Massimo Ammaniti

Angoscia e disperazione

 

 

AMMANITI: Buongiorno, mi chiamo Massimo Ammaniti, sono uno psicoanalista ed insegno Psicopatologia dell'età evolutiva all'Università di Roma. Il tema dell'odierna trasmissione è: Angoscia e disperazione, un problema molto "denso" su cui oggi discuteremo insieme. Prima di parlarne, però, proporrei di visionare insieme una scheda filmata sull'argomento.

Il filosofo Ludwig Wittgenstein ha scritto: "Non si può sentire uno sconforto più grande di quello di un essere umano. Il mondo intero non può trovarsi in una situazione di bisogno maggiore di quella in cui si trova una sola anima". Come può essere che nell'intimo di un individuo si annidi un'angoscia così grande da superare il male del mondo intero? Lo possiamo comprendere se riconosciamo che la disperazione, nella sua forma più radicale e più autentica, comporta una soppressione del mondo. Montale ha scritto del male di vivere come "dell'incartocciarsi della foglia riarsa". Il mondo si chiude su se stesso fino all'annullamento e perde ogni capacità di attrarre la nostra attenzione, di mostrarsi interessante e saliente in diversi modi. A scomparire è la sua stessa natura di mondo - ovvero una realtà più profonda e più grande del nostro io - fonte inesauribile delle nostre peripezie alla ricerca della verità e del significato. Nella disperazione si è vinti dal proprio sentimento del nulla. Si viene presi da una terribile stanchezza nei confronti della vita. Ma come accade che il mondo, a un certo punto, arrivi a spegnersi in tale maniera? Com'è possibile che veniamo inghiottiti da forze centripete e distruttive? Pessoa ha mostrato come il sentimento di angoscia segua a un naufragio di tutte le nostre aspettative. "Tutto quanto ho voluto mi si è sfracellato sotto le finestre, come una zolla caduta da un vaso degli ultimi piani". È questo scacco verso le nostre attese che può portarci alla disperazione più totale: sentirsi degni e vedersi trattati dal destino come i più infimi. E forse è proprio in questo punto che è possibile operare al fine di superare la disperazione: modificando le nostre attese, non ponendo al mondo richieste che esso non sa soddisfare. Quanto, però, tale via di salvezza dipende dal caso e dalla fortuna, e quanto invece deriva da un "esercizio su di sé", dalla disciplina della volontà o da un "risintonizzarsi" dei sentimenti?

STUDENTE: Per iniziare la nostra discussione vorrei prendere spunto da uno degli oggetti simbolici che abbiamo proposto alla Sua attenzione: le tragedie di Sofocle, in particolare l'Edipo. Esse, infatti, potrebbero

essere definite come degli "archetipi inconsci" rispetto a quei problemi che, molto spesso, sono la causa basilare dell'angoscia. Se questi archetipi sono già presenti nella coscienza collettiva - comprese le loro forme simboliche - addirittura dai tempi dell'antica grecia, non sono forse da considerare come degli elementi connaturati all'esistenza umana?

AMMANITI: Credo che la scelta delle tragedie di Sofocle - in particolare dell'Edipo - sia stata molto azzeccata. Come Voi sapete, Freud ha utilizzato la vicenda di Edipo per descrivere determinate vicissitudini dell'uomo: una delle caratteristiche peculiari di questo personaggio, infatti, riguarda proprio le sue pulsioni e l'angoscia che ne deriva. Edipo si congiunge sessualmente con la madre, ne diventa il marito e uccide il padre: ciò significa che la sua storia è legata alla paura di non riuscire a controllare le proprie pulsioni, tanto quelle sessuali, quanto quelle distruttive. Secondo Freud, questo timore costituisce una delle principali cause della angoscia, sebbene non sia l'unica.

STUDENTE: Finora non si è riusciti a dare all'angoscia e alla disperazione un significato filosofico, per lo meno così è avvenuto in Kierkegaard, Sartre o in genere negli esistenzialisti. Si tratta di sentimenti che, sebbene siano stati provato da tutti almeno una volta nella vita, non siamo capaci di definire. Com'è possibile descriverli da un punto di vista medico?

AMMANITI: Ciò che hai appena affermato mi pare molto corretto: essenzialmente l'angoscia e la disperazione sono due termini filosofici, ma sono anche molto difficili da distinguere. Per quanto riguarda l'angoscia, essa è un sentimento che implica tensione e stato d'allarme. In più, l'angoscia possiede anche una base somatica: chi è angosciato ha paura che gli possa accadere qualcosa di terribile e per questo può succedere che gli si stringa la gola oppure che gli faccia male lo stomaco. Nel linguaggio psichiatrico questo stato d'animo viene definito ansia. Da parte sua, invece, la disperazione possiede una sfumatura più depressiva: si perde interesse nei confronti della vita e non si riesce a trovare un senso nei riguardi del futuro. Si tratta, quindi, di due aspetti diversi che spesso si associano. In proposito va detta una cosa: l'angoscia e la disperazione non costituiscono delle esperienze eccezionali che accadono una sola volta nella vita. Al contrario, esse riguardano ognuno di noi, sebbene con qualche distinzione: l'ansia, infatti, è uno degli stati d'animo fondamentali della vita odierna, perché quando si è ansiosi si cerca di stimolare maggiormente le proprie risorse. Si tratta di un meccanismo normale, alla stessa stregua di tutti gli altri affetti che possiamo sperimentare. Non rientra più nella normalità nel momento in cui rimaniamo bloccati nella sua morsa.

STUDENTESSA: A questo proposito, quindi, potremmo considerare corrette le parole di Sartre: "Soltanto quando conosce l'angoscia, il nulla, la nausea, l'uomo subisce quella crisi che lo porta a desiderare la libertà e l'impegno".

AMMANITI: Sartre afferma che certi stati mentali sono necessari ad acquisire un'identità umana. Probabilmente al riguardo va sottolineato un aspetto: anche il neonato prova ansia, ad esempio nel momento in cui ha fame e si tarda a nutrirlo oppure quando non si sente tranquillizzato dall'abbraccio della madre. Di fronte a questo tipo di esperienze il bambino reagisce piangendo. Mano a mano che si cresce, però, si comincia anche a comprendere il senso dell'esperienza, a riflettere sui propri stati mentali, a distinguere un affetto da un altro e a descrivere i diversi affetti. Durante l'adolescenza, ad esempio, si diventa in grado di raccontare i propri stati d'animo e di condividerli. Credo si tratti di esperienze che conoscete bene e penso anche che le ragazze siano più inclini a parlare delle proprie emozioni rispetto ai ragzzi loro coetanei.

STUDENTESSA: Com'è possibile che un evento della vita fortuito o casuale possa gettarci nell'angoscia e nella disperazione e, in seguito, riesca a farcene uscire?

AMMANITI: E' una questione molto interessante. In primo luogo, non tutti reagiscono all'ansia nella stessa maniera e le differenti risposte possono derivare anche da una diversa struttura biologica: esistono individui più resistenti all'ansia e persone che reagiscono con maggiore tensione a uno stato di apprensione. Il secondo aspetto è legato all'esperienza ed alla creazione legami affettivi positivi che infondono sicurezza. Il terzo aspetto, invece, riguarda proprio ciò di cui hai appena parlato: gli eventi. Alcuni accadimenti, infatti, sono in grado di scatenare l'ansia: uno di questi potrebbe essere dato dal cambiamento del proprio ambiente scolastico, ad esempio quando si passa dalle medie inferiori a quelle superiori. I momenti di passaggio costituiscono dei periodi in cui una persona deve "rivedere" se stesso, perché implicano un futuro che ancora non si conosce. Ciò significa che tutto quello che crea discontinuità può anche costituire una fonte di ansia, ma significa anche che alcuni eventi possono risultare più stressanti di altri. Essere lasciate dal ragazzo a cui si vuole bene equivale alla perdita di un rapporto e, dunque, si connota come un accadimento molto importante. Riagganciandosi aciò che dicevamo in precedenza su Freud, non bisogna dimenticare che questo grande studioso scoprì la centralità della cosiddetta angoscia di separazione. Vi proporrei di vedere un contributo su Munch che, come sapete, è stato un grande pittore capace di rappresentare in maniera magistrale determinati stati d'animo. I suoi quadri, infatti, sono molto evocativi.

(si visiona il contributo)

STUDENTE: Nel filmato era presente uno degli oggetti che abbiamo scelto per questa trasmissione: Il grido di Eduard Munch, un quadro che potrebbe rappresentare il massimo simbolo dell'angoscia. Sul piano del reale un simbolo analogo potrebbe essere dato dal suicidio, un atto che a volte viene interpretato

come il fine ultimo ed estremo dell'angoscia di vivere, ma anche un modo per sfuggirne.

AMMANITI: Mentre guardavo il quadro di Munch pensavo ad una delle locuzioni a volte utilizzate da noi psicoanalisti: il "terrore senza nome". Tramite tale espressione ci si riferisce allo stato d'animo provato da alcune persone in preda ad una forte paura: il loro terrore è così grande che non solo non riescono ad esprimersi o a descriverlo agli altri, ma neanche a trovarci un significato o ad individuare l'oggetto che provoca loro una tale sensazione. Si tratta di una condizione in cui l'angoscia è così forte che la persona non riesce neppure a "mentalizzarla". L'individuo ritratto in questo quadro ha perso le fattezze umane fino ad identificarsi col terrore stesso, un terrore senza nome, irriconoscibile. A tal punto emerge una questione di grande importanza: uno dei meccanismi per affrontare l'angoscia consiste nel poterla raccontare e comunicare agli altri. Questa pratica costituisce uno dei presupposti della psicoterapia, ad esempio: poter parlare di se stessi e, dunque, riuscire a trasmettere il senso della propria esperienza. Tu hai fatto riferimento al suicidio. A volte il suicidio è legato all'impossibilità di trovare soluzioni nei confronti del terrore senza nome di cui ho parlato poco fa: uccidersi è l'unico modo per fronteggiare una situazione che non ha vie d'uscita. Ovviamente non è sempre così. Altre volte, infatti, il suicidio - in particolare quello giovanile - è il risultato di un rifiuto della dimensione corporea a favore di una dimensione eccessivamente idealizzata.

STUDENTESSA: Nello stato di angoscia o di disperazione si è consci dell'oggetto che causa il proprio malessere?

AMMANITI: A volte accade che si riesca ad identificare il proprio malessere; si tratta di un grande passo avanti perché si è consci di ciò che ci aspetta. Altre volte questo non succede. Vi è mai capitato di svegliarvi al mattino e - senza nessun motivo - avere la sensazione di essere entrati in un tunnel? I nostri stati d'animo - la nostra "modulazione di base", ossia lo stato dell'umore - dipendono da molti fattori, di cui solo una parte appartiene alle vicissitudini della vita e raggiunge il livello di consapevolezza. Ma c'è anche una base biologica. Il che vuol dire che si possono creare delle sregolazioni di cui non siamo nemmeno consapevoli. Credo che le ragazze sanno molto bene, ad esempio, il rapporto fra lo stato d'animo e il ciclo mestruale. Ci sono dei periodi, durante il ciclo mestruale, in cui uno si sente abbattuto, prostrato, irritato, e così via. Il che ci deve portare a ricordare sempre, che siamo persone e abbiamo un corpo. E i meccanismi dell'ansia e della depressione sono anche legati a dei neurotrasmettitori cerebrali. Naturalmente ci sono cause prossimali e cause distali, dicono i biologi. Quelle prossimali sono i meccanismi attraverso cui nel nostro cervello si verificano, diciamo, questi stati di ansia o di depressione. Per quelli distali le vere cause sono legate alle vicissitudini della vita e - Vi dicevo prima - alla separazione. La separazione da una persona che uno ama o la perdita di una persona che uno ama - possono essere i genitori, può essere un amico, può essere un ragazzo o una ragazza - questi sono i temi centrali della vita, cioè il tema, io credo, della Vostra età: la solitudine. Il tema della solitudine mi sembra centrale.

STUDENTE: Finalmente la depressione è stata individuata come una vera e propria malattia, anzi è stata definita appunto una malattia del nostro fine secolo. Ma come mai così frequentemente molti cadono in depressione? C'è un collegamento, ovviamente, con il mondo esterno. Perché così tante persone cadono in questo oblio e come mai è così facile valicare questo limite?

AMMANITI: Molti grandi personaggi hanno sofferto di depressione. Cioè la depressione non è solo una malattia, come Tu dicevi, ma è anche una condizione esistenziale. Credo che ognuno di noi ha sperimentato in alcuni momenti uno stato di depressione, che è diversa dalla malattia depressiva. Però, ad esempio, Michelangelo soffriva di depressione e così una serie di grandi personaggi. Per cui può essere anche una malattia creativa, la depressione, perché ti obbliga a guardarti dentro, a metterti alla prova. Probabilmente le fasi della depressione possono essere anche delle fasi molto creative. Lo stesso Freud scoprì molte delle sue ipotesi sul mondo psichico quando soffrì di depressione. Dopo la morte del padre ebbe una grave depressione e durante quel periodo lui riuscì ad elaborare le sue teorie. Allora mi sembra che intanto noi dobbiamo distinguere fra stati e momenti di depressione che sono necessari in ognuno di noi. Se uno non soffrisse ogni tanto di depressione sarebbe uno zombie. La malattia depressiva invece è quando uno non riesce più a uscirne fuori, cioè rimane invischiato mani e piedi in una palude. Allora probabilmente è vero che oggi si soffre molto più di depressione. Forse certi cambiamenti sociali della famiglia, l'accelerazione della vita quotidiana, gli obiettivi della vita sempre più impegnativi, ci mettono costantemente alla prova e ci fanno sentire inadeguati. Credo che questi siano aspetti importanti. È anche vera un'altra cosa: che alcuni periodi della vita, sono dei periodi che corrispondono di più a stati depressivi. Ad esempio, l'adolescenza è un momento in cui, più di altri periodi, si soffre di depressione e ugualmente anche in età avanzata.

STUDENTE: In questo periodo, intendo il nostro fine secolo, mi sembra di vedere certe volte quasi una fragilità maggiore rispetto a prima, perché i casi, come diceva il mio compagno, di suicidio, oppure di azioni estreme sono frequenti e mi chiedo il perché. Finché la depressione porta alla creatività è positiva, ma quando porta al suicidio o alla morte, non la vedo così positiva, anzi!

AMMANITI: Sono d'accordo con te. Credo che una distinzione va fatta e deve essere chiara, fra stati depressivi transitori e malattia depressiva, che non consente soluzioni, per cui quando una persona è gravemente depressa - non esce di casa, non vuole incontrare nessuno, passa molto tempo a letto, ha disturbi del sonno, perde piacere in tutto quello che prima gli interessava, il tono dell'umore è abbassato, non ha più nessuna spinta - e questo dura nel tempo nonostante gli sforzi, per cui credo che quelle sono le condizioni che vanno curate. Però credo che tutto questo sia anche legato, come già Ti dicevo prima, probabilmente a come cambia la vita, nel senso che forse rispetto al passato qualcosa è cambiato negli ultimi anni. Cioè prima esistevano come delle regole - questo nel bene e nel male - regole piuttosto rigide, delle convinzioni, dei valori che sembravano esseri immutabili. Questo, per lo meno fino a trenta quarant'anni fa, si pensava che il mondo era questo. Anche i giovani allora credevano che, diventando come i propri genitori, studiando e così via, riuscivano poi a trovare un posto nella vita, un lavoro. E tutto sembrava poter procedere nel migliore dei modi. Oggi tutto questo non è più vero, per cui credo che un giovane cominci a interrogarsi molto di più rispetto a quello che avveniva prima. I genitori sono dei modelli che funzionano in alcuni momenti e in altri momenti no. Uno si sente molto più solo con se stesso. E forse questo è anche il motivo per cui i gruppi sono importanti. Il gruppo aiuta molto i giovani a sentirsi più sostenuti.

STUDENTE: Kierkegaard parla di angoscia, a cui dà accezione positiva e che porta, secondo lui, a Dio, e di disperazione, cui invece dà accezione negativa, che porta alla morte. Nel libro de L'Apocalisse, Gesù dice: "Io sono la stella mattutina". Questa, secondo me, è la migliore cosa che l'uomo angosciato possa sapere.

AMMANITI: Non so se ho capito bene la domanda, mi sembra che Tu poni molti aspetti. Forse la cosa più importante che Tu poni è che se uno si trova in un universo dove non c'è Dio, la solitudine si avverte molto di più e fare i conti con la solitudine in un mondo dove non c'è speranza, diventa molto più difficile. Cioè credo che essere religiosi è un modo di tranquillizzarsi e di dare un senso alla propria vita. Se non si è religiosi, uno deve trovare un senso nella vita, nei rapporti, in quello che fa, in quello che riesce a realizzare. Tra l'altro ho letto recentemente una ricerca che mette in luce che la preghiera ha una funzione curativa, non solo rispetto a stati psicologici, di depressione e così via, ma anche rispetto a delle malattie fisiche. Cioè, chi crede, per certi versi si sente più forte e meno solo. Spesso la disperazione, come nel quadro di Munch, emerge quando uno si sente solo con se stesso. C'è un bello scritto di Conrad che dice: "Noi viviamo come sogniamo: soli". Cioè il tema della solitudine credo che è quello che struttura profondamente il senso dell'esistenza umana. E credo che in adolescenza - finché uno è piccolo ha i genitori, la famiglia, ha un faro che è rappresentato dai genitori - con l'adolescenza uno comincia a riconoscere la solitudine, la responsabilità, la coscienza. E per questo si aprono tutti questi interrogativi e queste paure.

STUDENTESSA: Freud diceva che la guarigione poteva avvenire solo quando il paziente avesse individuato e avesse poi rivissuto il trauma o il problema. Questa posizione è contestata fortemente dal buddhismo, che sostiene necessario non solo rivivere il dramma, ma tagliarne le radici, eliminarlo completamente. Vorrei sapere la sua opinione.

AMMANITI: Non so se esattamente le cose sono come Tu le hai poste. Per Freud sicuramente sì. Intanto credo che è importante riuscire a rivivere certe esperienze e forse rivederle con occhi diversi. Intendo dire: se una persona durante l'infanzia ha avuto delle perdite, delle difficoltà, gli sono mancate delle cose, questo non lo puoi risolvere in nessun modo, perché appartiene al passato. Allora quello che dice Freud e che dicono molti psicoanalisti è che, rivivendo la tua esperienza all'interno di una relazione, puoi dare un senso a quello che ti è successo e trasformarne anche il ricordo. Probabilmente nel ricordo siamo portati a vedere le cose in termini molto più negativi di come sono andate. E allora si tratta di ricreare un ricordo diverso e ricostruire la propria autobiografia. Per cui, in questo senso, credo che la psicoanalisi può aiutare.

STUDENTESSA: Lei finora ha parlato di paura proveniente dall'esterno, quindi condizionata dagli altri. Ma non pensa che la paura sia più di se stessi piuttosto che degli altri?

AMMANITI: Ma credo che l’una non escluda l'altra, nel senso che intanto, pensando alle emozioni, alcune sono più legate a se stesse e servono a verificare continuamente noi stessi: se siamo o non siamo capaci di affrontare le cose, e così via. In altri momenti le emozioni riguardano gli altri.

STUDENTESSA: Ma dipende da come uno le vive le emozioni?

AMMANITI: Non credo come le vivi, ma nel senso che le emozioni sono emozioni rivolte a sé, emozioni rivolte agli altri, emozioni rivolte alla situazione. Ti trovi, ad esempio, in un ambiente nuovo. Devi affrontare dei pericoli, dei rischi, non sai quello che Ti può succedere. E questo Ti suscita delle emozioni: allarme, tensione, ansia. E questo è utile, perché aumenta le Tue capacità di percezione e anche le Tue risorse personali. Continuo a dire che le emozioni sono, per ognuno di noi, la nostra grande ricchezza che ci aiuta a capire noi come stiamo, ci aiuta a capire gli altri e ci aiuta ad affrontare anche situazioni nuove ed impegnative.

STUDENTESSA: Freud parla dei sogni d'angoscia e li definisce come un guardiano che fa un errore di ruolo, cioè un qualcosa che dovrebbe stare nell'id e che invece va a finire nell'io. Quindi l'angoscia è una malattia inconscia, giusto?

AMMANITI: Esiste un'angoscia cosciente e un'angoscia inconscia. Intanto, rispetto ai sogni, noi abbiamo molto cambiato il nostro punto di vista. Freud parlava dei sogni legati al desiderio e il sogno doveva servire a realizzare dei desideri che sono negati, proibiti dalla realtà. E diciamo gli studi più recenti invece mettono in luce che il sogno e i sogni ci aiutano a riorganizzare la nostra esperienza, secondo delle coordinate diverse. Cioè noi durante il giorno riorganizziamo la nostra vita, col pensiero fondamentalmente cosciente, la notte riorganizziamo le nostre esperienze secondo una chiave diversa, cioè, in termini di computer, usando dei programmi diversi. E servono entrambi. Per cui il sogno protegge la nostra vita psichica.

STUDENTE: Ecco, abbiamo già accennato al significato della solitudine e quindi la solitudine collegata anche all'angoscia, in quanto l'io, di fronte a questo nihil, appunto il nulla, produce quel "terrore senza nome", a cui poi la psicoanalisi, in caso della malattia, tenta in molti casi di dare un nome, quindi a risolvere la malattia. Ora, se da un punto di vista filosofico la solitudine è considerata, in molti casi, la radice stessa dell'uomo, quindi una condizione imprenscindibile dalla quale l'uomo non può uscire, quali sono invece in campo medico le finalità che la psicoanalisi persegue per riuscire a superare il "terrore senza nome"?

AMMANITI: Intanto, noi in italiano usiamo il termine "solitudine", che implica aspetti diversi. Tra l'altro essere anche solo con se stessi è importante. Mentre è molto diverso la solitudine vissuta come perdita. Allora uno non riesce a stare solo con se stessi e, mentre stai lì, pensi a quello che ti manca. E infatti, in inglese, ci sono due termini che indicano molto bene: solitude, che è quella più creativa dello stare soli con se stesi e isolation, che indica invece l'essere tagliati fuori dalla vita, dal mondo, dai rapporti, e come tale può essere una condizione molto più difficile e problematica. Allora, per ritornare alla Tua domanda, la psicoanalisi naturalmente pone al centro della propria terapia l'incontro con l'altro, il lavorare insieme ...

STUDENTE: Quindi istituire una relazione in fondo.

AMMANITI: Ecco, credo che se dovessimo trovare una prima conclusione insieme, io direi che i rapporti ci aiutano e ci curano perché uno ha fiducia negli altri. Quando ti senti capito da qualcuno, non ti senti più così solo e cominci a riacquistare la fiducia che qualcuno riesca a capire il tuo stato d'animo. E, a questo punto, tu riacquisti il senso, possiamo dire, della comunità.

STUDENTE: Tuttavia la nostra vita non giunge mai ad un punto d'approdo conclusivo. Quindi noi ci troviamo sempre, di volta in volta, nelle varie esperienze che facciamo, a dover affrontare angoscia e disperazione o solitudine e quindi, di volta in volta ci ritroviamo di fronte a questo problema che non è mai risolto una volta per tutte. Quindi, in questo senso, è anche condizione esistenziale.

AMMANITI: Questa direi che è anche la fortuna. Il che vuol dire che noi dobbiamo anche ragionare rispetto alla nostra vita. Qualsiasi acquisizione non è mai definitiva. Cioè viviamo, possiamo dire, sempre in una situazione di bilico. Naturalmente l'avere avuto delle esperienze positive ci può dare maggior fiducia, però non ci mette al riparo, altrimenti saremmo invulnerabili. Mentre credo che una delle caratteristiche proprio della identità umana è la sua vulnerabilità e il riconoscimento della vulnerabilità, che si può affrontare solo attraverso i rapporti con gli altri.

STUDENTE: Appunto in questo senso pensavo al superamento della solitudine, dell'angoscia, della disperazione come una conquista continua.

AMMANITI: Esattamente, qualcosa che continuamente va riaffermata. Ma credo che questo valga anche nei rapporti di amicizia, nei rapporti di amore e così via, che non sono dati una volta per tutti, ma vanno continuamente, potremmo dire, riconquistati.

STUDENTE: Navigando su Internet abbiamo deciso di prendere il sito inerente a Trainspotting - il film che è

stato definito l'Arancia meccanica degli anni Novanta - per il tema appunto di cui parla: il disagio giovanile, che poi porta all'angoscia e alla disperazione.

AMMANITI: Tu hai parlato prima di Arancia meccanica, che però era degli anni Ottanta, mi sembra, e che probabilmente indicava un mondo giovanile diverso: la perdita di significato, la violenza e così via. Quello che è importante in Trainspotting è la dimensione - d'altra parte come emerge dallo stesso titolo – del veder passare i treni e rimanere in attesa. Naturalmente il treno è legato alla vita, la vita che se ne va e avere anche il senso della inutilità della propria condizione e del perdere continuamente le possibilità, le occasioni. Uno dei tanti volti dell'angoscia è dato proprio dalla paura di entrare nell'arena della vita, dalla tentazione di rinchiudersi in un interminabile stato di attesa. Io credo che è fondamentale per i giovani riuscire a entrare, mettersi alla prova, rischiare di fallire, rischiare di sperimentare in alcuni momenti il dolore, la disperazione. Però è qualcosa che ti fa crescere. Mettersi in attesa, stare alla finestra, credo che è un modo di perdere questa grande occasione della vita che abbiamo.