Famiglia e matrimonio nell’Islam

 

Abbiamo visto che l’Islam sunnita ha le sue basi fondamentali nel Corano e nella Sunna. Abbiamo accennato anche al fatto che la rivelazione coranica è rivelazione di norme di vita, non del Dio rivelante. La fâtiha prega Dio di insegnare ai fedeli la "via diritta" (al-s³irât³ al-mustaqîm) mediante la quale possano regolare la loro vita secondo il volere di Dio. Questo versante "normativo" del Corano viene chiamato con un altro termine, anch’esso coranico, che significa "via", "strada": sharî‘a. Di per sé la sharî‘a non si identifica con un codice di leggi, che ha in arabo un altro nome: qânûn e che è regolato da una branca assai importante della riflessione musulmana: il fiqh, cioè il diritto. L’importanza di quest’ultima branca della riflessione musulmana deriva direttamente da quanto detto prima: nell’ambito dell’Islam non si riflette tanto su Dio quanto su ciò che Dio ha ordinato agli uomini di fare. Di fatto il diritto viene a raggiungere per la comunità musulmana quasi la stessa importanza della Sunna. Nei primi due secoli dell’Islam si differenziano quattro scuole giuridiche, tutte considerate ortodosse e tutte che pretendono di richiamarsi alla sharî‘a. Il "consenso generale" (ijmâ‘) richiesto alla umma si va spostando all’interno della medesima scuola giuridica. Queste quattro scuole giuridiche si chiamano: malikita, che privilegia la Sunna e si serve quindi ampiamente dei detti del Profeta; h³anafita, che privilegia l’opinione personale del giudice; shafi‘ita, che privilegia il consenso comunitario; h³anbalita, la più stretta, che privilegia il Corano e la Sunna, escludendo qualsiasi opinione personale del giudice. Esse si sono diffuse in tutta la umma, contaminandosi talora l’una con l’altra ma segnando tuttavia della loro impronta intere regioni di espansione dell’Islam. Nelle regioni che ci interessano in particolare, lungo la sponda africana del Mediterraneo, le due scuole più presenti sono la malikita, presente e prevalente in tutto il Maghreb, e la h³anafita, presente soprattutto in Egitto. Dalle scuole giuridiche e dalle loro interpretazioni della sharî‘a dipende in pratica, anche nelle legislazioni degli stati moderni, il corpo giuridico che passa sotto il nome di "statuti personali". È questo corpo giuridico che regola anche la legislazione matrimoniale.

Ma questo argomento ha un impatto notevole anche dal punto di vista emotivo alle nostre orecchie, tra l’altro perché richiama la disparità tra marito e moglie, presente nella legislazione, anche se spesso non nella normalità della vita coniugale. Forse non sarebbe male pensare alla situazione, anche italiana, di qualche decennio fa.

Qualche versetto coranico che esprime la concezione della donna nell’Islam: 4,1; 4,124; 40,40: pari dignità umana. 2,223; 4,34: soprattutto su quest’ultimo versetto si sono basate le scuole giuridiche per sanzionare la superiorità dell’uomo sulla donna, adottando, sancendo e inserendo nella legislazione musulmana spesso usi e costumi legati alla storia e alla geografia. (Per quanto riguarda la questione del velo [h³ijâb], cf 33,59)

Per parlare di matrimonio e famiglia cito alla lettera o sunteggio un recente libro aggiornato e molto ben informato: R. Aluffi Beck-Peccoz (a cura), Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord-Africa, Dossier Mondo Islamico 4, Fondazione G. Agnelli, Torino 1997.

Il diritto di famiglia non segue i percorsi della legislazione civile ma affonda le radici nel diritto sacro dell’Islam, la sharî‘a, riformulata in codici e leggi dai diversi stati arabi durante l’ultimo secolo.

La "personalità" [per spiegare il significato dell’espressione "statuto personale"] rimanda all’applicabilità su base personale di questo gruppo di norme, che riguardano anche il diritto di famiglia. La sharî‘a è applicata ai musulmani dal giudice musulmano, lasciando che i non musulmani vengano retti dai loro propri diritti, amministrati dai rispettivi giudici confessionali. L’espressione viene mantenuta però anche quando, in genere dopo che il singolo paese raggiunge l’indipendenza, per costruire una forte identità nazionale si unifica il diritto applicabile nel territorio. Allora il diritto musulmano codificato è applicabile, nella sua totalità o in parte, all’insieme dei cittadini a titolo di diritto unico dello stato. È quanto avviene nei paesi del Nord Africa, con la sola eccezione dell’Egitto, dove l’unificazione è limitata all’ambito delle successioni e dell’atto di ultima volontà.

Lo statuto personale è dunque una partizione caratteristica dei sistemi giuridici arabi, e più in generale islamici, che si è definita storicamente come l’ambito di massima resistenza opposta dal diritto musulmano ai progetti di modernizzazione, di occidentalizzazione e di riforma giudiziaria e sostanziale.

Matrimonio come contratto

Per il diritto musulmano il matrimonio è un contratto. L’islam non conosce il concetto teologico di sacramento, caratteristico del cristianesimo.

Come ogni altro contratto, il matrimonio è concluso con il consenso delle parti contrattanti. Le parti del contratto non coincidono però necessariamente con gli sposi. Occorre considerare che, secondo la sharî‘a, ogni persona può essere titolare del rapporto matrimoniale, anche il bambino appena nato. Se l’individuo, a causa dell’età immatura, non è in grado di decidere e di concludere il matrimonio, qualcuno lo farà per lui: il tutore matrimoniale (walî), che normalmente è il padre. Nei matrimoni precoci la volontà matrimoniale è del tutore, che quindi esercita il potere di costrizione matrimoniale (ijbâr). Tale potere cessa quando l’individuo ad esso sottoposto raggiunge la pubertà. Fa eccezione, secondo i malikiti, la donna vergine. La verginità, allo stesso modo della giovane età, implica poca conoscenza della vita, e giustifica il prolungarsi del potere di costrizione del tutore.

La questione della formazione della volontà matrimoniale si intreccia con quella della sua manifestazione. La donna, anche se non soggetta al potere di costrizione, non può di norma concludere direttamente il matrimonio: soltanto i h³anafiti (nei nostri casi concreti in Egitto) ammettono che la femmina libera, pubere e sana di mente sia parte del contratto. L’intervento del tutore resta dunque necessario ed è facile comprendere come nei fatti il walî finisca per guidare, o almeno partecipare, alla scelta della donna.

Ciò d’altra parte non stupisce, se si considera che il matrimonio è inteso dal diritto islamico, oltre che come unione di due vite, come alleanza tra due famiglie. Le regole in materia di adeguatezza matrimoniale ne sono una prova. Sia la sposa che il tutore matrimoniale possono reagire alla conclusione del matrimonio con un uomo non degno della donna o alla determinazione di un mahr inferiore a quello normalmente pagato per una donna di rango equivalente a quello della sposa. Dunque tanto la donna quanto la sua famiglia sono titolari di un autonomo interesse a un buon matrimonio.

Le moderne riforme eliminano il fenomeno dei matrimoni precoci, fissando un’età matrimoniale minima. Proibiscono al tutore di costringere la donna al matrimonio. Non sempre tuttavia la donna è ammessa alla diretta conclusione del contratto.

Il matrimonio è concluso alla presenza di due testimoni. Lo sposo è tenuto a pagare la dote (mahr o s³ada\q), il cui ammontare è fissato nel contratto. Tale dote è segno della legittimità dell’unione. È di proprietà della donna, che ne dispone come meglio crede. L’istituto è oggi criticato da chi lo considera contrario al principio di uguaglianza tra i sessi e al rispetto della dignità umana, in quanto assimilabile a un prezzo da pagare per la sottomissione e disponibilità della donna. Il mahr può tuttavia offrire protezione agli interessi della donna: si può ad esempio convenire che esso sia pagato in tutto o in parte al momento del ripudio o della morte. Nel primo caso esso svolge un efficace ruolo di deterrente nei confronti dell’esercizio arbitrario e capriccioso del ripudio, il potere che la sharî‘a attribuisce al marito di sciogliere il matrimonio. In caso di morte del marito invece la corresponsione di un mahr di qualche importanza può essere di grande aiuto alla vedova, i cui diritti di erede sul patrimonio del coniuge sono esigui.

Il matrimonio musulmano, pur potendo essere sciolto con facilità, è concluso per durare: è proibito il matrimonio a termine (mut‘a), almeno nell’ambito dell’Islam sunnita.

Le parti possono apporre al contratto clausole e stipulazioni dirette a modificarne gli effetti tipici, purché non contrastanti con i principi irrinunciabili che lo reggono. Tale opinione, tradizionalmente riferibile alla sola scuola h³anbalita, è oggi recepita da tutti i legislatori. È quindi possibile che la moglie pretenda dal marito l’impegno di non trasferire il domicilio coniugale dalla città di origine, di permetterle di esercitare una professione o di partecipare alla vita pubblica, di non chiederle di seguirlo nei suoi viaggi. Il marito può inoltre promettere di non sposare un’altra donna (clausola di monogamia), o può dare alla donna mandato di autoripudiarsi. Alcuni suggeriscono che tramite l’apposizione di una clausola gli sposi possano decidere la comunione degli acquisti, in deroga al regime patrimoniale normale che è quello della perfetta separazione dei patrimoni dei coniugi. Nei matrimoni misti, accordi particolari circa l’educazione religiosa dei figli, in contrasto con il principio per cui i figli devono essere educati nella religione paterna, sono destinati a essere considerati nulli.

Tra gli sposi non devono esservi impedimenti. Gli impedimenti si distinguono in perpetui e temporanei. Sono impedimenti perpetui la parentela, l’affinità e l’allattamento, che istituisce tra il lattante da un alto e la nutrice e i suoi parenti dall’altro un rapporto assimilato alla parentela di sangue.

Più numerosi sono gli impedimenti temporanei:

a) l’uomo non può sposare la donna che ha ripudiato tre volte (con eccezioni particolareggiate; la possibilità di pronunciare la formula tre volte di seguito, senza quindi la possibilità di riprendere la moglie o di ritornare sulla sua decisione);

b) la donna musulmana non può sposare il non musulmano; il musulmano può sposare la non musulmana se appartiene alla "gente del libro". Questo impedimento ha diretta base coranica e quindi è considerato insormontabile anche da gran parte del pensiero riformista. È temporaneo, dato che può essere superato con la conversione dell’uomo all’Islam. La differenza di fede che costituisce impedimento è rilevante anche se sopravviene in seguito. Se ad esempio nel matrimonio tra due non musulmani la donna si converte all’Islam, l’uomo è invitato a seguirla. Se non lo fa, il matrimonio si intende sciolto;

c) l’esistenza di un precedente matrimonio è di impedimento per la donna, che non può risposarsi finché si trova nella potestà del marito precedente. Non così per l’uomo, che può sposare contemporaneamente fino a quattro donne;

d) l’uomo non può avere come mogli allo stesso tempo due donne che, se una di loro fosse maschio, non potrebbero sposarsi per l’esistenza di un impedimento da parentela. Così ad esempio due sorelle non possono avere lo stesso marito: se si trattasse di fratello e sorella infatti, il matrimonio tra loro sarebbe proibito.

Il matrimonio musulmano è dunque poligamico (fino a quattro mogli nello stesso tempo): il Corano fa obbligo al marito di trattarle con giustizia (4,3). Gli interpreti contemporanei del Corano mettono questo versetto in connessione con un altro (4,129), secondo il quale l’uomo, pur desiderandolo, non è capace di agire con equità nei confronti delle proprie mogli. Dunque l’esercizio della poligamia è sottoposto a una condizione che Dio stesso dichiara non realizzabile. Se ne deduce che il matrimonio poligamico è nella normalità dei casi virtualmente proibito. Su questa nuova interpretazione del testo coranico fanno leva diversi legislatori per introdurre misure di dissuasione e di controllo più o meno penetrante circa la conclusione dei matrimoni poligamici.

Il matrimonio viziato perché privo di un elemento costitutivo o concluso nonostante l’esistenza di un impedimento non fonda la vita matrimoniale. L’uomo e la donna devono separarsi. Il giudice pronuncia il fashÅ, accertando la difformità del contratto dal modello legale. Lo stesso avviene quando il vizio sopravviene dopo che la vita matrimoniale si è validamente costituita. Così, se l’uomo commette apostasia (ridda) abbandonando l’Islam perde ogni suo diritto, inclusi quelli di natura successoria o matrimoniale, e il giudice pronuncia il fashÅ. La sanabilità del matrimonio viziato è ipotesi eccezionale: i malikiti ad esempio l’ammettono per il caso in cui nel contratto non si sia fissato l’ammontare del mahr, che per loro costituisce elemento essenziale del matrimonio. Il contratto è sanato con l’impegno dell’uomo a pagare il mahr di equivalenza. Il matrimonio viziato non può essere sciolto mediante ripudio o divorzio. Dal matrimonio invalido può derivare un limitato numero di effetti, tra cui l’attribuzione all’uomo del figlio concepito dalla donna.

La vita coniugale che trae vita dal matrimonio è segnata dalla preminenza dell’uomo: la donna deve mettersi a sua disposizione e prestargli obbedienza. Il corrispettivo di tale quotidiana sottomissione è il mantenimento che l’uomo versa alla moglie, indipendentemente dalla condizione di bisogno di lei: esso comprende il vitto, l’alloggio, il vestiario, le spese mediche e il servizio. L’insubordinazione ingiustificata della donna determina la sospensione del mantenimento. Il mantenimento è dovuto per tutto il tempo che la donna resta nella potestà dell’uomo, cioè fino alla fine del ritiro legale (‘idda) che segue lo scioglimento del matrimonio per morte, ripudio o divorzio. Il ritiro legale permette di accertare l’eventuale gravidanza della donna; esso dura generalmente tre mesi, dopo i quali il marito non ha più alcun obbligo nei confronti della moglie. Dopo lo scioglimento del matrimonio, la donna che non ha redditi propri resta a carico della famiglia di origine o dei figli.

Il marito può provocare la fine del matrimonio con una semplice dichiarazione di ripudio. Non occorre che tale dichiarazione sia motivata, né che la donna sia presente ad essa o che ne sia informata. Non occorre neppure che sia l’uomo personalmente a dare ripudio, potendo darne mandato a chiunque. Il marito ha facoltà di ripudiare tre volte ogni moglie: dopo il terzo ripudio, a differenza che dopo i primi due, l’uomo non può più ritornare sulla propria decisione e riprendere con sé la moglie prima dello scadere del ritiro legale, né può, dopo tale momento, risposare la moglie che gli diventa proibita. I giuristi musulmani ammettevano che l’uomo potesse dare i tre ripudi in una sola volta.

I legislatori attuali si sforzano in vario modo di controllare e limitare il ricorso al ripudio, che per sua natura rende la vita coniugale instabile e insicura. Lo sottopongono ad autorizzazione o controllo del giudice, sottraendolo alla sfera privata dell’uomo; cercano di coinvolgere la moglie, o quantomeno di garantire che essa ne sia informata; prevedono che l’uomo che dà ripudio volontario, o che con il ripudio cagiona un pregiudizio alla donna, sia costretto a versarle un dono di consolazione.

Mentre il marito ha il potere illimitato di ripudiare la moglie, alla donna, che non riesce a ottenere dal marito il ripudio dietro versamento di un corrispettivo (hÅul‘) non resta che ricorrere al giudice per chiedere il divorzio. La radicale disparità dei coniugi si manifesta dunque con evidenza anche in materia di scioglimento volontario del matrimonio.

La domanda di divorzio è accoglibile, secondo la scuola h³anafita, soltanto se nell’uomo c’è un vizio che rende impossibile il rapporto sessuale. I malikiti ammettono con assai maggiore larghezza la donna a chiedere lo scioglimento del matrimonio: oltre ai vizi, rileva l’inadempimento dell’obbligo di provvedere al mantenimento della moglie; l’assenza del marito che provoca un danno alla donna, esponendola alla tentazione di peccare; il mancato pagamento del mahr esigibile.

I legislatori contemporanei tendono ad ampliare il numero di ipotesi tipiche di divorzio accogliendo le regole malikite, a cui vengono talora aggiunte soluzioni nuove. Va segnalato in particolare che alcune leggi considerano il matrimonio poligamico quale causa che giustifica il divorzio. Una forma di divorzio che, per quanto arcaica, è mantenuta dai legislatori è il li‘a\n, o giuramento imprecatorio. Secondo quanto stabilito dal Corano (24,6-9), il marito attesta per quattro volte in nome di Dio che la moglie ha commesso fornicazione, e quindi invoca su di sé la maledizione di Dio se ha mentito; la donna attesta per quattro volte in nome di Dio che il marito mente, e quindi invoca su di sé la maledizione di Dio se il marito ha detto il vero. Il giuramento imprecatorio ha anche fra i suoi effetti il disconoscimento di paternità, che anzi spesso non può essere ottenuto altrimenti.

I legislatori accolgono inoltre la tradizione malikita, che ammette il divorzio come rimedio di carattere generale, cui ricorrere anche in assenza di una delle cause tipiche finora menzionate. Per ottenere lo scioglimento del matrimonio, è sufficiente che la donna dimostri di aver subito un danno o un pregiudizio dal marito, o semplicemente che tra i due coniugi sia sorto un contrasto insanabile.

In materia di filiazione (nasab) il diritto musulmano detta principi assai rigidi.

Il rapporto giuridico che lega il genitore al figlio deve necessariamente collegarsi alla generazione biologica: il diritto musulmano infatti, sulla base di due versetti coranici (33,4-5), vieta l’adozione (tabanni\). Peraltro i fuqaha\ predispongono strumenti adatti a sopperire a tale assenza, permettendo di venire in soccorso dei bambini abbandonati: chiunque può assumere l’impegno di provvedere alle necessità del trovatello (kafa\la) il quale, pur non potendo ricevere il nome dal proprio benefattore, può essere da questo equiparato a uno dei suoi eredi mediante un atto di ultima volontà (tanzi\l).

La generazione biologica è necessaria e sufficiente a stabilire il rapporto tra la madre e il figlio, che le viene attribuito per il semplice fatto del parto. Viceversa, per il sorgere del rapporto con il padre, la generazione biologica non basta: occorre che l’uomo abbia generato il figlio in un rapporto lecito. Non esiste la differenza, altrove conosciuta, tra figlio naturale e figlio legittimo. O si è figlio o non lo si è.

Le conseguenze del divieto di fondare il nasab paterno sul rapporto sessuale illecito sono assai gravi per il figlio: la mancanza del padre è per lui un marchio di infamia e lo priva del collegamento agli agnati, che garantiscono all’individuo tutela e protezione.

I giuristi musulmani si sforzano di coniugare il rispetto formale dei principi in materia di filiazione con il disegno di evitarne le applicazioni socialmente indesiderabili, sviluppando regole di dettaglio in grado di smorzarne l’efficacia. Il figlio della moglie è per presunzione attribuito al marito: ciò può avvenire logicamente anche se il parto ha luogo dopo lo scioglimento del matrimonio, purché non sia ancora trascorso il termine massimo della gestazione. Sulla determinazione della durata massima della gravidanza le opinioni sono discordi: si va dai due anni accolti dai h³anafiti fino ai sette indicati da alcuni giuristi malikiti. Alla base di tali bizzarre affermazioni c’è quella che i malikiti chiamano la teoria del feto dormiente, per cui il concepito può, per un certo periodo, vivere di vita latente nel grembo della madre.

La filiazione si può stabilire anche per riconoscimento o per prova legale. Anche in questo caso la filiazione deve essere legittima. Il ricorso al riconoscimento è necessario per il figlio partorito dalla sciava per opera del padrone: il rapporto di concubinaggio è lecito e il nasab non può stabilirsi per presunzione perché manca il matrimonio. L’insistenza on cui i giuristi raccomandano di non far cenno all’illiceità del concepimento nella dichiarazione di riconoscimento lascia intendere tuttavia che esso era impiegato largamente anche per "legittimare" figli illegittimi.

Nei sistemi attuali il principio della necessaria legittimità del nasab, anche se non espressamente recepito dal legislatore, trova largo riconoscimento presso gli interpreti. D’altro lato l’abbandono delle regole di dettaglio che più contrastano con il senso comune e l’accresciuta difficoltà a considerare il rapporto di filiazione indipendentemente dal rapporto intercorrente tra madre e padre creano disagio e incertezza. Un disagio e un’incertezza che non posso certo giovare agli intereressi dei bambini.

I ruoli svolti dal padre e dalla madre nella crescita dei figli sono distinti con precisione. Al padre spetta in esclusiva il potere di prendere le decisioni relative all’educazione del figlio, alla sua istruzione, all’avviamento al lavoro, al matrimonio e all’amministrazione dei suoi beni. Egli è il rappresentante legale del minore. Tutti questi sono aspetti particolari della wila\ya, la potestà paterna. In assenza del padre, il posto è preso da un agnato o dal tutore nominato nel testamento (was³i\). Se mancano sia gli agnati sia il tutore testamentario, il giudice provvede alla nomina di un rappresentante del minore (muqaddam). La madre deve invece custodire, sorvegliare e curare il figlio: ciò costituisce il contenuto della h³ad³a\na, o custodia del bambino. La custodia è considerata un compito squisitamente femminile: in caso di assenza o incapacità della madre, è una parente femmina, generalmente del lato materno, a sostituirla.

Se il matrimonio si scioglie in vita dei coniugi, i bambini in tenera età sono dunque affidati in custodia alla madre. La custode non deve tuttavia ostacolare il padre nello svolgimento delle sue funzioni di wali\, considerate prevalenti. I bambini restano con la madre fino al compimento dell’età determinata dalle diverse scuole come termine della custodia. La madre decade dalla custodia se si risposa con un uomo non proibito per il minore custodito. I bambini inoltre possono venire tolti alla madre non musulmana se vi è timore che ella li allontani dalla religione paterna.

Il mantenimento dei figli è a carico del padre, il quale è altresì tenuto a retribuire la custode per la sua opera. Ciò vale anche nel caso in cui a esercitare la custodia sia la madre, se ella non si trova più nella potestà maritale del padre.

Le riforme in materia di poteri dei genitori sui figli vanno nella direzione di un’attenuazione della tradizionale contrapposizione tra wila\ya e custodia: l’audacia dimostrata dai vari legislatori è tuttavia assai disuguale. Maggiore spazio è inoltre lasciato al giudice nella valutazione dell’interesse concreto del minore.

Oltre alla minore età, costituiscono cause di incapacità la pazzia, la demenza o debolezza di spirito e la prodigalità. Il giudice, dichiarando lo stato di incapacità del soggetto, gli nomina un curatore. L’incapacità non impedisce la conclusione del matrimonio.

Qui si innesta il problema dell’immigrazione e del matrimonio di cittadini musulmani sul territorio nazionale italiano o del matrimonio misto. Da una parte l’immigrato ha diritto a essere tutelato secondo la legislazione del paese di provenienza; dall’altra ha il dovere di accettare la legislazione corrente del paese ospitante. I problemi, già complessi, si possono complicare ulteriormente nel caso, che non è però sempre la norma, in cui le due legislazioni, quella del paese di provenienza e quella del paese ospitante, vengano a conflitto. È chiaro che nuove difficoltà possono venire dal fatto, per altro in aumento, dei matrimoni misti. Ci sarà da accettare che alcune norme siano ritenute valide in un paese e non lo siano nell’altro. Di qui la questione cruciale della residenza della coppia o della famiglia. Queste difficoltà non vanno enfatizzate, dal momento che sono caratteristiche di ogni società che si va aprendo alla multiculturalità sia da parte dell’Italia cattolica sia da parte dei vari Islam nazionali, ma certamente vanno affrontate con serietà e competenza. Esse non vanno nemmeno sottovalutate perché le differenze stanno nella realtà e non nella fantasia del terrorista psicologico di turno.

Negli ordinamenti dei paesi arabi è prevista l’applicazione agli stranieri della loro legge nazionale per le questioni di statuto personale, che si considera comprensivo anche delle successioni. Se tuttavia nel rapporto è coinvolto un cittadino dello stato sarà la lex fori a trovare applicazione. Oltre a questo privilegio di nazionalità, opera nei paesi arabi anche il privilegio di religione: se lo straniero è di religione musulmana, viene sottratto all’applicazione della legge nazionale laica e sottoposto alle regole della legge religiosa, così come codificate nella lex fori. La difesa dei diritti e degli interessi dei musulmani, spiegano giurisprudenza e dottrina, è questione rilevante per l’ordine pubblico; si assiste dunque alla virtuale vanificazione del sistema conflittuale fondato sul criterio della cittadinanza, ogni volta che lo straniero è musulmano.

Il matrimonio concluso in Italia davanti all’ufficiale di stato civile verrà in genere riconosciuto nel mondo arabo. Fa eccezione il Marocco, dove non vengono riconosciuti i matrimoni celebrati da un cittadino all’estero, sia che si tratti di matrimonio misto o tra due musulmani. In questo caso occorre che il matrimonio venga regolarizzato con il ricorso a due notai testimoni in Marocco o presso il consolato.

Il matrimonio tra una musulmana e un non musulmano, che non presenta alcun problema in Italia, non sarà mai riconosciuto nel paese d’origine, se in esso vige una legislazione basata sui principi dell’Islam. L’unica soluzione in questo caso consiste nella conversione del marito. La non musulmana che sposa un musulmano non ha alcun obbligo di conversione all’Islam, dal momento che il diritto musulmano le consente di poter professare la sua religione.

Questioni particolari nascono con la poligamia, permessa teoricamente, anche se sempre meno praticata sulle rive del Mediterraneo, in molti paesi arabi, ma proibita in Italia. Un secondo matrimonio potrebbe dunque essere contratto nel paese d’origine. La moglie in questo caso può chiedere il divorzio. Ma è preferibile che ponga la clausola di monogamia nel contratto matrimoniale. Lo scioglimento del matrimonio misto è regolato in Italia se la coppia risiede in Italia. La donna italiana, previa dispensa da parte dell’ordinario diocesano, può contrarre il matrimonio in chiesa, sapendo naturalmente che non si tratta della celebrazione di un matrimonio sacramento.

I problemi più gravi sono quelli che riguardano i figli nel caso di un divorzio. Se lo scioglimento del matrimonio ha luogo in Italia, è il giudice italiano a disporre dell’affidamento dei figli. Se la coppia vive nel paese arabo, ovvero se si cerca di far valere la decisione italiana in tale paese, la madre non musulmana otterrà con difficoltà l’affidamento dei figli, per ragioni legate all’ordine pubblico o in base ad argomentazioni imperniate sulla valutazione dell’interesse del bambino. Se prevale il sospetto che la madre allontani il figlio dalla religione paterna, il diritto alla custodia verrà meno.

Se il marito musulmano muore, sorge il problema della successione della moglie. Se la donna non è diventata musulmana, non ha diritti successori nei confronti del marito. Mediante l’atto di ultima volontà, il marito può destinare fino a un terzo della sua eredità alla moglie Se il marito risiedeva in Italia al momento della morte, può dichiarare di voler sottoporre la propria successione alla legge italiana. Ma tale dichiarazione non verrà riconosciuta nel suo paese di origine.

Altro tema delicato è quello dei figli naturali. Abbiamo visto che per il diritto islamico impone che la filiazione paterna sia riconosciuta solo se proviene da un rapporto lecito. Quindi alla madre non è possibile chiedere l’accertamento della paternità naturale. Non vi ostacolo al riconoscimento di paternità da parte del padre, purché non faccia cenno al concepimento illecito. Quindi è solo il padre che "liberamente" può assumersi la paternità. La sentenza straniera che accertasse l’eventuale paternità del cittadino di uno stato del Nord Africa non sarebbe accettata come valida nel suo paese di origine.

Per quanto riguarda infine i cittadini italiani di fede musulmana, è difficile immaginare la loro sottoposizione a un regime matrimoniale, famigliare e successorio diverso da quello fissato dal nostro ordinamento e contrastante con i principi sanciti dalla costituzione italiana. Anche l’eventuale matrimonio in moschea, richiesto con valore religioso, sarà sottoposto alle norme del codice civile.