Psicanalisi e senso della vita

Mario Ancona

 

 

1. Una prima domanda che ci si può porre, che si può suscitare in noi, riguarda la legittimità di un tale accostamento: "psicoanalisi" e"senso della vita". È evidente che di per sé un tale accostamento suggerisce una scelta di campo. Ed è un campo le cui forze non soltanto concorrono a definire o ri-definire lo statuto epistemologico della psicoanalisi, ma che agiscono sulla nostra visione della sofferenza psichica stessa: non più malattia mentale, alienante, a cui ci si avvicina per mezzo di complessi sistemi nosografici, che inserita in un modello medico causale e lineare, si aliena in realtà alla nostra autentica conoscenza, ma discorso dell'anima che patisce. È un campo vasto che si percorre per vie circolari, in cui prevalgono le forze divergenti, che aprono, allargano, ampliano, amplificano. È un campo rigoglioso in cui tutto può sorprenderci e costituire una sorpresa.

"...In questi oscuri paesi si trovano cose sorprendenti", scrive Jung a Freud in una lettera del 1911, "Mi lasci guazzare senza preoccupazioni, la prego, in questa infinità. Ne riporterò ricche spoglie ai fini della conoscenza dell'anima umana. Devo inebriarmi per un certo periodo di profumi magici per poter capire quali segreti cela l'inconscio nei suoi abissi".(1)

E certo le voci che emergono, le immagini, le fantasie che sorgono da questo campo e che si impongono all'io come qualcosa che gli è estraneo, possono ben costituire una sorpresa. Come sorprendente è in genere il comportamento di quel"piccolo popolo", come Jung chiama i complessi, le cui"opinioni si manifestano soltanto quando non sono richieste, come visitazioni o interferenze al di là della coscienza dell'io"(2). È questo un campo in cui il rischio è di perdersi, labirintico e tortuoso, involuto e ingannevole. Un luogo in cui prevalgono le sfumature ai contrasti netti, le policromie alla monotonia del bianco e del nero, gli echi alla parola che si definisce ultima. Ed è in questo luogo che si può palesare la legittimità di un tale accostamento, e d'altra parte un tale accostamento consente l'accesso in questo luogo: un mondo che si dischiude alla comprensione simbolica, e che rimane chiuso agli aridi letteralismi. È un luogo dagli aspetti cangianti, e mai definiti, flessibili e malleabili. Certo è un mondo che può dare le vertigini, o la sensazione di sentirsi perduti: come accade ad alcuni, che ne sentono il richiamo, e che nel momento in cui vengono colti dall'intuizione, che dischiude una tale sconcertante visione, sono anche colti dallo smarrimento, da quel profondo sentimento di spaesamento, che inevitabilmente si appropria di chi era abituato a distinguere in maniera troppo netta:"...Ma i vivi errano, tutti, / ché troppo netto distinguono."(3), ci ricorda Rilke.

Allora proporre un accostamento quale"psicoanalisi e senso della vita" vuol dire lasciarsi abitare da una visione delle cose e del mondo, che ci offre una particolare prospettiva per riflettere su ciò che ci accade.

Forse se confrontiamo una tale associazione con altre associazioni possiamo ancora meglio coglierne il valore. Pensiamo ad esempio al titolo del prossimo congresso nazionale di Psicoterapia medica:"Carattere e cambiamento in psicoterapia"; od ancora al titolo di alcune relazioni:"La trasformazione del carattere come analisi riuscita" o "Il disturbo borderline: secondo paradigma teorico della psicoanalisi"; ben altre immagini evocano. Non si tratta qui di cadere in una polemica che non potrebbe essere se non sterile, ma di fermarsi a riflettere su quello che è stato il cammino della psicoanalisi in questi anni, su diversi miti, sulle diverse anime, che la abitano. Tale pluralità di aspetti ben si coglie negli stessi scritti di Freud; pensiamo ad esempio a quanto è detto nel Poscritto al Problema della analisi condotta da non medici:

"La psicoanalisi non è una specialità della medicina. Non vedo come ci si possa rifiutare a riconoscerlo. La psicoanalisi è una parte della psicologia, e non psicologia medica nel vecchio senso, o psicologia dei processi morbosi, ma psicologia senz'altro, certo non tutt'intera la psicologia, ma la sua parte basale, forse senz'altro il suo fondamento.".(4)

"La psicoanalisi non è una specialità della medicina", eppure la psicoanalisi nasce nell'ambito della neurologia e della psichiatria, ha le sue radici, per lo meno apparenti o più immediate alla Salpetriè re ed al Burghölzli. Ma, proprio nel momento in cui si avvicina con occhi diversi alla sofferenza psichica, disponibili all'ascolto senza pregiudizi, disponibili ad accogliere in noi tale testimonianza, ad ascoltare quelle voci, quelle immagini, quelle fantasie che si producono spontaneamente; nel momento in cui ci facciamo incontro all'uomo, nella sua totalità, come fecero Freud, Breuer e Jung, allora inevitabilmente ci si apre una nuova prospettiva. Quelle voci, quelle tormentose paure, non appartengono solo a chi le ospita e le patisce, ma parlano anche a noi, ci pongono interrogativi, domande e sempre da"quei paesi oscuri" sorgono anche risposte, per chi le sa cogliere. Questo è ciò che prima Freud, poi Jung sperimentarono, e che Jung seppe sviluppare in maniera più radicale. Questo è anche ciò che sconvolse Breuer, e lo fece allontanare dalla psicoanalisi.

"La psicoanalisi non è una specialità" dice Freud, e Jung:

"Benché noi siamo gli specialisti per eccellenza, la nostra specialità ci spinge, stranamente, verso l'universalismo ed il superamento radicale della specializzazione, se la totalità del corpo e dell'anima non abbiano a rimanere parole vane"(5).

Ecco i due poli della questione: la psicoanalisi intesa come specialità, che si avvale dei modi e degli strumenti propri dello specialista; la psicoanalisi come via, strumento essa stessa per una comprensione più intima dell'uomo. La psicoanalisi come metodo oggettivante che cristallizza l'oggetto della propria ricerca, la psicoanalisi come momento dialettico alla continua ricerca di nuove sintesi. Dice Campbell:

"La specializzazione tende a limitare il campo dei problemi con cui lo specialista entra in contatto. Chi, come me, non è uno specialista, ma un"generalista" impara una determinata cosa da un addetto ai lavori e poi la ritrova negli studi di un altro addetto ai lavori... È così che un eclettico... va a toccare una serie di problemi che sono, potremmo dire, più autenticamente umani"(6).

Ebbene la psicoanalisi nasce come specialità. Nasce cioè come qualcosa di speciale, particolare, limitato. Come d'altra parte speciale, e particolare sembrava l'oggetto dei suoi interessi: la nevrosi e la psicosi. Eppure sempre Freud in Analisi terminabile e interminabile dice:

"Nella situazione analitica noi ci alleiamo con l'io della persona che è oggetto dell'analisi, per sottomettere porzioni del suo es non soggiogate, includendole nella sintesi dell'io... L'io col quale possiamo concludere questo patto deve essere un io normale. Ma un tale io normale è, come nella normalità in generale, una finzione ideale. Mentre l'io anormale, inutilizzabile per i nostri scopi, non è purtroppo una finzione. Ogni individuo normale è solo mediamente normale. Il suo io si avvicina a quello dello psicotico, in una o nell'altra parte, in misura maggiore o minore"(7).

Senza entrare nel merito della visione teorica di fondo, ciò che dobbiamo cogliere in questo scritto è la consapevolezza di Freud che non esista essere umano che non debba confrontarsi con il patologico. Ed allora nevrosi e psicosi non sono più qualcosa di così particolare o speciale da riguardare solo alcuni, ma divengono momenti costitutivi del declinarsi stesso dell'essere nel mondo dell'uomo. Allora la psicoanalisi, nata come specialità, viene trasformata dall'oggetto stesso del suo conoscere, perchè ciò che essa coglie con il suo sguardo è qualcosa che attiene l'intima profondità della vita dell'uomo, e che una volta colto non può più essere ignorato.

II Ma vediamo come si compie questa trasformazione. La psicoterapia, termine quanto mai vago all'inizio, nasce come metodo stereotipato, banale. Poteva consistere in un semplice intervento di incoraggimento, o sostanziarsi in un atto benevolmente paterno. Il fine era quello, in genere, di tranquillizzare il paziente, convincerlo che il sintomo era"soltanto psichico", e che non c'era nulla di organico, che in ultima analisi non aveva nulla. Un intervento di questa natura poteva avere più o meno successo, molto dipendeva dalla personalità del medico. Era un tipo di intervento, o forse è meglio dire è un tipo di intervento, che si avvale di metodi suggestivi; un tipo di intervento in cui la prospettiva del generale prevale su quella individuale(8).

L'intervento suggestivo, direttivo trova una sua definizione negli ultimi decenni del 1800 ad opera di Charcot, a Parigi. Non è più un puro incoraggiamento, ma diviene metodo più sofisticato: l'ipnosi entra così all'interno della pratica medica; a Liè beault e Bernheim, ed anche a Forel, si deve un approfondimento dei processi di suggestione. Ben nota è l'influenza che le ricerche di questi studiosi esercitarono su Freud. Fu proprio al suo ritorno dalla Francia, dopo aver osservato le esperienze di Charcot e Bernheim, che Freud inizia la collaborazione con Breuer, e viene messo a punto quel metodo, che Breuer definirà"catartico".

"Con la constatazione empirica della scomparsa dei sintomi isterici attraverso il ricordo di avvenimenti penosi, presero avvio le considerazioni fondamentali che stanno alla base di tutto lo sviluppo della psicoterapia moderna."(9) dice Fornari.

È la scoperta delle origini affettive dei sintomi psicogeni. "Il fatto che alla base del sintomo isterico vi fossero immagini mnestiche a tonalità affettiva, perdute per la coscienza, portò direttamente al postulato di uno"strato inconscio" dell'accadere psichico."(10)

Si sposta così l'interesse, dalla vita psichica cosciente all'inconscio. Uno spostamento di interesse, di accento che Freud paragonerà alla rivoluzione copernicana. Si definisce un vero e proprio spostamento del centro di gravità della nostra vita interiore; dalla coscienza all'inconscio.(11)

Il metodo catartico si legava alla teoria della cosiddetta"nevrosi traumatica", il compito del terapeuta era quello di riportare alla coscienza del paziente gli elementi originariamente traumatici. Rispetto ai primi metodi cosiddetti suggestivi qui l'intervento che si richiede al terapeuta è più complesso. La teoria stessa è più complessa. Si incomincia a dare consistenza al sintomo psichico, la vita psichica si arricchisce della dimensione inconscia e della componente affettiva. L'impostazione del modello teorico è, per altro, profondamente causalista e lineare, riproducendo fedelmente il modello bio-medico.

Il trattamento dei singoli casi ben presto evidenziò che la teoria traumatica era una"generalizzazione avventata¸(12)" I traumi non potevano essere considerati causa di tutte le forme di nevrosi:

"Freud stesso superò presto la teoria traumatica a favore della ben più complessa teoria della"rimozione", e modificò di conseguenza il trattamento: era evidente che la pura"abreazione" non poteva essere sufficiente"(13).

Da questo momento la scoperta dell'inconscio si approfondisce sempre più. All'inconscio vengono date sempre maggiori opportunità di essere accolto, ascoltato. Le fantasie, le immagini, i sogni divengono la via regia per l'esplorazione di questo"interno paese straniero".

È a questo punto che nell'ambito della psicoanalisi si compie un ulteriore salto. Se con Freud il momento della sofferenza psichica recupera una nuova dignità, ciò non di meno è ancor relegato in una visione personale, e soprattutto interpretato in una chiave riduttiva, che tiene conto solo degli aspetti pulsioni dell'uomo, dimenticando la dimensione spirituale; anzi vedendo quest'ultima alla luce della prima: frutto della sublimazione dalle forze pulsionali. Jung, viceversa, non si pone di fronte all'inconscio con pregiudizio, con griglie interpretative precostituite, non cerca di costringere la voce dell'inconscio in una traduzione razionale che la snatura e la mortifica; ma si lascia interrogare dall'inconscio e rispetta il discorso dell'inconscio così come esso si dà e si dice nei sogni, nelle fantasie, nelle patologie, nella sofferenza: soprattutto riconosce l'autonomia dell'inconscio.(14) La scoperta dell'inconscio come soggetto, si accompagna inevitabilmente anche alla rivalutazione del paziente come soggetto; aspetto questo che prepara una ulteriore evoluzione nell'ambito della relazione terapeutica. Relazione che vede un contemporaneo coinvolgimento di terapeuta e paziente: due sistemi psichici che interagiscono tra loro profondamente, che si compenetrano l'un l'altro, fecondandosi reciprocamente: "...Il terapeuta non è più il soggetto che agisce, bensì è il compartecipe di un processo di sviluppo individuale"(15).

Il terapeuta non può più illudersi di essere osservatore neutrale, di poter fare conoscenza pura degli accadimenti psichici del paziente, di rimanere estraneo alla sua vicenda. Per Jung il processo individuativo coinvolge sia il paziente che l'analista.

"E così la conoscenza che si fa in questo rapporto non è qualcosa che riguarda il passato del paziente, ma una nuova forma di vita che scaturisce dal lavoro comune. La traslazione non viene più intesa come la ripetizione di un modo di rapporto passato nella vicenda analitica, ma come un rapporto nuovo in cui tutti e due sono implicati con la propria coscienza ed il proprio inconscio...",(16) ci ricorda Orbecchi.

III È evidente a questo punto la profonda trasformazione che è avvenuta all'interno del rapporto terapeutico, e del lavoro terapeutico stesso, dell'opus. Un lavoro, un cammino non più diretto alla"presa di coscienza delle cause", che non ha più come oggetto, o come fine l'uomo ridotto alla pura dimensione istintuale, pulsionale; un lavoro che si compie nell'incontro autentico con l'altro, inteso come uomo nella sua totalità: con i suoi istinti, certo, con le sue ombre, naturalmente, ma anche con quelle forze interiori che lo spingono verso lo spirito, quelle forze interiori che alimentano il flusso ininterrotto delle intuizioni che muove l'uomo alla ricerca del numinoso. Ma certo, come ci rammenta Jung, l'esperienza non si può mai fare: accade.(17) E però

"... è possibile avvicinarsi... Esistono vie che conducono in prossimità dell'esperienza, ma dovremo guardarci dal chiamarle"metodi", perché questo nome ha un effetto letale; inoltre, la via verso l'esperienza non è affatto uno stratagemma, bensì un rischio che esige l'incondizionato impegno dell'intera personalità".(18)

E la psicoanalisi è una di queste vie. È la via che ci insegna a non provare vergogna, o timore, o imbarazzo, per i sintomi: quelle fantasie, quelle immagini, quelle idee che sentiamo così avvilenti, che all'improvviso, nei momenti meno opportuni, si impadroniscono di noi, ricordandoci come siamo esseri abitati, non padroni a casa nostra. È la via che ci insegna a dar valore ai nostri sogni, in quanto proprio da essi possono giungerci i messaggi più chiarificatori. È la via che ci consente di comprendere come"al momento culminante della malattia, l'elemento distruttivo si (tramuti) in elemento guaritore".(19) Allora il lavoro analitico si ribalta completamente rispetto a come era stato prospettato da Freud. Non si tratta di allearsi con l'io, ma al contrario che quell'io, che troppo unilateralmente si era sviluppato, abdichi, si sacrifichi, lasci spazio all'accadere psichico, si pieghi all'esperienza: l'esperienza di queste forze interne che ci abitano, e la cui scoperta è sempre sconvolgente.

Voglio qui ricordare il protagonista di Buio a mezzogiorno di Koestler, quel Rubasciov, che dirigente del partito stalinista, cade, come tanti altri compagni, nella rete delle epurazioni.

Entriamo nella fredda, squallida cella che lo accoglie mentre gli si fa innanzi l'ineluttabile destino.

"Rubasciov aveva sempre creduto di conoscersi abbastanza bene. Essendo senza pregiudizi morali, non si faceva illusioni del fenomeno detto"prima persona singolare" ed era convinto, senza particolare emozione, che questo fenomeno fosse caratterizzato da certi impulsi che la gente è in genere riluttante ad ammettere. Ora, mentre se ne stava con la fronte schiacciata contro la finestra o si fermava bruscamente sulla terza piastrella nera, aveva fatto delle scoperte inaspettate. Aveva notato che quei processi, noti erroneamente come"monologhi", sono in realtà dei dialoghi di specie particolare; dialoghi in cui una delle parti resta silenziosa, mentre l'altra, contro ogni regola grammaticale, si rivolge alla prima dandole dell'Io anzi che del Tu, allo scopo di conquistarsi la sua fiducia e scandagliare le sue intenzioni; ma la parte silenziosa resta in silenzio, si schermisce da ogni sguardo indiscreto e rifiuta perfino di essere localizzata nel tempo e nello spazio. Ora, tuttavia, sembrava a Rubasciov che la parte solitamente silenziosa parlasse di tanto in tanto, senza esserne sollecitata e senza alcun visibile pretesto; la sua voce sonava del tutto ignota a Rubasciov, che ascoltava sinceramente stupito e s'accorgeva che le sue labbra si muovevano. Quelle esperienze non avevano nulla di mistico e di misterioso; erano di un carattere di grande concretezza; e con le sue osservazioni, Rubasciov, finì col convincersi che c'era un componente del tutto tangibile in quella prima persona singolare, il quale, rimasto silenzioso in tutti quegli anni, ora aveva cominciato a parlare.".(20)

Già il titolo, Buio a mezzogiorno, sembra sottolineare la consapevolezza dell'esistenza di una inevitabile tendenza all'enantiodromia che è propria della vicenda della vita:"col mezzogiorno inizia la notte(21)". E certamente la vicenda umana di Rubasciov è una vicenda enantiodromica. Ma qui vorrei soffermarmi su altri aspetti. Questo breve brano può ben costituire la sintesi di quanto è stato detto finora.

" Rubasciov aveva sempre creduto di conoscersi abbastanza bene..." L'illusione di ogni essere umano di sapere tutto di sé, di essere padrone di se stesso, di essere espressione della propria volontà;"...era convinto, senza particolare emozione, che questo fenomeno fosse caratterizzato da certi impulsi che la gente è in generale riluttante ad ammettere". Ecco l'uomo ridotto all'equazione pulsionale: l'uomo non è altro che istinto. Quando ad un certo punto, non casualmente nel momento in cui si consuma la crisi, ecco scoprire l'esistenza dell'altro in noi, qualcuno che ci abita, che si fa sentire quando decide lui, dopo anni. Viene in mente Socrate e quell'uomo che abita nella sua casa, quello stretto parente, sempre pronto ad interrogarlo, a conversare con lui, a rimettere in discussione quanto apparentemente definito.(22)

"Quelle esperienze" è consapevole Rubasciov"non avevano nulla di mistico o di misterioso, erano di un carattere di estrema concretezza..." Dice Jung a proposito della psicologia:"...(il suo) punto di vista è esclusivamente fenomenologico, vale a dire s'interessa di casi, di avvenimenti, di esperienze, insomma di fatti. La sua verità è un dato di fatto, e non un giudizio... Dal punto di vista della psicologia l'idea è vera, in quanto esiste... Questa non è filosofia platonica, bensì psicologia empirica":(23) ha carattere di grande concretezza.

Questo compagno silenzioso, che improvvisamente Rubasciov scopre dentro di sé, non risponde a domande dirette e meditazioni logiche:

"... le sue parole non erano determinate da alcuna causa visibile... La sua sfera mentale sembrava composta da parti così varie e sconnesse quali le mani giunte della"Pietà", i gatti di Nano Loewy, il motivo della canzone "Debbono tutti ridursi in cenere"... Rubasciov cercò di studiare a fondo questa entità di recente scoperta, durante i suoi vagabondaggi in cella; e con la ritrosia tipica del Partito a valorizzare la prima persona singolare, l'aveva battezzata"finzione grammaticale". Egli aveva probabilmente solo poche settimane da vivere, e sentiva la necessità impellente di chiarire il problema, di"riflettervi fino ad una conclusione logica". Ma il regno della"finzione grammaticale" sembrava cominciare proprio là dove terminava"la conclusione logica". Era evidentemente una parte essenziale del suo essere, restar fuori del raggio del pensiero logico, e quindi cogliervi di sorpresa, come in un'imboscata, ed aggredirvi con fantasticherie...".(24)

È possibile cogliere il pregiudizio negativo che accompagna l'uomo razionale quando si confronta con le manifestazioni dell'anima: non è nient'altro che..."una finzione grammaticale". Eppure questa"finzione" sfugge ad ogni considerazione logica, si impadronisce di noi in maniera sorprendente, ci porta in un mondo fatto di frammenti allusivi; quei frammenti, quelle immagini che contengono i germi della nostra vita più autentica. Quei frammenti, quelle immagini che ci ricordano i nostri errori, le nostre colpe; ma senza l'esperienza dei quali oggi non si potrebbe risvegliare il germe della consapevolezza. È il confronto"con la propria via di Damasco":(25)

"Saulo" dice Jung"non deve la sua conversione né al vero amore né ad una qualunque verità; è stato soltanto il suo odio verso i cristiani a condurlo sulla via di Damasco e quindi a quell'esperienza che doveva essere decisiva per la sua vita. Egli ha vissuto con convinzione il suo peggior errore; da ciò deriva la sua esperienza".(26)

Nel momento di crisi in cui il progetto dell'io subisce uno scacco irreparabile, ecco che si fa sentire una voce flebile apparentemente incoerente, fatta di frammenti; frammenti che sono il frutto di quei pensieri, di quei momenti riflessivi intuiti, ma mai davvero ascoltati. Pensieri che si sono lasciati volar via: apparente leggerezza pronta a trasformarsi in un peso sempre più grande per la coscienza."Pagherò, pagherò..." fa dire questa "finzione grammaticale" a Rubasciov.

In questo caso sono avvenimenti esterni che scuotono l'apparente sicurezza dell'io, e lo conducono alla scoperta di un regno che sfugge alle leggi della logica. Altre volte l'opera di scuotimento nasce dall'interno. Vertigini, crisi di panico, idee assurde, quanto implacabili, si appropriano della nostra vita. Blocchi, impedimenti: in genere, all'inizio, si minimizza, oppure si cercano delle spiegazioni logiche; od ancora si va alla ricerca di un medico che possa"guarirci" da queste stupide fissazioni; oppure, davvero atterriti, che possa scoprire e liberarci da un tormento che temiamo possa farci impazzire da un momento all'altro. In preda a veri e propri demoni, ci è difficile ascoltare, con attenzione, quello che vogliono da noi. Il desiderio è quello di liberarcene il più presto possibile; ma più è forte il desiderio di liberarcene, più intenso è il tormento. Così è ben manifestato in un sogno.

"Luigi sta camminando lungo un sentiero. Si accorge di avere qualcosa di strano. In effetti toccandosi sulla spalla avverte come questa sia deformata da una voluminosa gobba. Una gobba costituita da un ammasso di carne e visceri. Ad un certo punto si abbatte su di lui uno stuolo di uccelli neri col chiaro intento di eliminare la gobba. Luigi fugge spaventato, ma gli uccelli lo raggiungono, e si avventano sulla gobba. In quel momento sopraggiunge il fratello maggiore che in tutti i modi cerca di allontanare gli uccelli. Ma i suoi sforzi sono vani, ed anzi ad ogni tentativo il numero degli uccelli aumenta".

L'arrivo degli uccelli bene rappresenta il sintomo per cui Luigi ha intrapreso il cammino analitico. Da alcuni anni, infatti, egli soffre di improvvise crisi di panico; in quei momenti si sente come morire, soffocato da una angoscia sempre più profonda; travolto dalla paura crescente, dell'immediatezza va alla ricerca di una qualche forma di aiuto, fino a quando i sintomi non si placano. Luigi è un uomo molto attivo e capace, e quindi prova una profonda vergogna per queste crisi. Il fratello, che nel sogno cerca di allontanare gli uccelli, incarna significativamente quelle parti di Luigi concrete ed efficientiste, che non vogliono piegarsi ad accettare quanto accade, quanto avviene. Ma non è possibile sfuggire, anzi ogni resistenza porta ad un aumento del numero e della forza di questi uccelli. Ma qual è il bersaglio della loro azione? Questa gobba, questo accumulo di materia e di"visceralità" che deforma il corpo di Luigi. Allora è chiaro come il problema non sia allontanare il sintomo, rappresentato dagli uccelli neri, "curare la nevrosi"; ma lasciare che la nevrosi"curi" Luigi: il compito del terapeuta non può essere quello di eliminare il sintomo, gli uccelli, né tanto meno di eliminare la gobba, l'eccesso di materialità, di concretezza, quanto di far sì che Luigi si renda disponibile al cambiamento che quelle forze interiori, incarnate negli uccelli, gli richiedono. Il compito del terapeuta è quello di trasmettere il"senso" che questi uccelli incarnano; aiutare a coglierne il significato, in modo da poterli accogliere"Soltanto ciò che ha significato redime",(27) dice Jung: ed ancora:"La psiconevrosi è in ultima analisi una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato".(28)

E senso e significato riguardano la dimensione dello spirito: Quella dimensione che nel sogno è stata sacrificata, a favore di una visione più concretistica, istintuale anche, se pensiamo alla associazione tra viscerale ed istintuale. E certo, in questo caso, il cammino è lungo. Non c'è alleanza con queste forze. Vengono viste, vissute come minacciose e pericolose. Lontano è ancora il momento dell'accettazione e dell'accoglimento. A differenza di Rubasciov, che per quanto stupefatto, si apre alla conoscenza dell'altro che è in lui, qui le forze che spingono all'individuazione sono vissute come estranee e nemiche. Certo nemiche di un vecchio io, che deve mutare, certo estranee perchè appartengono ad un mondo che ancora Luigi sente lontano. L'incontro in questo caso è scontro, non è ancora il momento della grazia che disvela in una luce d'estasi. E' invece il momento della lotta e della ribellione, è il momento del passaggio all'inferno. Ed in effetti l'immagine onirica ricorda davvero un quadro dantesco, ricorda davvero un girone infernale. Si coglie la funzione compensatoria dell'inconscio che agisce là dove c'è un eccesso. Un eccesso di materialità non può che costellare un intenso richiamo alla spiritualità. E gli uccelli sono proprio espressione della forza dello spirito. E per altro tanto più lontani si è dallo spirito, tanto più l'incontro con esso non potrà non essere spaventoso:

 

 

 

Gli angeli sono tutti tremendi. Eppure, ahimé,

io invoco voi, uccelli d'anima che quasi fate morire,

pur sapendovi,(29)

ci ricorda Rilke. 

 

Note

 

1. Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), Boringhieri, Torino, 1974, p. 453.

2. J. Hillman (1983), Le storie che curano, Cortina, Milano, 1984, p. 76.

3. R.M. Rilke (1923), Elegie Duinesi, Einaudi, Torino, 1978, Prima Elegia, vv. 80-81, pp. 6-7.

4. S. Freud, Poscritto del 1927 al Problema dell'analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale., in Opere, Boringhieri, Torino, 1978, vol. 10, p. 417.

5. C.G. Jung (1943), Psicoterapia e concezione del mondo, in Opere, Boringhieri, Torino, 1981, vol. 16, p. 93.

6. J. Campbell (1988), Il Potere del mito, Guanda, Parma, 1990, p. 32.

7. S. Freud (1937), Analisi terminabile e interminabile, in Opere, Boringhieri, Torino,1979, pp. 517-518.

8. Cfr. C.G. Jung (1935), Principi di psicoterapia pratica,in Opere, Boringhieri, Torino,1981, vol.16.

9. S. Fornari (1963), La psicoanalisi e i fondamenti della Psicoterapia, in Nuovi Orientamenti nella Psicoanalisi, Feltrinelli, Milano, 1966, p.9.

10. C.G. Jung (1951), Questioni fondamentali di psicoterapia, in Opere, Boringhieri, Torino, 1981, vol. 16, p.124.

11. Cfr. F. Fornari, op. Cit.

12. C.G. Jung (1935), Che cos'è la psicoterapia?, in Opere, Boringhieri, Torino, 1981, vol. 16, p. 29.

13. C.G. Jung, ibid., p. 29.

14. Cfr. C.G. Jung (1938), Psicologia e Religione, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979.

15. C.G. Jung (1935), Principi di psicoterapia pratica, op. Cit., p. 12.

16. M. Orbecchi (1983), Carl Gustav Jung e la nuova scienza, supra.

17. C.G. Jung (1932), I rapporti della psicoterapia con la cura d'anime, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, vol. 11, p. 315.

18. C.G. Jung, ibid., p. 315.

19. C.G. Jung, ibid., p. 327.

20. A. Koestler (1938), Buio a mezzogiorno, Mondadori, Milano, 1981, pp. 129-130.

21. C.G. Jung (1938), Commento al"Segreto del fiore d'oro", in Opere, Boringhieri, Torino, 1988, vol. 13, p.24.

22. Platone, Ippia Maggiore.

23. C.G. Jung (1938), Psicologia e Religione, op. Cit., pp. 16-17.

24. A.Koestler (1946), Buio a mezzogiorno, op. Cit., pp. 132-133.

25. C.G. Jung (1932), I rapporti della psicoterapia con la cura d'anime, op. Cit., p. 322.

26. C.G. Jung, ibid., p. 315.

27. C.G. Jung, ibid., p. 314.

28. C.G. Jung, ibid., p. 314.

29. R.M. Rilke (1923), Elegie Duinesi, op. Cit., Seconda Elegia, vv. 1-3, p. 10-11.