La Filosofia di S. Tommaso d'Aquino soggiacente al nostro linguaggio

d'ogni giorno

L. Jean Lauand

 

Introduzione

 

     "Grazie", "Complimenti", "Perdono", "Caro", "Condoglianze" e tante altre forme del linguaggio quotidiano - nelle diverse lingue - celano in sé profondi insegnamenti per la conoscenza filosofica dell'uomo. Al di là dell'eventuale formalismo vuoto - verso dove l'uso giornaliero tende a scagliarle - queste espressioni così apparentemente inoffensive, incidono originariamente su importanti dimensioni della realtà umana.

     Dalla discussione metodologico-tematica sul linguaggio e dall'antropologia filosofica (guidati dal classico S. Tommaso d'Aquino), queste formule di convivenza si mostrano come messaggi cifrati, alle volte infinitamente sorprendenti e saggi... Come dice S. Isidoro di Siviglia, senza l'etimologia non si conosce la realtà e con essa si può più rapidamente raccapezzare la forza espressiva delle parole (1).

In verità le parole hanno un potenziale espressivo molto maggiore di quanto noi - così automatico è l'uso che d'esse facciamo - possiamo immaginare. Perciò l'attenzione del filosofo per i modi di dire, per i contesti, le sottigliezze del linguaggio comune, nella sua stessa lingua od in altre.

 

Alcuni punti metodologici

     Quando la filosofia si rivolge al linguaggio comune, non compie un procedimento periferico, ma qualcosa di molto speciale appartenente al proprio nucleo della riflessione filosofica. L'analisi delle forme quotidiane è importante anche dal punto di vista dell'educazione, se veramente vogliamo che l'educazione trascenda l'ambito meramente formalista e sia un processo d'autentica auto-realizzazione nel quale il subietto s'appropria del contenuto e del significato antropologico che soggiace alle forme.

    Tale appropriazone, dicevamo, non è facile ne immediata. La nostra propensione è piuttosto quella dell'ottundimento e dell'oblio del profondo senso originario che si è concretizzato in questa od in quella formulazione.

    Perciocché sempre vige quella verità fondamentale messa in rilievo tanto dall'antropologia occidentale come dall'orientale: l'uomo è essenzialmente l'essere che oblia!(2).

     E così il linguaggio, la favella vivente del popolo, risulta in molti casi depositaria delle grandi esperienze dimentiche.

     E se vogliamo riscattare il senso umano che esse celano, dobbiamo rivolgerci criticamente a questo deposito...

     Non deve poi stupire che in un autore classico come S. Tommaso d'Aquino troviamo una filosofia intimamente compromessa col linguaggio.

     In questo senso è opportuno ricordare alcuni dei suoi principi metodologici.

1) Le nostre parole spesso solo attingono frammentariamente - Tommaso usa l'avverbio divisim - la realtà che è complessa, che supera di molto la capacità intelletuale umana. D'altronde è di Tommaso l'acuta osservazione che "nessun filosofo giammai è arrivato ad esaurire l'essenza d'una mosca". Al contrario di Dio, che esprime tutto in un unico Verbo, "noi dobbiamo esprimere frammentariamente le nostre conoscenze con molte ed imperfette parole"(3).

2) Un altro fenomeno interessante, anch'esso legato alle limitatezze della nostra conoscenza e del nostro linguaggio, è quello che potremmo chiamare: l'effetto girasole. Questo è così spiegato da Tommaso: "giacché i principi essenziali delle cose sono da noi sconosciuti, spesso per significare l'essenziale (che non raggiungiamo) le nostre definizioni incidono su un aspetto accidentale"(4). Così, per esempio, tutto l'essere della pianta che chiamiamo girasole è designato da un fenomeno-gancio, accidentale e periferico, nel caso, l'eliotropismo.

3) E così anche non sfugge al Aquinate il fatto che spesso è differente il gancio, il cammino per il quale ogni lingua accede ad una determinata realtà: lo stesso oggetto che mi protegge contro l'acqua (parapioggia, paracqua, paraguas, parapluie, guarda-chuva) causa ombra (ombrello, umbrella, sombrinha). Perciò dice Tommaso che "differenti lingue esprimono la stessa realtà di modo diverso"(5).

 

"Molte grazie"- i tre livelli di gratitudine.

     Dicevamo che la limitatezza della conoscenza umana si riflette nel linguaggio: non possiamo esprimere quello che le cose sono nella misura in cui non sappiamo completamente cosa sono. Oltre a ciò, una parola spesso da rilievo originariamente a solo uno fra molti aspetti che offre la realtà designata.

     E può ocorrere che col passar del tempo questa realtà cambi, evolva sostanzialmente fino a perdere la connessione con l'etimo della parola che rimane la stessa.

     Questo non ci lascia sbalorditi perché nell'uso quotidiano le parole vanno perdendo trasparenza: noi diciamo insalata di riso (in Brasile si parla anche della dolce "insalata di frutta"! - che in italiano si dice "macedonia di frutta" - perché coinvolge mescolanza) e non notiamo più che insalata viene da sale.

     Dello stesso modo il barbiere oggigiorno quasi non fa più barbe ma taglia i capelli; come anche la tintoria indica un negozio che provvede alla smacchiatura, lavatura e stiratura di abiti dove quasi non si tingono più tessuti; come il cameriere indica più chi serve a tavola che chi è addetto alla pulizia delle camere; od anche il villano che dal indicare l'abitante della compagna, il contadino, indica oggidì la persona rozza, priva di garbo e cortesia; il chauffeur non riscalda ma dirige la vettura; e neanche per sogno ci verrebbe per la testa d'associare "capitale", somma di denaro che frutta interesse con capo (dal lat. caput, capitis).

     Se queste incompatibilità non ci causano stranezza, è perché il linguaggio si è tornato opaco per noi.

     E così diciamo collare, collaretto, collarino, torcicollo, capocollo, a rompi-collo (precipitosamente), il rompicollo (persona sconsiderata), scollare, scarpa scollata (che lascia scoperto il collo del piede), e non ci accorgiamo che derivano da collo (perciò l'espressione "portare un bambino in collo"(6) sembra incomprensibile di primo acchito).

     Queste considerazioni sono preliminari importanti allo studio della gratitudine e delle varie formulazioni che essa riceve nelle diverse lingue.

     Tommaso d'Aquino insegna che la gratitudine è una realtà umana complessa (e perciò sussegue che la sua espressione verbale sia in ogni lingua frammentaria: questo o quel aspettogancio è accentuato): "La gratitudine si compone di diversi gradi. Il primo consiste nel riconoscere (ut recognoscat) il beneficio ricevuto; il secondo consiste in lodare e render grazie (ut gratias agat); il terzo consiste in retribuire d'accordo con le possibilità e secondo le circostanze più opportune di tempo e luogo" (II-II, 107, 2, c).

     Questo insegnamento, apparentemente così semplice, può essere rincontrato nei diversi modi con cui le diverse lingue si valgono per ringraziare: ognuna accentuando un aspetto della multiforme realtà della gratitudine.

     Alcune lingue esprimono la gratitudine prendendola nel primo livello: esprimendo più nitidamente la riconoscenza di chi ha ricevuto la grazia. Per di più riconoscenza (come reconnaissance in francese) è proprio un sinonimo di gratitudine.

     In questo senso è estremamente interessante verificare l'etimologia: nella saggezza della lingua inglese to thank (ringraziare) e to think (pensare) sono nella sua origine, e non per caso, la stessa parola.

     Al definire l'etimologia di thank l'Oxford English Dictionary è chiaro: "The primary sense was therefore thought"(7). E nello stesso modo in tedesco danken (ringraziare) è originariamente denken (pensare).

     Tutto questo è insomma molto comprensibile, poi come tutti sanno, solo si sente veramente grato chi pensa nel favore che ha ricevuto come tale.

     Solo è grato chi pensa, pondera, considera la liberalità del benefattore. Quando questo non ocorre, viene il giustissimo rammarico: "Che mancanza di considerazione!"(8).

     Perciò S. Tommaso - facendo notare che il massimo negativo è la negazione del grado infimo positivo (l'ultima a destra di chi sale è la prima a sinistra di chi scende...) - afferma che la mancanza di riconoscenza, l'ignorare, è la suprema ingratitudine(9): "il malato che non si rende conto del morbo, non si vuol curare"(10).

     L'espressione araba di ringraziamento, shukran, shukran jazylan, si trova direttamente nel secondo livello: quello di lode del benefattore e del beneficio ricevuto.

     Già la formulazione latina per gratitudine, gratias ago, che si è proiettata nel italiano grazie, nel castigliano (gracias) e nel francese (merci, mercè)(11) è relativamente complessa. S. Tommaso dice (I-II, 110, 1) che il suo nucleo, grazia, comporta tre dimensioni:

1) ottenere grazia, entrare nelle grazie, nei favori, nell'amore di qualcuno che dunque ci fa qualque beneficio;

2) grazia indica anche un dono, qualcosa di non dovuto, gratuitamente dato, senza merito da parte del beneficiario;

3) la retribuzione, "fare grazie" (render grazie) da parte del beneficiario.

     Nel trattato De Malo (9,1) si aggiunge un quarto significato di gratias agere: quello di lode; chi considera che il bene ricevuto procede da un altro e che deve essere lodato.

     Nel ampio quadro che abbiamo mostrato in vista - quello delle espressioni di gratitudine in inglese, tedesco, francese, castigliano, italiano, latino ed arabo - rissalta il carattere profondissimo della forma portoghese: "obrigado".

     La formulazione portoghese, così incantevole e singolare, è l'unica a trovarsi chiaramente nel più profondo livello di gratitudine di cui parla S. Tommaso, il terzo (che naturalmente racchiude in sé i due anteriori): quello del vincolo (ob-ligatus), del obbligo, del dovere di retribuire.

     Possiamo adesso analizzare la ricchezza che racchiude in sé anche la forma giapponese per ringraziamento: Arigatô.

     Questa rimette ai seguenti significati primitivi: "l'esistenza è difficile", "è difficile vivere", "rarità", "eccellenza (eccellenza della rarità)". I due ultimi sensi sopra riferiti sono comprensibili: in un mondo in cui la tendenza generale è quella d'ognuno pensare a sé e, se tanto, i rapporti umani si regolano per la stretta e fredda giustizia, "l'eccellenza" e la "rarità" si fanno notare come caratteristiche del favore.

     Ma "difficoltà d'esistere" e "difficoltà di vivere", a prima vista niente hanno a che vedere col ringraziamento. Tuttavia S. Tommaso insegna che la gratitudine deve - per lo meno nell'intenzione - superare il favore ricevuto. E che ci sono debiti per natura insaldabili: d'un uomo in relazione ad un altro suo benefattore, e sopratutto in relazione a Dio: "Che cosa renderò al Signore - dice il Sal 115 - per quanto mi ha dato?".

     In queste situazioni di debito impagabile - così frequenti alla sensibilità di chi è giusto - l'uomo riconoscente si sente in imbarazzo e fa tutto quello che è alla sua portata (quidquid potest), tendendo a spandersi in un excessum che si sa insufficiente(12) (cfr. III, 85, 3 ad 2).

     Arigatô si riferisce così al terzo grado di gratitudine, significando la coscienza di quanto difficile diviene l'esistenza (dal momento in che si è ricevuto tale favore immeritato, e perciò si è rimasti nel dovere di retribuire, sempre impossibile di compiere...).

 

Sinonimi?

     San Tommaso è molto stretto nell'uso della parola "sinonimo": per lui sono sinonime soltanto parole di significato assolutamente equivalente, cioè, che non solo indicano la stessa realtà (res) ma anche lo stesso aspetto, la stessa ratio. Dice per esempio nella Contra Gentiles: "Nonostante queste parole significhino la stessa realtà non sono sinonime perché non la focalizzanno sotto lo stesso aspetto"(13).

     Così, per Tommaso, due (o più parole sono sinonime) se (e solo se...) in qualsiasi contesto possono essere commutate senza alterazione reale di senso: l'esempio che ci da, nel Commentario alle Sentenze, è tunica, vestis e indumentum. Qualsiasi cosa che si affermi (o neghi) di tunica sarà affermato (o negato) anche di vestis(14). Sarebbe come cambiare "sei" per "mezza dozzina"...

     Noi oggi con meno precisione ammettiamo come sinonime giustamente parole che - sebbene con titoli differenti o enfasi - si riferiscono alla stessa realtà. Così di "sinonimo" ci dice il dizionario brasiliano Aurélio: "parola che ha quasi (sic) la stessa significazione di un altra". Già il Larousse è più esplicito: "mots qui se présentent dans la langue avec des sens très proches et qui se différencient entre eux par une nuance (trait particulier)".

     Già l'Oxford distingue e registra due sensi, quello stretto e quello lato: "Synonym - 1. Strictly, a word having the same sense as another (in the same language); but more usually, either or any of two or more words (in the same language) having the same general sense, but possessing each of them meanings which are not shared by the other or others, or having different shades of meaning or implications appropriate to different contexts: e.g. serpent, snake; ship, vessel etc."

     Per Tommaso, al contrario, come dicevamo, due parole possono riferirsi alla stessa ed unica realtà e nonostante non essere sinonime: perché differenti sono le sue rationes. È il caso per esempio dei diversi nomi con i quali designamo a Dio od ai suoi attributi (Creatore, Onnipotente, la Bontà, la Giustizia ecc.): tutti incidono sulla stessa realtà, ma non sono sinonimi(15).

     Sia come sia, dal punto di vista metodologico sono di speciale interesse per il filosofo due punti:

1) la ricerca di contesti del linguaggio comune in cui una parola non può - senza alterazione del senso - essere sostituita da nessun "sinonimo": questo è un fecondo procedimento per scoprire la realtà antropologica significata dal vocabolo.

2) Il secondo punto a distaccare è il fatto che ogni "sinonimo" ha la sua ratio, si riferisce a un determinato aspetto differente della stessa ed unica realtà: così come quando parliamo di "casa", focolare", "domicilio", "residenza", "abitazione", "dimora" o "reggia". In sé la realtà a cui si riferiscono queste parole è la stessa ed unica edificazione - nella via tale, numero tale -, però nessuno dice "domicilio, dolce domicilio", neanche la prefettura riscuote le tasse sul focolare ecc.(16).

     Questa molteplicità di forme del linguaggio per la stessa res ha importanza nell'analisi che Tommaso fa del amore.

 

"Mio caro"

 

     La ricchezza (e la precisione) del vocabolario vivo riguardante un determinato soggetto in una lingua denota l'interesse vitale dei parlanti per quel tema. In questo senso si noti per esempio (in Brasile o in Italia) l'incredibile dettagliare del lessico riguardante il calcio: calcio atletico, calcio bailado, calcio totale, calcio parlato, calcio giocato.

     Nello stesso modo S. Tommaso presenta distinzioni fra i diversi "sinonimi" d'amore in latino, interessanti dal punto di vista dell'antropologia filosofica. Così al affermare (in I Sent. d 10, q 1, a 5) che lo Spirito Santo è amor o caritas o dilectio del Padre e del Figlio, precisa che amor indica la semplice inclinazione dell'affetto per l'amato, mentre dilectio ("come la propria etimologia indica") presuppone la scelta e quindi è razionale. Già caritas, obietto di particolare studio in questo topico, accentua la veemenza dell'amore (dilectio) mentre si tiene l'amato per un prezzo inestimabile ("inquantum dilectum sub inaestimabili pretio habetur"), nello stesso senso che si dice che le cose (il costo della vita, le compre) sono care ("secundum quod res multi pretii carae dicuntur").

     Qui c'è un fatto sorprendente e molto suggestivo. Non è per caso che anche in altre lingue si usa la stessa ed unica parola per dire: "mio caro amico" e "i fagioli sono cari" ("my dear friend", "beans are too dear"; "mon cher ami" e "haricots sont trop cher"; "meu caro amigo" e "o feijão está caro"; "mein teurer Freund" e "Bohnen sind teuer").

     Per il realismo medievale, non c'è nessun stupore per la parola "carità", scelta per designare l'amore di Dio (e l'amore del prossimo per Dio), essere la parola precristiana legata al danaro, ai prezzi: carità, l'amore per l'amato, insiste Tommaso, indica quello (una cosa, un oggetto) che consideriamo d'inestimabile prezzo, come carissimo:

     "Caritas dicitur, eo quod sub inaestimabili pretio, quasi carissimam rem, ponat amatum caritas" (In III Sent. d.27, q.2, a.1, ag7).

     Così, quando diciamo "mio caro amico" o "carissimo tizio" ci serviamo di metafore di prezzo (perciò anche: apprezzare, pregiato, disprezzo, spregevole, spregio, pregiare), di stima, di stimare...

     Guarda caso, in questa medesima linea si situa la formula di cortesia araba dinanzi un amico che dice che va a chiedere qualcosa: "Anta gally wa talibuka rakhiz" ("tu sei caro e la tua richiesta è a buon mercato").

     E quando noi ci ricordiamo che Cristo compara il Regno dei Cieli ad un tesoro che un uomo ha trovato in un campo o ad un mercatore che cerca pietre preziose e che l'ottenimento di questo bene richiede la vendita di tutto il resto, non ci sorprenderà che "carità"sia la parola per designare il bene apprezzato.

    

"Complimenti"

 

     Ci rivolgiamo adesso ad un'altra situazione del quotidiano, quella delle felicitazioni, cercando di riscattare il senso originale dei voti di congratulazione.

     Seguendo il procedimento medievale, resteremo attenti all'etimologia.

     Quando trascendiamo l 'ambito delle formalità e della consuetudine, i voti di felicitazioni: "Auguri!" (e i suoi confratelli in altre lingue: lo spagnolo Enhorabuena!, l 'inglese Congratulations!, il portoghese Parabéns!, ecc.), vediamo che portano con sé differenti e complementari indicazioni sul mistero dell'essere e del cuore umano.

     Cosa significano esattamente queste formulazioni? Cosa veramente vogliamo dire quando diciamo "auguri" o "congratulations" ecc.? Tutte queste espressioni portano con sé un profondo significato, per così dire, "invisibile ad occhio nudo".

     Cominciamo per la formula castigliana: Enhorabuena!, letteralmente "in buona ora". Enhorabuena indica che un determinato cammino (gli anni di studio che sboccano in una laurea, l'arduo lavoro per stabilire un'impresa che si inaugura ecc.) arriva in quest'ora in cui si danno le felicitazioni al suo termine: questa è veritieramente l'ora buona, enhorabuena!

     Precisamente il fatto d'essere l'ora della conclusione è quello che la fa una buona ora. La saggezza degli antichi ci parla "dell'ora d'ognuno", delle ore buone e cattive. Ma la buona ora, l'ora migliore, è quella della conclusione, della consumazione dell'opera, quella del buon termine del cammino, l'ora della fine, che è migliore che quella del cominciamento: "Melior est finis quam principium" (Ecl. 7, 8), dice la propria Sapienza divina.

     Già la formulazione inglese, anche presente in tedesco e in altre lingue, congratulations, esprime l'allegria per il bene dell'altro con il quale ci congratuliamo, cioè ci co-allegriamo. Questa communione d'allegrezza è suggerita anche per la forma deponente dei verbi latini gratulor e con-gratulor. La forma deponente indica che l'azione descrita nel verbo non è attiva ne passiva: ma un'azione che, esercitata dal soggetto, ripercuote in sé stesso. Vuol dire, nel caso, che l'allegria che esterniamo al felicitare tale persone è anche, a titolo proprio, molto nostra.

     L'arabo mabruk ricorda il carattere di benedizione con che felicitiamo altrui.

     Con l'incantevole forma portoghese "Parabéns" si esprime precisamente questo: che il bene conquistato, che la meta raggiunta sia adoperata per il bene: "parabéns". Poiché qualsiasi bene ottenuto (il dono della vita, soldi o la conquista di un diploma) può, come tutti sanno, essere adoperato sia per il bene che per il male.

     L'italiano "auguri, auguri tanti!" annuncia (o cagiona) che questo bene celebrato è solo preannuncio, prefigurazione, augurio di altri ancora maggiori che stanno per venire.

 

"Le mie condoglianze"

 

     "Adossavo una tristezza..." dice l'antica samba di Paulinho da Viola: la tristezza è - evidentemente - un peso, gravità, la famosa gravezza...! E per caricare il peso del dolore, della tristezza, niente di meglio - insegna Tommaso - che l'aiuto degli amici: "perché la tristezza è come una carica pesante che si torna più leggera per caricare quando condivisa da molti: perciò la presenza degli amici è così apprezzata nei momenti di dolore"(17). Così si comprende immediatamente che l'espressione di condoglianze ("dolersi con") sia in portoghese (e in altre lingue) "pêsames", che letteralmente vuol dire "mi pesa" ("io t'aiuto a caricare il peso della tua tristezza").

 

"Perdonami"

 

     "Perdonare" è una forma tardiva che non si trova in S. Tommaso. La parola corrispondente ed usuale da lui usata è parcere. Tuttavia troviamo in S. Tommaso le ragioni filosofiche che giustificano la grandiosa etimologia delle forme moderne: "perdonare", "perdono", "pardon", "pardonner", "perdão" ecc.

     Il prefisso per accumula i sensi di "per" (attraverso di") e di pienezza, grado massimo: come in perdurare (durare completamente); perlucido (completamente luminoso); perfrigerare (rinfrescare intensamente); perorare (orare, parlare intensamente); permanganato (sale dell'acido in cui il manganese esplica la sua massima valenza di sette) ecc.

     E così il perdono appare come il superlativo di donazione. Lo stesso occorre con le forme inglesi e tedesche: for-give, vor-geben.

     Come l'Aquinate pensa il tema del perdono e come lo rapporta al massimo di donazione? Ci sono influenze bibliche e liturgiche. Nella liturgia Tommaso s'impressiona con l'orazione spesso da lui citata, della messa della X domenica dopo la Pentecoste (e ancora oggi preservata nella XXVI domenica del tempo comune), che dice: "Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime manifestas" ("Dio che manifesti la tua onnipotenza massimamente perdonando...").

     E afferma che il perdono di Dio è un potere superiore a quello di creare i cieli e la terra (II-II, 113, 9, sc).

     D'altra parte lui vede nella traduzione latina della Lettera agli Efesini: "siate anche scambievolmente benevoli, misericordiosi, 'donandovi' tra voi come anche Dio ha 'donato' a voi per Cristo" (Ef 4,32)(18). Ed in II Cor 2:10 "A chi voi 'donate' 'dono' anch'io, perché quello che io ho 'donato' ecc."(19). Tommaso non ne ha dubbi: il donare per eccellenza non è donare soldi o tempo o qualcosa d'altro, ma si perdonare(20).

     E conclude, con la sua abituale sobrietà, com suggestivi id est: "Donate, id est parcite" (Super II ad Cor. cp 12, lc 4) e "Donantes, id est parcentes" (Super ad Coloss. cp 3 lc 3).

 

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1. "Nisi enim nomen scieris, cognitio rerum perit" (Et. I, 7,1) e "Nam dum videris unde ortum est nomen, citius vim eis intellegis" (Et. I, 29,2).

2. Si veda a questo proposito in Lauand, Medievália , S Paulo, Hottopos, 1997, il capitolo "Educação e Memória".

3. "Quia enim nos non possumus omnes nostras conceptiones uno verbo expri-mere, ideo oportet quod plura verba imperfecta formemus, per quae divisim exprimamus omnia, quae in scientia nostra sunt"(Super Ev. Io. cp 1, lc1).

4. "Et quia essentialia principia sunt nobis ignota, frequenter ponimus in definitionibus aliquid accidentale, ad significandum aliquid essentiale" (In I Sent. ds 25, q 1, a 1, r 8).

5. "Diversae linguae habent diversum modum loquendi" (I, 39, 3 ad 2).

6. L'espressione "portare un bambino "di collo o in collo" (ein Kind auf dem Ar-me tragen), oggidì non è tanto usata in italiano quanto in portoghese. Così l'es-pressione portoghese "ao colo" si traduce per "in braccio"; ma è importante no-tare che essa era usata anche in italiano. Così nel dizionario di P. Petrocchi: No-vo Dizionario Universale della Lingua Italiana, Milano, Trèves Editori, 1924, v. I, p. 506, cè l'espressione: "Tiento un momento in collo questo bambino. Non portate troppo in collo i bambini".

7. Citerò questo dizionario in hipertesto in Cd-ROM Oxford English Dictionary 2nd. ed. on CD-ROM, 1994.

8. Già Seneca - citato da Tommaso, II-II, 106, 3 ad 4 - parla che non si può avere gratitudine tranne per quello che oltrepassa lo strettamente dovuto, "ultra debitum". Ministerium tuum est ("Tu non fai più che il tuo obbligo") ed altre formulazioni dello stesso contenuto sono, come si vede, già molto antiche.

9. "Est gravissimum inter species ingratitudinis, cum scilicet homo beneficium non recognoscit" (In II Sent. d.22 q.2 a.2 r.1).

10. "Quia dum morbum non cognoscit, medicinam non quaerit", ibidem.

11. Merci deriva da merces (salario), che a preso nel latino popolare il senso di prezzo dal quale deriva il senso di "favore" e quello di "grazia".

12. Da questa insufficienza di chi sa di non disporre di moneta forte, nasce il ricorso a Dio, consolidato nell'espressione "Dio gliene renda merito" o "Dio ti paghi", che naturalmente lascia sottinteso che un povero uomo (un povero diavolo) come me non possa farlo.

13. "Quamvis nomina dicta eandem rem significent, non tamen sunt synonyma: quia non significant rationem eandem" (CG I, 35, 1).

14. "Sicut patet etiam in synonimis; tunica enim et vestis eamdem rem signi-ficant, tamen nomina sunt diversa; et similiter indumentum. Unde affirmationes et negationes quae pertinent ad rem, non possunt verificari, ut dicatur: tunica est alba, indumentum non est album" (In I Sent. d. 34, q.1, a.1, r.2)

15."Ostenditur etiam ex dictis quod, quamvis nomina de Deo dicta eandem rem significent, non tamen sunt synonyma: quia non significant rationem eandem" CG I, 35, 1. Ou "Cum non secundum eandem rationem attribuantur, constat ea non esse synonyma, quamvis rem omnino unam significent: non enim est eadem nominis significatio, cum nomen per prius conceptionem intellectus quam rem intellectam significet" CG I, 35, 2.

16. Anche se naturalmente ci sono casi in che è legitima la sostituzione d'una di queste parole per un'altra o indifferentemente l'uso di questa o quella: infine sono "sinonime".!

17."Quod tristitia est sicut onus grave quod quanto plures transsumunt fit levius ad portandum et sic presentia amici delectabilis" (Tabula libri Ethicorum, cpt).

18. "Estote autem invicem benigni misericordes donantes invicem sicut et Deus in Christo donavit nobis".

19. "Cui autem aliquid donatis et ego nam et ego quod donavi si quid donavi propter vos in persona Christi".

20."Donare qui è usato nel senso di perdonare" Super II ad Cor. cp 12, lc 4.