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Dottrina sociale della Chiesa

e spiritualità

José Luis Illanes

Facoltà di Teologia, Università di Navarra

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Il progresso storico e sociale - afferma Giovanni Paolo II verso la fine dell’enciclica Laborem Exercens - presuppone un’adeguata comprensione dell’uomo e, più concretamente, del suo agire e, pertanto del suo lavoro. Da qui egli deduce una conclusione, che formula in termini molto chiari: la dottrina sul problema del progresso e dello sviluppo esposta nei capitoli precedenti dell’enciclica può, di conseguenza, essere intesa "solamente come frutto di una provata spiritualità del lavoro umano, e solo in base a una tale spiritualità essa può essere realizzata e messa in pratica". Non solo l’azione sociale concreta, ma la medesima comprensione delle realtà sociali e, di conseguenza, la Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) sono messe in relazione - in modo non solo deciso, ma radicale - con la spiritualità.

A dire la verità questa relazione è biunivoca o bidirezionale. Implica, in effetti, non solo che la esperienza spirituale si riversi nella comprensione della DSC e nella sua prassi effettiva - questione a cui si riferisce direttamente il testo della Laborem Exercens -, ma anche che quest’ultima, vale a dire la DSC, incida sulla spiritualità. Converrà, dunque, analizzare entrambe le dimensioni del problema, facendo a questo riguardo riferimento, anche se brevemente - giacché può contribuire a manifestare la sua portata ed il suo senso -, ai processi storico-intellettuali che hanno condotto ad una loro chiara presa di coscienza.

 

La Dottrina Sociale della Chiesa, dimensione dell’esperienza spirituale cristiana.

Superando approcci meramente devozionali o predominantemente ascetici e psicologici, la teologia delle prime decadi del nostro secolo ha promosso una comprensione decisamente teologale della spiritualità e di quanto si relaziona con essa. L’esperienza spirituale cristiana non è, in effetti, altro che l’espansione o lo sviluppo della vita comunicata con il battesimo, vale a dire la vita della Grazia. Devozioni, esercizi o mezzi ascetici, processi psicologici, occupano un posto secondario e, in più di un aspetto, derivato o accessorio rispetto al nucleo centrale: la realtà della comunicazione di Dio e la chiamata ad una crescita in unione con Lui che deriva da questa comunicazione. Filiazione a Dio Padre, identificazione con Cristo, docilità allo Spirito Santo sono coordinate strutturali dell’esperienza spirituale cristiana.

Questa riaffermazione del nucleo teologale dell’esperienza cristiana, portò con sé come logica conseguenza, più che metodo e condizionamenti interiori o esteriori, una parallela valorizzazione dell’esistenza concreta, con la totalità delle circostanze e delle realtà che la integrano, in quanto luogo o ambito, più ancora, dimensione, della risposta personale da parte di ogni singolo cristiano alla chiamata divina. E, di conseguenza, una nuova comprensione del mondo, visto non tanto come ostacolo, come l’insieme di occupazioni e affanni che, nell’attrarre l’attenzione, distraggono dalla comunicazione con Dio, ma, invece, come compito, come realtà che Dio affida all’uomo e che l’uomo deve assumere, incorporandola all’interno della propria vita cristiana e teologale.

Questo progetto, che si ripercuote in tutta la spiritualità o in tutta la vita cristiana, ha, come è ovvio, particolare incidenza nell’esperienza laicale, poiché il laico, il cristiano comune, non solo vive nel mondo, ma la sua stessa esistenza è profondamente intrecciata con il mondo e l’insieme delle realtà che lo conformano e definiscono: famiglia, professione, lavoro, economia, politica, ecc. A dir la verità la presa di coscienza del valore cristiano della condizione laicale fu, insieme ad altri, un fattore determinante per questa nuova comprensione della vita spirituale alla quale ci stiamo riferendo. In ogni caso, e al di là delle considerazioni storiche, è un fatto che la percezione della intima connessione tra la spiritualità e la vita segna profondamente e perfino specifica la vita spirituale del laico, fino a poter dire, con una frase del beato Josemaria Escrivà, che è chiamato a "santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro e santificare gli altri nel lavoro".

Santificare il lavoro professionale e, di conseguenza, la vita ordinaria con tutto quello che comporta, forma, quindi, una sola cosa con il compimento dei doveri del proprio stato e della propria condizione, con il pieno ed efficace compimento della propria e personale missione umana. Lo sviluppo della spiritualità laicale integra così nella propria dinamica questa chiamata a strutturare nella giustizia le realtà sociali, economiche e politiche da cui sorge ad è nello stesso tempo ordinata la DSC. Non è strano quindi che una delle proposte elaborate al Sinodo dei Vescovi sulla vocazione e missione dei laici del 1987 suggerisse di menzionare, come elemento integrante della spiritualità laicale, la DSC. La Christifideles laici, Esortazione apostolica promulgata da Giovanni Paolo II dopo quel Sinodo, non cita letteralmente questa affermazione, ma il suo spirito sì, sottolineando, da una parte, che il fedele laico è chiamato a santificarsi nel mondo e prendendo occasione dal mondo, e ancor più, che può rispondere alla sua vocazione divina solo se considera le "attività della vita quotidiana come occasione di unione con Dio e di compimento della sua volontà"; e proclamando, dall’altra, che per conseguire questa unità tra lo spirituale e l’umano che le è caratteristica, necessita di una formazione nella quale deve essere presente, come elemento "del tutto indispensabile", una "conoscenza più esatta della Dottrina Sociale della Chiesa".

 

L’esperienza spirituale, elemento caratterizzante la Dottrina Sociale della Chiesa.

Se la DSC ha relazioni con la vita spirituale, allo stesso modo l’esperienza spirituale influisce, e sicuramente in modo decisivo, sulla DSC. A questo aspetto della realtà, si riferisce in modo diretto il testo della Laborem exercens che abbiamo citato all’inizio: solo come frutto di "una provata spiritualità del lavoro umano" si può percepire il messaggio dell’enciclica in tutta la sua ampiezza e aspirare alla sua effettiva realizzazione.

Queste affermazioni di Giovanni Paolo II presuppongono una comprensione della vita spirituale in continuità con quanto abbiamo appena esposto nei paragrafi precedenti. Nella misura in cui, trascendendo l’ambito della devozione, si intende l’esperienza spirituale come la piena appropriazione da parte del cristiano del mistero di Dio che si rivela in Cristo, risulta ovvio che questa esperienza è via, e via privilegiata, per comprendere il messaggio cristiano e le sue implicazioni, particolarmente quelle che si riferiscono a ciò che Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis chiamò "dimensione umana del mistero della Redenzione", vale a dire la coscienza della dignità dell’essere umano e di quanto é relativo ad esso, che deriva dal sapere e dal riconoscere esistenzialmente e concretamente che l’uomo, ogni uomo, è oggetto dell’amore infinito di Dio.

Ma se l’affermazione sopra citata della Laborem exercens è collegata col processo di accentuazione del nucleo teologale dell’esperienza spirituale, essa presuppone anche, e ancora di più, il processo di approfondimento o di chiarificazione della natura della DSC che va dalla Rerum novarum fino alla Sollicitudo rei socialis e alla Centesimus annus. Vale a dire, il processo per il quale si passa dal considerare la DSC come una disciplina filosofica - più concretamente, come una parte di quella che è chiamata "filosofia cristiana" - al definirla come appartenente all’ambito della teologia e, più specificamente, della teologia morale. Da questa prospettiva, in effetti, si manifesta la profondità dei nessi che relazionano la DSC con la globalità del messaggio e dell’esperienza cristiana.

Questo processo di chiarificazione della natura della DSC obbedisce a fattori propri, collegati con la storia della teologia e, in termini più ampi, del pensiero cristiano, ma hanno punti di contatto con un processo generale: l’itinerario grazie al quale la coscienza occidentale, superando la strettezza antropologica ed esistenziale propria delle prospettive razionaliste, si è aperta ad una maggiore percezione delle relazioni tra il pensiero e la vita. Come segnala con forza, e non senza una certa acredine in alcuni momenti, Alasdair MacIntyre, l’intelligenza si sviluppa solo all’interno di comunità che vivono di tradizioni non solo ricevute, ma anche profondamente sentite. Alcuni anni prima, e andando forse al fondo del problema, il filosofo e storico francese Pierre Hadot propugnò la necessità di recuperare la concezione classica di filosofia: non mero esercizio intellettuale, ma impegno spirituale, e più ancora, modo di vita. E insieme a loro potremmo citare molti altri: ci troviamo, in effetti, davanti ad un fenomeno intellettuale di vaste proporzioni.

Primum vivere deinde philosophari recita un antico adagio, che desidera segnalare non tanto che può filosofare, e allo stesso tempo essere pienamente uomo, solo chi ha soddisfatto le necessità vitali primarie, bensì, molto più profondamente, che la ragione si può dispiegare e filosofare, dare origine ad un pensiero riflesso, solo quando la precede una vita profonda e veritiera. La verità, e in modo particolare la verità sulle realtà fondamentali - Dio, l’uomo, l’amore, il destino -, si manifesta con tutto il suo vigore e tutta la sua razionalità nella misura in cui l’uomo va in modo autentico, sincero, al fondo di se stesso, vale a dire, per esprimerci con categorie kierkegå rdiane, nella misura in cui va a fondo dell’esistenza. Verità e vita non sono realtà giustapposte, ma che si compenetrano, più ancora, che si dispiegano contemporaneamente: la verità dà fondamento alla vita, e la vita apre alla verità.

Quanto detto, collegato con la DSC, equivale a dire che questa dottrina, in quanto messaggio formulato e proposto, presuppone l'autenticità del vivere cristiano, dal quale fluisce ed al quale rinvia. La spiritualità, la vita spirituale, è così un presupposto della DSC. La vita cristiana reale ed effettiva - cioè, la comunione con la Chiesa dalla quale si riceve il messaggio cristiano ed al cui interno si dispiega la vita di fede, di speranza, di carità - è il contesto che permette di percepire non in forma generica ma concreta e, pertanto, pienamente efficace la dignità dell’essere umano e, di conseguenza, il punto di partenza per una considerazione e un’analisi che evidenzino le implicazioni storico-sociali di questa dignità e di questo valore.

Del resto, anche se da un’altra prospettiva, la Sollicitudo rei socialis guarda in questa direzione quando definisce la DSC come il frutto o il risultato "di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale". Il soggetto della DSC non è una ragione astratta, ma la ragione cristiana, ancor più, una ragione cristiana viva, vale a dire, una ragione che si dispiega nel contesto del vivere cristiano ed in collegamento con esso. Una ragione che presuppone, pertanto, la vita spirituale. E questo in un duplice senso: in quanto la vita cristiana conferisce una connaturalità con il messaggio cristiano e aiuta a percepire le sue implicazioni, e in quanto, rafforzando l’animo, spinge a far sì che queste implicazioni si realizzino in pratica.

Tutto questo, conviene forse dirlo, non equivale in alcun modo a concepire la DSC come una realtà intracristiana o a mettere un divieto alla sua razionalità, bensì, cosa ben diversa, equivale a segnalare la profondità esistenziale da cui sorge e in relazione con la quale acquista consistenza ed effettività compiute. Il messaggio cristiano non parla di un mondo diverso dal mondo reale e concreto nel quale vive l’umanità, ma di questo stesso mondo, rivelando, a partire dalla parola di Dio, la sua meta ultima e la sua pienezza di senso. Spiritualità non implica irrazionalità, ma, in ogni caso, soprarazionalità o, più propriamente, razionalità piena.