La Filosofia Greca: Aristotele

Mario Trombino

 "Dopo quanto abbiamo detto, sarà bene indicare il numero e la natura dei vantaggi che è legittimo attendersi dal presente trattato. Ora, la dialettica consente di fare bene tre cose: tenere la mente in esercizio, dialogare con gli altri, fare ricerca filosofica".

Aristotele, Topici I

Quando Aristotele scrive il suo Protreptico - Platone era ancora vivo -, la tradizione che chiamiamo "filosofia" (1) era ormai ben consolidata. Non che avesse assunto una forma unificante: le ricerche di Platone e di Democrito, per citare i grandi esempi che egli ha davanti nel suo secolo, non erano riconducibili ad un comune denominatore né di contenuto né di metodo. Tuttavia Aristotele non ha alcuna difficoltà a definire filosofo l'uno e l'altro, e quando nel primo libro di quella che sarebbe divenuta la sua Metafisica si volge indietro ad elencare le posizioni dei suoi lontani e recenti predecessori sui problemi che sta esaminando, per imparare da loro e allo stesso tempo per imparare dai loro "errori", la storia che traccia è storia di qualcosa che ai suoi occhi ha una chiara identità: è la tradizione della filosofia (2).

Va quindi compreso perché quasi un terzo del corpus aristotelico che ci è rimasto sia dedicato ad una disciplina specifica - la zoologia -, in libri che nessuno oggi ascriverebbe alla filosofia. O perché la raccolta sistematica delle Costituzioni delle poleis greche sia per Aristotele filosofia e non soltanto diritto pubblico.

La difficoltà è chiaramente nostra, e deriva probabilmente dal fatto che l'identità della filosofia si è ai nostri occhi configurata in modo diverso dall'identità delle altre discipline - scientifiche, giuridiche e così via. Il punto è che per Aristotele la filosofia non è per nulla una disciplina accanto ad altre, ma coincide con la attività di ricerca di chi - esprimendo al meglio le potenzialità proprie dell'essere umano - dedica la propria vita alla conoscenza: conduce quella che Aristotele chiama "una vita teoretica" (3).

 

Mentre quindi le discipline che compongono il corpus aristotelico, la sua "enciclopedia filosofica", sono distinte in base a precisi parametri, e in particolare

 

 

- in base al loro oggetto

- e, di fondamentale importanza, in base ai loro princìpi,

 

 

la filosofia si caratterizza come un atteggiamento proprio dello spirito dell'uomo che indaga il mondo in cui vive e se stesso, in tutte le direzioni. E poiché questo atteggiamento è, agli occhi di Aristotele, razionale, egli non ha difficoltà a identificare come filosofiche tutte quelle posizioni del passato che si sono volte all'indagine sul mondo e sull'uomo sulla base di un atteggiamento razionale di fronte al proprio oggetto. E non ha difficoltà a identificare come filosofi gli uomini che guardano al mondo ed a se stessi con questo spirito: uomini che, seguendo la loro natura, conducono una vita teoretica (per quel che è possibile fare nell'alternarsi delle fortune e delle sorti).

Non vi è dubbio che questa concezione della filosofia sia profondamente diversa dalla nostra su questioni decisive. Ma allo stesso tempo non vi è dubbio che ci si espone al rischio di seri fraintendimenti del pensiero aristotelico se non si tiene conto di questa sua posizione. Ad esempio, Aristotele riprende l'antico spirito indagatore degli ionici - la loro "curiosità" e "meraviglia" verso il mondo naturale - quando interroga allevatori, cacciatori e pescatori e compila delle "schede di intervista" che utilizza poi per la sua Historia animalium (4). E un preciso rapporto lega queste ricerche "umili" alle alte riflessioni della metafisica, perché l'essere di cui si occupa la metafisica, le forme che identificano le cose, la materia di cui sono composte, insomma tutti i più complessi strumenti concettuali elaborati da Aristotele servono a comprendere il mondo, questo mondo, fatto anche di cinquecento specie animali, di cieli e terra, di uomini e cose, e idee e sensazioni, e vita politica e ricerca della felicità, e di tutto il resto.

Questo è il mondo e di questo mondo la filosofia indaga tutto - fin dove l'uomo può, con gli strumenti con cui può (5).

 

Questa concezione non fa della filosofia un generico sinonimo di conoscenza, o di scienza, o di altre espressioni generiche per indicare l'indeterminata sfera del sapere. C'è una profonda differenza di atteggiamento tra il pescatore - che si fa maestro di Aristotele quando viene "intervistato" - e il filosofo, benché entrambi abbiano un proprio "sapere": per quest'ultimo infatti non è sufficiente un sapere che descriva fatti, elenchi cose con i loro nomi; è necessario comprendere le cause per cui ogni cosa è come è, per cui ogni evento accade (6). La filosofia dunque si eleva sul sapere comune dell'uomo - per il quale, tuttavia, Aristotele ha evidentemente gran rispetto, se si volge a quest'uomo per imparare da lui - perché tenta di legare il fatto e l'evento alla rete di cause che tengono insieme il mondo. Il filosofo ha dunque un atteggiamento spirituale diverso rispetto all'uomo comune: il suo interesse non è pratico, nel senso che non è volto a conoscere le cose e il mondo per ragioni di lavoro, come diremmo oggi - tale è l'interesse del pescatore e del cacciatore, in quanto persone comuni che vivono di quel che pescano e cacciano -, ma per un fine più alto (sulla scala aristotelica dei valori): è un interesse teoretico.

Tuttavia, entrambi questi interessi - il pratico ed il teoretico - sono legati alla vita. Ad essi sono connesse due forme di vita - la vita pratica e la vita teoretica - e non è dunque possibile dire che la filosofia si disinteressa della concretezza dei bisogni degli uomini, non si preoccupa del denaro e del lavoro, ma opera su una sfera diversa. Diverso non è il suo mondo, diversa non è la vita in quanto tale: diversa è la direzione spirituale che essa prende, diverso è lo sguardo con cui il filosofo osserva il reale.

 

Si ponga mente, allora, alla differenza tra l'interrogare di Socrate e l'interrogare di Aristotele. Entrambi dialogano con l'uomo comune, e il loro atteggiamento è filosofico: Aristotele non ha difficoltà a riconoscere in Socrate, come in molti altri, l'identità del filosofo, di colui che indaga con libertà e razionalità per intendere il mondo e se stesso. Ma Socrate dialoga nella piazza facendo di ogni contenuto trattato (7) una sorta di pretesto per un acquisto di coscienza, una via per intendere il proprio sapere di non sapere (nel dialogo socratico ciascuno quindi impara da se stesso nel dialogo con l'altro, non impara dall'altro), e impara as "rendere migliore la propria anima"; Aristotele invece interroga per sapere dall'altro ciò che questi sa (chi interroga impara da chi risponde).

E tuttavia la ricerca non ha termine, perché il sapere non è una collezione di informazioni, ma una loro interpretazione alla ricerca delle cause. Dunque il filosofo non impara solo dagli altri, o dalla osservazione diretta, perché l'osservazione empirica e l'indagine su chi sa devono essere guidate da una precisa e rigorosa identificazione del proprio oggetto e dei problemi che vi sono connessi, definiti con rigore concettuale. La ricerca filosofica è allora orientata da un universo di pensieri filosofici - gli strumenti di una filosofia, alla cui definizione Aristotele dedica così grande attenzione - che permettano una corretta impostazione dei problemi (cosa cercare, dove, per intendere che cosa, e così via) e una interpretazione altrettanto corretta dei fatti.

Si prenda una coppia concettuale tipicamente aristotelica come materia e forma. Tutta la ricerca biologica ne viene illuminata, per esempio il rapporto tra l'organo e la funzione. Secondo Aristotele, i suoi predecessori "non avevano compreso la struttura fondamentale della realtà e dei processi naturali, cioè il rapporto fra materia e forma, tra necessità e finalità, e in concreto fra organo e funzione (nel quale il primo deve sempre essere pensato come subordinato e strumentale rispetto alla seconda). (…) Un'anima separata dal corpo impedisce di comprendere la natura stessa della vita: essa consiste, secondo Aristotele, nell'interazione fra una materia corporea e una struttura psichica che ne rappresenta le funzioni principali (…). La celebre definizione aristotelica dell'anima come "forma di un corpo dotato di organi" significava appunto questa stretta integrazione funzionale di anima e corpo senza la quale non si ha vita (…). "Lo studioso della natura dovrà parlare dell'anima più che della materia" (De part.an. I 1, 641 a) - ma, s'intende, non dell'anima "separata" alla maniera platonica, che risulterebbe inutile alla teoria dei processi vitali" (8).

 

Possiamo concludere da questo che la ricerca filosofica di Aristotele sia organizzata a partire da pochi strumenti concettuali e tutta la realtà sia ridotta ad essi quando si tenta di penetrarne le dinamiche, le ragioni e il senso? La risposta è complessa. Dobbiamo approfondire il discorso.

Aristotele infatti non è riduzionista. Se organizzare la ricerca sulla base di pochi strumenti concettuali significa ridurre la realtà in ogni sua manifestazione a pochi princìpi - comuni dunque a tutte le scienze che compongono l'enciclopedia -, allora dobbiamo ricordare che questa non è la posizione di Aristotele, per il quale i princìpi di una scienza non possono essere "ridotti" a quelli di un'altra. Aristotele conosceva bene questo tentativo, che aveva visto all'opera nell'Accademia dove Platone lavorava all'elaborazione di una dottrina dei princìpi che rendesse ragione dell'intera realtà.

"La scienza propriamente detta (episteme), che non è il semplice conoscere come stanno le cose, ma anche il capire perché stanno in un certo modo, cioè il conoscerne la causa o spiegazione, e il sapere che non possono stare diversamente, e quindi è un conoscere dotato di necessità, si serve della deduzione, anzi di un tipo speciale di deduzione, detta "dimostrazione" o anche "deduzione scientifica". Questa, secondo Aristotele, si distingue dagli altri tipi di deduzione perché muove da premesse vere, cioè effettivamente conformi alla realtà, anteriori e più note (per natura) rispetto alle conclusioni che ne derivano, e causa di queste, cioè capaci di spiegare effettivamente. Quando tali premesse sono anche prime, cioè non dimostrabili a partire da altre, esse si chiamano "princìpi" (Analitici secondi, I 2). I princìpi della dimostrazione, prosegue Aristotele, sono proposizioni che attribuiscono un solo predicato ad un solo soggetto (…) e glielo attribuiscono necessariamente, cioè come predicato effettivamente contenuto nella nozione, ovvero nell'essenza, del soggetto (…). Di conseguenza i princìpi della dimostrazione devono essere "propri", cioè appropriati ad un certo soggetto, che forma l'oggetto di una determinata scienza, per esempio i numeri nel caso dell'aritmetica o le grandezze nel caso della geometria. (…) Il carattere proprio dei princìpi di una scienza fa sì che la dimostrazione non possa passare da un genere all'altro (…). Conseguenza di ciò è il fatto che le diverse scienze non possono avere tutte gli stessi princìpi: se infatti gli oggetti di cui le scienze si occupano appartengono a generi diversi - il che per Aristotele è fuori discussione, perché non esiste un genere unico comprendente tutti gli altri -, i princìpi propri a tali oggetti saranno necessariamente diversi (Analitici secondi, I 32). Ciò significa che le scienze sono necessariamente molte e irriducibili tra loro, e che non esiste una scienza unica, comprendente in sé tutte le altre. (…) E' evidente in questa dottrina l'atteggiamento critico nei confronti di Platone, il quale ammetteva una scienza sinottica, la dialettica appunto, consistente nella conoscenza dei princìpi di tutte le cose" (9).

Ora, la ricerca filosofica ha raramente a che fare con scienze i cui princìpi siano pochi, certi e tutti noti. Anzi, soltanto le scienze teoretiche propriamente dette (metafisica, fisica e matematica) si trovano in una situazione di questo tipo (sia pure in gradi diversi). In tutto l'ambito delle scienze pratiche e delle scienze poietiche, invece, questi princìpi o sono noti in parte, o sono incerti, e non è dunque possibile una "deduzione scientifica". Ci si trova in situazioni comuni, di fronte alle quali la ricerca non può fermarsi.

Per Aristotele i princìpi delle scienze non sono noti per un atto di intuizione intellettuale, e dunque di conoscenza immediata, ma sono il frutto di una indagine lungamente mediata dall'osservazione e dalla raccolta delle informazioni: è il processo che Aristotele chiama induzione - il passaggio dalla percezione del caso singolo alla conoscenza dell'universale - a condurre alla conoscenza dei princìpi di una scienza. Da questi princìpi è poi possibile costruire l'esposizione della scienza disponendo deduttivamente il sapere secondo il rigore necessario alla identificazione della necessità che ogni cosa sia come sia, ogni fatto possa essere spiegato, ogni effetto ricondotto alla rete di cause che lo hanno determinato.

L'esposizione della scienza mediante una deduzione siffatta - e quindi il sillogismo come strumento della "dimostrazione" - non è quindi da confondere con la ricerca dei princìpi della scienza. Ricerca filosofica ed esposizione filosofica divergono quindi su un punto essenziale: la ricerca muove dalla osservazione diretta o indiretta (cioè dalla esperienza sensibile volta all'osservazione al fine di raccogliere i dati e il sapere degli esperti - su cui torneremo a proposito degli endossa - ordinatamente raccolto e analizzato); l'esposizione muove dai princìpi.

Dunque le scienze non possono essere ridotte a pochi princìpi ed una esposizione deduttiva di tutta la conoscenza filosofica non è possibile.

 

Tuttavia, alla domanda che avevamo prima posto - se la ricerca filosofica di Aristotele sia organizzata a partire da pochi strumenti concettuali e tutta la realtà sia ridotta ad essi quando si tenta di penetrarne le dinamiche, le ragioni e il senso - è possibile dare una risposta positiva, a patto di intendere come momento unificante non alcuni princìpi, ma

 

 

- l'atteggiamento di ricerca proprio del filosofo (la "vita teoretica")

- il metodo di indagine.

 

 

E' chiaro infatti che le ricerche di Aristotele sono unificate dal fatto di essere tutte - e non solo quelle relative alle scienze teoretiche - ricerche filosofiche, perché uno è lo spirito di ricerca che le anima; ed inoltre esse hanno un comune denominatore nel metodo, perché tutte utilizzano determinati assiomi la cui validità è universale, per esempio il principio di non contraddizione" e il "principio del terzo escluso" (il termine principio vale qui come "assioma", ed ha quindi un senso diverso da una dottrina dei princìpi sul modello platonico, come più su precisato), ed anche da assiomi la cui validità riguarda solo alcune scienze, non tutte (10).

 

Una particolare forma di metodo di ricerca filosofica, da ricollegare al principio induttivo del passaggio dal caso particolare alla conoscenza dell'universale, è data dalla dialettica, così come Aristotele la definisce nei Topici, e più esattamente nel Libro I. Eccola pagina iniziale, che riportiamo integralmente perché è centrale per il nostro argomento:

 

"Questa ricerca si propone di trovare un metodo che ci renda capaci di ragionare deduttivamente, a partire da endossa, su tutti i temi che ci si possono presentare; così quando dovremo affrontare un argomento non diremo nulla che sia contrario. Ora, per poter comprendere la natura della deduzione dialettica dobbiamo cominciare col dire che cos’è un ragionamento deduttivo e quali tipi ve ne siano. E’ questo l’oggetto specifico delle ricerche condotte in questa nostra indagine.

Un ragionamento deduttivo è una forma di argomentazione in cui, poste alcune cose, ne deriva necessariamente una cosa diversa da quelle che sono state poste, per il fatto stesso che sono state poste.

Si tratta di un dimostrazione quando i punti di partenza della deduzione sono affermazioni vere e prime, o almeno affermazioni che conosciamo perché derivano da certe affermazioni prime e vere; si tratta invece di una deduzione dialettica quando i punti di partenza della deduzione sono endossa.

Sono vere e prime le affermazioni che ci convincono di per sé, non perché siano fondate su qualche altro ragionamento (infatti, quando ci troviamo di fronte ai prìncipi primi della conoscenza non possiamo porre ulteriormente la domanda sul loro fondamento: ciascuno di essi, in sé considerato, deve essere totalmente convincente); sono invece endossa le opinioni condivise da tutti gli uomini, o quasi da tutti, o da coloro che consideriamo più autorevoli e, tra questi ultimi, condivise da tutti o quasi, o da coloro di cui abbiamo ragione di fidarci di più (11).

Una deduzione, poi, è eristica quando prende come punto di partenza idee che hanno l’aria di essere degli endossa, ma non lo sono realmente; la deduzione eristica, quindi, ha l’aria di essere una deduzione dialettica, ma non lo è affatto. Non possiamo infatti pensare che tutto ciò che ci si presenta come endossa lo sia davvero: non abbiamo elementi per riconoscere a prima vista gli endossa autentici, mentre il ragionamento eristico pretenderebbe di farlo. In questo tipo di ragionamento, quindi, la natura dell’inganno è subito chiara con grande evidenza soltanto se si è in grado di osservare le cose molto per il sottile. Delle due forme qui distinte possiamo chiamare la prima deduzione eristica, ma allo stesso tempo anche deduzione dialettica vera e propria, mentre chiameremo la seconda deduzione eristica, ma non anche deduzione dialettica, perché sembra esserlo ma non lo è affatto. (…)

Dopo quanto abbiamo detto, sarà bene indicare il numero e la natura dei vantaggi che è legittimo attendersi dalla nostra indagine. Ora, la dialettica consente di fare bene tre cose: tenere la mente in esercizio, dialogare con gli altri, fare ricerca filosofica.

Che la dialettica possa servire a tenere la mente in esercizio deriva dalla sua natura: infatti una volta imparato il metodo possiamo più facilmente ragionare su qualsiasi argomento ci si presenti.

E’ utile per dialogare con gli altri perché ci rende capaci di conoscere a fondo le opinioni degli uomini: e così quando parleremo con le altre persone per convincerle a rinunciare ad affermazioni che ci sembrano del tutto inaccettabili, non partiremo da convinzioni che sono loro estranee, ma partiremo proprio dalle loro idee.

Che la dialettica sia utile per fare ricerca filosofica deriva da questo, che con essa diveniamo capaci di mettere in luce una aporia argomentando in una direzione e nell’altra, e saremo quindi in grado di distinguere su ciascun argomento il vero e il falso.

La dialettica, poi, può esserci di utilità anche in un’altra cosa, a proposito delle nozioni prime di ciascuna scienza. E’ impossibile infatti dire su che cosa si fondino i princìpi specifici di una scienza che vogliamo studiare, perché i princìpi sono proprio ciò che viene prima di ogni altra cosa per quella scienza: devono quindi essere definiti a partire dagli endossa. Questo compito è proprio della dialettica, o almeno è soprattutto della dialettica: infatti la sua vocazione alla ricerca la rende adatta a studiare i princìpi di tutte le scienze" (12).

 

Nel tradurre il testo greco abbiamo lasciato non tradotto il termine endoxon (pl. endossa), perché non ha un corrispettivo diretto in italiano e richiede quindi una perifrasi per essere tradotto; si tratta però di uno di quei termini tecnici che richiedono una precisa definizione e devono essere identificati attraverso una parola o una espressione codificata, che in italiano manca.

Aristotele stesso definisce in questa pagina che cosa si debba intendere per endossa: si tratta delle "opinioni condivise da tutti gli uomini, o quasi da tutti, o da coloro che consideriamo più autorevoli e, tra questi ultimi, condivise da tutti o quasi, o da coloro di cui abbiamo ragione di fidarci di più". Quando si sta conducendo una ricerca su un tema, mediante il dialogo con altre persone, il punto di partenza non è abitualmente dato da princìpi certi ("affermazioni vere e prime") ma da opinioni, che possono essere di vario tipo. Endossa sono le opinioni ben ponderate delle persone autorevoli, di coloro di cui ci fidiamo: opinioni condivise. Se si avessero a disposizione princìpi certi non avrebbe senso discutere - cioè far ricerca - a partire da endossa, perché il fatto che una opinione sia condivisa e ben fondata non significa affatto che sia vera e che su di essa si possa fondare una deduzione, e quindi costruire una conoscenza scientifica. Ma la situazione nella quale si trova l'uomo in campi che non siano quelli di scienze - come la matematica, che hanno a disposizione "affermazioni vere e prime" - è quella di dover comunque muovere da qualcosa: la dialettica è allora quella particolare forma di ragionamento - utile alla ricerca filosofica - che approfondisce l'indagine sugli endossa, presi come punto di partenza del ragionamento, in modo da dedurre da essi conseguenze che sciolgano le aporie e facciano progredire la conoscenza (13).

 

La dialettica quindi in Aristotele (14) ha un significato profondamente diverso che in Socrate e in Platone. In schema:

 

 

- la dialettica socratica permette una elevazione della consapevolezza della coscienza sul proprio sapere mediante il confronto con l'altro, per cui ciascuno impara da se stesso mediante il confronto con l'altro, in uno sforzo essenzialmente di elevazione morale, di formazione di sé di fronte alla situazione umana di incertezza sulla verità;

- la dialettica platonica, nei dialoghi della maturità, è presentata come un metodo di ricerca della verità, sul fondamento del principio che nella mente vi sia la possibilità di accedere alla conoscenza dell'intelligibile (secondo lo schema dell'Eros del Simposio e del "mito della caverna" della Repubblica), sia pur nei limiti della situazione umana - sottoposti al dominio del tempo cerchiamo una verità fuori dal tempo -; nel Sofista è presentata come una tecnica di chiarificazione concettuale, poiché si rivela capace di porre ordine tra le idee e di definirne le loro relazioni strutturali; nelle dottrine non scritte si presenta, secondo la testimonianza di Aristotele, come la via cui l'anima giunge alla contemplazione dei princìpi primi della realtà;

- la dialettica aristotelica è una tecnica di ragionamento che, mediante la derivazione dagli endossa delle loro conseguenze e mediante l'indagine razionale su di esse - argomento contro argomento - permette alla ricerca di avanzare entro gradi variabili (visto che in molti casi, per esempio ai fini pratici o produttivi, può essere accettabile un grado molto inferiore di comprensione e di dettaglio rispetto a quanto è richiesto nelle scienze teoretiche).

 

 

Nel passo prima citato Aristotele ne conclude che compito della dialettica (non in via esclusiva: "è soprattutto della dialettica"), anzi, sua vocazione, è studiare i princìpi di tutte le scienze. E infatti questi princìpi, come prima notavamo, per Aristotele non ci sono noti per un atto di intuizione intellettuale, ma sono il frutto di lunghe deduzioni a partire da elementi empirici (fatti, opinioni, casi osservati, ecc.) che induttivamente ci portano alla comprensione di quei princìpi di una scienza a partire dai quali è possibile una deduzione scientificamente corretta: che sarà dimostrazione nel caso che i princìpi che la ricerca ha definito per una scienza siano affermazioni vere e prime; sarà deduzione dialettica nel caso in cui i princìpi che la ricerca ha definito siano endossa.

 

Dal punto di vista della ricerca didattica in filosofia è particolarmente importante - per le conseguenze che possono derivarne ai fini della determinazione di metodologie di lavoro filosofico che ripropongano i metodi di ricerca filosofica dei grandi filosofi del passato - la tesi che la dialettica abbia diverse funzioni e due non siano legate alla ricerca vera e propria, ma all'esercizio della mente e all'acquisizione di un metodo per dialogare con gli altri. Secondo le parole di Aristotele,

"che la dialettica possa servire a tenere la mente in esercizio deriva dalla sua natura: infatti una volta imparato il metodo possiamo più facilmente ragionare su qualsiasi argomento ci si presenti. E’ utile per dialogare con gli altri perché ci rende capaci di conoscere a fondo le opinioni degli uomini: e così quando parleremo con le altre persone per convincerle a rinunciare ad affermazioni che ci sembrano del tutto inaccettabili, non partiremo da convinzioni che sono loro estranee, ma partiremo proprio dalle loro idee."

E' quindi possibile elaborare, su base aristotelica, metodi di lavoro filosofico in aula fondati su questi due princìpi:

 

 

- una volta imparato il metodo proposto da Aristotele, descritto nel dettaglio soprattutto nei Topici, possono essere proposte forme di lavoro filosofico in aula che ripropongano l'indagine sugli endossa, acquisendo così da Aristotele non un contenuto dottrinale, ma uno strumento di lavoro filosofico, utile a "tenere la mente in esercizio";

- poiché la dialettica aristotelica muove dalle opinioni condivise e ben fondate, essa può essere utilizzata per approfondire la nostra conoscenza delle "opinioni degli uomini" in modo da imparare come dialogare con gli altri per giungere insieme ad abbandonare affermazioni che, alla fine del lavoro dialettico svolto insieme, ci appariranno "del tutto inaccettabili" (15).

 

 

Non ci resta che concludere con una riflessione sulle forme di comunicazione filosofica che Aristotele ha utilizzato. Su questo punto le vicende travagliate degli scritti di Aristotele non ci permettono uno studio altrettanto rigoroso di quello che è possibile fare sui dialoghi di Platone. Noi non possediamo, infatti, i suoi scritti destinati alla pubblicazione. Le opere che sono giunte fino a noi sono definite tradizionalmente con il termine "trattato", ma è termine che va precisato e applicato alla particolare natura di questi scritti (16).

Essi mantengono un singolare rapporto con l'oralità, perché in molti casi si tratta di lezioni che espressamente prevedono per essere intese la presenza di un pubblico (per i riferimenti che Aristotele fa a persone o cose) o di schemi e sintesi che lasciano pensare agli appunti che chi parla in pubblico prende per seguire il filo di un discorso che andrà svolto oralmente.

Ma soprattutto negli scritti aristotelici non si trova quella sistematizzazione della materia che oggi associamo al termine "trattato", che concepiamo come un testo di sintesi in cui una materia è svolta ordinatamente secondo una connessione che non è quella della ricerca, ma quella della esposizione razionale, che procede per dimostrazioni. E modelli di trattati siffatti nel mondo antico - e proprio in connessione con le forme di esposizione filosofica teorizzate da Aristotele negli Analitici - ci sono ben noti, ad esempio con gli Elementi di Euclide.

Gli scritti di Aristotele non ci mostrano invece questa forma di esposizione filosofica - di esposizione scientifica mediante il sillogismo. Ci mostrano piuttosto il procedimento della ricerca, le tappe di un cammino percorso per giungere a quei princìpi che, per le varie scienze, permettono la deduzione razionale.

Non possiamo quindi dire quale fosse la forma di comunicazione filosofica specifica di Aristotele. Sappiamo che ha scritto dialoghi, ma non ci sono pervenuti che per scarsi frammenti, di stile assai diverso dagli scritti che abbiamo. Ciò che abbiamo è il materiale di un ricercatore, che nel vivo della comunicazione dialettica lavorava con altri, allievi, collaboratori e filosofi suoi interlocutori.

 

Note

(1) Eccone una definizione nel corso di una celebre argomentazione del Protreptico: "Inoltre c'è una differenza tra le scienze che producono le singole cose che sono di vantaggio nella vita e quelle che di queste cose fanno uso; e c'è differenza fra quelle che servono e quelle che comandano; in queste ultime, per il fatto che sono più atte a guidare, risiede il bene nel senso più proprio. Se dunque la scienza che possiede il retto criterio per giudicare, che fa uso della ragione e che specula sul bene nella sua totalità, cioè la filosofia, è capace di usare tutte le altre e di comandare in conformità con la natura, si deve in tutti i modi filosofare, perché solo la filosofia contiene in se stessa il retto giudizio e la sapienza capace di comandare in modo infallibile" (Esortazione alla filosofia, trad. it. di E. Berti, Il tripode, Napoli 1994)

(2) Quasi all'inizio del Libro I, dopo avere enunciato la dottrina delle quattro cause, Aristotele scrive: "Queste cause sono state da noi studiate adeguatamente nella Fisica, tuttavia dobbiamo prendere in esame anche coloro che prima di noi hanno affrontato lo studio degli esseri ed hanno filosofato intorno alla realtà. E' chiaro infatti che anch'essi parlano di certi princìpi e di certe cause. Ora, il rifarsi ad essi sarà certo di vantaggio alla presente trattazione: infatti, o troveremo qualche altro genere di causa, oppure acquisteremo più salda credenza nelle cause di cui ora si è detto" (trad. it. G. Reale). Ha così inizio la ricostruzione delle opinioni dei filosofi precedenti e la esposizione delle loro osservazioni e delle loro ragioni. Ora, questa ricostruzione ha un'importanza storica per certi versi decisiva, perché è in queste pagine che, in rapporto alla tradizione, Aristotele traccia il filo rosso della identità della tradizione filosofica distinta da altre forme di conoscenza quali la poesia, il mito, la teologia. La nostra lettura delle origini della filosofia ne è rimasta profondamente influenzata.

Si osservi che per Aristotele la raccolta delle opinioni dei filosofi precedenti si inquadra in un metodo di lavoro abituale: "La scuola di Aristotele si dedica a un'immensa caccia all'informazione in tutti i campi. Viene raccolta ogni sorta di dati storici (ad esempio la lista dei vincitori dei giochi Pitici), sociologici (le costituzioni delle diverse città), psicologi e filosofici (le opinioni dei vecchi pensatori). Si raccolgono anche innumerevoli osservazioni zoologiche e botaniche. Questa tradizione rimarrà in auge nel corso degli anni nella scuola aristotelica. Questi materiali non sono però destinati a soddisfare una fatua curiosità. Il ricercatore aristotelico non è un semplice collezionista di fatti. Questi ultimi vengono raccolti solo per consentire dei paragoni e delle analogie, stabilire una classificazione dei fenomeni, farne intravedere le cause, un una stretta collaborazione tra osservazione e ragionamento nell'ambito della quale, d'altronde, dice Aristotele, è necessario fidarsi più dell'osservazione dei fatti che dei ragionamenti, e dei ragionamenti solo nella misura in cui corrispondono ai fatti osservati. E' quindi incontestabile che la vita dello spirito, per Aristotele, consiste in gran parte nell'osservare, nel ricercare e nel riflettere su queste osservazioni" (P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, trad. it. di E. Giovanelli, Einaudi, Torino 1998, p. 81).

(3) "Emerge così che per Aristotele la filosofia consiste in un modo di vita "teoretico". A questo proposito è importante non confondere "teoretico" con "teorico". Teorico è una parola che ha sì un'origine greca, ma che non compare nel pensiero di Aristotele, e che significava, in tutt'altro registro da quello filosofico, "ciò che si riferisce ai procedimenti". Nel linguaggio moderno "teorico" si oppone a "pratico" in quanto astratto, speculativo, in contrapposizione a ciò che ha a che fare con l'azione la concretezza. Sarà dunque lecito, in questa prospettiva, contrapporre un discorso filosofico puramente teorico a una vita filosofica praticata e vissuta. Aristotele stesso non utilizza che la parola "teoretico" e la utilizza per indicare da una parte il modo di conoscenza che ha come scopo il sapere per il sapere e non un fine esterno a se stesso e, dall'altra parte, il modo di vita che consiste nel consacrare la vita a questo modo di conoscenza. In quest'ultimo senso, "teoretico" non si oppone a "pratico"; in altre parole, "teoretico" può essere applicato a una filosofia praticata, vissuta, attiva, apportatrice di felicità" (ib. p. 79-80).

(4) "Per quanto riguarda specificamente le conoscenze sugli animali, il successo dell'impresa di Aristotele derivava in buona parte dalla sua decisione - segno di una straordinari apertura intellettuale - di uscire dal campo dei saperi "alti" e scritti, per interpellare direttamente i più diretti depositari di quelle conoscenze, per quanto umile potesse essere la loro condizione sociale e culturale: gli allevatori, i pescatori, i cacciatori, i macellai. Dalla loro esperienza pratica veniva ad Aristotele buona parte delle conoscenze sulle circa cinquecento specie animali che egli menziona nel corpus degli scritti biologici: la morfologia, i comportamenti etologici, la riproduzione e la crescita, la struttura degli organi interni (gran parte di quelle specie sono infatti di animali commestibili). La Historia animalium è basata su "schede di intervista" che Aristotele raccolse da questi esperti del mondo animale (in particolare dell'area dell'arcipelago ionico e dell'entroterra macedone), assai più che sulle sue osservazioni dirette" (M. Vegetti, Biologia, in Guida ad Aristotele, a cura di E. Berti, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 175)

(5) Hadot parla di "una passione quasi religiosa per la realtà in tutti i suoi aspetti" (P. Hadot, Che cos'è la filosofia antica?, cit., p. 81).

(6) Così Aristotele in apertura del Libro I della Metafisica: "E tuttavia, noi riteniamo che il sapere e l'intendere siano propri più all'arte che all'esperienza, e giudichiamo coloro che possiedono l'arte più sapienti di coloro che possiedono la sola esperienza, in quanto siamo convinti che la sapienza, in ciascuno degli uomini, corrisponda al loro grado di conoscere. E, questo, perché i primi sanno la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la causa" (trad. it. G. Reale).

(7) Anche Socrate dialoga di cose quotidiane, o almeno ne ha l'aria, secondo la tradizione, e da quelle muove nel suo dialogare.

(8) M. Vegetti, Biologia, in Guida ad Aristotele, cit., pp. 176-177.

(9) E. Berti, Introduzione a Guida ad Aristotele, cit., pp. 35-37.

(10) "Oltre ai princìpi propri, osserva tuttavia Aristotele, ogni scienza si serve anche di princìpi comuni, detti "assiomi" (cioè proposizioni degne di essere ammesse per la loro intrinseca evidenza). Questi possono essere comuni a tutte le scienze o comuni soltanto ad alcune. Comuni soltanto ad alcune scienze sono princìpi quali, ad esempio, "sottraendo uguali da uguali si ottengono uguali", che vale per tutte le scienze aventi a che fare con quantità. Comuni a tutte le scienze, anzi a qualsiasi proposizione, sono invece il principio per cui "non è possibile affermare ed al tempo stesso negare un medesimo attributo di un medesimo soggetto", detto poi "principio di non-contraddizione", ed il principio per cui "di un soggetto un qualsiasi attributo deve essere o affermato o negato", detto poi "principio del terzo escluso"" (E. Berti, Introduzione a Guida ad Aristotele, cit., p. 37)

(11) Vi sono quindi gradi diversi tra queste "opinioni condivise" e, naturalmente, il fatto che siano condivise non implica di per sé che siano vere.

(12) Aristotele, Topici, I, 1-2 (trad. di M. Trombino).

(13) E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 34 ss.

(14) "Aristotele infine teorizzò, nei Topici, il complesso di regole della dialettica e mostrò, negli Elenchi sofistici, il cattivo uso di esse fatto dai Sofisti. Ma il contributo di Aristotele, rispetto a Platone, fu anche un altro, cioè fu la distinzione della dialettica dalla filosofia, e quindi l'ammissione sia di una dialettica non scientifica, sia di scienze non dialettiche, quali sono appunto le matematiche. Tale distinzione fu resa possibile ad Aristotele dalla distinzione più generale, da lui ugualmente introdotta, tra i diversi possibili usi della stessa dialettica: 1) quello personale, cioè come esercizio intellettuale, 2) quello pubblico, nelle assemblee politiche e giudiziarie, e 3) quello scientifico, o filosofico (Top. I 2, 101 a 25-b 4).

Sono possibili usi diversi della dialettica perché questa, secondo Aristotele, parte non da princìpi necessariamente veri, ma semplicemente da premesse condivise, i famosi èndoxa, che sono i pareri degli esperti, i quali non possono essere rifiutati dal proprio interlocutore, pena il rischio per lui di rendersi ridicolo al pubblico, e dunque consentono di confutarlo col suo stesso consenso. In tal modo la dialettica può essere applicata a qualsiasi tema, dunque può essere usata in qualsiasi contesto, a condizione che ci sia un interlocutore disposto a sostenere una propria tesi rispondendo a delle domande, cioè "rendendone ragione". Tra questi usi è anche quello filosofico, cioè quello che si applica a problemi di logica, di fisica e di etica (Top. I 14, 105 b 19-25), perché, dice Aristotele "se saremo capaci di sviluppare un'aporia in entrambe le direzioni possibili (pròs amphòtera diaporesai), scorgeremo più facilmente il vero ed il falso in ciascuna di esse" (I 2, 101 a 34-35), e perché "essendo i princìpi le proposizioni prime fra tutte", cioè non essendo dimostrabili, "è necessario discutere intorno ad essi sulla base degli èndoxa concernenti ciascuna cosa", il che è proprio della dialettica (101 a 39-b 2)" (E. Berti, Il procedimento logico formale e l'argomentazione retorica).

(15) Questa riflessione - che sia possibile elaborare forme di lavoro filosofico che ripropongano la dialettica aristotelica come metodo di esercizio della mente e di retta conduzione del dialogo sulle opinioni degli uomini - è per il momento soltanto una linea di ricerca in sede di didattica teorica della filosofia. Non vi sono ancora studi approfonditi in merito.

(16) Per una ricostruzione della questione relativa al corpus aristotelico si veda E. Berti, Introduzione a Guida ad Aristotele, cit., pp. 12 ss.