AGOSTINO

LA NOZIONE DI ANIMA

 

Il programma e il metodo di ricerca agostiniano è delineato con chiarezza nei Soliloquia: "Dio e l’anima: questo desidero conoscere. – Nulla più? – Assolutamente nulla" (I, 2, 7). In questa dichiarazione vi è, in primo luogo, l’esclusione della conoscenza del mondo esterno dalla direttrice principale della ricerca: essa sarà tutt’al più una tappa di un percorso che conduce alla vera scienza dell’anima e di Dio. In secondo luofo, vi è posta la coincidenza, dal punto di vista metodologico, tra conoscenza di sé e conoscenza di Dio: solo a partire da sé – nella tradizione che congiunge il nosci te ipsum socratico con Plotino – l’uomo può giungere alla verità, all’Uno, a Dio. L’anima è il luogo dell’incontro con la verità: "Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas" (De vera religione, XXXIX, 72).

Dal mondo esterno all’interiorità dell’anima, alla verità trascendente: è questo l’itinerario, di evidente derivazione platonica, che conduce alla conoscenza di Dio attraverso l’anima.

Due concetti fondamentali, entrambi platonici, strutturano l’indagine agostiniana: il primo è che la verità non è posta dall’uomo, ma è scoperta da questi nell’esercizio della ragione; il secondo afferma l’esistenza nel mondo di un ordine gerarchico, di una scala di gradi o livelli di crescente perfezione. Vediamo allora in che modo tali concetti operano nell’analisi del processo conoscitivo.

Nell’esperienza che il soggetto pensante fa di se stesso, esso conosce di esistere e di vivere: essere, vita e conoscenza sono dunque le caratteristiche che l’uomo scopre come sue proprie. Con ciò, egli definisce anche la propria collocazione nell’ordine gerarchico del tutto: infatti anche la pietra è, anche l’anima è e vive, ma solo l’uomo è, vive e conosce. Nella conoscenza si manifestano dunque la specificità e la superiorità della creatura umana. La conoscenza è attività dell’anima: ciò è vero anche per il primo livello, quello della sensazione. Quest’ultima ha luogo attraverso una modificazione degli organi di senso, ma non appartiene al corpo: sentire non est corporis sed animae per corpus, la sensazione è un’esperienza che l’anima compie attraverso il corpo, utilizzando il corpo come suo strumento. In generale, l’anima dà vita al corpo: nella sensazione, essa rivolge alle modificazioni degli organi di senso un’attenzione, intentio, che dà luogo alla rappresentazione. Senza quest’attività dell’anima non vi è sensazione.

Ma "la facoltà più eccellente dell’animo umano non è quella con cui esso sente le realtà sensibili bensì quella con cui le giudica" (De vera religione, XXIX, 53). Tale giudizio implica non solo la classificazione e l’ordinamento degli oggetti sensibili ma anche la valutazione della conoscenza sensibile "ossia del perché il remo sull’acqua appare necessariamente spezzato, mentre è diritto, e del perché con gli occhi non si possa avere che questa percezione". In entrambi i casi, i parametri di giudizio non possono derivare dal mondo esterno, che è molteplice e mutevole, ma devono essere reperiti dall’anima entro se stessa. Ciò è del tutto evidente quando si pensa alla conoscenza intellettiva delle verità matematiche e geometriche: queste hanno una certezza e una stabilità ben superiori a quele della conoscenza sensibile. La somma di due numeri è assolutamente evidente e sempre identica a se stessa. L’anima non ricava certamente tali verità dagli oggetti d’esperienza, anzi se ne serve per giudicarli; ma, d’altra parte, tali verità non possono neppure essere prodotte dal pensiero umano, mutevole e soggetto all’errore. Occorre dunque che tali verità esistano indipendentemente dalla scoperta che di esse viene fatta: nel numero si esprime l’ordine perfetto e immutabile di un tutto che trascende l’uomo.

Vi sono dunque rationes aeternae, species, "idee", ovvero forme e modelli in base ai quali opera la mente umana, nell’ordine della consocenza come in quello dell’azione. Tali verità sono superiori alla ragione, indipendenti da essa: se così non fosse, non sarebbe possibile alcuna scienza né comunicazione intersoggettiva. Esistono infatti tanti pensieri umani quanti uomini, e nessuno può entrare nell’altrui pensiero (De libero arbitrio, II, 9, 27 e 10, 28).

L’esistenza di verità intellegibili, che l’anima trova dentro di sé senza averle essa stessa create, rinvia alla Verità come sorgente di tutte le verità, all’Uno come principio di unificazione; rinvia alla realtà immutabile, eterna e necessaria, dunque a Dio. Dio è la verità che rende pussibili tutte le verità: le realtà intellegibili, gli universali – dice Agostino – sono pensieri nella mente di Dio. Dio è altresì il maestro interiore nel quale impariamo tutto ciò che sappiamo: Dio è la luce che illumina l’anima e le permette di comprendere la verità. Agostino rielabora qui la tradizione platonica: ha presente il paragone tra il Bene e il Sole istituito da Platone nella Repubblica e quello dell’anima, che riflette la luce divina, e la luna, che riflette la luce solare, formulato da Plotino nelle Enneadi.

Il platonismo gli appare su questo punto in sintonia con il Vangelo, in particolare con Giovanni: il Verbo divino rivelatosi in Cristo "illumina ogni uomo" (Gv I, 9). Agostino fonda dunque in Dio l’intero processo della conoscenza intellettuale: "anche le conoscenze che sono trasmesse dalle scienze non possono essere comprese se non sono illuminate da qualcos’altro, come da un loro sole" (Soliloquia, I, 8, 15).

È la luce divina che rende intellegibile il mondo e che quindi permette l’ascesa dell’anima, come aveva insegnato Plotino, nella ricerca di Dio.

E come Plotino, l’anima deve in primo luogo squarciare il velo delle apparenze in cui è avvolta. Tuttavia, con la ricerca agostiniana ci troviamo in un quadro diverso da quello neoplatonico: in quest’ultimo, vi è continuità ontologica tra le diverse ipostasi dell’Uno, una continuità garantita dal concetto stesso di emanazione. Con Agostino, invece, ci muoviamo all’interno della nozione giudeo-cristiana di creazione: l’uomo è stato creato ex nihilo, non generato, a somiglianza di Dio. La sua natura, quindi, non è identica a quella divina.

Questa cesura ontologica produce una conseguenza decisiva: "l’anima plotiniana – scrive un grande studioso di Agostino, Etienne Gilson – conta solo su se stessa per scoprire in sé la luce, perché in effetti la possiede; l’anima agostiniana invece non può fare affidamento che su Dio per ricevere da lui la luce che da sé non può possedere". Ecco allora che la vera filosofia, per Agostino, coincide con la vera religione e la conoscenza della verità è tutt’uno con la salvezza dell’anima. Quello che Agostino non ha trovato, e non poteva trovare, nei "libri dei platonici" è il Verbo incarnato, Cristo, che solo potrà liberare l’uomo "dal corpo che porta questa morte" (Confessioni, VII, 21, 27), dalla schiavitù del peccato. Lo trova, invece, in San Paolo, nella Sapientia cristiana come dono di Dio.

IL PROBLEMA DEL MALE

È ancora la metafisica neoplatonica che fornisce ad Agostino il quadro concettuale in cui pensare il problema del male. Si Deus est, unde malum? è il quesito. Se Dio – assolutamente buono, onniscente e previdente – ha creato tutte le cose, qual è l’origine del male? da dove vengono il dolore, la violenza, il peccato che attraversano la vita dell’uomo?

La soluzione manichea, che elevava il male a principio contrapposto al Bene e in lotta con questo, si è rivelata fallace: in primo luogo, essa inficia l’onnipotenza e l’incorruttibilità di Dio; in secondo luogo, essa priva l’uomo di ogni libertà, lo riduce a un teatro in cui si svolge lo scontro di opposte potenze.

Occorre dunque pensare in modo diverso. Occorre pensare che, se tutto quanto procede da Dio è buono, poiché ogni esistente procede da Dio, il male non esiste.

Tale non esistenza va intesa in senso metafisico e ontologico, non in senso fattuale: del male, infatti, si fa continua esperienza. Ma il male – dice Agostino – "non è una sostanza, perché se fosse una sostanza sarebbe un bene" (Confessioni, VII, 12). Esso non ha realtà ontologica; non appartiene all’ordine dell’essere, ma a quello del non-essere. Il male è privazione, venir meno del bene; è il negativo, pensabile solo come deficienza, mancanza del positivo inerente alla natura di un essere. Non vi è dubbio, per esempio, che la cecità sia male: ma la cecità stessa, in quanto tale, non esiste; esiste solo in quanto mancanza della vista, in quanto venir meno della capacità di vedere.

Questo concetto del male come privazione viene ad Agostino da Plotino; ma rispetto alla tradizione platonico-orfica, ancora presente nel neoplatonismo, che concepisce la materia come "primo male", in quanto grado di massima lontananza dall’Uno-bene, Agostino riafferma la positività di tutto il creato: anche la materia, anche il corpo, anche la vita sensitiva, in quanto creazione di Dio, sono bene: omnia natura, in quantum natura, bona est (De libero arbitrio, II, 13, 36). E così, non vi è nulla che sia assolutamente male perché, se così fosse, sarebbe assoluto non-essere; tutto ciò che è ha in sé qualcosa di buono.

La bonta di tutto ciò che è si esprime pienamente nell’ordine e nella bellezza che Dio ha conferito al mondo: ut omnia sint ordinatissima. Il mondo è unitario, e all’interno di questa unità, di cui Dio è il fondamento, trova perfetta e armonica collocazione la molteplicità degli enti. Con i platonici e con gli stoici, Agostino pensa l’ordine del mondo come la disposizione di tutte le cose al loro giusto posto. Il che significa, il posto in cui ogni cosa realizza la perfezione della propria natura: anche la pietra, anche il lombrico partecipano di tale perfezione. E i processi di corruzione e di distruzione dei corpi e degli esseri assumono il loro pieno significato nell’armonia dell’insieme.

È a partire da questo concetto dell’ordine che Agostino rintraccia la natura e l’origine del male volontario, o morale, cioè del peccato. Il peccato è la violazione della legge naturale inscritta da Dio in ogni essere, dunque è rottura dell’ordine, è disordine.

L’uomo fa il male non quando il suo volere si indirizza verso un oggetto cattivo – perché non esistono cose in sé cattive – ma quando sceglie un bene inferiore in luogo di uno superiore: così facendo egli va contro la propria natura. Nel peccato si manifesta un amor inordinatus, un amore inconsapevole del reale valore delle cose, di ciò che è vero bene e di ciò che è secondario; di ciò, in definitiva, che avvicina a Dio o che allontana da lui. Nel peccato, l’uomo rinuncia ad amare Dio per amare invece il piacere, o il sapere fine a se stesso, o il proprio io: aversio a Deo, conversio ad creaturam, questo è il peccato.

Ma se il male viene dalla creatura, non vi è forse implicato anche Dio, creatore di ogni cosa? La risposta a questa domanda è racchiusa nella dottrina agostiniana del libero arbitrio: l’uomo ha di fronte a sé l’alternativa di volere il bene o il male, di accettare o rifiutare Dio e la sua legge.

Se la volontà di Dio è sempre e assolutamente buona, la volontà dell’uomo – creato da Dio a sua immagine e somiglianza ma non identico a Dio – può essere buona o cattiva: non in sé, ma in quanto si rivolge a oggetti migliori o peggiori.

Se l’uomo non potesse fare altro che il bene, sarebbe identico a Dio. La possibilità del peccato inerisce alla natura umana nella sua finitezza e contingenza: in questo spazio si muove la libertà della scelta.

Il male si istituisce dunque all’interno della libertà: in tale libertà Adamo ha commesso la colpa originaria. Da quel momento, la duplicità di possibilità alternative – salvezza o perdizione – lacera l’esperienza dell’uomo; "sono entrambi passioni, sono amori; la sporcizia del nostro spirito che scola verso il basso con le sue care angosce, la santità del tuo, che ci solleva con il desiderio della calma interiore" (Confessioni, XIII, 7, 8).

La responsabilità del male è così posta da Agostino interamente a carico dell’uomo.

IL TEMPO E L'ETERNO IN AGOSTINO

Una delle opere di Agostino più lette in ogni tempo è intitolata Confessioni. In essa Agostino, vescovo di Ippona, ormai anziano ma impegnato con tutte le sue energie a difesa della fede, ripercorre le fasi della sua vita, testimoniando così un lungo percorso di ricerca della verità. In questa opera l'esperienza personale si fonde in ogni pagina con la testimonianza della fede e con l'esposizione delle dottrine filosofiche e teologiche.

Nell'XI libro Agostino, interrompendo la narrazione della sua vita, affronta il problema del tempo, scrivendo alcune delle pagine più celebri della letteratura filosofica antica.

Agostino è indotto ad affrontare questo problema dalla riflessione filosofica sul concetto di creazione e quindi sull'origine dell'universo nello stato in cui è a noi noto attraverso l'esperienza. C'è stato un momento iniziale del creato. C'è stato anche un momento precedente? C'era già il tempo prima della creazione del mondo? "Quando" Dio ha creato il mondo?

Queste domande hanno notevoli implicazioni teologiche, perché la loro risposta può illuminare l'uomo sulla natura di Dio. Se concepiamo il tempo come coeterno a Dio, il divenire è posto nella stessa natura dell'assoluto, perché carattere proprio del tempo è il movimento, il fluire senza posa. Dio, l'assoluto essere, la pienezza dell'essere, può venire così concepito?

Agostino lo esclude, perché concepisce il divenire alla maniera di Platone, come segno di mancanza dell'essere, di labilità ontologica. La verità che troviamo in Dio non ha tempo: non hanno tempo le verità matematiche, non hanno tempo le verità morali, non ha tempo il bene nella sua pienezza e perfezione. Ciò che è bene oggi non può non esserlo domani. Come ha insegnato Platone, la pienezza dell'essere e il movimento si escludono a vicenda.

Dobbiamo quindi concepire Dio come eterno, il suo essere come del tutto estraneo al tempo. Dobbiamo concepire il tempo come una creatura di Dio, al pari di ogni cosa nell'universo. Dobbiamo considerare assurda la domanda: "Quando Dio ha creato il mondo ?" perché non poteva ancora esserci un "quando" al momento della creazione del mondo, perché non c'era ancora il tempo. D'altra parte, l'uomo cerca per ogni cosa una origine, perché tutto diviene. Ma è il tempo il segno del divenire. Come può il tempo non avere a sua volta un'origine?

Solo Dio può essere pensato senza origine, perché ha la sua origine in se stesso. E' assoluto.

Tuttavia, che cosa è il tempo? Intuitivamente sappiamo molto bene che cos'è, perché facciamo esperienza del suo scorrere. Se però proviamo a definirlo per comprenderlo con la ragione, allora ci troviamo in difficoltà.

Non possiamo afferrare il passato se non con la memoria; non possiamo comprendere il futuro se non con l'attesa. Ma che cosa sono passato e futuro se il primo non c'è più ed il secondo non c'è ancora? Il loro essere qualche cosa in che cosa consiste?

Quanto al presente, esso è inafferrabile per altri motivi. Appena vissuto, esso passa. Diviene passato, mentre una parte del futuro diviene presente. Che cos'è dunque il presente, se passa? Il suo essere consiste forse nel passare? E chi è il soggetto di questo passare?

Per quanto piccola sia la porzione di tempo che prendiamo in considerazione, essa consta sempre di passato, presente e futuro. Se consideriamo un'ora, essa non è tutta insieme, ma in ciascuno dei suoi istanti altri istanti sono già passati ed altri verranno. Se consideriamo l'istante, anch'esso dura. In un secondo possiamo distinguere parti ancora più piccole, ed esse saranno presenti una alla volta, non tutte insieme. Il presente non è un tempo minimo che c'è, che è immobile nel suo essere. Che cos'è allora il tempo?

"Se nessuno me lo chiede lo so; se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so: eppure, posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro; se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente" (Confessioni, XI, 14).

Esso sfugge del tutto ad una comprensione razionale. Non lo comprendiamo nella sua essenza. Possiamo sapere qualche cosa solo della misura del tempo, perché essa è in noi, nella nostra coscienza. L'anima dell'uomo infatti trattiene in sé la memoria del passato ed anticipa il futuro con l'attesa; l'anima vive il presente prolungandolo in un fluire nel quale si fondono insieme l'immediato passato, il presente e l'immediato futuro. E' come se l'anima si estendesse, si dilatasse nelle tre dimensioni del tempo, tenendole insieme.

La misura del tempo è quindi l'estensione dell'anima. Ma cosa sia il tempo, la ragione dell'uomo non giunge a sapere.