Vittorino Andreoli

Competizione e affermazione di sè


ANDREOLI: Ho dedicato tutta la mia vita a cercare di capire il comportamento dell'uomo ed in particolare il comportamento di voi ragazzi. Due degli atteggiamenti più importanti dell'individuo nella società sono la competizione e l'affermazione di sé. Questo è il tema di cui oggi ci occuperemo: cominciamo a presentarlo con una scheda.

Sostenere che la competizione non faccia parte della natura umana è arduo, tant'è vero che senza competizione l'umanità stessa non esisterebbe affatto. La più antica tra le forme di competizione infatti è la selezione della specie, quel meccanismo che ci ha consentito di essere quel che siamo. La teoria darwiniana dell'evoluzione da questo punto di vista parla chiaro: "Gli esseri viventi sono il risultato di una selezione violenta, che ha premiato le specie capaci di sopravvivere in un determinato ambiente. L'esempio classico è quello della giraffa: di fronte alla penuria di arbusti, un gruppo di erbivori, dotati di collo lungo e quindi in grado di raggiungere il cibo ad altezze per altri impossibili, ha trovato il nutrimento sufficiente per sopravvivere e soprattutto per riprodursi, garantendo così la propria continuità. A salvare noi esseri umani, viceversa, sembrano siano stati la dimensione del cervello e soprattutto le mani che, grazie alle caratteristiche del pollice, hanno consentito ai nostri antenati di servirsi di qualche utensile. Più in generale la selezione naturale è il mezzo a cui ci affidiamo per garantire la nostra continuità e quindi per affermare la nostra presenza nel mondo. Naturalmente siamo impegnati anche in altre forme di competizione, dalla lotta per il successo negli studi e nel lavoro, a quella nello sport, a quella in amore, alla rivalità - per dirla con Freud - con i nostri padri per conquistare le attenzioni delle nostre madri. Ma la prima forma di competizione è quella biologica. Del resto il nostro stesso concepimento è frutto di una competizione: la gara tra un milione di spermatozoi che si danno battaglia per arrivare primi a fecondare l'agognato ovulo.

STUDENTESSA: Buongiorno, professore. Volevo chiederLe se è vero, come dice la scheda, che l’evoluzione dell'animale uomo sia sostanzialmente legata a fenomeni di affermazione biologica: il debole è destinato a soccombere per questioni biologiche e genetiche. Ne deriverebbe, quindi, che l'affermazione di sé è assolutamente scevra da qualsiasi questione etica.

ANDREOLI: L'antropologia e la storia hanno dimostrato che la lotta è stato il filo conduttore dell’evoluzione dell’umanità. E’ però possibile non ripetere la storia: oggi ci potremmo chiedere se l’uomo non si sarebbe potuto evolvere attraverso la cooperazione, magari diventando un essere migliore. Facciamo un esempio: in una classe scolastica è meglio la competizione, oppure si ottengono maggiori risultati creando una sorta di laboratorio col quale affermare il gruppo-classe piuttosto che il singolo individuo? A me piace lasciare aperta la risposta: la storia del passato è già stata scritta, ma non è detto che non si possa svilupparla diversamente per il futuro, caratterizzando l'uomo sul piano della cooperazione e non più della lotta. Non credo si possa parlare di etica quando seguiamo degli istinti: se il nostro comportamento è determinato dal codice genetico esso non può diventare materia di etica. L’uomo si interessa al problema etico perché si pone il problema della scelta: se faccio del male ad un mio simile è perché voglio farlo, anche se non ne ho più la necessità.

STUDENTESSA: Quindi esiste la possibilità di non determinazione delle azioni dell’uomo, la possibilità della scelta? Lei ci crede fermamente?

ANDREOLI: Non solo credo in tale possibilità, ma ognuno di noi può rendersene conto. Sicuramente ogni giorno tu sperimenti l’opportunità di fare certe cose scartandone altre: la scelta è quindi nell'esperienza di ciascuno di noi. Anche nel cervello - nel grande organo che determina il comportamento dei singoli nella società - notiamo che l’evoluzione ha fatto sviluppare la parte del nostro encefalo, quella dei lobi frontali, in cui sono localizzate tutte le attività dell'apprendimento: la memoria, la capacità di fare e di volere delle cose e così via. Questa parte "plastica" del cervello è quella che ci permette di fare certe cose e non altre, di impararne alcune e non altre: è quindi probabile che possiamo difendere la libertà anche sulla base delle conoscenze sulla biologia del cervello.

STUDENTESSA: Qual è la discriminante fra le facoltà che sono determinate dall’istinto e quelle che invece risultano più plastiche?

ANDREOLI: Ciascuno di noi risponde in modo deterministico al proprio bagaglio genetico, che in qualche modo è da considerare come la memoria di tutto il passato. D’altra parte, grazie alla parte plastica del cervello, abbiamo la possibilità di stare nelle nostre esperienze e di convogliarle in una storia che appartiene al presente o, addirittura, di immaginare il futuro, organizzarlo e programmarlo. Il nostro cervello è un terminale: viene sollecitato dalla nostra storia passata tramite azioni in gran parte determinate, ma è anche lo strumento che recepisce la nostra esperienza e che ci consente di vivere la nostra attualità. Esso è straordinario, perché ci fa capire che noi - forse a differenza di altre specie viventi - possiamo mutare. Abbiamo quindi la capacità di cambiare l'imperativo della lotta e dell'affermazione in un imperativo della cooperazione e dell'amore.

STUDENTESSA: Allora Lei ha una visione kantiana del mondo e della mente umana…

ANDREOLI: Kantiana per ciò che concerne la possibilità di una libera scelta. Ma mentre ai tempi di Kant si trattava di un argomento squisitamente filosofico e i biologi, da parte loro, erano dei meccanicisti, oggi questa certezza ci deriva persino dalla scienza. Forse tra due anni avrai la possibilità di dire: "Ricordo che due anni fa, a scuola, ho parlato col professor Andreoli." infatti oggi, durante questo incontro, si sono stabilite delle strutture cerebrali nella parte frontale dell’encefalo: questa esperienza ha fatto sì che si modificassero alcune parti del cervello. Se oggi non fossi venuta qui non si sarebbe mai formato un aspetto del tuo comportamento. La straordinarietà di questo momento storico è data dalla nostra conoscenza del fatto che il comportamento è modificabile e che ciascuno di noi può decidere di comportarsi in modo completamente nuovo: se l’odiare il proprio nemico è un imperativo genetico, potremmo persino arrivare ad affermare di volerlo amare e ad assumere un comportamento in qualche modo "antigenetico". Ed ecco perché, ripeto, oggi parliamo di affermazione del sé e di competizione: perché sappiamo che è possibile pensare ad una società di cooperazione.

STUDENTESSA: Ma questo ribalta totalmente la visione freudiana dell'uomo in quanto essere determinato dai suoi istinti più reconditi e più profondamente riposti nell’inconscio?

ANDREOLI; Freud, come sai, iniziò a proporre le proprie idee nel 1900, vale a dire cent'anni fa. Proprio nel 1900 uscì il suo libro L'interpretazione dei sogni, che tratta dell’inconscio. Egli sicuramente affermò che il nostro comportamento è in qualche modo guidato dall'inconscio, ma non disse mai che quest’ultimo è genetico o meccanico, perché, al contrario, possiede dei conflitti che hanno un’origine storica. Pensa all'importanza degli studi sul rapporto madre-bambino: Freud diede l'avvio a questi studi affermando: "Il modo in cui una madre si rapporta al figlio - oggi noi includeremmo anche il padre - influenzerà la futura attività di quel bambino." Nel bambino possono quindi emergere delle nevrosi che in seguito diverranno inconsce e che guideranno il suo comportamento. Il rapporto tra determinismo e libertà è un vecchio problema che ha fatto discutere tanto gli psicologi, quanto – e soprattutto – i filosofi. Ma oggi, ripeto, abbiamo a disposizione anche dei dati biologici. C'è un gruppo di biologi che si definisce "I biologi della libertà", un'affermazione un po' estrema che però rende bene l’idea dell’evoluzione della disciplina: fino a trent'anni fa non si sapeva come uscire dal rapporto con la macchina e si affermava: "Ti sembra di essere libero, ma in realtà non lo sei." Oggi invece - attraverso gli studi sul cervello e in particolare sulla sua parte plastica relativa all'apprendimento e alla memoria - sappiamo che dentro di noi acquisiamo elementi non necessari che condizionano il nostro agire.

Nella scheda si è parlato di affermazione del sé: siccome avete tirato in ballo Freud, è importante fare una piccola distinzione tra io e . Freud non parla tanto del sé, quanto dell’io e della sua struttura, e dice: "Dentro ciascuno di noi c'è una organizzazione composta dall'es, dall'io e dal super-io." Quando oggi ci riferiamo al sé, stiamo in qualche modo parlando della dimensione sociale dell'io. L'io è ciò che di strutturale abbiamo dentro di noi: è come se analizzaste una statua e descriveste come è formata. Mentre il sé indica invece il modo in cui quella statua si rapporta agli altri ed ha una dimensione e una funzione sociali. Quando parliamo di "affermazione di sé", ci riferiamo al tentativo di trovare un nostro significato nella comunità e nel mondo: tale significato è certamente fondamentale perché, se risulta assente, proviamo un senso di svuotamento che può degenerare in una forma depressiva. La solitudine è un sentimento molto diffuso nel mondo giovanile. Non è la stessa cosa che rimanere isolati su di una montagna: vuol dire non essere percepiti, non avere un senso in mezzo alla gente, sentirsi soli tra tante persone. Si ritrova solo colui a cui nessuno attribuisce un significato, colui che vive ma è inutile. E’ molto importante che voi pensiate al sé come a quella caratteristica della vostra personalità che vi permette di relazionarvi con gli altri; la parola "io" viene usata da colui che, in fondo, è ancora dentro se stesso: il narciso. Una delle patologie dell'affermazione è data proprio dal narcisismo: Narciso è un personaggio della mitologia che vide la sua immagine riflessa in uno specchio d’acqua, si credette bellissimo, si innamorò di sé, cercò di abbracciarsi e morì affogato. Il sé è invece quella parte straordinaria a cui oggi diamo importanza: costituisce il rapporto che sussiste tra ciascuno di voi. E’ importante che il sé tenda più alla cooperazione che non all’esclusione perché, se c'è grande competizione, per affermarvi dovrete sempre eliminare qualcuno.

STUDENTESSA: Le volevo chiedere: c'è una differenza di significati tra l'affermazione dell'io e l'affermazione del sé? E in cosa consiste?

ANDREOLI: Per affermare il tuo sé hai bisogno dell'altro: l'amore, ad esempio, è una tipica espressione di relazione del sé;

l'io è invece un qualcosa che può affermarsi anche in assenza degli altri, si comporta come se gli altri non fossero necessari e costituissero solo una platea. Nel filmato abbiamo visto uno spezzone tratto da "Tempi moderni" di Charlie Chaplin; lo stesso Chaplin interpretò Hitler in maniera magnifica in un altro film ("Il grande dittatore"N.d.R.). Il dittatore è colui che ha un proprio io da affermare e che considera tutti gli altri come una sorta di platea con la quale non scambiare mai una reale relazione affettiva: l'altro serve semplicemente a poter essere utilizzato e diviene quasi un’estensione del proprio io. Il sé è invece ciò che lega un individuo all'altro, e tale legame affettivo può sfociare nell'amore: è come se una persona si sentisse insufficiente e per questo avesse bisogno dell'altro; l'amore è bellissimo perché in esso si riesce a vivere la limitazione del proprio sé. Tramite il sé si può avere la possibilità di completarsi nell’altro, mentre l'io si sente onnipotente e pensa di poter dominare gli altri.

STUDENTESSA: Non crede sia anacronistico pensare ad una forma di comunicazione efficace, ovvero ad una intuizione reale degli altri? Lei diceva che il concetto di sé si relaziona agli altri: questo sottintende la possibilità e la realtà degli altri in quanto interlocutori vivi e veri. L'io, invece, non fa altro che specchiarsi negli altri. Mi chiedo se quest’ultimo aspetto non sia vero: vorrei sapere se, in fin dei conti, non siano tutti in rapporti speculari gli uni con gli altri, anche nelle relazioni d'amore. Mi domando se esista effettivamente un qualcosa inteso in un senso quasi noumenico, tanto per ritornare a Kant…

ANDREOLI: Il sé è una caratteristica di ciascuno di noi. Mentre fino ad alcuni anni fa, la psicologia era una "psicologia dell'io", adesso è mutata in una "psicologia del sé" proprio perché quest’ultimo ha una valenza, perché ciascuno di noi ha bisogno di legami: il sé esprime questa necessità. Tu hai parlato di concetto di sé, ma non si deve far riferimento ad una situazione astratta che si può accettare o non accettare. E' piuttosto un’esperienza di vita: si ha bisogno dell'altro, e tale necessità affettiva fa sì che ciò che si dà è in funzione dell'altro. Mi sembra che le psicologie del sé siano molto più orientate verso il sociale perché si fondano su tale caratteristica dell'uomo, quella in base alla quale pensiamo che, se un'affermazione di sé è importante, questo elemento comporta anche il riferimento al gruppo e alla comunità. Io sono particolarmente favorevole ad una società del sé e della cooperazione.

STUDENTE: Nel Romanticismo l'affermazione del sé ha portato insigni autori, quali il Foscolo, all’esaltazione del suicidio. Cosa spinge al suicidio una persona che vuole affermare la propria individualità?

ANDREOLI: La tua è una domanda molto stimolante. Innanzitutto si deve distinguere tra diversi tipi di suicidio. C'è il suicidio dovuto alla depressione - quella a cui accennavo prima – in cui il soggetto si sente privo di senso e teme anche di far del male agli altri: il sentirsi inutili viene quindi percepito come una colpa a causa della propria pericolosità. Ci si sopprime perché si avverte di non significare nulla e di essere di danno per gli altri. Ben diverso è il suicidio alla Nietzsche, ad esempio, nel quale si desidera sfidare la morte: "Io non voglio essere preda della morte, non voglio che la morte decida per me: sarò quindi io a guidare la mia uscita da questo mondo". In questo secondo caso il suicidio non è depressivo, bensì titanico: sfido la morte e la vinco. Ovviamente i significati sono diversi. Schematicamente si potrebbe dire che il suicidio del depresso è dovuto al fatto di non riuscire a stabilire dei legami ed alla convinzione della propria incapacità di farlo, per questo ci si sente privi di qualsiasi significato. E’ certamente una "patologia del sé": a volte il depresso non riesce a comprendere che l’altro gli sta invece fornendo degli elementi. Il suicidio titanico è, al contrario, un’affermazione di onnipotenza, sempre concomitante ad una patologia dell'io.

STUDENTESSA: Buongiorno. Prima stava puntando l’accento sulla collaborazione piuttosto che sulla competizione e sull’esclusione. Non pensa, però, che con la collaborazione si possa arrivare a livellare le diversità tra gli uomini, che sono in parte date proprio dalla diversa affermazione degli individui nella sfera sociale?

ANDREOLI: C’è sicuramente questo pericolo, vorrei comunque tornare all’esempio della classe. Poniamo che tu abbia l'obiettivo di essere la più brava in filosofia e che debba lottare con colui che è più vicino al tuo posto: ovviamente, per batterlo, elaborerai delle strategie che non hanno nulla a che fare con la filosofia. Supponiamo, invece, che lo scopo appartenga all'intera classe e che l'obiettivo non consista tanto nell’affermazione del singolo, quanto del gruppo: è possibile pensare ad una società impegnata a raggiungere degli obiettivi in cui tutti danno un proprio contributo e per i quali non vince il singolo. Penso che la nostra società - volendo la nostra società nazionale, con pregi e difetti- sia sostanzialmente priva della capacità cooperativa, vale a dire del possesso di scopi comuni, mentre, al contrario, ciascuno di noi ha dei desideri e dei sogni che forse non realizzerà mai. Tutta la vita è quindi dominata dal singolo e, in particolare, dall'invidia: una patologia per cui ognuno è geloso di ciò che ha l’altro e fa di tutto per ottenerlo; una volta ottenuto, comincia a desiderare e a provare invidia per un’altra cosa, finendo per ricercare perennemente ciò che non ha e non accorgendosi di ciò che già possiede. Credo sia possibile la creazione di una società con degli obiettivi sociali: la tua classe non è l'insieme di venti "io", ma è un’unità strutturata all’incirca come un’orchestra: se il flauto o il violino pensassero: "Voglio far vedere quanto sono capace" combinerebbero un disastro. Non credo affatto che gli scopi sociali portino necessariamente ad un appiattimento, ritengo invece che si potrebbe vivere in maniera più tranquilla: probabilmente queste strategie di gruppo porterebbero al regresso delle tante nevrosi causate dall’invidia.

STUDENTE: Poc'anzi ho detto che nel Romanticismo molti autori insigni sono stati spinti a pensare al suicidio in quanto affermazione del sé...

ANDREOLI: Perché in quanto affermazione del ?

STUDENTE: Allora prima ho sbagliato...

ANDREOLI: Sì, ma non ha importanza. Ho portato altri esempi di suicidio, ho parlato anche delle patologie di questa società così competitiva.

STUDENTE: Buongiorno professore, volevo sapere perché tra gli oggetti in studio aveva portato un motorino.

ANDREOLI: E’ indubbio che il motorino sia innanzitutto un oggetto che amate in maniera particolare, inoltre esso esprime abbastanza bene quei vantaggi dati dalla capacità di muoversi in modo più rapido ed agile. Il motorino può però diventare anche una sorta di simbolo di affermazione: potrebbe venir usato per mostrare le proprie abilità, per far vedere quanto si è bravi a guidare su un'unica ruota o ad andare contromano, per dimostrare il proprio coraggio tramite delle gare. Esso costituisce un esempio per mostrare come un oggetto utile possa diventare un teatrino in cui mettere in scena le proprie capacità ed il proprio agonismo. Anche tramite il motorino può nascere una lotta, un antagonismo "pseudoeroico" e un tantino ridicolo che potrebbe divenire pericoloso.

STUDENTE: L'affermazione esasperata di se stessi può spingere l'individuo a voler annullare l'altro. Da un punto di vista etico come possiamo dare una spiegazione a questo problema?

ANDREOLI: Hai ragione: se una persona ha un forte bisogno di affermarsi, allora si concentra totalmente sul proprio nemico. E' ciò che chiamiamo la "cultura del nemico": il mio scopo è quello di essere il più bravo, quindi devo tener d'occhio colui che mi sta immediatamente dietro per poterlo eliminare, perché è la persona che potrebbe portarmi via il primato. Ritengo che tale agonismo possa avere delle regole: nello sport, per esempio – nei casi in cui non si ricorra a doping o ad altri imbrogli – vige un codice che non è possibile definire "non etico". Se, al contrario, l’agonismo risulta privo di regole e ci si ritrova a sopraffare l'altro imbrogliandolo, allora siamo in presenza di un vero e proprio comportamento "non etico". Facciamo un esempio banale ma importantissimo: la raccomandazione. Essa costituisce un comportamento assolutamente non etico, perché esclude una persona per sostenere l'oggetto del favoritismo: con essa non si raccomanda semplicemente il proprio figlio o il proprio nipote ma, se il parente in questione è efficace, indirettamente si butta fuori il figlio di un altro. Anche un modo di fare banale come questo - banale in quanto abituale – risulta profondamente legato alla competizione ed è assolutamente fuori da ogni norma etica.

STUDENTESSA: Perché ha portato anche uno specchio?

ANDREOLI: Mi si potrebbe chiedere: "Ma che bisogno c'era di portare uno specchio? Ce l'abbiamo tutti nella borsetta!"

Forse i maschietti non ancora, ma spesso anche loro si fermano davanti alle vetrine per specchiarsi. Lo specchio serve a chiedersi se si è più condizionati dal proprio io che non dalla comunicazione e dalla relazione con gli altri, perché in esso un individuo vede se stesso e sovente, non piacendosi, cerca la metamorfosi o il trucco. Tutti gli imbellettamenti e il particolare abbigliamento che usate riguardano il vostro io, mentre sarebbe bene che attraverso lo specchio vedessimo solo ciò che siamo là davanti e ci preparassimo a relazionarci con gli altri. Come sarebbe bello se, specchiandoci, non si notasse solo il nasino, o gli occhi, o un drammatico brufolo, ma si vedesse soprattutto una persona che si può relazionare ad un'altra persona, un singolo che è parte di una società. Lo specchio può riflettere solo te stesso, oppure può diventare un elemento per andare oltre, per poter scoprire un individuo che ha un grande significato nonostante il brufolo o le orecchie non perfette, nonostante non assomigli alle top model - che vengono presentate come modello, appunto. Lo specchio è quindi un interrogatorio e un interrogativo allo stesso tempo: non bisogna mai fermarsi alla superficie, ma si deve sempre trovare il senso del sé, quel qualcosa che riguarda tutta la propria persona.

STUDENTESSA: Lei prima diceva di ritenere possibile la creazione di una società basata non già sulla competizione, bensì sulla cooperazione. Ma come è possibile arrivarci? Non pensa che l'uomo abbia un innato desiderio di primeggiare sull'altro?

ANDREOLI: Al giorno d’oggi si tende ad invidiare, a voler essere primi, a non accettare la sconfitta e a reagire con rabbia: se in macchina non dai la precedenza ad un automobilista, quello si sente leso nel suo diritto di essere e di passare per primo, e allora ti riempie di parolacce. Ritengo - non solo io, naturalmente - che questo sia frutto di una cultura, la quale è a sua volta l’effetto di qualcosa di non necessario che abbiamo appreso dalla società. Si potrebbero fare tanti esempi, innanzi tutto te ne vorrei fare uno storico: subito dopo che Darwin presentò la sua importantissima teoria, ci fu un biologo un po' meno importante di lui, tale Kropotkin, il quale prospettò, con esempi presi dalla biologia, che ciò che Darwin aveva letto come lotta per la sopravvivenza poteva essere spiegato tramite la cooperazione. Questo è un fatto storico, ma oggi Kropotkin viene ricordato più per la sua partecipazione ad un movimento anarchico che per i suoi contributi alla biologia. A tutt’oggi esistono delle società che potremmo definire "orientali" - ma in senso molto, molto generale – nelle quali la competizione è di parecchio meno forte che da noi. Vi sono delle società storiche dove tale competizione è assente: durante il periodo in cui ho abitato in Africa, vivevo presso una comunità di Dogon. All’interno di tale comunità sussisteva un grande legame di villaggio, ma non c’era affatto la competizione che c'è altrove. Vi sono quindi degli esempi storici atti a dimostrare che l’ipotesi della cooperazione può essere portata avanti.

STUDENTESSA: Secondo Lei, perché oggi siamo arrivati ad una società presso la quale la parola d'ordine è "competizione"?

ANDREOLI: Credo per errore: a me non piace questa società, penso si sia capito. Ti racconto una storia: qualche mese fa ho visitato un asilo giapponese dove ci sono bambini di tre o quattro anni già capaci di usare il computer e già indirizzati all’apprendimento di una lingua straniera; alcuni di loro, quelli che lo studiano, mi hanno persino accolto dicendomi delle frasi in italiano: in Giappone c'è una grande passione per la musica lirica, e ovviamente tale passione viene trasmessa ai bambini. Ora, in questo asilo c’è una straordinaria competizione, perché vi vige la regola in base alla quale chi va meglio all'asilo potrà accedere alle più importanti scuole elementari e sostare un gradino più in alto rispetto agli altri nella scala della competizione. Tutto questo non è determinato: è, al contrario, il frutto di una scelta sociale che ha costi alti in termini di follia – ovviamente, facendo lo psichiatra, guardo ai comportamenti patologici. Per ogni trionfatore, per ogni festeggiamento in onore di un vincente, vi sarà sempre un perdente, un escluso in preda alla sensazione di non possedere nessun significato. Credo sia possibile pensare a delle società diverse: forse è solo un’utopia, ma penso che anche le utopie possano essere utili, specialmente se remano contro tali atteggiamenti di assurda competizione.

STUDENTESSA: Lei afferma, secondo me giustamente, che il principio di competizione non è naturale. Nel momento in cui si è parlato dello specchio, però, mi è venuto in mente un aneddoto raccontatomi dal mio professore di filosofia: al Museo Nazionale delle Scienze di Parigi, mi pare, c’è uno specchio in grado di fondere i tuoi tratti somatici con quelli della persona che è seduta dall'altra parte dell’oggetto, tramite il cambiamento dell’angolo di riflessione. Il mio professore raccontava il terrore che tale effetto aveva suscitato in lui. Probabilmente il forte istinto di conservazione della propria identità - che è sempre una negazione dell'alterità – è invece naturale e ne facciamo esperienza quotidianamente.

ANDREOLI: Perché non credi sia possibile mantenere la propria identità all'interno del gruppo? Non penso che il primo violino di un'orchestra perda la propria identità di violinista nel momento in cui cerca di ottenere un risultato assieme alla tromba. L'idea che la comunità sia opposta all'individualità è il frutto di una errata interpretazione dell'individualismo.

STUDENTESSA: Cercando su Internet, abbiamo trovato molto poco circa la competizione, e quel poco verteva sull'ecologia o su argomenti prettamente scientifici. Per quanto riguarda l'egoismo e l'invidia nella società, gli unici siti trovati analizzavano la questione dal punto di vista religioso e cattolico. Le volevo chiedere: perché soltanto la religione, almeno su Internet, si interessa a tale problema? Non ci sono associazioni che, distaccandosi dalla religione, possono tentare di risolvere il problema da un punto di vista semplicemente "umano"?

ANDREOLI: Innanzitutto la religione dovrebbe essere un contenitore. La sopraindividualità, ossia l'idea di un Dio che è padre di tutti e che pone tutti - almeno per questo aspetto - sullo stesso piano, è certamente un'idea forte. Penso quindi che le religioni dovrebbero maggiormente sottolineare questa idea, forse più di quanto non abbiano mai fatto. Rimane comunque molto preoccupante che le grandi religioni monoteistiche si possano porre l’una contro l’altra e possano dare il via ad integralismi e a posizioni esasperate. Anche tra le religioni ci può essere competizione: una rivalità non tanto finalizzata all’esclusione dell'altra, quanto a dimostrare che l’altra non è vera. A me pare che la religione dovrebbe essere un elemento atto a calmare tale bisogno di onnipotenza del singolo, a far sì che la società non sia più l’insieme di tanti io, di tante monadi che vedono l'altro solo come un oggetto da superare o addirittura da eliminare.

Vorrei chiudere questo incontro con voi dicendovi ancora una volta che ciascuno di noi deve essere conscio del fatto che il proprio significato principale è nella comunicazione con l'altro: non solo nella comunicazione fredda e razionale, ma soprattutto in quella affettiva. I giovani d’oggi sembrano sicuri, ma se andiamo ad osservarli in modo un po' più approfondito, scopriamo che hanno tanti bisogni affettivi e che la loro paura maggiore è quella di rimanere soli, di essere estromessi dal gruppo e dai legami sociali.

Vi saluto e vi ringrazio per l’attenzione.