Cultura laica e sapere credente

nell'orizzonte della post-modernità

Pino Lorizio

"Lungo è il tempo,

ma il Vero avviene"

(Hölderlin)

 

Epocale o congiunturale che sia, il passaggio dalla modernità compiuta al cosiddetto post-moderno fa registrare una svolta di notevole portata nel rapporto fra il pensiero credente e la cultura "laica". Se, infatti, nella contrapposizione radicale agli esiti razionalistici della modernità, la Chiesa, la teologia e la cultura cattolica hanno dovuto custodire e difendere a denti stretti il senso del mistero e del soprannaturale, ridimensionando le pretese di una ragione totalizzante e totalitaria, che si è espressa nella forma delle ideologie egemoniche, ora - a giudicare dai termini con cui si conduce in Italia il dibattito sulla religione - le posizioni sembrano invertirsi. La Chiesa, la teologia e il pensiero credente si trovano nella paradossale situazione di dover difendere la ragione e le sue possibilità in ordine alla conoscenza del Vero, in un sempre più serrato confronto con atteggiamenti e teorie rinunciatarie e debolistiche, che la condannano al relativismo e allo scetticismo, forme anch'esse meno forti di quel prospettivismo nichilistico che - secondo Nietzsche - avrebbe caratterizzato quelli che per lui sarebbero stati i prossimi due secoli.

 

Non si tratta né di seguire le mode passeggere, né di andare contro corrente ad ogni costo. La ricerca della verità, presente nelle diverse espressioni e formulazioni storiche, ma che pur sempre le trascende, fa sì che la Chiesa e il pensiero che in essa si esprime, nonostante ritardi e incomprensioni, si ponga a difesa dell'uomo e della sua dignità, sia allorché mette in guardia la ragione dalle sue stesse prevaricazioni, sia allorché ne custodisce il valore e ne alimenta le possibilità. E da questo punto di vista la cultura autenticamente generata dal Cristianesimo avrà sempre e comunque qualcosa da dire nella storia all'uomo di ogni tempo e di ogni condizione.

 

Agitare, nell'attuale momento storico, il fantasma di una nuova e forse più subdola ideologia sembra prematuro e controproducente, anche perché ciò condurrebbe alla contrapposizione di fronti, nella quale continuerebbe a perpetrarsi la deprecabile scissione fra sapere e credere, tra fede e cultura, tra pensiero credente e cultura laica, con risultati devastanti non solo per il mondo della cultura, ma anche per l'evangelizzazione. Si tratta piuttosto di rilevare le possibilità di incontro e di mettere in guardia dai rischi che il coinvolgimento in tale dibattito comporta per il sapere credente. La cautela del serpente non va disgiunta dalla semplicità e dall'ottimismo della colomba, l'atteggiamento critico-profetico non deve far dimenticare l'esercizio della simpatia e della solidarietà nei confronti di quanti cercano la verità con cuore sincero a qualsiasi credo appartengano.

 

A mettere in guardia i credenti da un troppo ingenuo irenismo nel confronto col cosiddetto pensiero laico dominante è proprio un filosofo che, pur non ritenendosi credente, partecipa attivamente al dialogo con teologi e filosofi cattolici. In uno dei saggi contenuti nel volumetto intitolato I nuovi pagani, Salvatore Natoli così si esprime: "Da molti anni in discussioni private e pubbliche noto che l'ermeneutica è sempre di più applicata alla fede. Questa prassi è antica e ben consolidata. Più arrischiato è invece quell'atteggiamento, non so quanto involontario o intenzionale che fa valere o tratta la fede come un'ermeneutica. La mentalità ermeneutica mette in moto una circolarità infinita. Essa, creando un ambito costante di rinvii, elude il punto fermo. Nel senso che il punto fermo non è più un=origine, non è più un principio, ma è una decisione, vuoi della comunità, vuoi dei soggetti. In tale modalità si dissolve la fede. È sempre più difficile trovare il credente. Tutti i credenti stanno diventando ermeneutici. Quando dicono a me che io sono credente comincio a capire che non sono credenti loro".

 

Non è questa la sede in cui avviare o continuare un dibattito - che certamente sarebbe interessante - sull'ermeneutica e le sue figure. A Natoli si potrebbe obiettare che c'è ermeneutica ed ermeneutica e che non sembrano troppo facilmente assimilabili le posizioni di un Gadamer, di un Ricoeur e di un Pareyson, proprio in ordine a quell'istanza del "punto fermo", sulla quale giustamente invita a riflettere. Ed è proprio questa istanza che ci sembra di dover raccogliere come elemento irrinunciabile per chi dal punto di vista credente intende dialogare con la cultura e la filosofia laica. Cedere al prospettivismo significa infatti rinunciare proprio a quel punto fermo ed affatto soggettivo, che per Natoli deve caratterizzare chi crede. L'unicità e l'universalità dell'evento Cristo non consente in nessun modo che il Risorto venga inserito come elemento di un pantheon politeistico, nel quale tutte le divinità sacre e profane (e di conseguenza tutte le fedi o non-fedi) hanno uguale cittadinanza. Questa cattura neo-pagana del cristianesimo ci sembra tutt'altro che intellettualistica o meramente teorica: essa si fa strada nelle coscienze e nella mentalità dell'uomo contemporaneo, disposto ad accogliere e/o tollerare l'evangelo, a condizione che non si proponga nella sua radicalità assoluta ed imprescindibile. Né chi sinceramente ritiene di poter pensare nell'orizzonte credente può dimenticare l'assunto di Rosenzweig (pensatore caro alla filosofia contemporanea, ma a patto che lo si interpreti in una prospettiva nichilistica e post-heideggeriana), il quale faceva nascere la sua opera fondamentale La stella della redenzione dal puro e semplice punto di Archimede della Offenbarung als Orientierung ("Rivelazione come orientamento").

 

Certo il credente non può non mostrare interesse verso il fatto che l'argomento religione in generale e cristianesimo in particolare non siano più considerati tabù dai maestri del pensiero laico. Così - per rimanere in Italia - si è chiamati al confronto con le posizioni di Gianni Vattimo, espresse recentemente in un libro di successo intitolato Credere di credere, e può risultare istruttiva la lezione derivante dalla contrapposizione di credenti e non credenti, nelle interviste televisive pubblicate da Sergio Zavoli, come pure si avrà molto da apprendere dal dialogo avvincente, pubblicato dapprima sulla rivista Liberal e poi in volumetto, fra Carlo Maria Martini e Umberto Eco, ma potrà anche irritarsi di fronte al dilettantismo con cui qualche filosofo tratta di argomenti cristiani. Si tratta comunque di spie dalle quali altro non si ricava se non l'indicazione secondo cui la post-modernità sembra ormai muovere in un orizzonte di post-secolarizzazione, con tutti i rischi e le speranze che in tale rinnovato contesto possono prodursi.

È possibile, anzi in alcuni casi necessario, tuffarsi in questo pelago di dibattiti e di interventi, senza naturalmente indulgere al fascino dell'immagine e della comunicazione ad ogni costo. Non si possono infatti ignorare o snobbare con saccenteria le posizioni differenziate, ma spesso omologabili, di chi esprime con sincerità le proprie opinioni anche su argomenti religiosi. Né sarebbe evangelico irridere a chi dichiara la debolezza del proprio pensiero e del proprio credere. Tuttavia l'irrinunciabilità del punto fermo esige che la prospettiva del credente - nell'esercizio del pensiero e nel dialogo con chi pensa a partire da un altro orizzonte - non si omologhi all'interlocutore e alle sue posizioni.

Da questo punto di vista ci sembra di dover esplicitare alcune riflessioni, che il dibattito recente ci ha suggerito, e che - a nostro avviso - costituiscono le coordinate di un corretto rapporto fra sapere credente e cultura laica dal punto di vista della posizione appunto di chi crede e della irrinunciabilità del suo punto fermo, che è l'automanifestazione del Dio trinitario in Gesù Cristo.

Una prima considerazione ci riporta al punto da cui abbiamo preso le mosse: la debolezza o infermità della ragione post-moderna. I grandi maestri del pensiero cattolico ne hanno sempre avuto piena coscienza e il riferimento alla kenosi del Figlio non può non suscitare la simpatia del credente nei confronti di chi crede di credere. Una domanda tuttavia urge e non ci sembra potersi disattendere: la debolezza, l'infermità, la kenosi non hanno forse - nella prospettiva appunto della fede cristologica - carattere penultimo, ossia non definitivo? E chi crede non è forse chiamato all'esercizio di una ragione redenta - che non con le proprie forze, ma con quelle del Salvatore - può, anzi deve, ri-conoscere il Vero, accogliere il Bene, contemplare il Bello? Se Cristo con la sua croce e risurrezione non ha redento anche il nostro pensiero, o se si vuole la nostra ragione, allora il suo compito risulta vano, come vana sarebbe la nostra fede, se si fermasse alla celebrazione del venerdì santo. Il cristianesimo senza redenzione è un sofisma da smascherare. D'altro canto, nella prospettiva della creazione, nonostante l'infermità del peccato, il pensiero cattolico ha sempre riconosciuto nell'uomo la reale capacità e possibilità di pervenire alla conoscenza della verità. Il peccato - infatti - nella concezione cattolica, non ha avuto né avrà mai tanto potere da corrompere irrimediabilmente e strutturalmente la natura e la ragione umana.

Una seconda riflessione riguarda la modalità dell'approccio alla tematica religiosa e cristiana. Certo un qualsiasi discorso sul credere non potrà che svolgersi in prima persona, ossia non potrà prescindere dalle scelte di chi è comunque implicato in tale discorso e ciò vale sia per il credente, sia per il non-credente, sia per chi crede di credere o di non credere. Il credente tuttavia, nel momento in cui si lascia coinvolgere nel dialogo, non può confondere (è ancora una volta il punto fermo ad esigerlo) il carattere personale della propria appartenenza con la soggettività relativa di una posizione. Il Vero che egli ha scorto ed accolto rispondendo con il proprio credo alla rivelazione del Dio trinitario non gli appartiene, ossia non è frutto del proprio sapere, ma di una sapienza cui è chiamato a partecipare. In questo senso la verità del cristianesimo è oggettiva e assoluta ed in quanto tale è data alla ragione, alla volontà e all'affettività del soggetto credente, che la accoglie, senza disporne a suo piacimento. La testimonianza sempre personale di tale accoglienza va comunque offerta in tale orizzonte di comprensione, e non come mera opinione o punto di vista di un individuo.

Di qui un'ultima riflessione concernente la necessità del discernimento, che sollecita la nostra vigilanza, in questo tempo così difficile, ma anche così ricco di fascino. Mi sembra utile richiamare a questo proposito un frammento del filosofo Luigi Pareyson, il quale invita a distinguere fra il dubitare e il domandare e schematizza in questo modo il proprio pensiero:

Dubbio e domanda: Il dubbio corrode / la domanda interroga - sterile / feconda - negativo disfattivo / problematico aporetico

Una volta introdotto il dubbio non se n'esce più, il dubbio è già la negazione

(#) con la fede (scommessa) è compatibile (anzi richiesta) la domanda, non il dubbio

(#) la fede è vittoria sul dubbio, e in tal senso il dubbio è il penultimo gradino

(#) La possibilità del dubbio (come penultimo gradino) fa parte della possibilità della fede

(#) la realtà del dubbio (salita bloccata) è l'impossibilità della fede

(Luigi Pareyson)

 

 Discernere fra dubbio e domanda, suscitare domande sincere, esercitare la ragione redenta nel quaerere incessante e fecondo è compito della teologia e del pensiero credente di tutti i tempi, urgente anche oggi, nella novità di una situazione che non può esimerci dal porci alla scuola dei grandi maestri del pensiero cattolico, non per ripeterli pedissequamente, ma per imparare da loro a pensare nell'orizzonte di un credere non opinabile, ma dotato di intrinseca ed assoluta certezza. 

[Testo pubblicato in Nuntium 1 (1997) 47-52]