IL TEMPO DELLA VIGILIA.

CRISTIANESIMO, ESCATOLOGIA E STORIA

Michele Nicoletti

 

In questo intervento vorrei cercare di riflettere in modo molto semplice attorno a due interrogativi: che influsso ha la prospettiva escatologica sull’impegno del credente nella storia e in particolare sul suo agire politico? e, più specificamente, sull’impegno di coloro che cercano di mettersi alla sequela di Cristo, cioè nella scia della radicalità evangelica?

Escatologia e cristologia

Che vi sia un rapporto profondo tra sequela di Cristo e prospettiva escatologica è evidente. Anche chi non dovesse ritenere che tutto il messaggio evangelico abbia al suo centro l’annuncio del " regno di Dio"1 e possa quindi caratterizzarsi interamente come " messaggio escatologico"2, non potrebbe però negare la rilevanza dell’annuncio delle "cose ultime" nella predicazione di Gesù e dunque la loro importanza nell’operare del credente nel tempo.

D’altra parte l’importanza della prospettiva escatologica sul piano politico è stata ampiamente illustrata non solo con riguardo all’agire del credente e delle chiese3, ma anche con riguardo alle dottrine politiche e ai movimenti politici nella storia dell’Occidente: in età medievale come in età moderna e contemporanea; in versione teologica, come in versione secolarizzata4.

Detto questo, però, si è detto molto poco, nel senso che l’impatto della prospettiva escatologica sull’agire politico è stato, ed è tuttora, assai eterogeneo e ciò non solo con riguardo alle diverse situazioni ed epoche storiche in cui tale prospettiva viene interpretata. Infatti, già il "Nuovo Testamento conosce una pluralità di schemi escatologici" che non si lasciano inquadrare in un "programma omogeneo"5 e ciò per il fatto che il messaggio evangelico si situa all’interno di pre-esistenti orizzonti escatologici, provenienti sia dall’apocalittica ebraica sia da ambienti ellenistici.

Si possono così individuare schemi escatologici diversi presenti all’interno degli scritti neotestamentari. Una prima distinzione, sia pure assai semplificatrice, è quella tra un’attesa escatologica orientata verso il futuro, e dunque di tipo "apocalittico-temporale", e un’attesa escatologica orientata in direzione "trascendente-spaziale", per cui il regno di Dio si pone "in alto, in cielo". Già questa distinzione porta ad una diversità di atteggiamenti nei confronti della storia: la prima interpretazione, infatti, colloca il regno di Dio nell’orizzonte "temporale", mentre la seconda lo pone in una dimensione affatto diversa. L’operare "nel tempo" assume quindi un significato diverso nelle due prospettive. Ma, ancora, la collocazione della prospettiva escatologica nel tempo, o meglio alla "fine del tempo", può produrre atteggiamenti diversi a seconda che l’escatologica venga compresa come "compimento del tempo" o come " giudizio sul mondo". E, inoltre, le interpretazioni variano ancora se l’orizzonte temporale assunto è quello individuale oppure quello collettivo.

Contro ogni possibile riduzione fondamentalistica, già la riflessione sui testi ci mette di fronte una pluralità di schemi interpretativi. Di certo, e questo è fondamentale per chi cerchi il nesso tra escatologia e radicalità evangelica, tutta l’escatologia neotestamentaria, pur nella sua pluralità di schemi, ha una sua costante: la costante cristologica6. Ciò significa che entrambe le prospettive escatologiche (sia quella orientata al futuro, sia quella orientata "in alto") vanno interpretate cristologicamente. L’attesa del futuro non può non tener conto del fatto storico della nascita, morte e resurrezione di Gesù, del fatto cioè che il tempo è " già" venuto e che quindi l’orizzonte della salvezza non può essere posto solo nel "non ancora". Dall’altra parte, la "nostalgia del cielo", l’aspirazione alla trascendenza non può dimenticare la dimensione dell’incarnazione, il Cristo vero uomo oltre che vero Dio, i temi della resurrezione della carne, della discesa agli inferi e così via.

Ogni prospettiva escatologica deve dunque fondarsi sulla cristologia e trovare in essa il proprio criterio. E tuttavia, anche questo criterio fondamentale non può essere ridotto a soluzione univoca: la stessa cristologia non è una dottrina ideologicamente compiuta, ma è il campo di una tensione tra due poli, il già e il non-ancora, l’umano e il divino. Di nuovo la cristologia non "chiude", ma "apre" possibilità, sia pure orientate in modo fondamentale. Nella cristologia viene mantenuta - se non esaltata - la differenza assoluta tra regno degli uomini e regno di Dio, tra umano e divino, tra tempo ed eternità, ma viene anche affermata, anzi, assai di più, viene vissuta la relazione tra i due poli. E poiché la vita del credente è partecipazione alla vita del Cristo, attraverso Cristo il credente riceve la possibilità di una "nuova" vita, non solo nel senso di una vita al di là di questa vita, ma nel senso di una possibilità umano-divina di vivere l’esistenza terrena. Attraverso la cristologia, l’escatologia viene così violentemente e ultimativamente radicata non solo nel "non ancora", ma anche nel "già", non solo nel "cielo" ma anche sulla "terra". L’escatologia diviene così il campo non delle cose ultime, ma della relazione tra la storia e le cose ultime, il campo non della vita finale, ma della relazione tra la vita attuale e la vita finale. L’escatologia, così compresa, non si occupa del ritorno di Cristo, ma abbraccia il tempo sospeso tra venuta e ritorno di Cristo. L’escatologia non è, così intesa, un polo della vita del cristiano, ma il luogo della vita del cristiano.

Regno di Dio e regni degli uomini

A partire da questo nesso escatologia-cristologia si può tentare allora di sviluppare qualche indicazione a proposito dell’agire politico. Cercheremo prima qualche traccia per via negativa. Il dato più evidente - ma evidente, non significa affatto scontato come dimostra la storia dell’Occidente - relativamente alla portata "politica" dell’annuncio escatologico di Gesù è costituito dal fatto che il regno di Dio non è un regno mondano. Nonostante la varietà degli schemi escatologici presenti nel Nuovo Testamento sopra ricordati, tutti questi schemi sottolineano l’"alterità" del regno finale rispetto ai regni degli uomini.

Se in positivo resta difficile precisare la natura del regno di Dio, in negativo il messaggio sembra chiaro: le affermazioni esplicite " il mio regno non è di questo mondo", il rifiuto della tentazione del potere nel deserto, l’episodio del tributo a Cesare, la rinuncia all’utilizzo della forza umana o angelica per annunciare il regno, la via della croce e molti altri passi evangelici vanno tutti nella direzione di una netta distinzione tra sfera religiosa e sfera politica.

Questa netta distinzione si è tradotta nella storia dell’Occidente in un complesso processo che è stato caratterizzato da una duplice dinamica, di desacralizzazione del potere da un lato, di depoliticizzazione del sacro dall’altro7. Su questo piano si misura infatti chiaramente l’impatto della prospettiva escatologica sull’agire politico. La collocazione del regno di Dio su un orizzonte escatologico - comunque interpretato - mina alla radice ogni tentativo di presentare come "sacro", cioè come regno finale, ogni regno umano. Dalla prospettiva escatologica il potere politico resta inequivocabilmente consegnato alla storia e quindi alla contingenza e alla relatività. "I regni di questo mondo passeranno". Con ciò chiaramente viene stabilita l’impossibilità di rendere vincolanti per la fede dei credenti opzioni politiche particolari e d’altra parte viene fondata in modo inequivocabile la possibilità della critica dei sistemi politici e dunque della loro riformabilità8. Questa "riserva escatologica", nel senso dell’impossibilità per il credente di attribuire valore assoluto a ciò che è relativo, vale - è importante notarlo - non solo nei confronti dei regimi politici esistenti, ma nei confronti di ogni agire politico. La doppia cittadinanza del credente, il suo appartenere al cielo e alla terra, la sua condizione di pellegrino, il suo obbligo di doppia fedeltà, non vale solo nei confronti dei governi, ma anche nei confronti delle opposizioni. Il che - è necessario sottolinearlo? - non significa affatto neutralità od equidistanza o ricerca di terze vie, giacché anche nei confronti di queste dovrebbe essere esercitata la riserva escatologica. E questa riserva nel confronto anche delle opposizioni non è una riserva rimandata nel tempo, al tempo in cui l’opposizione sarà al governo ("ricordati, Pipetta, quel giorno io ti tradirò" secondo la memorabile lettera di don Milani), ma è relativa al presente, al tempo cioè in cui l’opposizione è priva di responsabilità di governo, forse schiacciata dal potere stesso. E ciò ancora non significa minimamente stare dentro le battaglie della storia a metà, starci e non starci, starci sempre pronti ad uscirne, scambiando la riserva escatologica con la propria irrequietezza psicologica o con la fatica degli intellettuali a stare dentro i conflitti della storia (mai del tutto dentro o fuori, ma sempre a metà). Significa semplicemente continuare a considerare la "causa" come relativa e non come assoluta, come storica e non come "santa", la cui santità semmai sta tutta - come nella logica della creazione - nella sua storicità. Rispetto insomma a certe letture degli anni ’60 per cui i credenti, per via della riserva escatologica dovrebbero stare solo e sempre all’opposizione finendo così per riproporre, sia pure involontariamente, un integralismo di segno rovesciato, schierato a sinistra piuttosto che a destra, ma non diverso nel modo di concepire i rapporti religione-politica, il richiamo all’orizzonte escatologico deve valere sempre. E di per sé tale distacco, tale riserva critica non significa affatto demonizzazione del potere, ma riconduzione del potere alla sua logica teologica: logica creaturale per cui il potere è rimandato alla sua origine, da Dio per l’uomo, logica escatologica per cui il potere è consegnato al giudizio finale e dunque al tribunale delle beatitudini e del discorso della montagna, logica cristologica per cui il potere ha il suo modello nel servo crocifisso.

E così ancora desacralizzazione del potere vuol dire non solo non sacralizzare l’amico politico, ma anche non demonizzare il nemico politico. Per cui se è vero che il demonio è presente nella storia ed è operante ed è legato al potere sui regni di questo mondo e dunque anche alla politica, è vero però che il suo modo di operare è misterioso ed è trasversale rispetto ad ogni schieramento, rispetto anche ed anzitutto a noi stessi. Per cui se è vero che i credenti devono vigilare ed essere capaci di denunciare anche l’opera del maligno, è vero però che anche il maligno è dentro, ma sempre anche al di là delle creature di cui si serve. Resta così forte, qui, l’espressione con cui Bonhoeffer avrebbe risposto, secondo l’amico e biografo Eberhard Bethge, a quanti gli domandavano se Hitler fosse o meno l’Anticristo: "No, Hitler non è l’Anticristo, per questo egli non è grande abbastanza. L’Anticristo si serve di lui, ma non è stupido come lui"9. Con una battuta, Bonhoeffer ancora una volta si dimostra essere cinquant’anni più avanti di noi sul piano della riflessione teologica a proposito del nesso cristianesimo-mondo-storia. Tanto più interessante la sua riflessione teologica perché non scaturisce da considerazioni astratte, ma dalla resistenza a Hitler.

Questo per quanto riguarda la desacralizzazione del potere, un compito mai esaurito e tanto più importante nelle società contemporanee dove il sacro, sfuggito al monopolio della chiesa, si aggira in libertà. Come ha ampiamente mostrato la storia contemporanea, infatti, il rischio della sacralizzazione del potere non sta solo nelle società sacrali di un tempo, non riguarda cioè solo gli imperatori romani fattisi divinità, gli imperatori e i signori medievali consacrati dall’autorità medievale o i monarchi di diritto divino dell’età moderna, ma concerne anche e forse più le contemporanee rivoluzioni, i nazionalismi e totalitarismi ed anche i vari feticismi mercantili di certi capitalismi odierni.

Ma poi, l’orizzonte escatologico porta con sé un altro tratto, ed è quello della depoliticizzazione del sacro, ossia dello sforzo di purificazione della fede e della chiesa da tutte le incrostazioni temporalistiche, da tutti i puntelli mondani con cui si vorrebbe noi, impotenti, sorreggere Dio, onnipotente. Ed è questo certo un tema caro alla radicalità evangelica che ricerca appunto un’attuazione non accomodante della sequela.

La riserva escatologica può infatti essere mantenuta viva solo da credenti liberi, non da chi ha consegnato la fede e le sue sorti ai viluppi sociali, politici ed economici di un paese. Una fede e una chiesa attaccate alle cose facilmente finiranno per difendere le cose oltre che la fede e cercheranno di difenderle come cose "sante", "cristiane" e via dicendo, prestandosi insomma, almeno in parte, all’opera di sacralizzazione del potere da cui invece occorre liberarsi. Ecco il nesso profondo tra impegno storico dei credenti nella politica e impegno per la riforma della chiesa, un nesso intuito così acutamente da Rosmini: il servizio che il cristianesimo può rendere alla storia degli uomini lo può rendere solo restando fedele alla sua missione spirituale. Quanto più saprà testimoniare il suo avere a cuore esclusivamente la salvezza eterna degli uomini, tanto più potrà evitare che gli uomini cerchino nelle cose del mondo la salvezza creando non pochi pasticci storici.

E dunque la battaglia è unica, in certo senso, e non è estetica religiosa cercare fonti comuni da parte di movimenti di spiritualità (religiosi o laicali) e di movimenti culturali e politici. L’importante è non intendere la riforma della chiesa come una battaglia politica, da condurre con abiti attivistici, per riprendere la bella immagine di Dossetti, e come lotta per il potere nella chiesa, il che ovviamente non farebbe che negare il fine stesso della battaglia che si vuol condurre. Di nuovo il modello sullo sfondo è cristologico, il servo crocifisso, che tuttavia non esitò a scacciare con bella forza i mercanti dal tempio.

Che poi questo sforzo di depoliticizzazione del sacro e di desacralizzazione del potere non sia affatto un compito facile ma porti insita dentro di sé la possibilità del conflitto è testimoniato dal fatto che la figura più significativa sul piano teologico e politico all’interno di questa dialettica politica-religione è quella del martire. Basterebbe una riflessione approfondita sul tema del martirio, antico e nuovo, per capire come questo tentativo di tracciare i confini tra regno di Dio e regni degli uomini non è affatto un’operazione intellettuale da tavolino, ma un compito esistenziale che impegna tutta la vita e che sfocia non in una pacifica mediazione tra le due sfere o in una dolce composizione di temporale e sovratemporale, ma in un conflitto mortale che lacera l’impasto umano-divino in cui la doppia fedeltà può essere vissuta solo assumendo su di sé fino alle estreme conseguenze la logica dell’incarnazione. Perché proprio qui si dimostra come il martire, lui sì, testimone di radicalità evangelica, non difenda con il suo sacrificio solo i diritti di Dio, ma anche i diritti della terra, non solo rende testimonianza alla verità, ma anche alla libertà dell’uomo. La storia di Tommaso Moro sta ancora qui a mostrare come si possa essere santi nell’essere fedeli a Dio oltre che al re e laici nel morire per seguire la propria coscienza senza permettersi di giudicare quella altrui.

La vigilia e la pietà

Ma l’impatto dell’escatologia sulla politica non si ferma a questa via negativa, che già però è così fortemente costruttiva di spazi storici di libertà. Che cosa può dire ancora l’escatologia? Qui proviamo a tracciare qualche punto con molta più prudenza.

1. La persona e l’uguaglianza. Vi è stato chi come Moltmann ha ritenuto di poter ricavare dalla desacralizzazione del potere operata dal cristianesimo una fondamentale opzione preferenziale per la democrazia10. Il cristianesimo impedisce di considerare il titolare del potere divino politico come un "rappresentante" del divino, ossia di un ordine trascendente che si impone dall’alto all’uomo. Ogni uomo non può che rappresentare un altro uomo e non, nell’ordine mondano, il divino. La "rappresentazione" di Dio in forma umana è Cristo: tutto il resto è idolatria. In questo senso la forma di governo più vicina a tale concezione sarebbe la democrazia, in quanto forma di governo essenzialmente anti-idolatrica. In essa ogni rappresentanza è rappresentanza non di un ordine trascendente ma di un ordine umano, creato dall’uomo secondo procedure umane e criticabile dall’uomo stesso.

L’argomentazione è suggestiva ed ha dalla sua buone ragioni, non solo storiche, tuttavia va distinto in essa il piano della democrazia quanto a presupposti fondamentali e il piano della democrazia quanto a forma di organizzazione. Se infatti si fa riferimento alla uguaglianza sostanziale di tutti gli uomini, per cui nessun uomo può per natura esercitare un "potere di signoria" su un altro uomo, ma solo un "potere civile" fondato sul consenso, nè è in alcun modo ammissibile una differenza tra razze o gruppi umani diversi, ciò si può a ragione sostenere come razionalmente ricavabile dalla logica divina della creazione. Ma se si fa riferimento alla concreta organizzazione del potere nelle forme conosciute dalla democrazia moderna, ciò appare, anche se a malincuore, più difficile da fondarsi teologicamente. E non a caso la chiesa ha sempre mantenuto una posizione di neutralità nei confronti delle forme di governo, fatta salva la libertà religiosa e, ultimamente, i diritti umani.

Ma se prescindiamo da questo piano organizzativo, resta essenziale il piano dei presupposti e in particolare quello dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Fondata forse più sulla creazione che sulla prospettiva escatologica, l’uguaglianza resta un valore irrinunciabile anche se non immediatamente identificabile - di nuovo - con l’uguaglianza politica modernamente intesa. Ma anche così non è meno forte, questa radicale affermazione dell’uguale valore infinito di ogni persona, per cui nessuno può essere trattato da nessuna politica come un bene a disposizione, come merce di scambio. Nessuno stato, nessun gruppo politico può mai disporre del sacrificio della vita altrui. E quando ciò avviene, come nella guerra, ciò non può avere nessuna giustificazione nè religiosa, nè morale, ma può essere considerato solo come fatto esistenziale nella sua nuda datità. Posso prendere in considerazione solo il fatto eccezionale della minaccia presente e immediata alla mia vita da parte di un’altra vita: l’aggressione in atto e il diritto alla difesa. Non c’è nessuna guerra nè santa nè giusta, nemmeno la guerra di liberazione. Nessuna causa giusta può rendere giusto ciò che è ingiusto. Questa è la desacralizzazione del potere, il potere ricondotto a se stesso, l’uomo ricondotto alla sua responsabilità adulta, al suo dramma spaventoso di impotente-onnipotente: quando l’altra minaccia di ammazzarmi la mia legittima difesa - pure legittima - non ha nulla di sacro o di giusto, è solo espressione della mia scelta di caricarmi del peso della colpa per continuare ad esistere. Invece che caricarci del peso della colpa, invece che della responsabilità, vogliamo l’assoluzione previa, vogliamo l’irresponsabilità attraverso la religione o la morale o l’ideologia. Ma nessuno può decidere per me, tanto meno in questo caso, e a me resta sempre la possibilità di sacrificarmi quale agnello immolato. Ma nessuno può decidere per me, nessuno può togliermi il diritto di continuare ad esistere. Solo io posso farlo oppure posso caricarmi della colpa. Tertium non datur. Questa è, mi pare, la desacralizzazione del potere, là dove il potere ha la sua radice, nel potere sulla vita o sulla morte. Questa uguaglianza è certo più terribile.

2. La pace e la giustizia. Mi pare che poi non si possa prescindere dal sermone della montagna e dalle sue indicazioni. Vale per tutti e anche per chi fa politica, ed anche la politica è sotto il giudizio escatologico. "Avevo fame e non mi avete dato da mangiare". Una politica che perdesse di vista questi primari bisogni, lo sfamare, il dissetare, mi sembrerebbe una politica del nulla, del tutto insignificante per un credente, anzi colpevole. La stessa affermazione dell’esistenza di certi diritti fondamentali è impossibile se non si riconosce una previa obbligazione a rispettare questi diritti. In ciò resta valida l’osservazione di Simone Weil sull’antecedenza del dovere rispetto ai diritti. E questo certo non nel senso di caricare la politica in quanto tale del dovere di soddisfare questi bisogni fondamentali in chiave statalistica o assistenzialistica, ma nel senso che lo sguardo della politica non può non avere come suo oggetto primario, come sua cura, come suo assillo costante, onnipervasivo, la pace e la giustizia di un popolo. Il nesso di tutto questo con l’orizzonte escatologico mi pare espresso da quella bella immagine, già altre volte ricordata, che Ugo Vanni ha ripreso dall’Apocalisse: non siamo noi a determinare l’arrivo dello Sposo, ma possiamo però nell’attesa preparare il vestito della sposa. Gli atti di giustizia e di pace sarebbero appunto piccole tessiture del vestito.

3. Politica e verità. La scena di Gesù davanti a Pilato è una scena escatologica. Il suo silenzio davanti alla domanda del rappresentante del potere politico: " Che cos’è la verità?" ha il sapore di un evento finale. Di certo la politica non ha un rapporto immediato con la verità, non deriva deduttivamente da essa. E la distinzione va mantenuta e forte. Ma in nome di questa distinzione la politica non può calpestare la verità, come non può calpestare il sentimento della giustizia che abita nel cuore dell’uomo nonostante tutti i disperati tentativi di abbandonarlo, le tasse non pagate, le menzogne televisive cercate e bevute. La verità, la giustizia non sono beni a disposizione della politica. Calpestarli è dispotismo. Questa storia d’Italia non cambierà davvero senza questa presa di coscienza.

4. La virtù e l’ascesi. Torna di nuovo il tema già così meditato delle virtù, dell’autogoverno come presupposto essenziale del governo. Su questo è già stato detto in altri luoghi11. Ma non è forse terribilmente facile scordarlo quando ci si getta nella mischia?

5. La vigilia. La preparazione del vestito della sposa dice qualcosa sul modo di vivere il tempo dell’attesa escatologica. E’ un’attesa di qualche cosa che verrà, innanzitutto. Non è un’attesa incerta. E dunque l’agire è sotto giudizio, non può essere un agire furbesco di chi spera di evadere il controllo. E ancora è un’attesa piena, non un’attesa vuota. Il tempo dell’attesa non è affatto un tempo qualsiasi, è, deve essere, il tempo della vigilia. Stiamo vivendo non un giorno qualsiasi prima dell’avvento del regno, ma il giorno prima. L’aria è già piena dell’evento, l’evento è già dentro questo giorno, è presente nel suo prossimo arrivare, è la vigilia. La vigilia è un giorno come gli altri in cui tutti fanno le cose degli altri giorni, ma le fanno pensando al giorno che sta arrivando. Ma se questo giorno è la vigilia, perché non fervono i preparativi, perché non viviamo come dovremmo vivere il giorno prima della morte, del giudizio, della festa?

6. Il tempo della pietà. Nella vigilia della festa, veniva concessa la grazia a un condannato a morte. La vigilia è il tempo della pietà. Ma la pietà sembra scomparsa dalla terra. Ci sono tanti altri sentimenti. C’è la solidarietà, ma la pietà sembra sfiorita. Questo sentimento particolarissimo di Dio verso gli uomini, di cui i credenti dovrebbero essere capaci, non per forze proprie, ma appunto perché la pietà è solo da Dio, latita. E l’uomo infinitamente in attesa di pietà resta non corrisposto. Ci sono i gesti di pietà di cui gli uomini sono ancora capaci, ma è la cultura, forse la teologia della pietà che sembra mancare nella chiesa, nella sua predicazione, nella cultura dei credenti. Si oscilla tra la condanna del mondo, la denuncia e la buona compagnia, la solidarietà, che è però diversa dalla pietà, la quale è così avvertita della presenza del male, della profondità del peccato. Rimando su questo tema, da ripensare, alle pagine di Capograssi da cui traggo qualche riga:

 
Quello che c’è di terribile nelle soluzioni dello stordimento e del divertimento, nelle soluzioni del lavoro giuoco guerra e nelle controsoluzioni della pazzia e del suicidio, è che non c’è pietà. Nessuno ha pietà né degli altri né di se stesso. Queste soluzioni ignorano la pietà. Ignorano quello sguardo col quale si scopre quasi si direbbe per la prima volta nell’uomo, non più una forza estranea che esiste per essere o utilizzata o soppressa, ma la faccia fraterna dell’uomo; lo sguardo col quale l’Innominato vede per la prima volta, dopo tutta una vita, un individuo che piange... Nasce la preghiera. La preghiera è il trepido desiderio, la trepida quasi non formulata domanda, che Dio abbia pietà degli uomini, di questa umanità senza pietà... E mi accorgo in questo stesso atto, nell’atto stesso in cui chiedo pietà a Dio, che Dio stesso ha bisogno di pietà, che alla fine egli è come un mendicante, anzi il vero e solo mendicante che ci sia...12

Lo sguardo escatologico sulla storia mi pare ben raffigurato da questo sguardo della pietà.

 

1 Cfr. E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi cristiani (1912), trad. di G. Sanna, 2. voll, Firenze, 1969, 2a ed., vol. I, pp. 45-46.

2 R. Bultmann, Storia ed escatologia (1957), Brescia, 1989, pp. 45s.
3 Si veda, tra le altre, l’opera citata di Ernst Troeltsch.
4 Cfr., pur con le loro semplificazioni, i lavori di K. Löwith, Significato e fine della storia (1949), Milano 1979, 4a ed. e di E. Voegelin, La nuova scienza politica (1952), Torino 1968.
5 H. Merklein, Escatologia nel Nuovo Testamento, in Apocalittica ed escatologia. Senso e fine della storia, a cura di G. Canobbio, Brescia 1992, p. 35 (con ricca bibliografia).
6 Cfr. ivi, p. 36.
7 Sono questi temi affrontati in Aa.Vv., Cristianesimo modernizzazione politica, a cura di F. De Giorgi - P. Marangon - E. Xausa, Vicenza 1990. Una interessante ricostruzione storica di questa duplice dinamica, sia pure dall’ottica del giuramento politico, è quella offerta dal libro di P. PRODI, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Bologna 1992.
8 Si veda su questo come J. B. Metz ha sviluppato il tema della "riserva escatologica" dalla sua Sulla teologia del mondo, Brescia 1969 in poi.
9 Citato in E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer. Teologo. Cristiano. Contemporaneo. Una biografia, Brescia 1975, p. 771. Sul tema dell’Anticristo, nelle sue connessioni escatologiche e politiche, considerazioni interessanti si trovano in J. Pieper, Sulla fine del tempo, Brescia 1959.
10 Cfr. in particolare J. Moltmann, Critica teologica della religione politica, in J.B. Metz - J. Moltmann - W. Ölmüller, Una nuova teologia politica, Assisi 1971, pp. 9-61.
11 Cfr. Il politico e le virtù, Atti della Scuola di formazione della "Rosa Bianca" e del "Margine" (Brentonico, 27-30 agosto 1987), in "Il Margine", 8 (1988), numero 3-4.
12 G. Capograssi, Introduzione alla vita etica, a cura di C. Vasale, Roma 1976, pp. 187ss.