Famiglia, società e libertà
Alba Dini Martino
Docente di Sociologia della famiglia, Pontificia Università Gregoriana

 

Da un punto di vista sociologico, potremmo definire la famiglia il primo gruppo umano organizzato della società, il fondamento della società, l'unità di base naturale (anche se non tutti sono d'accordo su questo aggettivo e considerano la famiglia come un prodotto storico, piuttosto che naturale) della società. Le famiglie, più che la famiglia, costituiscono dunque il tessuto sociale primario.

Il modello familiare è cambiato molto nel corso dei secoli; non è un caso che una riflessione sistematica sulla famiglia sia cominciata solo verso la metà del secolo scorso (con Comte e Durkeim, per citare solo alcuni fra i primi studiosi). Dopo la prima industrializzazione, infatti, lo spostamento dalle campagne alle città e l'urbanizzazione avevano cambiato la struttura familiare patriarcale, molecolare, estesa - che era stata da moltissimi secoli l'unico modello esistente - in famiglia coniugale, nucleare, ristretta. Oggi molti considerano questo processo ancora in evoluzione, tanto che preferiscono parlare di famiglia non più nucleare, facendo così riferimento a un certo numero di figli, ma piuttosto coniugale.

È cambiato il rapporto fra numero di famiglia e popolazione: secondo l'ultimo censimento del 1991, le famiglie in Italia erano passate dai circa 14 milioni del 1961 ai 20 milioni del 1991. Certo, è aumentata anche la popolazione, ma non con la stessa velocità. C'è stata sostanzialmente una frammentazione crescente della famiglia, una progressiva semplificazione della sua struttura e l'abbassamento del numero dei figli: in particolare, il dato è di circa 3,6 figli per ogni famiglia nel 1961 e di 2,8 nel 1991. Oggi le famiglie italiane sono composte nel 70% dei casi da 3 persone. Ci sono poi i nuclei unipersonali, che sono circa il 20,6% delle famiglie, ovvero una su cinque. E qui ci imbattiamo in un primo problema di definizione, perché se la famiglia corrisponde al primo gruppo umano organizzato della società, come considerare quelle formate da una sola persona? L'Onu alla fine ha riconosciuto come famiglia a tutti gli effetti anche quella formata da una sola persona. Il 54,3% sono anziani, in maggioranza donne anche perché come è noto hanno un'attesa di vita più lunga, superiore agli 80 anni contro i 73 degli uomini, ed è interessante notare che per le donne è in continuo aumento in tutto il mondo (tranne in Africa), anche per le migliorate condizioni igieniche e il minor numero di gravidanze. L'84% dei single sono occupati o godono di una pensione.

C'è anche un abbassamento della nuzialità a partire dalla generazione delle donne nate nel 1957: l'età media è di circa 23 anni per le donne e di 26 per gli uomini. L'81,9% dei matrimoni viene celebrato con rito cattolico. Le separazioni legali sono circa il doppio dei divorzi, e questo significa, tra l'altro, che anche nel caso di una nuova unione non c'è interesse a contrarre un secondo matrimonio, che infatti riguarda solo il 5% dei separati. Il divorzio è forse l'indicatore primario della instabilità strutturale di cui oggi soffre la famiglia, anche se è stato sempre considerato un indicatore difettoso visto che non può tener conto delle separazioni di fatto o delle convivenze. C'è da dire, comunque, che in Italia il divorzio è meno diffuso che in altri paesi, anche se negli ultimi 6 anni si è registrato un progressivo aumento anche al Sud, tradizionale zoccolo duro delle famiglie stabili.

In conseguenza del divorzio l'11% delle famiglie è monoparentale. Per quanto riguarda le convivenze prematrimoniali, costituiscono la prassi soprattutto nel Nord-Europa e negli Stati Uniti, anche se gli studiosi hanno osservato che, più che un modello alternativo di famiglia, costituiscono una forma di fidanzamento, una sorta di transizione verso il matrimonio che diventa poi automatico, almeno nella maggioranza dei casi, con l'arrivo di un figlio.

C'è però un'ulteriore considerazione da fare: il fatto che non si riesca a contrarre il matrimonio senza convivere prima fa pensare a un'unione sostanzialmente debole, in cui uno dei due o entrambi sono deboli e si strumentalizzano a vicenda. Che cosa significa, infatti, che non si riesca a dire per sempre con reciproca responsabilità se non una grande paura ma anche un grande egoismo e una grande incapacità di prendere decisioni definitive?

Accanto a questo modello c'è quello della cosiddetta famiglia lunga del giovane adulto: nella fascia d'età fra i 20 e i 24 anni il 79,2% dei giovani vive in famiglia in qualità di figlio. Nel 90% dei casi esce di casa solo per sposarsi o convivere, non per andare a vivere da solo: e questo, per esempio, può significare anche una difficoltà dei giovani a separarsi dalla famiglia di origine, anche per gli studi prolungati o per la ricerca del lavoro che nel 40% dei casi avviene dopo i 25 anni.

La dinamica demografica, cioè il rapporto fra natalità e mortalità del nostro paese, indica una crescita zero. Il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna in età feconda, è di circa 1,16, mentre per il ricambio generazionale, cioè per un equilibrato rapporto fra le generazioni, sarebbe necessario un tasso medio di 2,2 figli per donna.

Questo è uno dei principali problemi che la famiglia si trova oggi ad affrontare. Oggi magari non ce ne rendiamo conto, ma la popolazione italiana si restringerà progressivamente e il ricambio generazionale verrà presumibilmente dall'arrivo di nuove popolazioni, di nuove culture. È evidente che alla base della crescita zero c'è la diffusione dell'aborto e della contraccezione: quest'ultima si può considerare un sinonimo di aborto perché come sapete i contraccettivi più efficaci sono degli abortivi e quindi da un punto di vista teorico la cosa non cambia: si tratta comunque di eliminazione della vita umana. Nel decennio 1978-88 gli aborti sono stati circa 2 milioni.

Oggi si parla sempre più spesso non di maternità ma di riproduzione, che è un termine tratto dalla zootecnia. Ormai anche la parola procreazione quasi non è più quella esatta perché ci troviamo di fronte al fatto che l'uomo sa come accendere la vita ma non sa perché.

Altro problema riguarda le cosiddette famiglie di fatto, cioè le convivenze a cui si vuole riconoscere una rilevanza di diritto: una questione legata alla discussione fra sesso e genere. La nozione di sesso affonda il suo significato negli aspetti biologici, che sono validi per tutte le culture. Non è un problema di progresso storico: si nasce maschio o si nasce femmina. Oggi si fa strada invece la nozione di genere, com'è emerso alla conferenza di Pechino, che affonda le sue radici nell'interpretazione culturale e soggettiva che si dà a quei fondamenti biologici. Quando si separa il sesso dal genere come si tende a fare oggi il risultato sono i 5 generi della suddetta conferenza : il maschile, il femminile, l'omosessuale maschile, l'omosessuale femminile, il transessuale. Secondo questo gruppi di opinione il genere ognuno se lo assegna da sé indipendentemente dal sesso.

Da questa prospettiva parlare di famiglie di fatto e compararle alle famiglie di diritto, fondate almeno sul matrimonio civile uomo-donna, significa dare legittimazione ad ogni situazione. Si capisce dunque come la discussione su sesso e genere non sia affatto una questione accademica visto che poi ha conseguenze pratiche, sia dal punto di vista giuridico che delle politiche sociali. Ad esempio in Svezia la convivenza mori uxorio, anche fra omosessuali, ha un suo riconoscimento sociale e giuridico. Negli altri paesi occidentali non c'è una disciplina organica, ma in Francia c'è un'attribuzione dei diritti connessi con la protezione sociale non tanto sulla base dell'appartenenza familiare quanto in riferimento agli specifici bisogni sociali dei singoli individui. In Italia i figli naturali hanno gli stessi diritti dei figli generati dalle famiglie di diritto, anche se nel nostro paese sono solo l'8% dei bambini, contro il 50% della Danimarca.

Da questo quadro emerge come non esista più la famiglia nel suo significato originario. Tutto è puntato sulla soggettività. Così è stato impostato tutto il dibattito culturale che ruota intorno ai termini di empowerment e di mainstreaming. Il primo corrisponde alla presa del potere a partire dalla presa di coscienza della propria dignità per trovare poi degli strumenti di esercizio di questa consapevolezza. Il secondo potremmo tradurlo come trasversalità per eccellenza, ovvero la condizione della donna come questione trasversale: la questione femminile come flusso problematico che attraversa tutti gli altri problemi e in base al quale oggi si sta costruendo tutta la politica delle Nazioni Unite sui problemi dello sviluppo e della crescita demografica.