operante della sua tradizione"? (cfr. Allocuzione all’Udienza generale del 18 novembre 1970, in "L’Osservatore romano" del 19 novembre 1970). Non si può isolare la catechesi - sarebbe questo allora un isolamento mortale - dalla vita di preghiera, e neppure dall’impegno cristiano delle comunità, riunite insieme da una stessa fede in Cristo Salvatore. In un mondo in via di secolarizzazione, la Chiesa riscopre la sua missione profetica di messaggera della buona novella della salvezza. Così il filo tagliente della spada della Parola non potrà giammai smussarsi (cfr. Hebr. 4,12; Apoc. 1,16 e 2,16). Ben lungi dal rimanere neutrale, la Chiesa giudica tutte le realtà, personali e collettive, che gli uomini vivono ed in cui i cristiani accettano di lasciarsi guidare da lei, stando in ascolto di Colui il cui personale interrogativo non cessa di echeggiare di generazione in generazione: "E voi, chi dite che io sia?" (Matth. 16,15). La catechesi non può dunque disinteressarsi dei problemi che incontra oggi un credente, giustamente desideroso di progredire ulteriormente nell’intelligenza della sua fede. Questi problemi dobbiamo conoscerli, non per mettere in dubbio il loro giusto fondamento o per negarne le esigenze, ma per accoglierne le giuste richieste, sul piano propriamente nostro, quello della fede...; (sono) i grandi interrogativi dell’uomo moderno, sulle sue origini, sul significato della vita, sulla felicità alla quale aspira, come sul destino dell’umana famiglia" (Quinque iam annos). Ciò vuol dire che sarà sempre necessario un duplice movimento per annunciare la Parola di Dio agli uomini del nostro tempo "nella sua integrità e nella sua purezza, tale che essa riesca loro intelligibile ed essi volentieri vi aderiscano" (Messaggio del concilio al mondo, 20 ottobre 1962, in AAS 54, 1962, p. 822). È la parola di Dio che noi dobbiamo trasmettere, non già una parola umana, e questa Parola ci è offerta dalla Chiesa, il cui magistero ce ne garantisce l’autenticità, e la cui vita di popolo di Dio ce ne mostra la fecondità, mentre noi stessi ne facciamo personale esperienza nella meditazione e nella preghiera. Come non si potrebbe ridurre il messaggio della salvezza ai nostri conformismi mondani, così pure non si può identificarlo con determinate forme socio- o storico-culturali. Ma prima preoccupazione del magistero è che la forza della Parola di Dio sia incessantemente liberata da tutti gli ostacoli, che la trattengono, e che il suo dinamismo penetri nella vita di tutti gli uomini, rivelando loro il mistero della buona novella dell’amore che salva. Nel medesimo tempo, tale rivelazione li rivela a se stessi, dando alla loro esistenza quel significato ultimo, che essi spesso angosciosamente ricercano. "In questo modo il ministero della Parola non solo richiama la rivelazione delle meraviglie divine, avvenuta nel tempo e condotta a perfezione dal Cristo, ma interpreta simultaneamente, alla luce di questa rivelazione, la vita umana della nostra epoca, i segni dei tempi e le realtà di questo mondo, poiché in essi si dispiega il disegno di Dio per la salvezza degli uomini" (Direttorio catechetico, 11)259.

La catechesi, che può essere definita o descritta come l’esposizione dei contenuti della fede in rapporto alla maturità umana e cristiana dei destinatari, sta sotto la responsabilità ecclesiale e richiede maestri, i catechisti, che pongano a contatto la Parola di Dio con le domande dell’uomo e confermino con la vita il messaggio che annunciano:

La scoperta del mistero integrale della nostra salvezza nella fede non può aver luogo se non attraverso la testimonianza di una autentica vita di fede da parte della comunità ecclesiale. "Difatti la catechesi parla con maggiore efficacia di ciò che appare realmente nella stessa vita esteriore della comunità. Il catechista è, per così dire, l’interprete della Chiesa di fronte a coloro che sono da lui catechizzati. Egli legge ed insegna a leggere i segni della fede, dei quali il principale è la Chiesa stessa" (Ibid., 35). Più ancora egli insegna a discernere gli addentellati spirituali, già presenti nella vita degli uomini, secondo il fecondo metodo del dialogo salvifico [...]. È dunque un compito che incessantemente rinasce ed incessantemente si rinnova per la catechesi l’intendere questi problemi che salgono dal cuore dell’uomo, per ricondurli alla loro sorgente nascosta: il dono dell’amore che crea e che salva, rivelato attraverso gli avvenimenti e le parole di Dio al suo popolo. La meditazione orante della sacra Scrittura, l’approfondimento fedele delle "meraviglie di Dio" lungo tutto l’arco della storia della salvezza, la Tradizione vivente della Chiesa e l’attenzione rivolta alla storia degli uomini si collegano in tal modo armoniosamente per aiutare gli uomini a scoprire questo Dio, il quale già opera nel segreto del loro cuore e della loro intelligenza per attirarli a lui e ricolmarli del suo amore, che li invita ad entrare in comunione col Verbo. In tal modo l’intera storia dell’uomo acquista il suo significato nel diretto riferimento alla storia della salvezza, che fa di essa una storia sacra. "Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Io. 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rom. 1,19-20); inoltre, volendo aprire la via della salvezza soprannaturale, fin dal principio manifestò se stesso... Mandò poi il suo Figlio, cioè il Verbo eterno, ... affinché ad essi spiegasse i segreti di Dio ... (cfr. Io. 1,1-18) ed egli porta a compimento l’opera della salvezza" (Dei verbum, 3-4). Oggi come ieri, la catechesi deve dunque mettersi in ascolto dell’uomo, sul quale si riflette lo splendore di Dio (cfr. Gen. 1,26), per rivelare a lui la vera luce che lo illumina (cfr. Io. 1,9) e dà il senso ultimo alle sue richieste ed alle sue aspirazioni di possedere una maggiore pienezza, di vivere fraternamente, di lavorare per la giustizia e la pace, mentre gli dona qualcosa di infinitamente più alto: "quello a cui il cuore dell’uomo non ha pensato, tutto quello che Dio ha preparato per coloro che lo amano" (1 Cor. 2,9). Proprio perché è trascendente, Iddio è interiore all’uomo ed alle sue vie, più interno all’uomo di quanto questi non sia a se stesso secondo la intuizione tanto profonda di s. Agostino. Facendosi eco della Parola di Dio, il catechista a lui permette "di compiere la sua corsa e di essere glorificato" (2 Thess. 3,1) nel cuore dell’uomo, che egli ha destato partendo dalla sua propria vita e dalle sue povere parole260.

La catechesi gode quindi di una fondamentale dimensione vitale e mira ad introdurre gradualmente le persone alla pienezza del mistero cristiano, sviluppando la fede già presente nel soggetto e comunicando integralmente il fatto cristiano, così come è presentato dalla rivelazione e dalla tradizione della Chiesa:

La fede ha bisogno del maestro. Cioè d’un insegnamento e di uno studio. Se non si riesce a stabilire un rapporto normale e sufficiente tra il maestro della fede e il discepolo, la fede o non nasce o non resiste nel cuore e nella vita del discepolo. Fides ex auditu, la fede deriva dalla ascoltazione, dice l’Apostolo (Rom. 10,17). L’insegnamento religioso è indispensabile; tante volte si ripete questo principio; bisogna prenderlo sul serio. E qui è bene ricordare il duplice significato della parola "fede": essa può indicare il sentimento religioso, soggettivo, interiore, l’attitudine cioè dello spirito ad accogliere pensieri, principi, verità religiose; e per noi tale è la virtù della fede, che inizialmente riceviamo col battesimo; e in secondo luogo, essa, la fede, può indicare le dottrine religiose, le cose a cui si presta fede, gli articoli del "Credo", ad esempio. Vi è infatti una fede personale, "credente", e vi è una fede oggettiva, "creduta". Dice bene, con la consueta incisiva chiarezza, san Tommaso: "La fede nasce principalmente per via di infusione; e ciò avviene mediante il battesimo; ma per quanto riguarda la sua determinazione, essa viene mediante l’ascoltazione; e così l’uomo è istruito nella fede dal catechismo" (in 4 Sent. 4, 2, sol. 3, ad 1; cf. Rousselot, Les yeux de la foi. Recherches de sc. rel., 1910). Alla fede concorrono due fattori, ben diversi, e diversamente operanti, ma entrambi necessari: lo Spirito Santo, cioè l’azione dello Spirito Santo nell’anima, la grazia con le virtù infuse, tra cui la fede; e il magistero autorizzato da Cristo, e commesso agli apostoli, ai maestri della fede, al papa ed ai vescovi, come riafferma il Concilio, e, come si diceva, alla Chiesa docente, a cui fa eco, come testimonio ispirato, tutto il Popolo di Dio (cf. Lumen Gentium, nn. 12, 25). È facile incontrare persone, che dicono d’avere la fede, perché hanno qualche buon sentimento spirituale, o perché da sé (come tanti fratelli cristiani da noi divisi) cercano nella sacra Scrittura la Parola di Dio, ma con interpretazione personale, sovente libera e arbitraria, e alla fine con significati diversi e contrastanti; non è più la "una fides" (Eph. 4, 5), l’unica fede voluta da Cristo e predicata dagli apostoli. Ed è purtroppo facile incontrare persone dotte e sempre gelose di professarsi cattoliche, che facendo minor conto dell’indispensabile funzione magisteriale della Chiesa, cercano incautamente di adattare le dottrine della fede alla mentalità del mondo moderno, non solo con lo sforzo lodevole di far accogliere e in qualche modo capire tali dottrine, ma con la reticenza, l’alterazione, la negazione altresì di quelle medesime dottrine, secondo le teorie o i gusti delle opinioni oggi correnti. La fede è libera nell’atto che la esprime; non è libera nella formulazione della dottrina che esprime, quando questa è stata autorevolmente definita.261.

Nel 1977, a conclusione del IV sinodo dei vescovi, dedicato alla catechesi, Paolo VI richiamò come la trasmissione dei contenuti dovesse avvenire in assoluta fedeltà alla dottrina cristiana:

Nella catechesi sia sempre conservata la piena fedeltà alla Parola di Dio così come ci è stata manifestata dalla divina Rivelazione e trasmessa nei secoli dal magistero della Chiesa. Indubbiamente questo stesso dovere di vigilare riguarda anche altre forme di presentazione della Parola di Dio, da quella del suo annuncio in generale, o evangelizzazione, alla sua proclamazione nella liturgia o predicazione, fino al suo studio approfondito nella teologia. [...] E la fedeltà nei confronti del deposito della Rivelazione chiaramente esige anche che non si passi sotto silenzio alcuna verità essenziale della fede. "Il popolo affidato alle nostre cure ha il sacro ed inalienabile diritto di ricevere la Parola di Dio, l’intera Parola di Dio" (Pauli pp. VI Quinque iam anni: AAS 63 [1971], 99-100)262.

La catechesi dovrà poi essere organica e sistematica,

appunto perché tale approfondimento ordinato del mistero cristiano è ciò che distingue la stessa catechesi da tutte le altre forme di presentazione della Parola di Dio. Questo voi stessi l’avete sottolineato nella convinzione che nessuno può giungere alla verità intera a partire unicamente da una qualche semplice esperienza, e cioè senza una adeguata spiegazione del messaggio di Cristo, che è "via, verità e vita " (Io. 14,6), alfa e omega, principio e fine di tutte le cose (Apoc. 22,13). L’integrale presentazione del messaggio cristiano comprende, ovviamente, anche la spiegazione dei suoi principii morali sia circa i singoli uomini sia circa l’intera società. Educare alla fede anche i fanciulli e giovani delle nostre comunità cristiane significherà, perciò, educarli alla "sequela di Cristo", come ci avete ben indicato nella dodicesima proposizione che ci avete trasmesso. Questo è, del resto, il senso della dottrina di san Giovanni apostolo, quando ammonisce: "Chi dice: "Io lo conosco (Dio)" e non osserva i suoi comandamenti, è un bugiardo" (1 Io. 2,4)263,

avvalendosi anche, quando necessario,

di alcune formule fondamentali che permettano di esprimere più facilmente, in modo adatto e accurato, le verità della fede e della dottrina morale cristiana. Imparate a memoria tali formule, favoriscono un loro stabile possesso [...]. Tra queste formule, poi, avete giustamente incluso le più importanti affermazioni bibliche, soprattutto del Nuovo Testamento, e i testi liturgici che servono ad esprimere la preghiera comune e rendono più facile la professione della fede264.

 

7. UNA MANO FORTE E AMOREVOLE

La Chiesa locale come soggetto evangelizzatore

L’evangelizzazione, come ormai è stato più volte ripetuto, non è atto svolto a titolo personale dai singoli evangelizzatori, ma è atto realmente ecclesiale, che, in forza del mandato del Signore coinvolge la Chiesa intera265, in tutta la sua compagine. Insieme al successore di Pietro, essa coinvolge vescovi e sacerdoti, religiosi e religiose, laici, famiglie, giovani, ciascuno secondo il proprio carisma e in una grande varietà di ministeri266.

Noi esortiamo dunque i nostri fratelli nell’episcopato, posti dallo Spirito Santo a governare la Chiesa (cfr. Act. 20,28). Esortiamo i sacerdot’ e i diaconi, collaboratori dei vescovi nel radunare il popolo di Dio e nell’animazione spirituale delle comunità locali. Esortiamo i religiosi, testimoni d’una Chiesa chiamata alla santità, e quindi partecipi essi stessi di una vita che esprime le beatitudini evangeliche. Esortiamo i laici: famiglie cristiane, giovani e adulti, quanti esercitano un mestiere, i dirigenti, senza dimenticare i poveri spesso ricchi di fede e di speranza, tutti i laici consapevoli del loro ruolo di evangelizzazione al servizio della Chiesa o in mezzo alla società e al mondo267,

perché l’evangelizzazione e la predicazione loro affidate prosperino nell’unità, nella verità, nell’amore e nel fervore268, fondate sulla santità di vita alimentata dalla preghiera e dall’Eucaristia269.

Se questa impostazione non appare particolarmente originale, degno di rilievo è invece il ruolo affidato alle Chiese particolari. La Chiesa universale è per sua natura "senza confini né frontiere eccetto, purtroppo, quelle del cuore e dello spirito del peccatore"270; tuttavia, pur essendo una e diffusa su tutta la terra,

questa Chiesa universale si incarna di fatto nelle Chiese particolari, costituite a loro volta dall’una o dall’altra concreta porzione di umanità, che parlano una data lingua, che sono tributarie di un loro retaggio culturale, di un determinato sostrato umano. L’apertura alle ricchezze della Chiesa particolare risponde ad una specifica sensibilità dell’uomo contemporaneo. Ma dobbiamo ben guardarci dal concepire la Chiesa universale come la somma o, se così si può dire, la federazione più o meno eteroclita di Chiese particolari essenzialmente diverse. Secondo il pensiero del Signore, è la stessa Chiesa che, essendo universale per vocazione e per missione, quando getta le sue radici nella varietà dei terreni culturali, sociali, umani, assume in ogni parte del mondo fisionomie ed espressioni esteriori diverse. In tal modo ogni Chiesa particolare, che si separasse volontariamente dalla Chiesa universale, perderebbe il suo riferimento al disegno di Dio, si impoverirebbe nella sua dimensione ecclesiale. D’altra parte, la Chiesa "toto orbe diffusa" diventerebbe un’astrazione se non prendesse corpo e vita precisamente attraverso le Chiese particolari. Solo una permanente attenzione ai due poli della Chiesa ci consentirà di percepire la ricchezza di questo rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari271.

Ad esse è affidato il compito di inculturare il messaggio cristiano:

Le Chiese particolari profondamente amalgamate non solo con le persone, ma anche con le aspirazioni, le ricchezze e i limiti, i modi di pregare, di amare, di considerare la vita e il mondo, che contrassegnano un determinato ambito umano, hanno il compito di assimilare l’essenziale del messaggio evangelico, di trasfonderlo, senza la minima alterazione della sua verità fondamentale, nel linguaggio compreso da questi uomini e quindi di annunziarlo nel medesimo linguaggio. La trasposizione dev’essere fatta - con il discernimento, la serietà, il rispetto e la competenza che la materia esige - nel campo delle espressioni liturgiche (cfr. Sacrosanctum concilium, 37-38: AAS 56, 1964, p. 110; cfr. anche i libri liturgici e gli altri documenti emanati successivamente dalla Santa Sede per l’attuazione della riforma liturgica voluta dal medesimo Concilio), della catechesi, della formulazione teologica, delle strutture ecclesiali secondarie, dei ministeri. E il termine "linguaggio" dev’essere qui inteso meno nel senso semantico o letterario che in quello che si può chiamare antropologico e culturale. La questione è indubbiamente delicata. La evangelizzazione perde molto della sua forza e della sua efficacia se non tiene in considerazione il popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti, se non interessa la sua vita reale. Ma d’altra parte l’evangelizzazione rischia di perdere la propria anima e di svanire, se il suo contenuto resta svuotato o snaturato col pretesto di tradurlo o se, volendo adattare una realtà universale ad uno spazio locale, si sacrifica questa realtà e si distrugge l’unità senza la quale non c’è universalità. Orbene, soltanto una Chiesa che conservi la consapevolezza della propria universalità e che dimostri di essere effettivamente universale, può avere un messaggio da tutti comprensibile, al di là dei confini regionali. Del resto una legittima attenzione alle Chiese particolari non può che arricchire la Chiesa. È anzi indispensabile e urgente. Corrisponde alle aspirazioni più profonde dei popoli e delle comunità umane di scoprire sempre maggiormente la propria fisionomia272.

Le Chiese particolari dovranno tuttavia, sotto la guida del pontefice, avere cura di

conservare inalterabile il contenuto della fede cattolica, che il Signore ha affidato agli Apostoli: anche se tradotto in tutti i linguaggi, questo contenuto non dev’essere né intaccato né mutilato; pur se rivestito dei simboli propri di ciascun popolo, esplicitato mediante formulazioni teologiche che tengano conto degli ambienti culturali, sociali ed anche razziali diversi, deve restare il contenuto della fede cattolica, quale il Magistero ecclesiale l’ha ricevuto e lo trasmette273.

In quest’operazione di inculturazione deve tuttavia essere mantenuto un legame di carità fra Chiesa universale e Chiese particolari - garantito dal ruolo del pontefice, "come principio visibile, vivente e dinamico dell’unità fra le Chiese, e quindi dell’universalità dell’unica Chiesa (Paolo pp. VI, Discorso per la chiusura della terza Assemblea generale del Sinodo dei vescovi [26 ottobre 1974]: AAS 66 [1974], p. 636)"274 -, all’interno del quale queste ultime godono di un’autentica vitalità:

Ma questo arricchimento esige che le Chiese particolari si conservino profondamente aperte verso la Chiesa universale. Bisogna ben rilevare, del resto, che i cristiani più semplici, più fedeli al Vangelo, più aperti al senso vero della Chiesa, hanno una spontanea sensibilità circa questa dimensione universale, ne sentono istintivamente e molto fortemente il bisogno, si riconoscono facilmente in essa, vibrano all’unisono con essa e soffrono nel più intimo di se stessi quando, in nome di teorie che non comprendono, li si vuole comprimere in una Chiesa priva di questa universalità, chiesa regionalista, senza orizzonte. D’altronde, come la storia ben dimostra, ogni volta che l’una o l’altra Chiesa particolare, pur con le migliori intenzioni, con argomenti teologici, sociologici, politici o pastorali, o anche nel desiderio d’una certa libertà di movimento e d’azione, si è tagliata fuori dalla Chiesa universale e dal suo centro vitale e visibile, molto difficilmente è sfuggita, quando vi è sfuggita, a due pericoli ugualmente gravi: da una parte il pericolo dell’isolazionismo d’sseccante, e in seguito, in breve tempo, del disgregamento, poiché ciascuna delle sue cellule si separava da essa, com’essa s’era separata dal nucleo centrale; e d’altra parte, il pericolo di perdere la propria libertà quando, staccata dal centro e dalle altre Chiese che le comunicavano forza ed energia, si è trovata, essendo sola, in preda alle forze più diverse di asservimento e di sfruttamento. Quanto più una Chiesa particolare è unita con solidi legami di comunione alla Chiesa universale - nella carità e nella fedeltà, nell’apertura al magistero di Pietro, nell’unità della "Lex orandi" che è anche "Lex credendi", nella sollecitudine dell’unità con tutte le altre Chiese che costituiscono l’universalità - tanto più questa stessa Chiesa sarà capace di tradurre il tesoro della fede nella legittima varietà delle espressioni della professione di fede, della preghiera e del culto, della vita e del comportamento cristiani, dell’influsso spirituale del popolo nel quale è inserita; tanto più, ancora, essa sarà veramente evangelizzatrice, cioè capace di attingere nel patrimonio universale a profitto del suo popolo, come pure di comunicare alla Chiesa universale l’esperienza e la vita dello stesso popolo, a beneficio di tutti275.

E su questa immagine, che richiama quella giovannea della vite e dei tralci (Gv 1,15ss.), si conclude il nostro itinerario di lettura del magistero montiniano, non senza avere riascoltato l’invito - che, in qualche modo, assume il valore di un autoritratto - del grande pontefice affacciato sulla modernità che seppe comunicare il Vangelo al mondo:

Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Sia questo per noi [...] uno slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere. Sia questa la grande gioia delle nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la buona novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affìnché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo276.

* * *

INDICE

1. Tra Pietro e Paolo.

i cardini del pontificato

1.1. Siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini

1.2. Cose nuove e cose antiche

2. Una luce celeste proiettata sul mondo.

il volto della chiesa

2.1. Questo mistero è grande...

2.2. Vedere il riflesso della Trinità

2.3. Le due mani di Dio

3. L’epifania della carità.

il dialogo della chiesa col mondo contemporaneo

3.1. Come un messaggero che giunge dopo lungo cammino...

3.2. Questa terra dolorosa, drammatica e magnifica

3.3. Farsi parola, messaggio, colloquio

4. come un ostensorio del mistero.

l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo

4.1. Lo Spirito del Signore è sopra di me

4.2. Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura

5. un albero dalla sicura e feconda radice

i contenuti dell’annuncio

5.1. Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro

5.2. Cristo, nostra Pasqua

5.3. Un nuovo cielo e una nuova terra

5.4. Mentre conseguite la meta della vostra fede

5.5. Miseria e misericordia

5.6. Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"

6. La gioia di servire il popolo di Dio.

i destinatari dell’evangelizzazione

6.1. Fino ai confini del mondo

6.2. Hanno fatto naufragio nella fede

6.3. Entreranno fra voi lupi rapaci

6.4. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annunzio

6.5. Sono usciti di mezzo a noi

6.6. Rimani saldo in quello che hai imparato

7. Una mano forte e amorevole

la chiesa locale come soggetto evangelizzatore

 

___________________________

1 G.B. Montini (Paolo VI), Lettere ai familiari (1919-1943), a c. di N. Vian, I: (1919-1927), Brescia-Roma 1986 (Pubblicazioni dell’Istituto Paolo VI, 4/1), n. 93, p. 104 (4 dicembre 1921).

2 Insegnamenti di Paolo VI, voll. I-XVI, Tipografia Poliglotta Vaticana 1965-1979 (d’ora in poi Insegnamenti, seguito dal numero del volume e dalle pagine cui si rimanda).

3 Insegnamenti di Paolo VI 1963-1970. Encicliche, Tipografia Poliglotta Vaticana 1971 (d’ora in poi Encicliche).

4 Paulus PP. VI (1963-1978). Elenchus bibliographicus, collegit P. Arat—, denuo refudit, indicibus instruxit P. Vian, Brescia 1981 (Pubblicazioni dell’Istituto Paolo VI, 4/1).

5 Insegnamenti, I, pp. 648-649.

6 Cfr. il discorso tenuto al Consiglio mondiale delle Chiese di Ginevra il 10 giugno 1969: "Il nome che Noi abbiamo preso, quello di Paolo, indica abbastanza l’orientamento che Noi abbiamo voluto dare al Nostro ministero apostolico" (Insegnamenti, VII, p. 399; testo francese alle pp. 395-396).

7 Insegnamenti, I, p. 45.

8 Traduzione nostra; testo francese in Insegnamenti, XIII, pp. 1096-1097.

9 Traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 12 giugno 1963; testo latino in Insegnamenti, I, pp. 4-5.

10 Traduzione nostra; testo latino in Insegnamenti, I, p. 24.

11 Insegnamenti, I, p. 26.

12 Traduzione nostra; testo latino in Insegnamenti, I, pp. 24-25.

13 2 Pt 3,17-18.

14 Cfr., ad esempio l’allocuzione al S. Collegio del 22 giugno 1973 (Insegnamenti, XI, pp. 634-635, ma anche pp. 632-633) e l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, §§ 1, 4 (Insegnamenti, XIII, pp. 1380-1381, 1382).

15 Insegnamenti, XVI, pp. 519-521.

16 Cfr. l’esortazione omiletica premessa al "Credo del popolo di Dio" proclamato a conclusione dell’Anno della fede, istituito "per attestare il nostri incrollabile proposito di fedeltà del deposito della fede (cfr. 1 Tim 6,20) che essi [gli apostoli Pietro e Paolo] ci hanno trasmesso, e per rafforzare il nostro desiderio di farne sostanza di vita nella situazione storica, in cui si trova la Chiesa pellegrina nel mondo. [...] Al tempo stesso, Ci sembra che a Noi incomba il dovere di adempiere il mandato, affidato da Cristo a Pietro, di cui siamo il successore, sebbene l’ultimo per merito, di confermare cioè nella fede i nostri fratelli (cfr. Luc. 22,32). Consapevoli, senza dubbio, della Nostra umana debolezza, ma pure con tutta la forza che un tale mandato imprime nel Nostro spirito, Noi Ci accingiamo pertanto a fare una professione di fede, a pronunciare un Credo, che, senza essere una definizione dogmatica propriamente detta, e pur con qualche sviluppo, richiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo, riprende sostanzialmente il Credo di Nicea" (Insegnamenti, VI, p. 300; testo latino in Insegnamenti, VI, pp. 289-290). Cfr. anche Evangelii nuntiandi, § 4: "Questa fedeltà a un messaggio, del quale noi siamo i servitori, e alle persone a cui noi dobbiamo trasmetterlo intatto e vivo, è l’asse portante dell’evangelizzazione" (Insegnamenti, XIII, p. 114; testo latino in Insegnamenti, XIII, p. 1382).

17 Ecclesiam suam, §§ 19-42, in Encicliche, pp. 13-23; cfr anche i §§ 10-11 (Encicliche, p. 11). Il testo latino è edito in "Acta Apostolicae Sedis", 56 (1964), pp. 609-657, a cui si rimanda qui una volta per tutte.

18 Ecclesiam suam, §§ 43-59, in Encicliche, pp. 24-33; cfr. anche il § 12 (Encicliche, p. 11).

19 Ecclesiam suam, §§ 60-121, in Encicliche, pp. 33-53.

20 Insegnamenti, II, p. 473.

21 Traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963; testo latino in Insegnamenti, I, p. 174.

22 Ecclesiam suam, § 73, in Encicliche, p. 37.

23 Insegnamenti, IV, p. 784.

24 Insegnamenti, XII, p. 982; testo latino a p. 974.

25 Insegnamenti, VIII, pp. 1030-1031; cfr. anche Insegnamenti, XII, pp. 937-938.

26 Insegnamenti, III, pp. 277-278.

27 Cfr. Insegnamenti, IV, p. 821.

28 Cfr. Insegnamenti, XII, p. 343: "Lo spirito [...] scopre il profilo del "Cristo totale": Gesù, il capo e le membra formanti un unico mistico corpo, la sua Chiesa, vivente il Lui animata dallo Spirito Santo".

29 Insegnamenti, XII, pp. 173-174; la stessa triade si ritrova anche l’anno prima: "Alla cristologia e specialmente alla ecclesiologia del concilio deve succedere uno studio nuovo ed un culto nuovo sullo Spirito Santo, proprio come complemento immancabile all’insegnamento conciliare" (Insegnamenti, XI, pp. 476-477, poi ripreso a p. 854).

30 Testo italiano in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963; testo latino in Insegnamenti, I, pp. 170-172. Cfr. anche Ecclesiam suam, § 37:(Encicliche, pp. 20-21).

31 Insegnamenti, VIII, pp. 1241-1242; testo inglese alle pp. 1237-1238.

32 Insegnamenti, XII, p. 972; testo latino a p. 969.

33 Cfr. Insegnamenti, IX, p. 470, ove, fra l’altro, sono indicate alcune fonti del pensiero montiniano: "Uno degli insegnamenti più importanti, più caratteristici, più fecondi che il concilio Vaticano Secondo ha lasciato alla Chiesa è quello del mistero della Chiesa, il quale consiste nell’animazione per cui essa vive come Corpo mistico di Cristo; e questa animazione proviene dall’effusione dello Spirito Santo, lo Spirito di Cristo. Questo si sapeva, si può dire da sempre, dalla Pentecoste, dalla dottrina dei Padri (citiamo, per la Chiesa d’Oriente, s. Atanasio, s. Basilio, s. Gregorio Nisseno; e s. Ilario, s. Ambrogio, s. Leone Magno per quella d’Occidente), dai documenti pontifici recenti (di Leone XIII, di Pio XII), e da studi teologici insigni (come quelli di Giovanni Adamo Mšhler, del card. Journet, del p. Congar...); ma la catechesi ordinaria era piuttosto orientata a considerare la Chiesa nel suo aspetto visibile e sociale, rivendicato alla Chiesa specialmente dal concilio di Trento contro certe eresie della Riforma. Senza negare questo aspetto, anzi elevandolo alla considerazione di segno e di strumento della salvezza, (cfr. Lumen gentium, 1, 48; Sacr. concilium, 26; Gaudium et spes, 5, 45) il recente concilio ha fissato l’attenzione sull’aspetto spirituale, misterioso, divino della Chiesa, sulla "pneumatologia" della Chiesa".

34 Insegnamenti, XII, p. 959.

35 Insegnamenti, II, p. 887.

36 Insegnamenti, V, pp. 776-777.

37 Insegnamenti, V, p. 778.

38 Insegnamenti, X, p. 1211.

39 Ecclesiam suam, §§ 10-11, in Encicliche, p. 11: "Il pensiero che sia questa l’ora in cui la Chiesa deve approfondire la coscienza di se stessa, deve meditare sul mistero che le é proprio, deve esplorare, a propria istruzione ed a propria edificazione, la dottrina, già a lei nota e già in quest’ultimo secolo enucleata e diffusa, sopra la propria origine, la propria natura, la propria missione, la propria sorte finale, ma dottrina non mai abbastanza studiata e compresa, come quella che contiene il piano provvidenziale del mistero nascosto da secoli in Dio... affinché sia manifestato... per mezzo della Chiesa (Eph. 3,9-10), misteriosa riserva cioè dei misteriosi disegni divini che mediante la Chiesa vengono notificati; e come quella che costituisce oggi il tema più d’ogni altro interessante la riflessione di chi vuol essere docile seguace di Cristo, e tanto più di chi, come Noi e come voi, venerabili fratelli, lo Spirito Santo ha posto quali vescovi a reggere la medesima Chiesa di Dio (cfr. Act. 20,28). Deriva da questa illuminata operante coscienza uno spontaneo desiderio di confrontare l’immagine ideale della Chiesa, quale Cristo vide, volle ed amò, come sua Sposa santa ed immacolata (cfr. Eph. 5,27) e il volto reale, quale oggi la Chiesa presenta, fedele, per grazia divina, ai lineamenti che il suo divin Fondatore le impresse e che lo Spirito Santo vivificò e sviluppò nel corso dei secoli in forma più ampia e più rispondente al concetto iniziale da un lato, all’indole della umanità ch’essa andava evangelizzando e assumendo dall’altro; ma non mai abbastanza perfetto, abbastanza venusto, abbastanza santo e luminoso, come quel divino concetto informatore lo vorrebbe"; cfr. anche i §§ 19 e 27 (Encicliche, pp. 13, 16).

40 Cfr. Ecclesiam suam, § 39, in Encicliche, p. 22.

41 Ecclesiam suam, § 12, in Encicliche, p. 11: "E deriva perciò un bisogno generoso e quasi impaziente di rinnovamento, di emendamento cioè dei difetti, che quella coscienza, quasi un esame interiore allo specchio del modello che Cristo di sé ci lasciò, denuncia e rigetta. Quale sia cioè il dovere odierno della Chiesa di correggere i difetti dei propri membri e di farli tendere a maggior perfezione, e quale il metodo per giungere con saggezza a tanto rinnovamento, è il secondo pensiero che occupa il Nostro spirito e che vorremmo a voi manifestare per trovare non solo maggiore coraggio a intraprendere le dovute riforme, ma per avere altresì dalla vostra adesione consiglio ed appoggio in cosi delicata e difficile impresa"; cfr. anche il § 43 (Encicliche, p. 24).

42 Insegnamenti, III, pp. 727-728; testo latino alle pp. 718-719.

43 Insegnamenti, III, p. 517; testo inglese a p. 508.

44 Insegnamenti, IV, p. 822.

45 Ecclesiam suam, § 27, in Encicliche, p. 16.

46 Gaudete in Domino, in Insegnamenti, XIII, p. 466; testo latino a p. 441.

47 Insegnamenti, VIII, pp. 443-444, 445.

48 Insegnamenti, V, pp. 249-250; cfr. anche Insegnamenti, IV, p. 24 e Insegnamenti, V, p. 727 (a cui rinvia Insegnamenti, XV, p. 142).

49 Ecclesiam suam, §§ 50-51, in Encicliche, pp. 27-28.

50 Insegnamenti, XII, p. 1184; testo latino a p. 1169.

51 Ecclesiam suam, §§ 60-61, in Encicliche, p. 31.

52 Insegnamenti, XIII, pp. 941-942.

53 Insegnamenti, XII, p. 550.

54 Insegnamenti, III, p. 731.

55 Insegnamenti, VIII, pp. 747-748.

56 Insegnamenti, X, pp. 275-276.

57 Insegnamenti, XII, p. 576.

58 Insegnamenti, XIV, pp. 440-441.

59 Insegnamenti, VIII, p. 746.

60 Insegnamenti, II, p. 771.

61 Insegnamenti, IX, p. 865.

62 Insegnamenti, XII, p. 1182; testo latino a p. 1165.

63 Cfr. anche Insegnamenti, IX, p. 538.

64 Insegnamenti, XII, pp. 1087-1089.

65 Insegnamenti, VII, pp. 847-848.

66 Insegnamenti, VII, p. 209.

67 Insegnamenti, II, p. 771.

68 Ecclesiam suam, §§ 13-15, in Encicliche, p. 12.

69 Ecclesiam suam, § 3, in Encicliche, p. 9.

70 Cfr. anche Ecclesiam suam, §§ 67 e 73, in Encicliche, pp. 35, 37.

71 Ecclesiam suam, § 82, in Encicliche, pp. 39-40.

72 Ecclesiam suam, § 85, in Encicliche, p. 40.

73 Insegnamenti, V, pp. 831-832,

74 Ecclesiam suam, § 80, in Encicliche, p. 39.

75 Cfr., ad esempio, Ecclesiam suam, §§ 101-102, in Encicliche, pp. 44-45.

76 Insegnamenti, III, pp. 729-731 passim.

77 Insegnamenti, II, pp. 32-33; cfr. anche Ecclesiam suam, §§ 99 e 101-102, in Encicliche, pp. 44-45.

78 Ecclesiam suam, § 83, in Encicliche, p. 40.

79 Il tema del dialogo come modalità di annuncio da parte della Chiesa e come segno di maturità era stato anticipato nel luglio 1964, un mese prima della pubblicazione dell’enciclica, nel corso del radiomessaggio per il VI Congresso eucaristico nazionale della Spagna tenutosi a Le—n (Insegnamenti, II, p. 457).

80 Ecclesiam suam, §§ 66-67, in Encicliche, p. 35.

81 Insegnamenti, VIII, pp. 1175-1177.

82 Ecclesiam suam, § 72, in Encicliche, p. 37.

83 Ecclesiam suam, § 73, in Encicliche, p. 37.

84 Ecclesiam suam, §§ 74-79, in Encicliche, pp. 38-39.

85 Ecclesiam suam, § 81, in Encicliche, p. 39.

86 Ecclesiam suam, §§ 83-84, in Encicliche, p. 40.

87 Cfr., ad esempio, Ecclesiam suam, §§ 51 e 90-92, in Encicliche, pp. 28, 41-42.

88 Ecclesiam suam, § 90, in Encicliche, pp. 41-42.

89 Insegnamenti, II, pp. 340-341.

90 Ecclesiam suam, § 98, in Encicliche, p. 43.

91 Ecclesiam suam, § 99, in Encicliche, p. 44.

92 Cfr. Evangelii nuntiandi, §§ 2 e 17, in Insegnamenti, XIII, pp. 1439, 1447-1448; testo latino alle pp. 1381, 1390.

93 Insegnamenti, XII, p. 973; testo latino a p. 971.

94 Evangelii nuntiandi, § 7, in Insegnamenti, XIII, p. 1442; testo latino a p. 1384.

95 Evangelii nuntiandi, § 6, in Insegnamenti, XIII, p. 1442; testo latino alle pp. 1383-1384.

96 Cfr. Evangelii nuntiandi, §§ 11-12, in Insegnamenti, XIII, p. 1444; testo latino alle pp. 1385-1386.

97 Evangelii nuntiandi, §§ 8-9, in Insegnamenti, XIII, pp. 1442-1443; testo latino alle pp. 1384-1385.

98 Evangelii nuntiandi, § 13, in Insegnamenti, XIII, pp. 1444-1445; testo latino alle pp. 1386-1387.

99 Evangelii nuntiandi, §§ 14-16, in Insegnamenti, XIII, pp. 1445-1447; testo latino alle pp. 1387-1389.

100 Evangelii nuntiandi, § 5, in Insegnamenti, XIII, p. 1441; testo latino a p. 1383.

101 Insegnamenti, XII, p. 984; testo latino alle pp. 976-977.

102 Insegnamenti, XV, pp. 889-890; testo latino alle pp. 885-886.

103 Evangelii nuntiandi, § 75, in Insegnamenti, XIII, p. 1483; testo latino alle pp. 1429-1430.

104 Evangelii nuntiandi, § 17, in Insegnamenti, XIII, pp. 1447-1448; testo latino a p. 1390.

105 Evangelii nuntiandi, § 24, in Insegnamenti, XIII, p. 1451; testo latino a p. 1394.

106 Evangelii nuntiandi, § 18, in Insegnamenti, XIII, p. 1448; testo latino alle pp. 1390-1391; cfr. anche il § 50 (Insegnamenti, XIII, p. 1464; testo latino alle pp. 1408-1409.

107 Evangelii nuntiandi, §§ 19-20, in Insegnamenti, XIII, pp. 1448-1449; testo latino a p. 1391.

108 Evangelii nuntiandi, § 10, in Insegnamenti, XIII, p. 1443; testo latino a p. 1385.

109 Evangelii nuntiandi, § 25, in Insegnamenti, XIII, p. 1452; testo latino alle pp. 1394-1395.

110 Evangelii nuntiandi, § 26, in Insegnamenti, XIII, pp. 1452; testo latino a p. 1395.

111 Insegnamenti, VIII, p. 923.

112 Insegnamenti, V, p. 685.

113 Insegnamenti, VI, p. 302; testo latino a p. 292.

114 Insegnamenti, IX, p. 1109.

115 Insegnamenti, VII, p. 505.

116 Insegnamenti, XIV, p. 903.

117 Insegnamenti, XI, p. 1031.

118 Insegnamenti, XIII, pp. 891-892.

119 Insegnamenti, XIII, p. 891.

120 Insegnamenti, VI, pp. 1138-1139.

121 Insegnamenti, V, p. 686.

122 Insegnamenti, II, pp. 760-761.

123 Evangelii nuntiandi, § 27, in Insegnamenti, XIII, p. 1452; testo latino a p. 1395.

124 Insegnamenti, V, p. 121.

125 Insegnamenti, XI, p. 408.

126 Insegnamenti, XII, pp. 1315-1316.

127 Insegnamenti, XV, pp. 330-331.

128 Insegnamenti, X, p. 244.

129 Insegnamenti, IV, pp. 168-169.

130 Insegnamenti, XVI, p. 588.

131 Insegnamenti, IV, pp. 883-884.

132 Gaudete in Domino, in Insegnamenti, XIII, p. 460; testo latino alle pp 433-434.

133 Insegnamenti, XVI, pp. 590-591.

134 Insegnamenti, VI, pp. 308-309; testo latino alle pp. 298-299.

135 Populorum progressio, §§ 13-14, in Encicliche, pp. 87-88.

136 Evangelii nuntiandi, § 28, in Insegnamenti, XIII, p. 1453; testo latino alle pp. 1395-1396.

137 Evangelii nuntiandi, § 29, in Insegnamenti, XIII, pp. 1453-1454; testo latino alle pp. 1396-1397.

138 Evangelii nuntiandi, § 28, in Insegnamenti, XIII, p. 1453; testo latino a p. 1395.

139 Cfr. Evangelii nuntiandi, § 42, in Insegnamenti, XIII, p. 1459; testo latino alle pp. 1402-1403.

140 Ecclesiam suam, § 94, in Encicliche, pp. 42-43.

141 Insegnamenti, XIV, p. 455.

142 Insegnamenti, VII, p. 1256.

143 Insegnamenti, III, p. 793.

144 Insegnamenti, VI, pp. 669-670.

145 Insegnamenti, V, pp. 122-123.

146 Insegnamenti, VII, p. 973.

147 Insegnamenti, VII, p. 974.

148 Insegnamenti, VIII, pp. 809-810.

149 Insegnamenti, X, p. 933.

150 Insegnamenti, XIII, pp. 892-893.

151 Traduzione nostra; testo francese in Insegnamenti, XII, pp. 895-896; cfr. Evangelii nuntiandi, § 41, in Insegnamenti, XIII, pp. 1458-1459; testo latino a p. 1402.

152 Evangelii nuntiandi, § 76, in Insegnamenti, XIII, pp. 1483-1484; testo latino alle pp. 1430-1432.

153 Insegnamenti, X, pp. 1168-1169. Cfr. anche il "Pensiero alla morte": "Né meno degno d’esaltazione e di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell’uomo: questo mondo immenso, misterioso, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità. È un panorama incantevole. Pare prodigalità senza misura. Assale, a questo sguardo retrospettivo, il rammarico di non averlo ammirato abbastanza questo quadro, di non aver osservato quanto meritavano le meraviglie della natura, le ricchezze sorprendenti del macrocosmo e del microcosmo. Perché non ho studiato abbastanza, esplorato, ammirato la stanza nella quale la vita si svolge? Quale imperdonabile distrazione, quale riprovevole superficialità! Tuttavia, almeno in extremis, si deve riconoscere che quel mondo, "che è stato fatto per mezzo di Lui", è stupendo. Ti saluto e ti celebro all’ultimo istante, sì, con immensa ammirazione; e, come si diceva, con gratitudine: tutto è dono. Dietro la vita, dietro la natura, I’universo, sta la sapienza, e poi, lo dirò in questo commiato luminoso (Tu ce l’hai rivelato, o Cristo Signore) sta l’amore! La scena del mondo è un disegno, oggi tuttora incomprensibile per la sua maggior parte, di un Dio Creatore, che si chiama il Padre nostro che sta nei cieli! Grazie, o Dio, grazie e gloria a Te, o Padre! In questo ultimo sguardo mi accorgo che questa scena affascinante e misteriosa e un riverbero, è un riflesso della prima ed unica luce, è una rivelazione naturale di una straordinaria ricchezza e bellezza, la quale doveva essere una iniziazione, un preludio, un anticipo, un invito alla visione dell’invisibile Sole "che nessuno ha mai visto"; "il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato" (Gv. 1,18). Così sia, così sia" (Paolo VI, Pensiero alla morte. Testamento. Omelia nel XV anniversario dell’incoronazione, Brescia 19882, pp. 24-25).

154 Paolo VI, Pensiero alla morte, p. 25.

155 Insegnamenti, X, p. 1169.

156 Insegnamenti, XIV, p. 261.

157 Insegnamenti, XII, p. 271.

158 Insegnamenti, VI, p. 305; testo latino alle pp. 294-295.

159 Insegnamenti, IX, pp. 374-375.

160 Insegnamenti, IX, p. 375.

161 Insegnamenti, X, p. 223.

162 Insegnamenti, VIII, pp. 225-226.

163 Insegnamenti, XI, pp. 856-857.

164 Insegnamenti, X, pp. 818-819.

165 Insegnamenti, VI, pp. 1024, 1026, 1027.

166 Insegnamenti, VI, p. 883.

167 Traduzione nostra; testo francese in Insegnamenti, IX, pp. 395-396.

168 Insegnamenti, XI, pp. 138-139.

169 Paolo VI, Pensiero alla morte, p. 25.

170 Insegnamenti, XII, p. 80.

171 Insegnamenti, VII, p. 1014.

172 Insegnamenti, VIII, p. 442.

173 Insegnamenti, IV, p. 762.

174 Insegnamenti, XI, pp. 144, 145.

175 Insegnamenti, XIV, pp. 615-616.

176 Insegnamenti, IV, p. 763-764

177 Insegnamenti, XI, p. 346.

178 Mysterium fidei, § 38, in Encicliche, p. 67.

179 Insegnamenti, VI, p. 306; testo latino a p. 295.

180 Evangelii nuntiandi, § 23, in Insegnamenti, XIII, pp. 1450-1451; testo latino alle pp. 1393-1394.

181 Traduzione nostra; testo spagnolo in Insegnamenti, XV, pp. 726-727.

182 Evangelii nuntiandi, § 47, in Insegnamenti, XIII, p. 1462; testo latino a p. 1406.

183 Cfr. Insegnamenti, II, p. 474.

184 "In questo momento in cui tutta l’umanità guarda a questa cattedra di verità, e a chi è stato chiamato a rappresentare in terra il divin Salvatore, non possiamo che rinnovare l’appello all’intesa leale, franca, volonterosa, che unisca gli uomini nel rispetto reciproco e sincero; l’invito a fare ogni sforzo per salvare l’umanità, favorirne il pacifico sviluppo dei diritti, datigli da Dio, e facilitarne la vita spirituale e religiosa, perchè sia portata all’adorazione più viva e sentita del Creatore. Non mancano segni incoraggianti, che Ci vengono dagli uomini di buona volontà: ne ringraziamo tanto il Signore, mentre offriamo a tutti la Nostra serena ma ferma collaborazione per il mantenimento del gran dono della pace nel mondo. Il Nostro pontificale servizio vorrà infine proseguire con ogni impegno la grande opera, avviata con tanta speranza e con auspicio felice dal nostro predecessore Giovanni XXIII: l’effettuazione di quell’"unum sint" (Io. 17,21), tanto attesa da tutti, e per cui egli ha offerto la vita L’aspirazione comune a reintegrare l’unità, dolorosamente infranta nel passato, troverà in Noi eco di fervida volontà e di commossa preghiera, nella coscienza dell’ufficio commessoCi da Gesù: "Simone, Simone... io ho pregato per te, affinchè la tua fede non venga meno: e tu... conferma i tuoi fratelli" (Luc. 22,31-32). Apriamo le Nostre braccia a tutti coloro che si gloriano nel nome di Cristo; li chiamiamo col dolce nome di fratelli; e sappiano che troveranno in Noi costante comprensione e benevolenza, troveranno a Roma la casa paterna, che sublima e avvalora con nuovo splendore i tesori della loro storia, del loro patrimoni culturale, della loro eredità spirituale" (testo latino in Insegnamenti, I, p. 6; traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 23 giugno 1963).

185 Cfr. Insegnamenti, II, pp. 30-34 (testo francese).

186 Evangelii nuntiandi, § 49, in Insegnamenti, XIII, p. 1464; testo latino a p. 1408; cfr. anche § 59, in Insegnamenti, XIII, p. 1471; testo latino alle pp. 1416-1417.

187 Cfr. Evangelii nuntiandi, § 50, in Insegnamenti, XIII, p. 1464; testo latino alle pp. 1408-1409.

188 Evangelii nuntiandi, § 50, in Insegnamenti, XIII, p. 1464; testo latino alle pp. 1408-1409.

189 Ecclesiam suam, §§ 101-102, in Encicliche, pp. 44-45.

190 Evangelii nuntiandi, § 52, in Insegnamenti, XIII, p. 1465; testo latino a p. 1409.

191 Evangelii nuntiandi, § 21, in Insegnamenti, XIII, pp. 1449-1450; testo latino a p. 1392.

192 Evangelii nuntiandi, § 51, in Insegnamenti, XIII, p. 1465; testo latino a p. 1409.

193 Evangelii nuntiandi, § 57, in Insegnamenti, XIII, p. 1469; testo latino a p. 1414.

194 Evangelii nuntiandi, § 46, in Insegnamenti, XIII, p. 1462; testo latino alle pp. 1405-1406.

195 Cfr. Insegnamenti, I, pp. 182-184 (traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963).

196 Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, I, Bologna 19.., pp. [297], [299], nn. 476*-480*; testo francese in Insegnamenti, III, pp. 749-750.

197 Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, I, pp. [299], [301], nn. 482*-485*; testo francese in Insegnamenti, III, pp. 751-752; cfr. il discorso di apertura della seconda sessione conciliare: "[La Chiesa] guarda alle guide dei popoli, e alle parole gravi e ammonitrici che la Chiesa deve loro sovente rivolgere sostituisce oggi una parola di incoraggiamento e di fiducia: coraggio, reggitori delle nazioni, voi potete dare oggi alle nostre genti molti beni di cui la vita ha bisogno; il pane, l’istruzione, il lavoro, l’ordine, la dignità di cittadini liberi e concordi, solo che conosciate veramente chi è l’uomo, e solo la sapienza cristiana ve lo può dire con luce completa; voi potete; insieme operando nella giustizia e nell’amore, creare la pace, questo massimo bene tanto sospirato e dalla Chiesa tanto difeso e promosso, e fare dell’umanità una città sola. Dio sia con voi!" (Insegnamenti, I, pp. 182-184; traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963).

198 Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, I, pp. [301], [303], nn. 487*, 489*-493*; testo francese in Insegnamenti, III, pp. 753-754; cfr. il discorso di apertura della seconda sessione conciliare: "[La Chiesa] guarda agli uomini della cultura, agli studiosi, agli scienziati, agli artisti; ed anche per questi la Chiesa ha grandissima stima e grandissimo desiderio di accogliere le loro esperienze, di confortare il loro pensiero, di tutelare la loro libertà, di aumentare gioiosamente nelle sfere luminose della Parola e della grazia divina la dilatazione del loro spirito tormentato" (Insegnamenti, I, pp. 182-184; traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963).

199 Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, I, p. [305], nn. 494*-499*; testo francese in Insegnamenti, III, p. 755.

200 Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, I, pp. [305], [307], [309], nn. 500*-510*; testo francese in Insegnamenti, III, pp. 756-757.

201 Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, I, pp. [309], [311], nn. 512*, 515*-517*; testo francese in Insegnamenti, III, pp. 758-759; cfr. il discorso di apertura della seconda sessione conciliare: "[La Chiesa] guarda ai lavoratori, alla dignità delle loro persone e delle loro fatiche, alla legittimità delle loro speranze, al bisogno di miglioramento sociale e di elevazione interiore che ancora tanto li affligge, alla missione che può essere loro riconosciuta, se buona, se cristiana, di creare un mondo nuovo, di uomini liberi e fratelli. La Chiesa, madre e maestra, è loro vicina!" (Insegnamenti, I, pp. 182-184; traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963).

202 Gaudete in Domino, in Insegnamenti, XIII, p. 460; testo latino alle pp. 433-434.

203 Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, I, pp. [311], [313], nn. 518*-524*; testo francese in Insegnamenti, III, p. 760; cfr. il discorso di apertura della seconda sessione conciliare: "La Chiesa [...] guarda ai poveri, ai bisognosi, agli afflitti, agli affamati, ai sofferenti, ai carcerati, cioè guarda a tutta l’umanità che soffre e che piange: essa le appartiene, per diritto evangelico; e ama ripetere a quanti la compongono: "Venite ad me omnes!" (Math. 11,28)" (Insegnamenti, I, pp. 182-184; traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963).

204 Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, I, pp. [313], [315], nn. 525*-531*; testo francese in Insegnamenti, III, pp. 761-762.

205 Evangelii nuntiandi, § 56, in Insegnamenti, XIII, p. 1468; testo latino a p. 1413.

206 Evangelii nuntiandi, § 56, in Insegnamenti, XIII, p. 1468; testo latino a p. 1413.

207 Evangelii nuntiandi, § 52, in Insegnamenti, XIII, p. 1465; testo latino a p. 1409.

208 Insegnamenti, V, pp. 786-787.

209 Evangelii nuntiandi, § 40, in Insegnamenti, XIII, p. 1458; testo latino alle pp. 1401-1402.

210 Evangelii nuntiandi, § 56, in Insegnamenti, XIII, p. 1469; testo latino a p. 1413.

211 Evangelii nuntiandi, § 40, in Insegnamenti, XIII, p. 1458; testo latino a p. 1401.

212 Ecclesiam suam, §§ 103-104, in Encicliche, p. 45.

213 Ecclesiam suam, § 104, in Encicliche, p. 45

214 Ecclesiam suam, § 107, in Encicliche, p. 46.

215 Ecclesiam suam, § 104, in Encicliche, pp. 45-46.

216 Ecclesiam suam, § 105, in Encicliche, p. 46.

217 Ecclesiam suam, § 109, in Encicliche, p. 48.

218 Cfr. Ecclesiam suam, § 109, in Encicliche, pp. 47-48.

219 Ecclesiam suam, § 105, in Encicliche, p. 46.

220 Cfr. Ecclesiam suam, § 106, in Encicliche, p. 46.

221 Ecclesiam suam, § 106, in Encicliche, p. 46.

222 Ecclesiam suam, § 107, in Encicliche, pp. 46-47.

223 Ecclesiam suam, § 109, in Encicliche, p. 48.

224 Ecclesiam suam, § 106, in Encicliche, p. 46.

225 Ecclesiam suam, § 108, in Encicliche, p. 47.

226 Evangelii nuntiandi, § 55, in Insegnamenti, XIII, pp. 1467-1468; testo latino alle pp. 1411-1413.

227 Gaudete in Domino, I, in Insegnamenti, XIII, pp. 453-454; testo latino alle pp. 425-426.

228 Gaudete in Domino, I, in Insegnamenti, XIII, pp. 454-455; testo latino alle pp. 426-428.

229 Traduzione nostra; testo latino in Insegnamenti, VII, pp. 164-165.

230 Ecclesiam suam, § 111, in Encicliche, pp. 48-49.

231 Traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963; testo latino in Insegnamenti, I, pp. 182-184.

232 Traduzione nostra; testo spagnolo in Insegnamenti, VI, p. 396.

233 Traduzione nostra; testo francese in Insegnamenti, XIII, pp. 30-31.

234 Traduzione nostra; testo francese in Insegnamenti, V, pp. 398-399.

235 Ecclesiam suam, § 112, in Encicliche, p. 49.

236 Africae terrarum, §§ 8-12, in Insegnamenti, V, pp. 604-605; testo latino alle pp. 580-582.

237 Insegnamenti, VIII, p. 1371; testo inglese a p. 1369.

238 Insegnamenti, VIII, p. 1372; testo inglese alle pp. 1369-1370.

239 Evangelii nuntiandi, § 53, in Insegnamenti, pp. 1465-1466; testo latino alle pp. 1409-1411.

240 Traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963; testo latino in Insegnamenti, I, pp. 177-178.

241 Traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963; testo latino in Insegnamenti, I, p. 178.

242 "Rendiamo grazie a Dio per averCi concesso di fare una visita di fraternità cristiana nel centro del Consiglio ecumenico delle Chiese. Che cos’è, infatti, il Consiglio ecumenico se non un meraviglioso movimento di cristiani, di "figli di Dio che erano dispersi" (Io. 11,52), e che sono ora alla ricerca di una ricomposizione nella unità?" (Insegnamenti, VII, pp. 398-399; testo francese a p. 395). Cfr. anche Ecclesiam suam, § 116: "Guardiamo con attento e sacro interesse i fenomeni spirituali, caratterizzati dal problema dell’unità, che muovono persone e gruppi comunità di viva e nobile religiosità" (Encicliche, p. 51).

243 Insegnamenti, VII, p. 399; testo francese a p. 396.

244 Insegnamenti, IV, p. 132; testo inglese alle pp. 130-131.

245 Evangelii nuntiandi, § 54, in Insegnamenti, XIII, p. 1467; testo latino a p. 1411.

246 Ecclesiam suam, § 113, in Encicliche, pp. 49-50.

247 Traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963; testo latino in Insegnamenti, I, pp. 179-180.

248 Ecclesiam suam, § 115, in Encicliche, p. 50.

249 Traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963; testo latino in Insegnamenti, I, pp. 178-179.

250 Traduzione nostra; originale francese in Insegnamenti, VII, p. 318.

251 Traduzione italiana in "L’Osservatore romano", 20 settembre 1963; testo latino in Insegnamenti, I, p. 179.

252 Insegnamenti, VII, p. 399; testo francese a p. 395.

253 Ecclesiam suam, § 114, in Encicliche, p. 50.

254 IP, V, pp. 553-554.

255 Insegnamenti, VII, p. 400; testo francese a p. 397.

256 Insegnamenti, IV, p. 133; testo inglese a p. 131.

257 Ecclesiam suam, §§ 117-120, in Encicliche, pp. 51-52.

258 Evangelii nuntiandi, § 54, in Insegnamenti, XIII, pp. 1466-1467; testo latino a p. 1411.

259 Insegnamenti, IX, pp. 811-813.

260 Insegnamenti, IX, pp. 813-815.

261 Insegnamenti, V, pp. 787-788.

262 Insegnamenti, XV, pp. 987-988; testo latino alle pp. 983-984.

263 Insegnamenti, XV, p. 988; testo latino a p. 984.

264 Insegnamenti, XV, p. 989; testo latino a p. 984.

265 Cfr. Evangelii nuntiandi, §§ 59-60, in Insegnamenti, XIII, pp. 1471-1472; testo latino alle pp. 1416-1418.

266 Evangelii nuntiandi, §§ 66-73, in Insegnamenti, XIII, pp. 1475-1481; testo latino alle pp. 1421-1427.

267 Evangelii nuntiandi, §§ 77-80, in Insegnamenti, XIII, pp. 1484-1489; testo latino alle pp. 1432-1437.

268 Evangelii nuntiandi, § 61, in Insegnamenti, XIII, pp. 1472-1473; testo latino a p. 1418.

269 Evangelii nuntiandi, § 76, in Insegnamenti, XIII, pp. 1483-1484; testo latino alle pp. 1430-1432.

270 Evangelii nuntiandi, § 61, in Insegnamenti, XIII, p. 1473; testo latino a p. 1418.

271 Evangelii nuntiandi, § 62, in Insegnamenti, XIII, p. 1473; testo latino alle pp. 1418-1419.

272 Evangelii nuntiandi, § 63, in Insegnamenti, XIII, pp. 1473-1474; testo latino alle pp. 1419-1420.

273 Evangelii nuntiandi, § 65, in Insegnamenti, XIII, p. 1475; testo latino a p. 1421.

274 Evangelii nuntiandi, § 65, in Insegnamenti, XIII, p. 1475; testo latino a p. 1421.

275 Evangelii nuntiandi, § 64, in Insegnamenti, XIII, pp. 1474-1475; testo latino alle pp. 1420-1421.

276 Evangelii nuntiandi, § 80, in Insegnamenti, XIII, p. 1489; testo latino a p. 1437.