Platone e la comunicazione

 

1. Qualche anno fa è comparso in Italia un libro di G. Cerri dal titolo significativo: Platone sociologo della comunicazione (il saggiatore, Milano 1991). Questo titolo è volutamente anacronistico, soprattutto perché non sembra corretto riferire ad un filosofo antico la nozione di sociologia. Tuttavia esso contiene una certa parte di verità, che lo giustifica alla pari della ricerca che introduce, se si pensa che gli stili espressivi adottati da Platone sono assolutamente caratteristici e peculiari nel quadro della produzione filosofica, e non solo antica. Intendo riferirmi, ovviamente, alla forma del dialogo, alla quale Platone si attiene in quasi tutte le sue opere. Siamo di fronte ad una fedeltà talmente assoluta ad uno stile, peraltro assai raro nella produzione filosofica successiva, che non si può davvero non tenerne conto anche quando si tratta di interpretare il contenuto del pensiero platonico: non a caso il problema della natura e del significato del dialogo è oggi al centro dell'attenzione degli studiosi della filosofia di Platone.

Da questa particolarità discende l'interesse per l'argomento di cui intendo trattare: che significato ha, per la comprensione del pensiero di Platone, il modo con cui egli ha deciso di comunicarlo? La questione non è di secondaria importanza: si è portati in genere a credere che la forma comunicativa non sia determinante, ma così non la pensava certo Platone, anzi sono convinto che si potrebbe rintracciare nella sua opera il filo conduttore di una riflessione metodologica che porta a questa precisa scelta espressiva. Questo motivo distingue nettamente Platone dagli altri filosofi che hanno scelto in epoche successive, e peraltro saltuariamente, la forma del dialogo. Penso ad esempio a figure come Leibniz o Berkeley. In questi casi ci troviamo di fronte a fredde imitazioni del procedere platonico, o ad opere in cui i personaggi sono privi di spessore e di individualità autentica. Al contrario, ciò che caratterizza la maggior parte dei dialoghi di Platone è la vivacità letteraria con cui sono ritratti i personaggi, molti dei quali storici, che vi prendono parte, spesso connotati nelle loro peculiarità individuali, emotive e caratteriali.

La raffinatezza compositiva dei dialoghi platonici e il loro elevato valore artistico sono stati messi in luce del resto anche dagli storici della letteratura. Ma che cosa hanno a che fare questi aspetti formali con la filosofia? Questa domanda nel caso di Platone è particolarmente delicata, come vedremo, per più di un motivo. Anzitutto è lo stesso Platone, in un celebre passo della Repubblica (X, 607b), a parlare di una antica controversia tra poesia e filosofia. Questo dissidio potrebbe trovare anche qualche riscontro nella biografia del filosofo. Secondo una notizia conservataci da Diogene Laerzio, Platone avrebbe scritto in gioventù delle tragedie, che avrebbe successivamente dato alle fiamme, per effetto della sua "conversione" alla filosofia (Diogene Laerzio III, 5-6). Si tratta, con ogni probabilità, di una notizia leggendaria, e del resto la storia della cultura è ricca di "conversioni" repentine, ritratte con toni drammatici a dispetto della natura lenta e speculativa dei processi di questo genere. E tuttavia il racconto di Diogene Laerzio, anche a prescindere della sua attendibilità storica, contiene un suo fondo di verità, perché collima con la costante attenzione dimostrata da Platone agli aspetti letterari della sua opera. Se si pensa ai miti contenuti nei dialoghi, risulta evidente la cura dedicata dal filosofo allo "scrivere bene", in ordine ad un preciso progetto che è assente, ad esempio, in Aristotele. Anche se va considerato che gli scritti che di quest'ultimo ci sono rimasti non erano destinati alla pubblicazione, si può affermare che egli non avesse una particolare attenzione per la forma espressiva. Invece proprio l'interesse che Platone dimostra per lo stile ha indotto molti a ritenere che per lui la filosofia sia stata una sorta di ripiego rispetto all'attività letteraria, ed è così nata la convinzione diffusa che egli avesse un animo di poeta in qualche modo in contrasto con l'attività filosofica alla quale si era egli stesso costretto.

Su questo tema hanno molto insistito i critici romantici: Platone appare ai loro occhi animato da un sentimento di amore-odio per la poesia, che egli da un lato critica duramente (soprattutto la tragedia e l'epos), dall'altro cerca di imitare dando ai suoi dialoghi un'indiscutibile impronta letteraria. Anzi, proprio nei dialoghi dove Platone prende distanza con maggior vigore da forme letterarie non filosofiche (come la Repubblica o il Fedro) si trovano alcuni fra i suoi pezzi più pregevoli da un punto di vista artistico (il mito di Er nel X libro della Repubblica e quello del carro alato nel Fedro). Malgrado ciò, io non penso che il mito romantico, ed anche un po' romanzesco, di un Platone conteso tra le due anime del poeta e del filosofo sia corrispondente alla realtà. Ritengo piuttosto che Platone abbia inteso operare delle scelte precise di natura espressiva, per obbedire ad un progetto filosofico complesso che richiedeva strumenti letterari assai raffinati, ed anche differenti da caso a caso. Perciò ha poco senso parlare di conversione improvvisa dalla poesia alla filosofia, o della difficile soluzione di un contrasto interiore. Per Platone il vero contrasto non è tra poesia e la filosofia in quanto tali, ma solo tra un uso buono e un uso cattivo della parola. Questo risulta con chiarezza, fra l'altro, dalla trattazione dedicata alla poesia nelle Leggi dove si dice, fra le altre cose, che lo Stato di cui si stanno stabilendo i fondamenti potrà accettare dei poeti, a patto che scrivano e cantino temi simili a quelli che sono oggetto del dialogo stesso (Leggi. VII, 817a sg): in altri termini qui Platone sta proponendo come sostituto della poesia la propria opera, i cui contenuti sono un esempio di ciò che egli vorrebbe veder trattato in versi.

Non è qui il caso di approfondire la questione di quali contenuti Platone ritenesse validi per la poesia: basti accennare al fatto che apprezzava solo i contenuti moralmente validi, l'esaltazione del bene e della virtù, ed era in sostanza favorevole alla censura per eliminare tutto ciò che potesse apparire sconveniente e diseducativo. Di conseguenza egli negava spazio alla rappresentazione di passioni eccessive o azioni malvagie, di dei raffigurati, ad esempio, nell'atto di commettere adulterio, e di eroi che compissero gesti riprovevoli. Questo comportava un così drastico detrimento delle possibilità di rappresentazione da far considerare la concezione platonica assolutamente esiziale nei confronti della letteratura e dell'arte. Ma tutto ciò non ha molto a che fare con l'estetica o con la valutazione della poesia in sé e per sé; dipende piuttosto dalla forza con cui Platone affermava il primato assoluto dell'etica e dell'educazione. Proprio questa funzione educativa era quella che lo autorizzava a proporre le sue opere come fonte del materiale artistico e letterario della poesia: un materiale filosoficamente fondato che permettesse la vera educazione e si sostituisse ai temi tradizionali della tragedia e dell'epos, fonti di corruzione e di errore. Il tentativo attuato da Platone non era dunque quello di vincere la propria anima di poeta, come vorrebbero gli interpreti romanticheggianti, ma quello di governare la poesia guidandola verso finalità di carattere educativo.

Questo modo di procedere riflette d'altra parte una tendenza profonda di tutta la cultura greca, che Werner Jaeger ha studiato in un celebre saggio che ha per titolo Paideia (pubblicato in italiano in tre volumi dalla Nuova Italia, Firenze, e più volte ristampato. Amplissimo spazio a Platone è dedicato nei voll. II e III. Sulla centralità dell'educazione in Platone è disponibile in italiano anche il bel libro di J. Stenzel, Platone educatore (1928) Laterza, Bari 1966). Il termine Paideia significa in prima istanza "educazione", ma assume anche il valore più ampio di "cultura letteraria", poiché in essa la civiltà greca considera prevalente proprio l'aspetto educativo. La funzione della letteratura è generalmente intesa in Grecia come psicagogia, cioè "conduzione dell'anima": si scrive non tanto per esprimere sentimenti o emozioni interiori, e neppure per descrivere qualcosa, ma per suscitare un determinato effetto nell'animo di chi ascolta, ed eventualmente anche un corrispondente atteggiamento pratico.

è dunque da qui, cioè dalle finalità educative che egli si proponeva, che occorre prendere le mosse se si vuole affrontare la questione del perché Platone ha scritto dei dialoghi. Per risolvere tale questione si deve considerare altresì un dato troppo spesso a mio giudizio sottovalutato o addirittura sottaciuto: Platone non si include mai tra i protagonisti dei dialoghi che scrive. Si nomina solo due volte, ed in un'occasione il fatto è particolarmente significativo: si tratta del Fedone, che racconta la morte di Socrate circondato dai suoi discepoli. Per giustificare la sua assenza in un momento tanto cruciale, il filosofo fa dire ad uno dei personaggi che Platone non c'era, perché era malato (Fedone, 59b): dove è appunto da sottolineare il fatto che neppure in una circostanza drammatica e letteraria così importante Platone ha voluto derogare dal suo criterio, di rimanere assolutamente estraneo alla sua opera filosofica. Gli unici testi scritti in prima persona pervenutici sotto il nome di Platone sono le tredici Lettere; ma purtroppo quasi tutte sono dei falsi (solo la VII in realtà è riconosciuta autentica dalla maggioranza degli studiosi). Tutte le altre opere di Platone sono scritte in terza persona, e mettono in scena personaggi storici come sofisti, filosofi, oltre ovviamente a Socrate, che è la figura di maggior rilievo. Nella maggioranza dei dialoghi egli è il protagonista, in alcuni compare senza quasi prendere parte alla conversazione, ed in uno solo, le Leggi, non figura affatto. Conduttore di questo dialogo è un anonimo Ateniese, personaggio che più di altri si presta ad essere interpretato come la controfigura di Platone: e tuttavia, ancora una volta, non si tratta di Platone.

Poiché così stanno le cose, si pone il problema di stabilire quale sia in ciascun dialogo il punto di vista di Platone, che cosa in realtà egli pensi del tema in discussione. Si tratta di un problema che è ben noto agli studiosi della letteratura: leggendo una tragedia, ad esempio, di Euripide, non è affatto facile né scontato stabilire qual è il parere dell'autore, perché in scena vi sono solo personaggi differenti, nessuno dei quali è il suo diretto portavoce. Analogamente, se considerassimo i Promessi sposi, e cercassimo di stabilire con quale personaggio si identifichi Manzoni, arriveremmo a concludere che anche quello che gli si avvicina di più, fra' Cristoforo probabilmente, rappresenta il suo punto di vista solo in modo parziale. In questo caso, però, ci verrebbero in aiuto le parti narrative, in cui l'autore scrive in prima persona, che consentirebbero di verificare in buona misura la correttezza delle nostre ipotesi. Ma che fare nel caso in cui ci sono solo dialoghi? Quando non c'è la voce narrante dell'autore, né egli si rappresenta fra gli interlocutori della conversazione, come possiamo stabilire con sicurezza le sue opinioni? Ora, questo è un problema che per Platone è stato spesso ignorato: la maggior parte degli studi tra '800 e '900 procede con un criterio molto comodo, ma inesatto: si individua per ogni dialogo il personaggio privilegiato, cioè il conduttore del dialogo (nella maggior parte dei casi Socrate; in altri - come nel Sofista o nel Politico - lo Straniero di Elea; Parmenide e Timeo nei dialoghi omonimi, e così via) e si attribuiscono a Platone le tesi sostenute da esso. E' invalsa pertanto l'abitudine di attribuire senza discussioni a Platone ciò che in realtà nei suoi dialoghi dicono Socrate, lo Straniero di Elea, Timeo, ecc.

Portato ai suoi estremi, questo procedimento arriva a mostrare tutta la sua discutibilità: ad esempio è stato pubblicato di recente un "breviario" (questo è il titolo testuale) degli scritti platonici, che consiste in una raccolta di massime desunte dai dialoghi. Ora, se si prende la briga di verificare nel testo platonico la provenienza di queste massime, si scopre che spesso non sono pronunciate dal conduttore: l'unico il quale, anche accettando il tacito pregiudizio di cui abbiamo ora detto, dovrebbe rappresentare Platone. Il fatto è che il dialogo è una struttura letteraria complessa, e non è possibile distillarne il succo semplicemente raccogliendo delle proposizioni sparse, intese in modo letterale e separatamente dal contesto. E' necessario inoltre osservare che a volte i dialoghi contengono opinioni diverse sul medesimo argomento, cosicché appare difficile individuare il punto di vista definitivo, e ricostruire in modo sistematico la griglia del pensiero platonico.

Come se tutto questo non bastasse, contribuisce a complicare le cose anche la stessa struttura formale e narrativa di molti dialoghi platonici. Prendiamo ad esempio il Simposio. In quest'opera viene presentata una serie di discorsi su Eros tenuti da vari personaggi, tra cui anche Socrate, il quale, quando è il suo turno, non espone un punto di vista personale, ma riferisce ciò che ha appreso da Diotima, una sacerdotessa. Come si vede, per arrivare a ciò che dice Platone si deve operare un duplice passaggio: dall'autore a Socrate, e da Socrate a Diotima. Sarebbe troppo riduttivo e semplicistico identificare la posizione di Platone in quella di Diotima tout-court: è qui evidentemente in atto una forma di mediazione del punto di vista.

Considerazioni analoghe si possono fare a proposito del prologo che Platone antepone a parecchi dialoghi. Mentre alcuni introducono la questione dibattuta in medias res (come nel caso del Menone), altri si aprono con una serie di intermediazioni molto lunga ed articolata. Un caso particolarmente emblematico è il Parmenide. Questo dialogo inizia presentando un personaggio, Cefalo (da non identificare con il Cefalo della Repubblica) che in compagnia di alcuni amici incontra ad Atene Adimanto e Glaucone, fratelli di Platone, e chiede loro di fare la conoscenza di un tale Antifonte, figlio di seconde nozze della madre di Platone. Lo scopo della richiesta è il legame di amicizia di Antifonte con Pitodoro, che era stato testimone trenta o quarant'anni prima, di un incontro tra Socrate, Parmenide e Zenone, incontro del quale Cefalo ed i suoi amici vorrebbero sentire il resoconto. Quando il gruppo raggiunge Antifonte, questi inizialmente dichiara che, pur ricordando il contenuto di quell'incontro, non se la sente di raccontarlo, perché da molto tempo non si occupa più di filosofia, ma di cavalli. Alla fine, convinto, narra quello che è uno dei dialoghi più difficili di Platone: esso quindi ci viene raccontato attraverso il ricordo più o meno sbiadito di quattro o cinque personaggi, di cui quello chiave da almeno trent'anni è dedito a tutt'altra attività. È davvero possibile non tenere in alcuna considerazione aspetti formali macroscopici come questi, e cercare semplicemente nel Parmenide le parole che corrispondono letteralmente al pensiero di Platone? O non è vero piuttosto che l'intenzione dell'autore deve essere ricavata da un attento lavoro interpretativo, capace di tenere conto di tutte quante le caratteristiche del testo, siano esse materiali o formali? Se poi aggiungiamo anche il fatto che nei dialoghi abbondano le parti mitico-narrative, e che addirittura Platone non esita a definire racconti mitici non solo teorie come quelle di Timeo, ma lo stesso corpo centrale della Repubblica, il sospetto che l'autore volesse invitare il lettore ad usare la massima cautela diviene praticamente una certezza. Per molto tempo i cultori e gli studiosi di filosofia platonica sono stati del tutto insensibili a questi inviti. Leibniz scrisse una volta che chi sarebbe riuscito a ridurre a sistema la filosofia di Platone, avrebbe fatto un grande favore all'umanità (Lettera a Rèmond, in C.J. Gerhardt, Die philosophische Schriften von G. Leibniz, vol. III, Berlin 1887, p. 637). Ma, a prescindere dalla questione se la filosofia sia capace di fare servizi del genere all'umanità, e se sia il suo compito, non v'è in generale nessun motivo ragionevole per ridurre Platone a sistema. Già l'idea del "ridurre" pare sbagliata in quanto tale: se l'autore ha voluto comporre la sua opera con certe caratteristiche, evidentemente esse richiedono da parte nostra non già il tentativo di aggirarle, ma quello di comprenderle. E' ovvio perciò che non condivido per nulla l'opinione di Giovanni Reale, secondo cui la frase di Leibniz sarebbe "una epigrafe splendida per chi svolga ricerche platoniche" (Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1990, VIII ediz., pag. 23). Sono al contrario convinto che molti pregiudizi interpretativi, nell'ambito degli studi storico-filosofici, derivino dall'insistenza con cui molti studiosi cercano di rendere ad ogni costo coerente e sistematico il pensiero filosofico che studiano: tentativo che nei confronti di Platone si presenta, poi, particolarmente inappropriato

In generale possiamo dire che tutte le caratteristiche del testo platonico sopra elencate sono delle forme di mediazione, cioè dei modi in cui l'autore prende le distanze dalle asserzioni materiali che si trovano nelle sue opere. Non è escluso che queste mediazioni non abbiano tutte lo stesso significato. Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che l'elaborata cornice del Parmenide abbia più che altro lo scopo di avvertire che il colloquio tra Parmenide, Zenone e Socrate, di cui lì si parla, in realtà non è mai avvenuto. E così via. Ma tra questi significati non ci può essere certo quello di contrapporre alla debolezza del testo scritto la verità incontrovertibile e ultimativa dell'insegnamento orale. Nonostante il favore con cui è stata accolta oggi questa tesi (ma quasi solo in Italia), si tratta di una interpretazione sbagliata, perché contraria all'indole più profonda della filosofia di Platone. Per Platone non c'è discorso filosofico, né scritto né orale, capace di esprimere verità davvero ultimative, perché la temporalità della condizione umana consegna l'uomo alla dialettica, al dialogo, all'infinito procedere della ricerca. Il vantaggio della comunicazione orale consiste appunto nel fatto che essa, a differenza di quella scritta, concede al discorso questa infinita capacità di rivedere se stesso, per cui sarebbe davvero grottesco pensare che Platone preferisse la comunicazione orale a quella scritta perché solo la prima è capace di esprimere verità "ultimative". Per converso deve essere chiaro che l'eterna mobilità del discorso filosofico non implica l'accettazione dello scetticismo (come vorrebbe un'altra interpretazione, a giudizio di chi scrive non meno erronea). Platone riteneva che l'uomo avesse il potere di cogliere la verità. Ciò che deve rimanere provvisorio è la sua formulazione nei logoi (discorsi), perché l'uomo è calato in un divenire da cui non si può mai liberare.

Le considerazioni che abbiamo ora svolto ci permettono di comprendere il significato del principale strumento di mediazione che Platone ha utilizzato, cioè il dialogo stesso. La transitorietà della condizione dell'uomo fa sì che egli, almeno fino a che la sua anima è incarnata in un corpo, non abbia accesso diretto alla verità immobile ed eterna. Questo accesso diretto sarebbe possibile se l'uomo fosse riducibile alla sua anima, perché in tal caso potrebbe cogliere le idee immobili in maniera immediata e intuitiva (come si ricava sia dal Fedone che dal Fedro). Poiché questo però non accade, cioè la conoscenza intellettuale non ha per l'uomo l'evidenza incontrovertibile della visione, è necessario affidare buona parte della conoscenza ad un mezzo più debole, cioè alla persuasione: dove non si può far vedere una cosa in modo immediato, allora la persuasione gioca un ruolo determinante. La scelta di comunicare il suo pensiero attraverso il dialogo obbedisce appunto in Platone all'esigenza di stabilire un rapporto nei limiti del possibile persuasivo tra autore e lettore. Se l'autore scrivesse direttamente la propria opinione e la comunicasse esplicitamente al lettore, questi, come si dice in un celebre passo del Fedro, non avrebbe la possibilità di rivolgere al testo alcuna richiesta di chiarimento, se si trovasse in dubbio o non avesse compreso qualcosa (275d). Il libro non è un insegnante, dice sempre la stessa cosa e non fornisce chiarimenti oltre a quanto reca scritto. Il dialogo serve appunto a Platone per suscitare nel lettore un moto attivo di partecipazione, per far sì che egli senta di non trovarsi davanti ad un testo da imparare a memoria o da apprendere così come è stato composto, ma davanti ad un esercizio da svolgere.

Cercherò di spiegarmi meglio con un esempio. Credo che molti, nell'apprendere le modalità di funzionamento di un computer, abbiano trovato un grande aiuto nei cosiddetti programmi interattivi, cioè quei programmi che inducono l'utente ad agire e ad assumere in qualche modo l'iniziativa nel meccanismo di apprendimento. Il dialogo platonico, fatte salve le ovvie differenze, ha una finalità analoga: il modo in cui è costruito ha lo scopo di indurre il lettore a prendere l'iniziativa nella discussione dell'argomento e di stimolare la sua interazione con il testo. In altre parole, l'intento del filosofo è quello di costruire un testo che susciti domande, che non facendo capire con immediatezza l'intento dell'autore, induca ad una ricerca autonoma. L'assenza stessa di una dottrina sistematica ed uniforme stimola il lettore a cercare di capire quel che sta sotto le molteplici affermazioni del dialogo, e a farsene un'idea propria. L'opera di interpretazione richiesta dall'interazione dei personaggi nel dialogo è irrinunciabile, e si attiva pressoché automaticamente ad ogni rilettura del testo. Questo significa, tra le altre cose, che non si può leggere un dialogo di Platone come un testo che abbia un solo livello di lettura. L'opera di Platone appartiene a quel genere di testi che, come la Divina Commedia, rivelano una nuova prospettiva, un altro riferimento, un differente percorso di riflessione ad ogni rilettura, perché è l'autore ad aver predisposto lo scritto in modo da suscitare nel destinatario questo itinerario di scoperte sempre nuove. La consapevolezza che l'intento compositivo di Platone consistesse proprio nello scrivere un testo in cui il lettore trovasse sempre cose nuove ad ogni rilettura è stata espressa in modo molto efficace da un filosofo del nostro secolo, A. N. Whitehead, quando disse che la storia della filosofia occidentale "non è che una serie di note a piè di pagina al testo di Platone" (A.N. Whitehead, Processe and Reality: An essay in Cosmology, ultima ed. New York 1978). Una riprova della vitalità del testo filosofico platonico consiste nel fatto che ancora oggi ha senso che un filosofo si definisca più o meno platonico, e che il confronto teoretico con Platone (anche se troppo spesso il suo pensiero viene superficialmente interpretato) è tuttora attivo.

La densità del testo è dunque prodotta dall'esigenza dell'autore di instaurare un rapporto diretto ed attivo con il lettore: ed è questa una conclusione alla quale non si può giungere se ci si limita a considerare le tesi del personaggio privilegiato di ogni dialogo. C'è infatti nel dialogo platonico un doppio livello di comunicazione: quello che va dal conduttore del dialogo al suo interlocutore e quello che va dall'autore al lettore, e non è obbligatorio che i due livelli coincidano. Ciò che vuol dire Platone deve essere ricavato dal confronto delle posizioni del protagonista e del suo antagonista (oltre che da altre elementi letterari come l'ironia, il contesto drammatico, i sottintesi polemici, ecc.). Un passo del Filebo (19b-e) si presta ad illustrare bene questo punto: Socrate, il conduttore del dialogo, afferma ad un certo momento che per affrontare la ricerca sul piacere è necessario scegliere un metodo che arrivi alla fine ad un sapere esaustivo; il suo interlocutore, Protarco, gli fa invece notare con ironia che sarà anche bello sapere tutto, ma che in seconda istanza è necessario conoscere almeno se stessi. C'è qui una allusione al motto delfico e socratico, "conosci te stesso", anche nel senso del conoscere i limiti delle possibilità umane. Ora, le due tesi isolatamente prese non sono in grado di esprimere che cosa in quel passo Platone vuole dire al lettore. La posizione platonica deve invece essere individuata tenendo conto di entrambe, e consiste nella necessità di conciliare l'ideale di un sapere completo con i limiti di una conoscenza ristretta a condizioni e problemi specifici, commisurato all'anima di chi compie l'indagine e alle sue esigenze. Chi volesse sostenere che secondo Platone l'uomo possiede un sapere completo e assoluto, e citasse a sostegno di ciò le parole di Socrate nel Filebo, commetterebbe perciò un errore, perché non terrebbe in conto la risposta di Protarco. Infatti nel seguito del dialogo Socrate accetta l'obiezione del suo interlocutore e scende, per così dire, di un gradino, accettando di condurre l'indagine a una conclusione positiva anche in assenza di un sapere esaustivo.

Il modo indiretto di comunicare scelto da Platone mediante l'uso del dialogo dipende in buona parte, come abbiamo detto, da esigenze pedagogico-formali, cioè dal suo bisogno di comunicare il suo pensiero in modo da essere davvero capito. Questo spiega, almeno in prima approssimazione, anche la diffidenza nei confronti della scrittura che si riscontra a tratti nei dialoghi, e che è ribadita anche in un passo molto famoso della VII Lettera, in cui Platone addirittura dice che non esiste alcuno scritto che riporti le sue opinioni (341bc). La scrittura è molto esposta al rischio di fraintendimenti, perché non può difendersi da sola, né chiarire ciò che dice in modo da assicurarsi che sia stato recepito nel giusto significato. Del resto questa dei fraintendimenti è un'esperienza piuttosto comune: molto spesso anche sui giornali assistiamo a polemiche nate da dichiarazioni riportate in un articolo, ed interpretate, dal giornalista o da altri, in un modo che poi è smentito dalla persona stessa che le ha rilasciate.

Ma l'aspetto formale della comunicazione, l'esigenza che essa si svolga in modo corretto, è in Platone solo la cima di un iceberg, che nasconde un fondamentale punto di vista filosofico. A parere di Platone c'è qualcosa di ancora più difficile che far capire correttamente la propria opinione, ossia comunicare la convinzione che le cose stiano veramente come si crede, soprattutto quando si ha che fare, come detto sopra, con principi filosofi astratti, che non possono essere esibiti in modo evidente. Altro infatti è comunicare ciò che si pensa, altro convincere della verità di ciò che si pensa. Si dà il caso però che solo quest'ultima condizione produce la trasmissione di un sapere: esso infatti non consiste nella trasmissione di un'informazione, ma nell'atto individuale di acquisizione che ciascuno compie nei confronti di ciò che gli viene insegnato. Lo si può definire anche un atto di riconoscimento, cioè, in termini più vicini a Platone, un moto dell'anima di chi riceve che si convince e dà il proprio assenso a ciò che gli viene detto. Platone sapeva bene che questo consenso può essere solo spontaneo, e non può essere in alcun modo forzato: come dice l'Ateniese nelle Leggi, neppure il legislatore più severo può costringere con la violenza un uomo ad offrirsi docile alla persuasione (Leggi, 890b-c). Da qui prende origine il problema di come promuovere nel discente l'atto di assenso che produce il sapere.

Platone ricorre spesso per conseguire questo scopo al metodo che potremmo definire del "se non": invece di comunicare direttamente la propria opinione, il filosofo formula all'inizio del dialogo un'ipotesi e ne ricava tutte le implicazioni, giungendo spesso ad una conclusione aporetica, di cui il lettore è implicitamente costretto a prendere atto. Nel Menone, ad esempio, la questione se la virtù sia insegnabile non arriva ad essere risolta né per il sì, né per il no. La reazione che ne deriva non può che essere di insoddisfazione per le conclusioni raggiunte: di conseguenza il lettore è indotto da questo meccanismo a riconsiderare l'intera questione, per scoprire se nelle premesse o in qualche punto del ragionamento si celi la fonte dell'aporia. Se in questo modo riesce a risolvere il problema, la conclusione che raggiunge è una convinzione sua, e non un'informazione ricevuta dall'esterno, che esterna è destinata a rimanere.

Un discorso analogo vale per l'accettazione delle conseguenze di un ragionamento. All'inizio delle discussioni dialettiche spesso Socrate chiede al suo interlocutore non già direttamente la definizione di un determinato valore (ad esempio "che cos'è la giustizia"), ma la sua opinione circa la semplice esistenza di quel valore (ad esempio "credi tu che la giustizia qualcosa o niente del tutto?"). Dalla risposta affermativa a questa domanda preliminare, discende tutta una serie di ragionamenti che porta a determinate conclusioni. Il risultato che ne deriva è che, se si vuole mantenere ferma quella prima affermazione, che la giustizia è qualcosa, vanno accettate anche tutte le conseguenze che ne derivano. Ma poiché il processo delle domande è mosso ogni volta dal consenso dell'interlocutore, Socrate può dire che la conclusione raggiunta è una opinione dell'interlocutore stesso, e non di chi ha formulato le domande. Ed è chiaro che nulla del genere si sarebbe ottenuto se Socrate avesse esposto semplicemente, e in modo continuato, il punto di vista ricavato dal processo interrogativo. In questo consiste l'interrogare socratico: nel porre le questioni in modo che l'interlocutore sia indotto a prendere parte attiva allo sviluppo del ragionamento, e raggiunga determinate conclusioni in seguito ad un moto di assenso spontaneo a determinate premesse. Senza questo moto di assenso spontaneo non si ha vera comunicazione, o meglio, comunicare non serve, perché produce una semplice acquisizione di informazioni che non fanno parte delle convinzioni personali. Il decorso dialogico doveva avere per Platone l'effetto di far partecipare anche il lettore al meccanismo descritto: il lettore non può fare a meno di dare anche una sua risposta alle domande formulate da Socrate, e così diviene protagonista dell'azione persuasiva.


2. Un arricchimento del quadro sopra delineato si può ottenere mediante una breve analisi del contesto storico-letterario in cui il dialogo platonico nasce e si sviluppa. Il primo a fare menzione di un particolare genere letterario chiamato "discorso socratico" fu Aristotele nella Poetica (1147b), dove però altro non si dice. Altrove lo stesso Aristotele, in un frammento del De poetis (la notizia è riportata nelle relazioni di Diogene Laerzio (III 48) e da Ateneo (XI 505bc), che insieme costituiscono il fr. 3 Ross delle opere perdute di Aristotele), attribuisce l'invenzione del dialogo ad un certo Alessameno (a noi non altrimenti noto), che sarebbe stato discepolo di Sofrone, scrittore di mimi, cioè di quel particolare genere di rappresentazione che ritrae comicamente scene della vita quotidiana. Ci sarebbe insomma, in base a questi dati, una sorta di derivazione del dialogo socratico dal mimo: esso risulterebbe così apparentato in qualche modo alla commedia, che dal mimo trae anch'essa la propria origine.

Nella stessa direzione porta anche una notizia di Diogene Laerzio secondo cui Platone teneva i mimi di Sofrone sotto il cuscino e li leggeva ogni sera prima di dormire (III, 18). Sono proprio notizie come queste ad aver avvalorato la tesi dell'"anima poetica" di Platone, ma contengono a mio parere qualcosa di distorto. Se anche ammettiamo che la tecnica letteraria utilizzata da Platone sia simile a quella della commedia, sicuramente questa scelta non ha molto a che fare col mimo, ove questo sia inteso come imitazione della vita reale. L'imitazione (mimesis) nei dialoghi platonici è considerata il modo di espressione dell'arte, ma è valutata negativamente (solo nelle Leggi il giudizio viene parzialmente addolcito), perché due volte lontana dalla verità, in quanto imitazione degli oggetti sensibili a loro volta imitazione delle idee, cioè della realtà in sé. Ciò esclude che Platone avesse intenti mimetici nel comporre i dialoghi, e del resto è costante nella sua opera la valutazione pesantemente negativa di tragedia e commedia: nel terzo libro della Repubblica questi due generi letterari sono indicati come i modi peggiori per rappresentare la realtà, e nelle Leggi i poeti tragici sono banditi dalla comunità ideale.

Dunque il ricorso al dialogo aveva un intento educativo ed insieme letterario: era finalizzato in primo luogo a stimolare nel lettore un rapporto diretto con il testo, in secondo luogo a proporre il sostituto di un tipo di comunicazione letteraria, la tragedia, che già aveva questa forma; del resto anche l'altro genere con cui Platone entra in concorrenza, l'epos, era denso di parti dialogate. Proprio perché intende sostituirsi alla letteratura tradizionale, il filosofo non rinuncia al dialogo, che costituisce la forma comunicativa più immediata e coinvolgente, come si può facilmente sperimentare anche nella lettura di un romanzo: sono le parti dialogate quelle di presa più immediata sul lettore. Il dialogo costituisce dunque lo strumento letterario più efficace che Platone ha trovato per esercitare un effetto concreto sull'anima dei destinatari. A questo proposito è rivelatore un passo del Fedro dove Socrate dice che "La potenza del logos - che qui è da intendere come "discorso" o "ragionamento" - non è nient'altro che psicagogia" (271c) cioè conduzione dell'anima. In questo concetto si deve riconoscere in senso lato l'idea dell'educazione, se è vero che anche in latino educare etimologicamente contiene l'idea del ducere, cioè del guidare ad uno scopo. L'intero dialogo rappresenta nel suo complesso un esempio di esercizio pratico di questa attività educativa, che si sviluppa tra l'anima di Socrate e quella del suo ingenuo interlocutore (cioè Fedro). Chi volesse muovere al di là di questa definita contestualizzazione, e cercare tra le parole di Socrate almeno qualche accenno a una verità intemporale, assoluta e definitiva, sarebbe perciò completamente fuori strada (qui, come negli altri dialoghi).

Intorno al problema della conduzione dell'anima ha origine anche il conflitto tra filosofia e retorica, che Platone ingaggiò prima con i sofisti e poi con Isocrate. Il tema dell'opposizione è quale sia la parola che persuade, o meglio, posta la forza persuasiva della parola, chi ne è il depositario autentico: il retore, il sofista, il logografo o il filosofo? È in questo contesto che dobbiamo pensare a Platone come filosofo: egli intendeva la sua attività come finalizzata, in concorrenza con la cultura coeva, a trovare i logoi più persuasivi, in linea con i suoi interessi fondamentalmente etico-politici ed educativi. Ecco perché il confronto con la retorica costituisce uno dei temi centrali del suo pensiero. Il concetto chiave di questo confronto è la "persuasione", parola d'ordine di molti, se non di tutti, i sofisti. Ne è esempio lampante l'affermazione di Gorgia secondo cui la parola è un pharmakon (Encomio di Elena, in Diels-Kranz 82 B11, 14), cioè un potente narcotico ambivalente, in grado di produrre sia il bene sia il male. Sempre nell'Encomio di Elena, che Gorgia scrisse a scopo dimostrativo in difesa del celebre personaggio del mito, uno degli argomenti addotti contro l'accusa rivolta ad Elena di aver seguito Paride a Troia è che questi la avesse convinta a parole, il che la assolverebbe da ogni responsabilità: alla parola non ci si può opporre, ed i suoi effetti sono irresistibili (ibid., 8-12). Ancora il potere persuasivo della parola è il nucleo della vanteria di Gorgia di essere più abile del fratello medico nel persuadere i malati ad assumere le medicine (Platone, Gorgia 456b): la forza della parola priva di conoscenza specifica si rivela superiore al possesso della scienza. Platone reagiva polemicamente contro questa esasperata esaltazione della persuasione. Tuttavia il fatto che egli criticasse duramente i sofisti per questo (come nel Gorgia) non significa che egli fosse contrario in linea di principio alla persuasione, ma significa piuttosto che intendeva distinguerne differenti modalità. Ciò a cui egli si opponeva era un'arte di persuadere in quanto tale, priva di contenuto: era la posizione estrema di Gorgia, che negava di insegnare alcunché, ma sosteneva di essere in grado di persuadere qualunque ascoltatore su qualunque argomento. Platone riconosceva invece la necessità di persuadere solo a partire dal possesso della verità. E' questo un dato di fatto che di solito non si vuole riconoscere: quando si contrappone Platone, sostenitore della verità, ai sofisti, tecnici della persuasione pura, non si tiene conto del fatto che anche Platone riteneva che fosse necessario non solo conoscere la verità, ma anche saperla comunicare. E' un dato di fatto che il semplice possesso della verità, senza la capacità di comunicarla agli altri in modo convincente, non produce alcun effetto. La verità esiste solo nella misura in cui è diffusa e condivisa, ed implica perciò anch'essa una fondamentale rapporto con la persuasione. Di qui risulta chiara la difficoltà di Platone, che doveva mantenersi in equilibrio tra la posizione dei sofisti, che sostenevano che fosse possibile persuadere senza conoscere la verità, e la necessità di fare ricorso anch'egli alla forza della persuasione, senza confondersi con quelli.

Si colloca su questa linea discriminativa anche il difficile rapporto di Platone con Isocrate. Nel 392-390 Isocrate fondò ad Atene una scuola di retorica: il termine non va inteso in senso riduttivo o tecnico, perché allora una scuola di retorica corrispondeva a una scuola di scienze umane in generale. Contemporaneamente anche Platone aprì una sua scuola, e a partire da questa data e per tutta la vita di Platone (che morì nel 348/347) i due si fecero una concorrenza spietata, e non solo sul piano teorico: la lotta era finalizzata anche a cercare di accaparrarsi gli allievi appartenenti alle famiglie più importanti, che davano alla scuola maggiore prestigio e potevano garantirle una maggiore influenza nella vita politica.

Aristotele stesso, che rimase fino all'età di quarant'anni nell'Accademia di Platone, era stato preparato dal maestro per combattere conto Isocrate, e teneva per questo motivo dei corsi di retorica all'interno della scuola. Secondo una tradizione non del tutto certa, sembra che anche il perduto Grillo di Aristotele contenesse numerosi attacchi ad Isocrate (In Diogene Laerzio V, 3 si legge del resto che Aristotele avrebbe iniziato un corso di retorica con la frase "E' vergognoso tacere e lasciar parlare Isocrate". Ma la tradizione manoscritta è indecisa tra Isocrate e Senocrate, il terzo scolarca dell'Accademia platonica, dopo Platone stesso e Speusippo). Del resto la controversia tra Platone ed Isocrate si può cogliere anche negli scritti dei due. Isocrate spesso allude all'avversario senza citarlo: già nell'orazione Contro i Sofisti, che secondo Flacelière è il "manifesto" con cui l'oratore apre la sua scuola (R. Flacelière, Isocrate, Cinq Discours, Parigi 1961, p. 3), l'attacco è rivolto non certo contro Protagora o Prodico o Gorgia, di cui Isocrate fu discepolo, ma in prima istanza contro gli eristi (una sorta di funamboli della parola privi di qualsiasi credibilità), e in secondo luogo contro Platone, bersaglio evidente di numerose battute. Analogamente, allusioni e critiche al filosofo e alla sua scuola si trovano nell'Elena, o nell'Antidosis, o disseminate nelle varie orazioni. Addirittura l'Antidosis, un discorso fittizio di autodifesa che Isocrate finge di dover pronunciare di fronte ad un tribunale, appare chiaramente impostato come una imitazione dell'Apologia di Socrate, testo con il quale Isocrate entra evidentemente in concorrenza.

Platone, a sua volta, in alcuni dialoghi sembra alludere in termini polemici ad Isocrate: un riferimento pressochè sicuro si trova nell'Eutidemo (nell'ascoltatore anonimo menzionato da Critone a partire da 304d la maggioranza dei critici vede rappresentata la figura di Isocrate), e anche nella parte conclusiva del Fedro si può cogliere una certa ironia nei confronti dell'avversario (Fedro 278e-279b). Il dialogo, composto negli anni in cui era più vivo il contrasto tra i due, è ambientato alcuni decenni addietro nel tempo, all'epoca in cui Isocrate era agli esordi della sua attività. Perciò l'apprezzamento che su di lui esprime Socrate, che suona all'incirca: "E' un giovane che farà strada, anche se dovrebbe perfezionarsi un poco", sembra sottilmente ironico nei confronti di un oratore ormai affermato e all'apice della carriera. La radicalità dell'opposizione tra i due si spiega con il fatto che essi programmaticamente occupavano lo stesso terreno: entrambi affermavano di fare filosofia, e si proponevano come educatori del futuro uomo politico, ed entrambi perseguivano lo scopo mediante l'uso di logoi che volevano essere persuasivi. E' ovvio che per Platone distinguere la propria posizione da quella di Isocrate era assai più difficile ed impegnativo di quanto non lo fosse il differenziarsi dalle posizioni radicali dei sofisti. Con il suo proposito di educare alla politica Isocrate, in effetti, non solo invadeva direttamente il campo che Platone riteneva di sua specifica competenza, ma lo faceva in sostanziale accordo con il concetto tradizionale di cultura. La critica che l'oratore rivolgeva all'educazione platonica era incentrata da un lato sull'inutilità del dialogo, che appare ad Isocrate un mezzo di comunicazione noioso ed inconcludente, dall'altro sull'astrattezza delle discipline che si insegnavano nell'Accademia: astronomia, matematica, geometria. A Platone spettava perciò il difficile compito di dimostrare che il miglior modo di condurre e persuadere l'anima, in vista dell'attività etico-politica, era proprio il complicato esercizio dialettico insegnato nell'Accademia, e non la facile e piana educazione retorico-umanistica propugnata da Isocrate. Agli occhi del filosofo il difetto dell'oratore (e in generale della retorica) è la superficialità, e la conseguente incapacità ad attingere il vero. La proposta educativa di Platone invece era di impronta radicale. Essa muoveva dalla doppia ipotesi che non vi può essere persuasione senza un necessario riferimento alla verità (intesa in senso filosoficamente forte), e che per converso la verità si manifesta solo nella persuasione. Di conseguenza per lui solo una armonica fusione di questi due fattori poteva produrre una vera educazione e una vera cultura.

giugno 1998

Franco Trabattoni